Rp Lab – Vendere realtà o fiction?

Un ambito delicato, quello sanitario. Una strategia di comunicazione poco accorta e la crisi è quasi inevitabile. Le Rp servono a fornire soluzioni ai problemi delle imprese o ad eluderli?
Allerta fuffa. Ha suscitato clamore la discutibile strategia di Relazioni pubbliche dell’agenzia americana Gymr,specializzata nel campo sanitario. Incaricata dall’Associazione Psichiatrica Americana (APA) di rispondere alla pioggia di repliche sul controversoDSM-5, la versione più recente del Manuale delle Patologie Mentali che costituisce il riferimento istituzionale per l’intero mondo clinico americano.
Gymr ha trovato una situazione già compromessa dalla strategia conflittuale seguita da un responsabile Relazioni pubbliche ingaggiato dal Dipartimento della Difesa che aveva bollato pubblicamente come “persone pericolose” i giornalisti che indagavano sulle gravi lacune delDSM-5. A quel punto la contro-strategia della Gymr è stata quella di seguire un approccio morbido e imbastire un sito web fondato però su contenuti ingannevoli. Invece di rispondere alle domande della comunità scientifica e dei giornalisti, il sito in questione ripete cose già dette oppure espone affermazioni infondate.
L’autorevolezza dell’APA, insieme alla condizione di milioni di pazienti, delle loro famiglie e delle strutture mediche, è incrinata da questa tattica di contenimento dei danni basata sull’uso non scientifico di informazioni scientifiche. E’ un caso singolo, che però sfiora un nervo sensibile: quant’è elastico il concetto di verità, nel campo delle Relazioni pubbliche, soprattutto su Internet, quando non c’è un incontro diretto e documenti stampati?
Un recente sondaggio di una società di Rp americana, la Globenewswire,ha rivelato che oltre l’80% dei responsabili pr di aziende usa Internet e i social media per creare contatti di qualità e intavolare progetti di comunicazione a medio-lungo periodo – e non per cercare il “pitch”, il colpo ad effetto, l’operazione di maquillage momentaneo.
Appunto, immagine o sostanza. Questo è il problema, ancora oggi, soprattutto per le Relazioni pubbliche, in una congiuntura dove la “fiction” estemporanea sembra una soluzione così facile e così allettante rispetto a problemi molto più complicati, persino da comunicare. Subentra anche una questione deontologica: l’uomo delle Rp è una sorta di Don Draper o comunque un imbonitore che con trovate “pubblicitarie” devia l’attenzione dai reali problemi? E’ anche una domanda da rivolgere ai clienti: cercano soluzioni ai problemi oppure diversivi per eludere i problemi? La verità inizia sempre con le domande più difficili.


Business sostenibile, opportunità da 6,2 trilioni di dollari

Perrini (CReSV): «Ne beneficeranno soprattutto i first mover». Occorre però un piano industriale per un’economia ecologica
«In fondo, per litigare con il re bisogna usare il suo linguaggio, indipendentemente dal fatto che le premesse del discorso siano ragionevoli», scrive l’antropologo David Graeber nel suo ultimo saggio, del quale uno stralcio è ripreso oggi da la Repubblica. Domandarsi dunque quanto vale la sostenibilità per un’impresa, pragmaticamente, non è una domanda peregrina. Dovrebbe essere ormai sottointeso che un radicale cambio di paradigma socio-economico (quel che davvero occorre per parlare sul serio di sostenibilità) non possa prescindere anche da un’ecologia di linguaggio e di pensiero che non riconduca ogni aspetto della vita ad un riduzionismo economicista. Precisato questo, fare i conti col mondo reale significa anche ragionare di “vil denaro” (in particolar modo in tempo di crisi), che all’interno di un rapporto responsabile rimane un mezzo e non un fine, e “vile” non è più.
Proprio sulla responsabilità si incentra “Dal Dire al Fare” – Il salone della Responsabilità sociale d’impresa, che torna per la sua ottava edizione all’Università Bocconi di Milano, con un fitto programma che si conclude oggi. Francesco Perrini, direttore del CReSV (Centro ricerche su sostenibilità e valore), al proposito ha avuto modo di affermare che «Diventare socially responsible è da un lato una meta ambiziosa che impone l’utilizzo di molte risorse ed energie, ma in un’ottica di lungo periodo, permette di creare valore sostenibile, offrendo quindi maggiori opportunità alle aziende per diventare più competitive ed efficienti nel loro operato nel rispetto delle future generazioni e per tentare di uscire da questa crisi del capitalismo finanziario».
È stato proprio l’intervento di Perrini – intitolato “Verso il valore sostenibile: traiettorie di diffusione” – a fare da apripista alla prima sessione di convegni del salone (che ospita oltre novanta organizzazioni), concentrati quest’anno sul tema dell’innovazione, in un contesto “dove cambiano i prodotti, i consumi, il mondo del lavoro, le relazioni”.
«Il ritorno economico della sostenibilità viene misurato in maniera innovativa e quindi non solo come rendimento o profitto generato del denaro investito – sottolinea il direttore CReSV –  ma come un investimento ad utilità pluriennale che abbassa il rischio d’impresa, ne aumenta la reputazione, apre nuovi mercati, crea valore di lungo periodo assicurando la sopravvivenza dell’impresa che si rinnova e resta sul mercato. La vera domanda che tutti si fanno è: come facciamo a capire se la Csr (corporate social responsabilità) crea o distrugge valore? La risposta dipende dalla prospettiva, se adottiamo la prospettiva del valore allargato (valore aggiunto creato per gli stakeholder) invece che del profitto o valore dell’azionista. La superiorità delle aziende sostenibili rispetto a quelle non, e la loro capacità di soddisfare meglio lo spettro allargato di portatori di interesse della società, garantisce una maggiore sostenibilità di lungo termine». Una teoria avvalorata proprio dallo studio condotto dal CReSV – che è attivo sul tema della sostenibilità come leva per la creazione di valore – e presentato a “Dal Dire al Fare”. Condotto su un campione di 102 aziende europee attive in variegati settori economici, tale studio evidenzia che le aziende “sostenibili” – termine che poi andrebbe verificato davvero nella sua rispondenza a criteri unici e riconosciuti di reale sostenibilità ambientale e sociale –  hanno (o avrebbero) il 70% di possibilità in meno di subire un fallimento.
«La sostenibilità è un fattore strategico ma anche opportunità di business: tali opportunità legate alla sfida dello sviluppo sostenibile sono stimate in 6,2 trilioni di dollari, di cui beneficeranno, in primo luogo, i first mover», queste le conclusioni di Perrini, che di per sé dovrebbero suonare insieme come un augurio ma anche un campanello d’allarme per l’economia del nostro sistema-Paese.
Rimanere al palo nel riorientare i nostri processi industriali in un’ottica di economia ecologica (incentrata dunque sulla sostenibilità ambientale e sociale, con particolare attenzione ai flussi di materia ed energia consumati ed espulsi) vorrebbe dire arrivare tra i second o third mover, perdendo il treno di un nuovo e sostenibile canale di business, per arrancare ancora una volta come fanalino di coda ad altri Paesi, più accorti al cambiamento – ineludibile – in atto. Tornare a creare lavoro e costruire al contempo lo scheletro di un’economia reale davvero sostenibile (al netto del greenwashing e di tutti quelli che usano la parolagreen o quella bio per “vendere” di tutto e di più) impone il coraggio e la tenacia di individuare una strategia industriale, e spetta al settore pubblico collaborare con le imprese perché questa possa realizzarsi, pena rimanere indietro e fare l’amara fine di Don Abbondio: «in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiar in compagnia di molti vasi di ferro».


CRITICAL FASHION – SOTTO IL VESTITO NIENTE?

Cosa indossi?! Cosa si cela dietro gli abiti che tanto desideriamo quando passiamo davanti le vetrine in cui sono esposti? Domande che il consumatore, sempre più critico, inizia a porsi sempre più spesso.
“Nel 2005 qualcosa è cambiato nello scenario mondiale: con la fine dell’Accordo Multifibre, che regolava gli scambi del tessile-abbigliamento fra Paesi attraverso un sistema di quote assegnate a ciascun Paese, l’Organizzazione Mondiale del Commercio ha liberalizzato gli scambi mondiali e l’intero settore è entrato in un regime di competizione totale.” Tratto da “I VESTITI NUOVI DEL CONSUMATORE” di Deborah Lucchetti, Altraeconomia edizioni.
L’apertura delle frontiere; la corsa ai profitti più alti; la moda in continua evoluzione; la società occidentale e i suoi principi; la voglia di cambiarsi (d’abito) continuamente, di sentirsi belle/i e sempre al passo con i tempi; questi sono stati gli ingredienti più comuni di quella torta tanto appetitosa chiamata “consumismo” che nella moda ha generato la fast fashionla moda usa-e-getta che si consuma in fretta e costa poco al consumatore, ma molto in termini di impatto ambientale e sociale“.
Che il mondo dell’industria tessile sia caratterizzato da manodopera sfruttata a costi bassissimi, quasi impercettibili sul prezzo finale, è noto alla comunità mondiale; anche se tutti noi ce ne dimentichiamo quando, passando davanti ai negozi, veniamo folgorati da colori e disegni irresistibili. Stoffe, colore, style.. tutto appare perfetto, immancabile nel nostro guardaroba!
Negozi così invitanti, così ospitali, così fashion, ci fanno dimenticare quello che si nasconde dietro le grandi aziende tessili.
Tutti sappiamo che quel bel vestito nel nostro armadio è stato realizzato dai cosiddetti “working poors“, ovvero uomini, donne e bambini costretti a lavorare per 14 ore al giorno per paghe disumane, e costretti a subire quotidianamente la violazione dei loro diritti da essere umani e da lavoratori. La continua lotta per la massimizzazioni di profitti non ha mai fine e non conosce limiti; se gli stabilimenti possono esser soggetti a controlli e ispezioni, con le “navi fantasma” si riesce a tamponare ancor più il problema. Navi-officine che partono dalla Cina e sfruttano nuovi schiavi (di chissà quale origine geografica), i quali confezionano prodotti con etichette “Made-in-Bangladesh” per far poi rotta sugli scaffali dei grandi negozi. A cosa serve? Per aggirare i dazi doganali.
Ma non solo, sono note anche le varie battaglie contro la raccolta del cotone o il trattamento del jeans. Niente tiene conto del rispetto del lavoratore.
Lo sfruttamento del lavoro non è l’unico scheletro nell’armadio dei big del tessile: l’ambiente è l’altra vittima. Gli scarichi chimici hanno effetti devastanti ; “Circa 7.000 prodotti chimici finiscono dritti nelle falde acquifere, nel terreno e nell’aria, dato che spesso i Paesi emergenti verso i quali le imprese delocalizzano hanno legislazioni e controlli debolissimi in materia ambientale. “
Il consumatore finale non riesce a difendersi dagli effetti delle tossine che l’intera filiera tessile ha prodotto. Dermatiti e allergie sono in numero crescente tra le persone e le cause sono principalmente attribuiti a vestiti e accessori moda che per gusto e per piacere siamo spinti ad indossare.
Secondo un’indagine compiuta da Altroconsumo, da test svolti sono risultati che alcuni pigiami per bambini contenevano sostanze nocive per la salute dei più piccoli che li avrebbero indossati. I tre marchi sono TezenisUpim Carrefour (per maggiori informazioni: Sostanze tossico nocive negli abitini per bambini)
Riassumere in questo breve articolo tutto il “non detto” del mondo del tessile sarebbe impossibile (per spazio e conoscenze).
Però vale la pena soffermarsi sui modi di acquisto alternativi che si stanno espandendo con forza.
Forse, sicuramente, avrete già sentito parlare di moda critica; gli acquirenti sono stanchi di sostenere la distribuzione di massa, che beneficia pochi e danneggia molti. Si presta sempre più attenzione a cosa si indossa; vogliamo sapere quel che indossiamo!
La moda solidale, ad esempio, (che deriva dal commercio equo e solidale –http://it.wikipedia.org/wiki/Commercio_equo_e_solidale) permette un margine equo al produttore e un prezzo trasparente al consumatore.
Il mercato dell’usato sta aumentando sensibilmente il suo seguito; il vintage ha assunto un peso notevole nella moda tanto da influenzare gli stilisti moderni e purtroppo i prezzi ne hanno risentito, arrivando alle stelle! Ma non è l’unico modo per poter vestire usato: ci sono moltissimi mercatini delle pulci, piccoli store dell’usato dover poter fare ottimi affari senza dover incrementare la speculazione nel mercato del tessile. I “jeans invecchiati”, l’effettoretrò tanto richiesto dai clienti, ma la cui produzione causa vittime per silicosi, potrebbero esser indossati senza produrre morti se al nuovo scegliessimo il vecchio.
Lo Swap Partymercatini del baratto, sono valide alternative di consumi, dove ci si può scambiare ciò che non mettiamo più con quelli di altre persone. L’abito in perfette condizioni, ma in disuso per qualsiasi motivo, torna ad aver nuova vita nell’armadio di un’altra persona a cui quel capo piace!
La Moda Ecologica la quale sfrutta cotoni biologici e tessuti naturali, quali la canapa (per gli abiti) o sughero (per le scarpe); tali materiali rispettano l’ecosistema ambientale e la salute dell’uomo seguendo principi di produzione etici.
La Moda del Riciclo è un ottimo modo per ridurre gli scarti e i consumi, rinnovando continuamente dando vita nuova alle vecchie cose demodè.
Non importa sceglierne uno, tutti questi modelli alternativi di consumo possono esser combinati rispondendo ai criteri di sostenibilità.
La sostenibilità delle 3rRIDUCI, RIUSA, RICICLA!
*per saperne di più, vi consiglio le edizioni AltreconomiaTerre di Mezzo.


Per il 72% degli analisti finanziari la Csr non influenza gli investimenti

Da un’indagine Ica condotta in collaborazione con Smithfield e Burson-Marsteller emerge che le politiche di responsabilita’ sociale d’impresa sono assenti o giocano solo un piccolo ruolo nella valutazione
Roma, 7 ago. – (Adnkronos) – Le politiche di responsabilita’ sociale d’impresa non influenzano gli investimenti. Ne e’ convinto il 72% degli analisti finanziari secondo cui la Csr e’ assente o gioca solo un piccolo ruolo nella valutazione di un potenziale investimento. E’ quanto emerge da un’indagine condotta da Ica, Independent corporate access, in collaborazione con Smithfield e Burson-Marsteller che ha intervistato gli analisti finanziari di 27 istituzioni ai quali e’ stato chiesto di valutare l’importanza delle politiche di Csr per gli investitori e come questa posizione potrebbe cambiare a medio termine.
Dall’indagine emerge che la maggior parte degli intervistati e’ d’accordo nel valutare importante la Csr da un punto di vista della gestione dei rischi. Tuttavia, solo il 28% ha dichiarato di ritenere importante la responsabilita’ sociale d’impresa nella valutazione di un investimento. Cambia, invece, la posizione sulla percezione della Csr a medio termine: il 63% ritiene che queste politiche saranno sempre piu’ importanti per gli investitori mentre solo il 9% considera improbabile che la Csr possa acquistare valore nel contesto finanziario.
I risultati dell’indagine, dunque, suggeriscono che l’importanza di una maggiore comunicazione con la comunita’ degli investitori sulle politiche di Csr. Questa, tuttavia, deve essere posizionata nel contesto piu’ ampio dell’investimento aziendale, dimostrando come e perche’ queste politiche possono aiutare una societa’.


Presentazione del libro 'Crisis Management': Bologna, 26 settembre

Mercoledì 26 settembre 2012, a Bologna, presso l’Ordine dei Medici in Via G. Zaccherini Alvisi, 4, h. 17.00, ho il piacere di presentare – insieme agli altri co-autori e a relatori di prestigio – il volume ‘La guida del Sole 24 Ore al Crisis Management’.
A seguire, nell’invito, tutti i dettagli, nonchè i nomi dei relatori e del moderatore… l’ingresso è gratuito fino a esaurimento posti. Vi aspetto!


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