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«L’intelligenza artificiale non ci ruberà il lavoro. E soprattutto non è intelligente». Parola di Luciano Floridi

«L’intelligenza artificiale non ci ruberà il lavoro. E soprattutto non è intelligente». Parola di Luciano Floridi

gni giorno i media affrontano il tema dell’intelligenza artificiale e la narrazione è spesso catastrofica. «Se non poniamo le domande giuste avremo risposte sbagliate». Il professor Luciano Floridi è forse il massimo esperto mondiale di etica dell’intelligenza artificiale. Da tempo si occupa dell’impatto dell’informatica e dell’attività digitale nella vita delle persone. Fino a pochi giorni fa ha insegnato filosofia ed etica dell’informazione all’Università di Oxford ma adesso è arrivata la chiamata dall’Università di Yale. La prestigiosa università americana lo ha nominato “founding director” del suo nuovo “digital ethics center” e professor di scienze cognitive. Nello specifico si occuperà di dirigere uno dei rarissimi centri di ricerca mondiali con l’obiettivo di avvicinare l’ecosistema del digitale al mondo umanistico e sociale. Il professore coordinerà attraverso il centro vari dipartimenti dell’Università di Yale, dalla facoltà di legge, sociologia, data science, geografia, per dare corpo e struttura alla ricerca sul tema del digitale. «La vita del pioniere è sempre stata solitaria, mi sono divertito ma sono sempre stato da solo. Questo riconoscimento mi emoziona per i trent’anni di lavoro che ho investito su questo tema». Non è una fuga dall’Europa, il professore infatti manterrà la cattedra all’Università di Bologna come docente di Sociologia della Cultura e della Comunicazione. «Era importante per me mantenere una connessione con l’Europa soprattutto con Bologna dove esiste il più grande centro di calcolo computazionale». Il suo ultimo libro “Etica dell’intelligenza artificiale. Sviluppi, opportunità, sfide” (Raffaello Cortina Editore) aiuta a decifrare il mondo complesso del mondo del digitale.

Luciano Floridi

Professore, l’intelligenza artificiale sta facendo passi da gigante. Stiamo delegando sempre più mansioni a questa tecnologia. Quali sono le sfide etiche da affrontare?
Dobbiamo riflettere sui compiti che stiamo delegando all’AI. Nel dibattito manca l’attenzione sull’allocazione della responsabilità. Quando, non se, ci saranno dei problemi, chi si assumerà la responsabilità? Se sarà un algoritmo a negarmi un mutuo, con chi potrò prendermela? Se l’assicurazione non mi liquida perché è un’intelligenza artificiale che gestirà il processo, come facciamo? Su questo c’è molto da fare. Se ho un incidente stradale, esistono regole e procedure chiare, vorrei che ci fosse la stessa attenzione anche nel campo dell’AI.

“Nel dibattito manca l’attenzione sull’allocazione della responsabilità”

Ed a che punto siamo con la governance dell’AI? Come al solito rincorriamo un’auto già partita?
Abbiamo delegato all’industria il motore ed il pedale dell’acceleratore ma le mani sul volante le deve tenere la società. Dal punto di vista sociopolitico ci dedichiamo poco alla guida. La legislazione sul GDPR ha avuto moltissimi anni per essere sviluppata, poi è entrata in vigore e tutti si sono adeguati.

Quindi è soddisfatto del via libera del Parlamento Europeo al regolamento sull’AI?
Sì. Il 14 giugno il Parlamento Europeo ha approvato l’AI Act che, dopo altri passaggi istituzionali, dovrebbe entrare in vigore entro la fine dell’anno. Quindi, a chi chiede regole, l’EU risponde che sono in arrivo. Per chi le teme, sarà meglio che se ne faccia una ragione e inizi a adeguarsi. Il mercato europeo è troppo importante per ignorarlo, nonostante quello che suggerisce Sam Altman, l’AD di OpenAI. E per chi, come me, sostiene una via europea alla regolamentazione del digitale, resta il problema di capire se e come migliorare l’AI Act, che è tutt’altro che perfetto, almeno nella sua fase di attuazione.

Di tutto quello che legge sui giornali riguardo l’IA, cosa non le piace?
Purtroppo, l’informazione è parte del problema e non della soluzione. Ripetere, ingigantire, esaltare messaggi sbagliati non aiuta a creare consapevolezza. Qualcuno potrebbe ad esempio spiegare in modo chiaro che Chat GPT non è una banca dati? Oppure perché non guardare dietro agli interessi, alle motivazioni che spingono i baroni del digitale? Perché anche a loro fa comodo generare rumore che crea confusione nell’opinione pubblica sull’AI. È buffo perché su determinati argomenti, autorevoli giornali come l’Economist, pubblica dati, statistiche, fatti, ma quando si parla di AI non si pone la stessa attenzione, come se fosse più intrattenimento.

“L’output non è indice di intelligenza. È il processo quello che conta”

Fino a poco tempo fa pensavamo che l’intelligenza artificiale avrebbe sostituito lavori ripetitivi e con basso valore aggiunto, oggi invece vediamo che l’AI è creativa, può creare musica dal niente, progettare, creare design, abbiamo perso il controllo?
Questa è una narrazione sbagliata. Definiamo intanto i lavori creativi. Ho provato ad usare DALL-E e ho ottenuto output pessimi semplicemente perché non ho le competenze di un designer. Per usare gli strumenti tecnologici al meglio, bisogna essere capaci di sfruttarne le potenzialità. È come se qualcuno dicesse di essere un grande matematico perché sa usare la calcolatrice, oppure se qualcuno mi desse un auto da Formula 1 e io pensassi di saperla guidare. Non saprei che fare o mi schianterei dopo un minuto perché non capisco i vari comandi. Smontiamo il mito della creatività autonoma dell’AI. La differenza può farla chi sa gestire gli strumenti. A Roma ci sono artisti bravissimi che per terra ricreano la cappella Sistina, vogliamo dire che quella persona è come Michelangelo?

In effetti la startup che aveva creato i robot pizzaioli è fallita. I pizzaioli sono salvi
Non mi sorprende affatto. La nostra cultura fomentata dai baroni del digitale è una cultura del prodotto che è consumista. Una scarpa fatta in serie costerà ovviamente meno di una fatta a mano ma è la stessa cosa? Ovviamente possiamo chiedere a ChatGPT di scrivere una storia breve sulla vita nei lager. Questo testo sarà uguale ad uno degli scritti di Primo Levi che ha vissuto nei lager? Proprio no. L’eccessiva enfasi tardo moderna, un po’ industriale, un po’ consumista, sul prodotto e basta, fa perdere di vista il processo, la storia, quello che c’è dietro. In modo consumistico, ci focalizziamo solo sull’output. Se un bambino di quattro anni corre dal papà e la mamma mostrando il disegno dell’alberello, i genitori gli faranno una festa ed incorniceranno il disegno. Non sono focalizzati sull’alberello, ma attribuiscono significato al processo del bambino.

“Qualcuno potrà dire che ChatGPT è intelligente, ma non lo è”

Però gli sviluppatori di ChatGPT ad ogni release dicono di aver creato uno strumento sempre più intelligente
Qui nasce il problema di fondo. Cosa intendiamo per intelligenza? Nella storia umana abbiamo sempre assistito ad un matrimonio tra essere intelligenti e capacità di agire il che vuol dire che per ottenere qualcosa devo avere intelligenza. Con l’AI, per la prima volta, assistiamo ad un divorzio ovvero per ottenere il suo obiettivo l’AI non ha bisogno di essere intelligente. Qualcuno potrà dire che ChatGPT è intelligente, ma non lo è.

“I signori del digitale stanno degradando il concetto di intelligenza umana”

Perché no? In fondo impara dai propri errori
Mettiamola così. Se lei gioca a scacchi con il suo smartphone in casa sua, ad un certo punto scoppia un incendio, lei che è intelligente lascerà la casa, il suo smartphone porterà a termine la partita per vincerla. Chi è intelligente qui? Se lei gioca a carte con suo figlio, magari in certe occasioni, lo lascerà vincere, un AI perché dovrebbe farlo? Il grosso problema è che i signori del digitale stanno degradando il concetto di intelligenza umana a qualcosa di troppo elementare.

In effetti molti neuroscienziati dicono che il nostro cervello in fin dei conti non è altro che una serie di neuroni iperconnessi. Se ricreiamo quello, abbiamo intelligenza.
A parte il fatto che la neuroscienza si sta sempre più distanziando da semplicistici modelli computazionali, se metto su una tavolozza dei colori, prendo un pennello e sono in grado di rifare la Monnalisa sono Leonardo Da Vinci? Guardare gli essere umani come strumenti significa la fine dell’umanità che è in noi.

Però stiamo lavorando per rendere “etiche” le risposte di chatGPT. L’algoritmo viene istruito da umani, questo non la tranquillizza?
Chi decide che cosa è etico? È una questione molta opaca, tanto che chiamerei Open AI, Opaque AI. Ho fatto un piccolo esperimento recentemente. Ho chiesto a ChatGPT una ricetta per cucinare la carne di cavallo. Mi ha fatto una predica spiegando che non dovrei mangiare la carne di cavallo. Poi ho chiesto come cucinare una bistecca di manzo e non ha detto niente, mi ha fornito la ricetta. Probabilmente qualcuno all’interno di Open AI ha deciso che mangiare carne di cavallo non è etico.

L’algoritmo imparerà e risolverà piano piano tutti questi conflitti.
Il punto è un altro. Noi sappiamo che Open AI si trova negli Stati Uniti e siamo “tranquilli”. Cosa succede nel momento in cui il 51% della società dovesse essere acquistato dalla Cina? Saremo comunque tranquilli? Prendere decisioni in modo opaco non è una gran strategia.

Molte persone sostengono che nei prossimi anni l’addestramento delle AI sarà talmente elevato che potrebbe raggiungere almeno l’intelligenza di un topo. Non è d’accordo?
Non è vero. L’idea che a forza di accumulare sintassi, alla fine venga fuori la semantica, è sbagliata. È come se io le dicessi che a forza di aggiungere degli zeri, tra cinque anni raggiungerò il numero 1 e poi il 2 e così via. Non ha importanza, saranno sempre zeri. Una cosa che non è intelligente resta non intelligente, e accumulare tanta zero-intelligenza non genera qualcosa d’intelligente. Anche in questo caso non poniamo l’attenzione sull’aspetto rilevante.

Quale sarebbe?
La capacità d’azione è sempre stata costruita in termini di capacità biologiche. Oggi non è più così perché abbiamo una capacità di agire con successo a zero intelligenza, come la gestiamo questa cosa? È una domanda che nella storia non ci siamo mai posti perché non è mai stato un problema.

Tornando ai lavori che si perderanno, alcuni ipotizzano un futuro in cui tutte le mansioni saranno automatizzate, le AI verranno tassate e noi come umanità, vivremo di rendita percependo un reddito che le macchine genereranno. La convince questo scenario?
Mi dispiace darvi una brutta notizia, il mondo non andrà in quella direzione, ma state tranquilli, il lavoro non mancherà. Quando sento dire, “la professione dell’avvocato scomparirà” mi viene da ridere. Guardiamo i dati. Dall’avvento del digitale abbiamo assistito da un’esplosione di problemi legali da gestire. È vero, magari l’avvocato che faceva le pratiche per l’assicurazione scomparirà ma a fronte di altre opportunità. Oggi negli Stati Uniti ci sono due posti di lavoro per ogni persona che lo cerca eppure siamo nell’epoca dell’intelligenza artificiale e della robotica che è partita negli anni ’60. A quest’ora avremmo dovuto essere tutti disoccupati. L’AI aumenta enormemente la produttività, quindi, serviranno competenze per gestire questi strumenti. Quello che è vero è che stiamo attraversando una rivoluzione di produttività e ricchezza ma la sua distribuzione è iniqua, e l’impatto su ambiente e società deleterio. Ecco perché servono le mani sul volante.

“Conoscere i linguaggi è la miglior preparazione per affrontare il futuro”

A proposito di competenza. A dei genitori che devono iscrivere i propri figli alle superiori cosa consiglierebbe in un mondo che cambia sempre più velocemente?
Probabilmente il liceo scientifico. È importante imparare più linguaggi possibili, non basta il greco ed il latino, servono anche i linguaggi della matematica, della fisica, della chimica, della musica. Questi linguaggi non invecchieranno mai e chi li saprà padroneggiare avrà la possibilità di capire, gestire e costruire il mondo che lo circonda. Se il mondo va più veloce è inutile accelerare di più, bisogna fare l’opposto, non inseguire ma focalizzarsi sui fondamentali. Uscire dalla scuola e saper “leggere e scrivere” il maggior numero di linguaggi parlati dall’informazione permetterà di vivere in un mondo meno misterioso.

Qualche mese fa la Universal Music si è scagliata contro l’AI dicendo che è una frode allenare gli algoritmi sfruttando le melodie del loro catalogo senza pagare il copyrights. Cosa ne pensa?
Le potrei rispondere in modo semplice dicendo che se le canzoni sono coperte da diritti d’autore è giusto che la Universal venga pagata. Se usano melodie libere da diritti allora non c’è alcun problema. Oppure se il modello ottenuto è usato solo per scopi educativi, l’accesso potrebbe essere gratuito, ma vorrei dare un’altra analisi se posso.

Certamente.
L’output della canzone creata dall’intelligenza artificiale attraverso il machine learning sulle canzoni esistenti, di chi è? Dell’autore della canzone o del software? Se io utilizzo Word per scrivere il mio libro, i diritti sono miei o anche di Microsoft? Per me che ho una visione strumentale di zero intelligenza dello strumento, il diritto d’autore è e resta mio. Chi pensa invece che questi strumenti siano intelligenti, allora è giusto che riconoscano un copyright anche all’AI, il che mi pare assurdo, ma almeno coerente.

Lei pensa che tra tre anni sarò sempre io ad intervistarla oppure sarò sostituito da un bot che magari sarà in grado di porre domande più intelligenti delle mie?
Più intelligenti delle sue non credo. Il futuro dipenderà dal suo editore. Se Startup Italia vorrà diventare un giornale di quantità allora sarà probabile che si affidi a dei bot, se invece vorrà continuare a produrre qualità allora sarà sempre lei ad intervistarmi. E comunque, se deciderete di affidare l’intervista ad un bot, non troverete me a rispondere, sarò rimpiazzato anche io da un bot.




Quanto guadagna un influencer in Italia? Piattaforma per piattaforma ecco le tabelle

Quanto guadagna un influencer in Italia? Piattaforma per piattaforma ecco le tabelle

Nel 2022 in Italia il giro d’affari degli influencer sui social è stato di 308 milioni e quest’anno salirà a 348.

A stimare una crescita del 13% è DeRev, società di strategia e comunicazione digitale, che ha aggiornato il tariffario dei compensi del settore.

 “Notiamo un rallentamento del mercato italiano rispetto a quello internazionale, che dovrebbe crescere il doppio. Si tratta – ha spiegato il Ceo Roberto Esposito – di una conseguenza della revisione da parte delle aziende degli investimenti in marketing, che in Italia (e in Europa, in generale) è più accentuata che in Usa”. Il settore più redditizio è quello di Fashion and Beauty passato dal 15% del 2022 al 25% del 2023, il Gaming è al 12,9%) e Travel & Lifestyle al 12,5%. Notevole la crescita dello sport passato dal 4 al 12% mentre al contrario Health & Fitness sono scesi dal 13% al 6,8%.

Per quanto riguarda invece il listino dei compensi, questi variano molto a seconda del social network e del tipo di influencer.

“Se il caso di Facebook è omogeneo e chiaro – ha spiegato Esposito -, con una progressiva scomparsa dei creator che riflette l’andamento negativo della piattaforma, su Instagram e TikTok occorre fare dei distinguo: nel primo caso, la crescita maggiore dei compensi (+14,4%) è per chi ha fino a 300mila follower e molto meno per i mega influencer (+1,8%) con una community superiore al milione. Questo perché gli utenti si sono stancati di celebrity lontanissime e prediligono creator che gli parlano in modo autentico di temi sostanziali e coincidenti con i loro reali interessi. TikTok presenta lo schema contrario: crescono molto (+10,5%) i compensi di chi ha tra 300mila e un milione di follower e calano quelli dei più piccoli. La responsabilità è di un algoritmo acerbo, che consente a molti e facilmente di ampliare la community ed emergere, con il risultato che i brand considerano affidabili soltanto i creator con un numero di follower consolidato e alto. È come dire che su TikTok si è alzata l’asticella per ottenere il “patentino” da influencer”. I compensi per un contributo da parte delle celebrities con milioni di follower possono arrivare anche a 80 mila euro, mentre i micro influencer con un seguito di diecimila persone possono ottenerne dai cinquanta ai millecinquecento. A pagare di più Youtube, di meno Facebook. 

I COMPENSI PER PIATTAFORMA

Per la prima volta, dunque, l’aumento dei compensi dei creator non riguarda più tutte le tipologie di professionisti (dai nano ai micro, dai mid-ter ai macro, fino ai mega influencer e alle celebrity) e se nel 2022 si arrivava a pagare fino a 80mila euro per un contenuto, oggi si conferma questo record su YouTube, ma si cominciano a vedere le flessioni tipiche di un’economia in aggiustamento.

Facebook

La piattaforma ha smesso da tempo di essere redditizia per i creatori di contenuti, e probabilmente non è mai stata un terreno fertile per l’influencer marketing a causa di un target e uno stile di interazione molto lontani da ciò che serve per diffondere messaggi o promuovere temi. Nel 2021 già servivano mediamente più follower per ricevere un compenso (10mila al minimo), mentre su Instagram e TikTok si può già essere pagati con un bacino di 5mila follower, e su YouTube ne bastano 3mila. Oggi quei 10mila non sono più sufficienti e per provare a incassare 100 euro per un post bisogna approssimarsi ai 50mila che un una volta garantivano, per lo stesso contenuto, fino a 250 euro. Non va meglio alle altre categorie di influencer, considerato che chi è compreso tra 50mila e 100mila follower ha visto diminuire i compensi del 23%, ossia da 150-500 euro a post nel 2022, agli attuali 100-400 euro.

Instagram

Instagram è il social media per eccellenza della creator economy, che si esprime soprattutto attraverso i creator che hanno follower fino al milione. Questo perché la predilezione degli utenti si sta orientando su professionisti che non sono personaggi in senso stretto, ma che vengono recepiti come esperti affidabili di un determinato settore. La crescita dei compensi, quindi, da 100-250 euro a 100-300 euro a contenuto (+14,3%) comincia a vedersi già dai creator più piccoli (dai 5 ai 10mila follower) e si replica per i micro influencer (10-50mila follower) che passano dai 250-750 euro a contenuto del 2022 agli attuali 300-850 euro (15%), e per i mid-tier (da 50mila a 300mila follower) che aumentano di 100 euro il minimo compenso (da 750 a 850 euro) e di 500 euro il massimo (da 3.500 a 4.000 euro) per una media del +14%. A salire, si va scemando: i compensi dei macro influencer (200mila – 1 milione di follower) aumentano del 6,7%, quelli dei mega dell’1,8%, mentre restano stabili quelli delle celebrity: personaggi noti sempre più al margine della creator economy, che trovano i guadagni (comunque alti) per il loro lavoro di testimonial secondo uno stile tradizionale, maggiormente connesso al mercato pubblicitario.

TikTok

La piattaforma di ByteDance mostra uno spaccato interessante complementare a quello di Instagram. Se sul social media di Meta un numero tutto sommato contenuto di follower, connesso a un engagement di livello, è sinonimo di qualità, su TikTok la facilità con la quale si può emergere ha spostato in alto la soglia di ingresso della reale creator economy. Con 5mila follower si può ambire a 50 euro a contenuto, vale a dire lo stesso del 2021 e la metà del 2022. Idem se si hanno tra i 10mila e i 50mila follower: si poteva arrivare a 750 euro a post, ora non si va oltre i 650. Al contrario, superati i 300mila follower, il listino mostra i rialzi: da 3000-6.500 euro a contenuto, si passa a 3.500-7mila euro: qui il tariffario si allinea all’andamento crescente del mercato perché in questa fascia gli influencer risultano davvero tali su TikTok.

YouTube

Su YouTube circolano da sempre i compensi più alti, ma l’aggiornamento del listino DeRev segna la prima battuta d’arresto. Rispetto allo scorso anno, nessun creator, in nessuna categoria, guadagna di più. Restano salde le tariffe da capogiro, anche in ragione della complessità dei contenuti destinati a questa piattaforma, ma la curva ha smesso di impennarsi. “È difficile prevedere cosa succederà in futuro – ha concluso Roberto Esposito – e molto dipenderà dal braccio di ferro tra social media. Il caso Facebook ci dice che il mercato si contrare con la perdita di appeal della piattaforma e quella di Google non sembra in pericolo ma, certamente, soffre la concorrenza diretta di TikTok e quella indiretta di Instagram, dove trova la seconda casa il 28% degli youtuber. È verosimile che i prezzi si stabilizzeranno definitivamente con minime oscillazioni e che altri scenari, come un nuovo balzo in rialzo o un crollo, si verifichino soltanto in caso di plateali scossoni nell’ecosistema social”.

Altre piattaforme e tendenze

Dal listino DeRev è assente Twitter.

Se un anno fa l’economia dei creator sulla piattaforma era minima e del tutto irrilevante per il mercato, l’arrivo di Elon Musk al timone del social network ha fatto fuggire gli inserzionisti e azzerare quasi del tutto i budget destinati alle collaborazioni con gli influencer sul social media. Da tenere d’occhio, invece, la rinascita di LinkedIn che sta investendo molto e si sta evolvendo in modo favorevole alla nascita di una creator economy sulla piattaforma. Infine, si segnala l’esplosione dei virtual influencer, che DeRev aveva già preannunciato lo scorso anno. A questa tendenza contribuiscono molto sia l’intelligenza artificiale che il metaverso con i suoi avatar.




Re Rebaudengo: “Il decreto sulle aree idonee va rivisto se non vogliamo che l’Italia resti indietro sulle rinnovabili”

Re Rebaudengo: "Il decreto sulle aree idonee va rivisto se non vogliamo che l'Italia resti indietro sulle rinnovabili"

 “Confindustria è uno specchio del Paese. Anche a proposito della transizione ecologica, c’è una pluralità di opinioni: chi ritiene che sia meglio non correre e chi invece sente l’urgenza di metterla in pratica. Ma sono ottimista, e penso che noi sostenitori della transizione, pur incontrando molti ostacoli, riusciremo a centrare l’obiettivo”. Agostino Re Rebaudengo è il presidente di Elettricità Futura, l’associazione che, all’interno di Confindustria, raccoglie il 70% delle aziende elettriche nazionali. Da anni si batte per “correre”, per imprimere una accelerazione alla installazione di fotovoltaico ed eolico. All’inizio dell’anno scorso presentò il piano: “Le nostre aziende sono pronte a produrre 85 gigawatt di energia pulita entro il 2030”. Ma non tutti in Confindustria la pensano allo stesso modo, a cominciare proprio dal presidente Bonomi che auspica una “transizione lenta”, attirando così gli strali di Legambiente: “Supporta le politiche dilatorie del governo”, ha detto ieri a Repubblica Stefano Ciafani, presidente della principale associazione ambientalista italiana.

Re Rebaudengo la definisce “normale dialettica all’interno di una grande organizzazione che raccoglie anime diverse” e rivendica lo spazio che il Sole24Ore, quotidiano di Confindustria, dedica alle istanze di Elettricità Futura. Ultimo esempio in ordine di tempo, l’allarme per il decreto sulle “aree idonee” alle rinnovabili, che nella attuale bozza conterrebbe vincoli capaci di bloccare la transizione energetica.

Presidente Re Rebaudego, ha appena scritto ai ministri dell’Ambiente, dell’Agricoltura e della Cultura. Perché?
“Per segnalare che il testo attuale renderà impossibile lo sviluppo necessario delle energie rinnovabili in Italia”.

Cominciamo dall’inizio. Dove vanno costruiti gli impianti fotovoltaici ed eolici?
“Prima di tutto in aree non vincolate. Cioè non sottoposte a vincolo paesaggistico o a rischio idrogeologico (alluvioni, terremoti, ecc.). Secondo uno studio di Terna e Snam, in Italia le aree non vincolate rappresentano il 30% della superficie nazionale. Al momento gli impianti, quando nascono, sono costruiti su quel 30%”. 

Poi però ci sono le aree idonee. Di cosa si tratta?
“L’Unione europea ha chiesto agli Stati membri di individuare aree specifiche dove si i tempi di autorizzazione per le rinnovabili possano essere ridotti a un terzo del normale. In Italia le singole Regioni avrebbero dovuto fare un inventario delle loro aree idonee (ovviamente interne al 30% non vincolato). Ma per fare il censimento hanno chiesto al governo quali sono i criteri che un’area idonea deve rispettare. Dovevano essere rilasciati nel giugno del 2022… ma siamo ad agosto 2023”.
 

E quel quel poco che trapela non vi lascia soddisfatti. Perché?
“Uno dei criteri presenti sulla bozza in discussione è che l’azienda possa realizzare l’impianto fotovoltaico sul 10% del terreno agricolo che ha a disposizione. Ma questo significa che l’impresa deve affittare (o acquistare) un campo 10 volte più grande di quello che le occorre per i pannelli. E sul restante 90% cosa fa? Si trasforma in una azienda agricola e lo coltiva, con un aggravio dei costi di gestione? Paletti come questo rischiano di alimentare la speculazione e di far salire i costi dell’energia rinnovabile. Alla fine, se il vincolo del 10% dovesse restare, sarà più conveniente continuare a fare impianti sulle normali aree non vincolate (pur con le usuali lentezze burocratiche) piuttosto che sulle aree idonee”.

Cosa risponde a chi teme che il boom delle rinnovabili e la fame di terreni delle vostre aziende possano dare il colpo di grazie all’agricoltura italiana?
“Che agricoltura e rinnovabili non sono affatto in conflitto. Per realizzare gli 85 gigawatt entro il 2030 abbiamo bisogno di 100mila ettari, lo 0,3% della superficie complessiva dell’Italia. Se ci limitiamo al 30% non vincolato del territorio, parliamo dell’1% da dedicare a fotovoltaico ed eolico. Davvero poca cosa. Senza contare che gli affitti pagati dalle aziende elettriche possono essere per gli agricoltori una risorsa economia importante da reinvestire per modernizzare la loro attività”. 

Ora quali sono le prossime tappe del “decreto aree idonee”?
“A settembre se ne discuterà nella Conferenza Stato-Regioni. L’auspicio è che entro la fine dell’anno ne esca la versione definitiva. Una volta chiariti i criteri, le Regioni avranno sei mesi per fare il censimento delle aree idonee. Insomma, se tutto va bene se ne riparla dopo la metà del 2024. E intanto…”.

Intanto?
“Restiamo indietro. Se guardiamo agli impianti rinnovabili ‘allacciati’ alla rete (quelli che contano davvero, e non quelli ‘autorizzati’), scopriamo che l’Italia nel 2022 ne ha varati per 3 gigawatt. Nello stesso periodo in Francia ne hanno installati 5, in Spagna 6 e in Germania 11”.

Questo articolo di Luca Fraioli è stato pubblicato su La Repubblica Green&Blue – 4 agosto 2023.




Lione “spegne” i cartelloni pubblicitari, soprattutto quelli luminosi

Lione sarà presto la prima città senza cartelloni pubblicitari, o quasi. Il consiglio municipale della città francese infatti martedì scorso ha adottato un nuovo regolamento sulla cartellonistica locale, che contiene numeri importanti: entro il 2026, nell’area di Lione, sparirà ben il 90 per cento dei cartelloni pubblicitari, soprattutto quelli luminosi

Una scelta fortemente voluta da Bruno Bernard, presidente ecologista della Metropoli di Lione, entità che comprende la vecchia comunità urbana di Lione con tutti i suoi 59 comuni e la parte del dipartimento del Rodano rientrante in tale comunità, che non ha mai mancato di sottolineare il dato che “ogni giorno ciascuno cittadino di Lione è bombardato da una mole di messaggi pubblicitari stimata tra 1.200 e 2.200”. Ma anche Gregory Doucet, sindaco di Lione (capoluogo dell’omonoma città metropolitana) ha accolto con grande favore la novità: “Basta con i maxi-teloni sulle facciate dei palazzi, con le insegne illuminate di notte, con le pubblicità invadenti vicino alle scuole: il nostro spazio pubblico merita di meglio”.

Inquinamento visivo e consumo di energia

Una scelta etica, dunque, ma legata anche e soprattutto al tema dell’inquinamento visivo e di consumo di energia: il regolamento prevede infatti lo spegnimento obbligatorio delle insegne luminose alle ore 19 per le zone a bassa attività economica e alle ore 23 per le zone ad alta attività economica. Vietati anche i maxi cartelloni pubblicitari che coprono quasi per intero i palazzi, “ad eccezione dei teloni sui monumenti storici gestiti dallo Stato”, la pubblicità privata intorno a oltre il 95 per cento delle scuole, le pubblicità digitali.

Lione
Lione spegne i cartelloni pubblicitari  © Simona Denise Deiana

Il regolamento entrerà in vigore il 4 luglio, ma ci vorranno due anni perché scatti effettivamente il divieto, dal momento che i gestori degli spazi pubblicitari “avranno due anni per essere messi a norma”, estendibili fino a sei anni “per dare a professionisti e commercianti il ​​tempo di familiarizzare con le normative e adeguarsi ad esse”. In discussione da molti anni ma votata per la prima volta nel dicembre 2021, il nuovo regolamento aveva provocato il malcontento di molti imprenditori, prima di essere anche contestata lo scorso gennaio dalla commissione d’inchiesta pubblica.




La moda corre ai ripari e investe nella pratica green del ‘rammendo’

La moda corre ai ripari e investe nella pratica green del ‘rammendo’

Lunga vita ai vestiti. La moda scommette sempre di più sulla riparazione dei capi per estendere il ciclo di vita, nell’ambito della tanto agognata transizione sostenibile. L’ultimo esempio arriva da Patagonia, azienda californiana dalla nota vocazione green, che decide di potenziare il suo percorso sul fronte delle riparazioni, anche online.

Da un lato, il marchio inaugura un nuovo portale digitale che consentirà alla propria clientela di richiedere autonomamente una riparazione in qualsiasi momento, seguendo passo passo il processo, e dall’altro espande la sua rete di esperti portando nei negozi europei (quello milanese lo vantava già, ndr) un maggior numero di strumenti e servizi. Obiettivo? Quadruplicare le riparazioni, arrivando fino a 100mila all’anno nel prossimo quinquennio.

“L’importanza del riparare è evidente – spiega l’azienda. Mantenere un prodotto in uso per nove mesi in più consente di ridurre dal 20 al 30% l’impronta in termini di emissioni di carbonio, rifiuti e acqua rispetto all’acquisto di un capo nuovo”. Il progetto rappresenta per Patagonia la naturale prosecuzione delle iniziative portate avanti in questi anni, dal recente programma ‘Worn Wear’ fino al ben più lontano messaggio ‘Don’t buy this jacket’, annuncio pubblicitario comparso nel 2011 sul New York Times durante il Black Friday, attraverso cui si tentava di sensibilizzare i consumatori sugli effetti dello shopping sconsiderato.

Con il sostegno dell’Amsterdam Economic Board, l’anno scorso Patagonia ha collaborato con l’agenzia creativa tessile Makers Unite per lanciare lo United Repair Centre (Urc), un nuovo fornitore di riparazioni creato per servire diversi marchi di abbigliamento, poi trasferitosi in una struttura più ampia ad Amsterdam per gestire l’aumento della domanda. Tra i contratti firmati con marchi partneri, quello con Decathlon. L’iniziativa proseguirà nel 2023 con l’apertura di una seconda sede nel Regno Unito, mentre l’aggiunta di altre località europee è in programma per il prossimo anno.

L’annuncio strategico di Patagonia arriva in un momento caldo per il tema delle riparazioni nel mondo del fashion. L’ultima notizia arriva dalla Francia, sotto forma di un ‘bonus réparation’, pensato proprio per ridurre gli sprechi incentivando i consumatori a mettere in atto dei comportamenti virtuosi a beneficio del pianeta.

La ministra dell’Ecologia francese Bérangère Couillard ha annunciato che a partire da ottobre sarà possibile richiedere il ‘bonus rammendo’ per fare riparare un proprio indumento presso sartorie o calzolerie aderenti al programma, anziché buttarlo via, ricevendo dai 6 ai 25 euro. Se si pensa che in Francia vengono buttate circa 700mila tonnellate di vestiti l’anno, due delle quali destinate alla discarica, si legge su Il Post, appare evidente come il bonus sia un tentativo, seppur timido, di porre un freno a questa tendenza, nella speranza rappresenti un incentivo anche per i negozi, affinché siano sempre di più quelli che offrono servizi di riparazione.

Intanto, l’Unione Europea continua a mettere alle strette la moda. Il 12 luglio a Bruxelles è stato approvato il regolamento Espr, proposta riguardo alla “progettazione ecocompatibile di prodotti sostenibili” che, dopo la votazione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio, dovrebbe essere pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’istituzione comunitaria entro la fine dell’anno.

Tra i capisaldi, il passaporto digitale, il divieto di distruggere l’invenduto o le prospettate etichette ‘anti-greenwashing’ e, soprattutto, il tema dell’Epr – Responsabilità estesa del produttore, che costringe le aziende a farsi carico dell’intero ciclo di vita dei prodotti immessi sul mercato. Un tema che Bruxelles punta a uniformare tra i Paesi membri, nonostante l’attuale disparità di condizioni: l’Italia, infatti, è già avanti sul fronte della raccolta differenziata del tessile, su cui aveva anticipato l’obbligo fissato dall’Ue al 2025. Secondo gli ultimi dati Ispra, nel 2021 i capi differenziati sono ammontati a 154mila tonnellate, su una produzione (secondo le stime di Ecocerved) di 480mila tonnellate.

Sull’onda della spinta europea, sono nati diversi consorzi nell’arco degli ultimi due anni: Re.Crea, coordinato da CnmiRetex Green, patrocinato da Sistema Moda Italia, tra i tanti. Quel che è certa è l’impellenza dello smaltimento responsabile dei prodotti derivanti dall’industria della moda: secondo la Commissione europea, riporta Il Sole 24 ore, ogni nella comunità europea vengono buttati 5 milioni di abiti in tonnellate, pari a 12 kg a persona, e solo l’1% dei materiali impiegati vengono poi riciclati per creare nuovi indumenti.