DI CRISI IN CRISI

Viviamo in una società sempre più fragile anche perché “internet non dorme mai”. Secondo una ricerca della società di consulenza Oxford Metrica, venti anni fa la probabilità che un dirigente dovesse affrontare un incidente tale da mettere a rischio il proprio brand era del 20%. Oggi il rischio è salito all’82%.
Praticamente dobbiamo tutti pensare alla prevenzione o almeno capirci qualcosa prima di dover correre ai ripari, in fretta e malamente.
C’è un manuale – pubblicato da poco – che consiglio a tutti, anche a chi non lavora in azienda. Il titolo è Crisis Management. Cioè come comunicare la crisi: strategie e case history per salvaguardare la business continuity e la reputazione. Lo hanno scritto i professionisti Luca Poma e Giampietro Vecchiato ed è pubblicato con il Gruppo Sole 24Ore.
Non è il solito manuale un po’ noioso e accademico, questo libro è scritto bene, con un  piglio giornalistico: l’ho letto in treno e l’ho veramente apprezzato. Devo ammettere che mi avvicino ai manuali di comunicazione un po’ prevenuta: sono spesso scritti in modo verboso e ripetitivo.  Il libro di Luca e Giampietro è completo sul tema: analizza tutti gli aspetti di una crisi, teorici e pratici e soprattutto fa elenchi con ottimi esempi su cosa fare e non fare, e su cosa hanno fatto o non hanno fatto manager e aziende con nomi e cognomi.
Una parte centrale è dedicata alle relazioni media durante le crisi. Sono queste ultime in particolare la chiave della gestione di una crisi. Mi sono piaciuti moltissimo i casi ai quali è dedicata quasi la metà del libro: dalla vicenda degli hamburger venduti nei supermercati E.Leclercal caso della Coca Cola Company in Belgio; da ThissenKrupp ai più recenti WikiLeaks e British Petroleum.
Sul tema – di cui mi sono sempre occupata e appassionata quando lavoravo in azienda – sono stata recentemente invitata insieme a Luca a parlare a Milano a un incontro del Symposium Travel Lab. Ho raccontanto a mia esperienza di crisis in azienda e dati i 15 minuti che avevo a disposizione ho scelto 2 casi che ho qui sintetizzato in 11 slides e in un testo di appoggio.


Green business: ecco i 5 maggiori vantaggi della sostenibilità in azienda

Sono sicuramente più di uno i motivi per i quali un numero sempre maggiore di aziende sta riconsiderando in chiave “green” le proprie strategie. Per questo il sito GreenBiz.it ha pensato di presentare a chi come voi sta pianificando di entrare nel mondo della green economy, o vi è già entrato, i cinque principali vantaggi che questa scelta potrà apportare alla vostra azienda. Naturalmente il tutto supportato da evidenze derivanti dalle principali ricerche di mercato sul settore. Seguiteci.
1) Incremento del valore della marca e sviluppo di vantaggi competitivi
Il NMI (Natural Marketing Institute), primario istituto di ricerca USA, specializzato nei settori della salute e del benessere e nell’analisi delle tendenze green in tutte le industrie, afferma che sta crescendo costantemente dal 2002 ad oggi il numero dei consumatori attenti alla sostenibilità. Questi ultimi, secondo il NMI, propendono per l’acquisto di prodotti realizzati da aziende consapevoli del loro impatto ambientale e che stanno seriamente lavorando per ridurlo. In più studi sociologici affermano che nel corso degli ultimi 40 anni si sta sviluppando una nuova tendenza culturale e sociale rappresentata dal gruppo dei “Cultural Creatives”. Questi individui, stimati dall’NMI come pari a 68 milioni in USA e circa 100 milioni in Europa sarebbero forieri di un cambiamento sociale orientato verso un’economia più etica, uno stile di vita più sano e naturale, una più elevata consapevolezza individuale e collettiva che si evidenzia anche nelle loro scelte di acquisto quotidiano. Secondo il BBMG Conscious Consumer Report, inoltre, circa 9 americani su 10 acquistano più volentieri (a parità di prezzo e qualità) prodotti realizzati attraverso un utilizzo efficiente dell’energia ( 90%), sono attenti alla salute ed alla sicurezza dei loro acquisti (88%), supportano le aziende che intraprendono azioni di fair trade e di sostenibilità sociale (87%), definendosi così “consumatori consapevoli” (conscious consumer).
2) Aumento della produttività e riduzione dei costi
Attraverso lo sviluppo di strategie e pratiche sostenibili aumenta l’efficienza delle attività e dei processi aziendali, tutte le risorse vengono utilizzate in maniera più razionale, si riducono gli sprechi e quindi i costi. Nel 2011 KPMG, in collaborazione con l’Economist, ha realizzato un’indagine definita “The corporate sustainability: a progress report”.In essa vengono riportati i principali benefici che sono derivati ad alcune maggiori aziende USA dall’applicazione di pratiche di sostenibilità. Secondo i responsabili aziendali nel 34% dei casi tali strategie hanno permesso alla propria azienda di ridurre i costi. Anche una recente ricerca di mercato compiuta dalla Buck Consultant, relativa ad un campione di 100 imprese americane di varie dimensioni ed operanti in diversi settori, conferma la crescente presenza di programmi verdi che vengono intrapresi soprattutto alla ricerca di vantaggi economici e riduzioni di costi. La motivazione fortemente “cost saving” allo sviluppo di pratiche sostenibili viene confermata dal fatto che il 60% del campione afferma di aver ottenuto dei risparmi di costo fino al 39% relativamente all’uso dei principali input energetici e di risorse naturali come l’acqua.
3) Miglioramento delle opportunità finanziarie
Gli analisti finanziari riconoscono come un’importante criterio di valutazione delle aziende, la loro propensione a sviluppare piani di sostenibilità, in particolare per quanto riguarda la loro efficienza energetica e la riduzione dell’impatto ambientale. Degno di nota è il recente rapporto “Global 500 Report 2011”, realizzato per il Carbon Disclosure Project (CDP) dalla PricewaterhouseCoopers Advisory. Il report Global 500 del CDP si basa sulle risposte ad un questionario inviato alle maggiori aziende del mondo. Uno dei principali risultati dell’edizione 2011 afferma l’esistenza di una correlazione positiva tra performance ambientali e risultati finanziari. Le aziende più impegnate sul fronte ecologico hanno premiato gli investitori con un rendimento due volte superiore rispetto alla media nel periodo 2005-2011.
4) Minimizzazione dei rischi
Secondo Ernst & Young tra i principali 10 rischi per le aziende riportati nel suo report “Business Risk for Business” ci sono il mancato adeguamento a leggi e regolamenti riguardanti l’ambiente ed il rischio legatoall’utilizzo delle fonti fossili la cui disponibilità è destinata a decrescere, ed i costi quindi ad aumentare, nel corso del prossimo decennio. Le aziende quindi potranno fronteggiare e non trovarsi sprovviste di fronte a tali possibili situazioni di difficoltà solo se prenderanno coscienza con anticipo della necessità di sviluppare politiche rivolte all’utilizzo di fonti energetiche sostenibili ed alla riduzione delle proprie emissioni di carbonio.
5) Attrazione e mantenimento delle risorse umane
Le aziende proattive nei confronti delle problematiche ambientali sono quelle che attraggono maggiormente risorse umane più motivate e che rimangono fedeli nel tempo. La prima ricerca sul tema della gestione sostenibile delle risorse umane nelle aziende italiane, realizzata dal CSR manager network Italia, l’associazione che riunisce i responsabili delle politiche ambientali e sociali delle maggiori imprese italiane segnala un forte allineamento tra CSR Manager (87,5%) e HR manager (80,5%) che giudicano la CSR come elemento strategico essenziale per lo sviluppo di lungo periodo della competitività aziendale. Secondo quanto riportato nel documento: “L’assunzione della responsabilità sociale quale leva strategica per le imprese può migliorare le condizioni di salute e sicurezza dei lavoratori, fare delle aziende dei luoghi più attenti al benessere dei propri collaboratori anche al di fuori del contesto lavorativo, accrescere produttività e motivazione delle persone, ed in prospettiva, essere un elemento di attrazione dei talenti sul mercato del lavoro”.


Crescono i manager della CSR, la “coscienza” delle imprese

I manuali di management li considerano la “coscienza” delle aziende, quei professionisti che hanno coniato parole come stakeholder, convinti che un business per essere sano debba restituire qualcosa non solo ai propri azionisti ma anche al suo territorio e alla sua comunità, e disposti a sfidare le esigenze di bilancio in nome della sostenibilità ambientale e della responsabilità sociale d’impresa. Sono i csr manager, i dirigenti della corporate social responsibility, una generazione ancora giovane per il nostro panorama industriale se è vero che secondo uno studio della Cattolica solo il 40,1% delle aziende italiane quotate ne ha uno al suo interno, mentre quasi il 60% ne è tuttora sprovvisto.E mentre all’estero sono spesso considerati dei guru, uomini capaci di dare un volto umano e quindi “sostenibile” a qualsiasi business e quindi conquistarsi la fiducia e il rispetto dei consumatori, in Italia, complice il tessuto produttivo fatto di piccole e medie imprese, il loro ruolo sta crescendo lentamente e rimane legato in maniera esclusiva alle aziende di grandi dimensioni. «Si tratta di un lavoro a perimetro variabile – spiega Fulvio Rossi, csr manager di Terna e presidente del Csr Manager Network, l’associazione che riunisce i professionisti del settore – perché i suoi protagonisti sono chiamati a trattare tematiche spesso differenti, che cambiano anche da azienda ad azienda. Da un lato hanno un compito di ispirazione, quindi devono predisporre piani e obiettivi per rendere le imprese più sostenibili a livello ambientale e più sane nel rispetto dei principi della responsabilità sociale; dall’altro gli vengono richiesti impegni precisi e molto tecnici come la preparazione e la redazione del bilancio sociale, uno strumento sempre più diffuso tra le grandi aziende».
«Purtroppo – continua Rossi – è ancora molto difficile individuare quale sia il valore effettivo in termini di ritorno economico delle attività ispirate alla corporate social responsibility; è certo che un legame tra le attività csr e la creazione di valore esiste anche quando il manager interviene su caratteristiche all’apparenza intangibili, come la reputazione, le competenze, la previsione dei rischi». Nonostante il peso sempre maggiore riconosciuto a questi asset intangibili, le aziende richiedono ai csr manager prettamente soluzioni pratiche e prodotti utili a migliorare la loro immagine sul mercato. È il caso dei rapporti di sostenibilità che ormai vengono pubblicati dal 70% dei gruppi quotati alla Borsa di Milano.
«In Italia – commenta Carlo Caporale, senior partner della società di recruitment Robert Half – la richiesta di questi profili professionali è in crescita, anche se la domanda sul mercato arriva quasi esclusivamente dalle grandissime aziende, soprattutto le quotate in Borsa. Questo conferma che, almeno per i csr manager, il nostro Paese è ancora decisamente indietro rispetto a Francia e Germania, ma soprattutto a Inghilterra e Stati Uniti dove il grado di interesse nei confronti di queste figure è molto più elevato. La conseguenza è duplice: da una parte i dirigenti esperti di responsabilità sociale sono una merce rara, quindi hanno buon mercato; dall’altra però la domanda delle loro prestazioni è bassa, e quindi anche i posti disponibili sono ridotti». Questa arretratezza trova conferma anche a livello organizzativo. In alcune aziende il csr manager risponde alla direzione finanziaria, in altre a quella legale, in altre ancora direttamente all’amministratore delegato. «Anche questo elemento – continua Caporale – conferma che non si tratta di un profilo standardizzato, tanto nella considerazione gerarchica, quanto nel percorso formativo che viene seguito e che spesso differisce da professionista a professionista».
«Dalle nostre indagini su consumatori e manager – spiega Marcella Mallen, presidente del Centro di formazione manager del terziario – emerge con forza la richiesta di sostenibilità, che vuol dire attenzione all’ambiente, ma anche e soprattutto all’intorno sociale in azienda e fuori. Questo è da alcuni anni un must che entra con forza nei nostri percorsi formativi. Non solo e non tanto quindi corsi per le funzioni ad hoc (green o energy manager o CSR manager), ma soprattutto un filo conduttore che lega molti percorsi formativi e che permea gli aspetti strategici e operativi. Seguendo questa strada, gli aspetti del csr diventano direttrici strategiche dell’azienda per guidare cultura aziendale, comportamenti, innovazione e per diventare solo poi contenuti della comunicazione che in primo luogo deve informare e formare i partner e i clienti e condividere con loro questa mission». «Perché – conclude Mallen – per diventare vantaggi competitivi queste dimensioni del fare business devono essere reali e incidere sui processi interni ed esterni. Non mode passeggere e messaggi mediatici che avrebbero vita breve e non inciderebbero sulla promessa dell’offerta aziendale».


CSR: 150 AZIENDE SOTTOSCRIVONO LA CARTA PER LA SOSTENIBILITÀ AMBIENTALE DI CONFINDUSTRIA

L’industria italiana si tinge di verde e punta sull’eco-sostenibilità. Ad oggi sono infatti 150 le aziende che hanno aderito alla “Carta dei principi per la sostenibilità ambientale’ adottata da Confindustria, uno strumento di innovazione per le imprese aderenti al sistema confederale che sancisce i valori condivisi e le azioni necessarie per un unitario e progressivo avanzamento verso obiettivi green realistici e realizzabili.
E gli obiettivi a breve termine sono ancora più ambiziosi: “speriamo di arrivare a giugno in occasione della conferenza di Rio con almeno 1000 aziende iscritte”, spiega Aldo Fumagalli, presidente commissione Sviluppo sostenibile di Confindustria. Fumagalli è stato intervistato in occasione dell’incontro a Milano in Assolombarda che, oltre a sottoscrivere la carta, ospita il primo dei tre incontri di presentazione a livello nazionale, con i prossimi appuntamenti che saranno a Roma il 18 aprile e a Bari 17 maggio. “Ferrero, Granarolo, Snam, cartiere del Garda, ma anche Assolombarda, Federlegno e Confindustria puglia”, spiega il presidente, sono tra le aziende e le associazioni che hanno già testimoniato il proprio impegno.
Aziende che potranno usufruire di una Guida pperativa che può essere utilizzata come strumento per l’applicazione pratica dei principi riportati nella Carta. La Guida può costituire, infatti, sia un orientamento per le azioni da intraprendere, sia uno strumento di verifica del proprio stato attuale, ai fini di una valutazione di compatibilità con i criteri per lo sviluppo sostenibile. In generale, alla Carta dei Principi e alla Guida Operativa aderiscono, su base volontaria, le imprese e le organizzazioni di imprese associate a Confindustria, che, una volta aderito, vengono dotate del logo ‘Confindustria per la sostenibilità’.
Ma, chiarisce la federazione, sia la carta dei principi che la guida sono strumenti volontari: Confindustria, non essendo un ente di certificazione, non si occupa di controllare la serietà dell’impegno, mentre “spetta alla azienda, che si assume la responsabilità nei confronti dei suoi stakeholder, fare in modo che alle parole corrispondano i fatti”, spiega Fumagalli . Insomma, la Carta Confederale dei Principi per la Sostenibilità Ambientale rappresenta per le imprese e le associazioni aderenti a Confindustria la bussola dei valori di riferimento nel loro cammino per uno sviluppo sostenibile.
Ecco allora i 10 impegni sostenibili che le imprese italiane aderenti devono mantenere:
1. porre la tutela dell’ambiente come parte integrante della propria attività e del proprio processo di crescita produttiva;
2. valutare l’impatto delle proprie attività, dei propri prodotti e servizi, al fine di gestirne gli aspetti ambientali;
3. promuovere l’uso efficiente delle risorse naturali;
4. controllare e ridurre l’impatto ambientale;
5. investire in ricerca, sviluppo e innovazione, al fine di sviluppare processi, prodotti e servizi a sempre minore impatto ambientale;
6. gestire in maniera responsabile il prodotto lungo l’intero ciclo di vita;
7. gestire responsabilmente la filiera produttiva coinvolgendo fornitori, clienti e parti interessate.
8. promuovere iniziative di informazione, sensibilizzazione e formazione, al fine di coinvolgere l’organizzazione nell’attuazione della propria politica ambientale;
9. promuovere relazioni, con le parti interessate, improntate alla trasparenza, al fine di perseguire politiche condivise in campo ambientale;
10. operare in coerenza con i principi sottoscritti in questa carta in tutti i Paesi in cui si svolge la propria attività.


Prostitute robot, ve le immaginate per il futuro?

Un articolo pubblicato da due ricercatori neozelandesi sulla rivista Futures, ipotizza una nuova frontiera di sesso virtuale: l’avvento delle prostitute robot. Ma davvero potrebbero piacerci, secondo Wired ci sono almeno un paio di problemi.
Dagli anni ’90 gli appassionati di tecnologia hanno cominciato a parlare di realtà virtuale, ed ecco che non poteva mancare neanche il sesso virtuale. Ma oggi un articolo pubblicato da due ricercatori neozelandesi sulla rivista Futures, resuscita il sesso virtuale ipotizzando una nuova frontiera: l’avvento delle prostitute robot. I due studiosi neozelandesi autori del paper Robot, men and sex tourism, Michelle Mars (sessuologa) e Ian Yeoman (futurologo esperto in turismo), immaginano un mondo nel 2050 in cui le roboprostitute saranno la norma, e soprattutto, un futuro in cui malattie veneree e traffico sessuale saranno solo un brutto ricordo. “Che aspetto avranno le cybermeretrici (o i cybergigolò) del 2050? Saranno ammassi di ferraglia con attributi sufficientemente morbidi e realistici? Oppure organismi biomeccanici senzienti progettati per soddisfare gli uomini come la Wind Up Girl, l’ottimo romanzo (non tradotto in italiano) che ha fruttato il premio Hugo a Paolo Bacigalupi?”
Queste sono le domande che pone Wired. Ma Yeoman e Mars hanno ipotizzato che gli androidi saranno dotati di una pelle simile a quella umana, realizzati con particolari fibre antibatteriche che possano essere opportunamente lavate per impedire la trasmissione di patologie infettive. Nel futuro immaginato dai due neozelandesi la prostituzione diventerebbe un business senza pari, anche grazie al fatto che gli uomini potrebbero godere dei servizi della prostituzione senza doversi caricare sulle spalle il senso di colpa derivante dallo sfruttamento sessuale di un altro individuo. Inoltre, secondo i calcoli di Yeoman, Mars e con l’aiuto dei dati raccolti dal gruppo IAST (Initiative Against Sex Trafficking), quasi 4 milioni di persone sono ogni anno oggetto di smercio, tra questi almeno 1 milione sono bambini che finiscono regolarmente nelle spire del traffico sessuale. Per cui basterebbe allestire dei cyberbordelli nei paesi in cui c’è maggior richiesta, a convincere le migliaia di clienti di questo business a passare dalla carne ai circuiti, a ridurre la domanda di bambini e ragazze straniere, a creare un giro d’affari legale simile a quello che interessa oggi le Filippine e l’Olanda. Ma Wired pone alcuni dubbi, primo di tutti il fatto che i clienti del traffico sessuale non cercano soddisfazione sessuale, piuttosto una deviata forma di soddisfazione psicologica, per cui non è detto che il piacere si possa ritrovare in un atto con un robot.
Altro problema centrale riguarda l’aspetto che avranno gli androidi del 2050: raggiungeranno un sufficiente grado di similarità con gli esseri umani o il loro aspetto comincerà a disgustarci?.


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