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Manifesto per una Nuova economia per tutti

L’alleanza dei consum-attori per una Nuova economia per tutti ha l’obiettivo di aiutare società civile, attori economici e istituzioni a gettare le basi per un cambiamento negli obiettivi dell’attuale economia, per creare le condizioni per un benessere economicamente, socialmente ed ecologicamente sostenibile, poiché siamo ben lungi dal soddisfare i nostri bisogni primari e ben lontani da una “felicità sostenibile”.
Occorre quindi ripensare il nostro sistema economico arricchendolo degli ingredienti necessari a rispondere ai bisogni di tutti e far fiorire le nostre esistenze, valorizzando la dimensione etica e sociale del nostro agire affinché si possano conciliare interesse personale e benessere altrui.
Fattori chiave di questo processo sono corresponsabilità, giustizia sociale, solidarietà, gratuità, fiducia, condivisione e realizzazione personale.
Nell’attuale contesto economico, caratterizzato da una capacità produttiva che consentirebbe in caso di equa distribuzione delle risorse di far vivere degnamente un ampio numero di persone, emergono alcune grandi questioni la cui soluzione richiede strategie congiunte:
1)      la presenza di centinaia di milioni di persone che soffrono la fame e di miliardi di individui che vivono sotto la soglia di povertà;
2)      il deterioramento ambientale e un dissennato utilizzo dei beni comuni (acqua, aria, territorio, biodiversità, …) che, se nel futuro prossimo sembra minacciare l’umanità tutta e l’intero pianeta, oggi danneggiano in misura maggiore le popolazioni più povere;
3)      la diffusione tra la popolazione dei paesi più ricchi del dramma della “povertà di senso” e della difficoltà di dare un significato alla propria vita, segnalato dalle dinamiche degli indicatori di vita sociale e relazionale e dal consumo crescente di farmaci antidepressivi;
4)      la propagazione di un clima di lavoro e di comportamenti di mercato a competitività esasperata, che tendono a trasformare ogni attività in pratiche di mercato scorrette ed azioni di green washing, piuttosto che strategie e comportamenti responsabili verso l’ambiente ed il sociale.
Nel mondo contemporaneo l’azione della rappresentanza politica nazionale e dei movimenti sindacali, tradizionali difensori delle istanze della società civile, è stata progressivamente indebolita dalla concorrenza tra territori e dai processi di delocalizzazione, rendendo auspicabile e necessario un salto di qualità nella partecipazione dei cittadini e facendo emergere un nuovo spazio per una forza finora poco visibile: quella dei consumatori e dei risparmiatori socialmente responsabili.
Poiché il successo degli attori di mercato dipende dalle scelte dei singoli consumatori e risparmiatori, occorre rendere questi ultimi consapevoli di disporre di una formidabile e potente forma di partecipazione e di indirizzo alla vita economica. Attraverso i propri acquisti e risparmi i cittadini possono orientare e vagliare scelte produttive, compiendo, di fatto, un atto lungimirante di razionalità. Quando nelle scelte di consumo e risparmio si valutano non solo la qualità e il prezzo dei prodotti, ma anche il valore sociale in essi contenuto e l’impatto ambientale dell’impresa che li produce, si tutela il proprio interesse nel medio e lungo periodo.
La consapevolezza dei cittadini globali nei confronti dell’importanza e delle potenzialità del ‘votare’ politiche commerciali scegliendone i prodotti è cresciuta notevolmente nel corso degli ultimi anni.
Imprese pioniere virtuose si sono progressivamente affermate grazie alla disponibilità dei consumatori e dei risparmiatori a pagare per i valori sociali ed ambientali incorporati nei prodotti; altre imprese, cogliendone l’importanza anche strategica, tendono oggi sempre di più a promuovere e a pubblicizzare il loro impegno sui temi del sociale e dell’ambiente. Ma l’asimmetria informativa non consente sovente di distinguere chi vuole solo apparire sostenibile da chi effettivamente lo è.
Le organizzazioni internazionali incentivano questi processi aiutando i produttori a creare valore, mentre università e gruppi di ricerca analizzano i fenomeni in atto, interpretando i cambiamenti e fornendo competenze per gestirli.
Questo processo virtuoso di sensibilizzazione e azione si scontra ancora con due grandi ostacoli:
I)                   Il singolo consumatore responsabile, pur cosciente del valore del suo atto, rischia di essere scoraggiato e di non percepire le potenzialità di cambiamento globale se non è consapevole che la sua scelta è interconnessa con quella di altri attori.
II)                Molti cittadini desiderosi di consumare e vivere responsabilmente sono ostacolati dell’asimmetria informativa. Il valore sociale ed ambientale di un prodotto non è caratteristica direttamente verificabile nell’atto dell’acquisto o della scelta di risparmio. Ciò rende evidente il bisogno di enti terzi reputati che possano effettuare valutazioni indipendenti e di organizzazioni che veicolino e pubblicizzino informazioni e giudizi di rating.
Per rispondere a tali esigenze di coordinamento e informazione e sprigionare l’energia necessaria allo sviluppo di una nuova economia per tutti, appaiono oggi maturi i tempi per promuovere una grande alleanza organizzata dei consumatori e dei risparmiatori responsabili, i consum-attori. I candidati naturali a formarla sono quelle organizzazioni dei lavoratori e quelle reti della società civile da sempre impegnate nel promuovere i valori della sostenibilità. Importante è anche il ruolo di quei luoghi di formazione e gruppi di ricerca che forniscono gli strumenti per capire e veicolare i cambiamenti in atto. Ad essi si aggiungono naturalmente tutti i cittadini sensibili, gli imprenditori e le associazioni imprenditoriali lungimiranti.
La società civile ha dunque un ruolo perché portatrice di bisogni, di conoscenze e di esperienze che se messe a fattore comune permettono, insieme alle organizzazioni dei consumatori sensibili, una mobilitazione di un gran numero di cittadini desiderosi di giustizia e di futuro.
Il nostro impegno farà riferimento alle politiche, alle elaborazioni culturali ed ai documenti elaborati dall’Unione Europea.
Per conseguire efficacemente gli obiettivi del presente documento molte associazioni e soggetti della società civile hanno creato una Associazione di promozione sociale denominata NeXt Nuova economia per tutti, per svolgere un ruolo di soggetto promotore e di integrazione delle diverse competenze dei partner in tema di ricerca, valutazione ambientale e sociale, divulgazione e mobilitazione dei cittadini, operando per:
a)      promuovere e diffondere nel tessuto economico una nuova logica/cultura della sostenibilità;
b)      favorire l’adozione di strategie di sostenibilità socio-ambientale da parte delle aziende;
c)      valorizzare il comportamento delle imprese che intraprendono un percorso coerente verso la sostenibilità sociale ed ambientale;
d)     sensibilizzare, attivare e sostenere i cittadini verso il consumo e il risparmio responsabile sulla base dei flussi informativi disponibili in relazione alla sostenibilità aziendale;
e)      creare un accesso agevole, rapido e facilmente comprensibile alle informazioni sulla sostenibilità;
f)       sviluppare campagne mirate, momenti di elaborazione e di mobilitazione dei cittadini.
 




Pavan Sukhdev, Banchiere Buono

Ha preso un’aspettativa dal suo lavoro di manager alla Deutsche Bank in India per dedicarsi a una missione ambizione: salvare il mondo cambiando i bilanci contabili delle aziende
Prendiamo questo piccolo registratore argentato. Dovremmo sapere cosa c’è al suo interno per capire perchè il cambiamento climatico ci sta sfuggendo di mano. In una calda giornata piovosa Pavan Suidulev è seduto in un’anonima saletta di Bloomsbury, a Londra. Tiene il mio registratore a cassette tra le mani come se fosse la mela di Adamo ed Eva nel paradiso terrestre. L’ex banchiere spiega che questo apparecchio è come quasi tutti gli altri prodotti tecnologici: da nessuna parte c’è scritto quali sono stati i costi della sua fabbricazione. Chi lo compra non può sapete se la sua produzione ha causato danni all’ambiente attraverso lo sfruttamento delle materie prime, del suolo o delle risorse idriche, se ha causato l’emissione di gas serra, nè quali saranno le conseguenze del suo smaltimento. Il valore della natura non compare nei bilanci delle aziende. Secondo Suk Istlev non si può andare avanti cosi. Un altro aspetto problematico del mio registratore, osserva Sukhdev girandolo in modo che lo sportello per le cassette sia rivolto verso di me, è che deve essere eliminato e sostituito poco dopo essere stato lanciato sul mercato, nonostante continui a funzionare perfettamente. Il mio registratore funziona con le cassette, che ormai quasi nessuno produce più. Quando si acquista un oggetto non si può sapere quanto durerà. Le aziende hanno successo se gli apparecchi che producono diventano presto inutili: devono sembrare subito obsoleti, in modo che si passa cominciare a produrne e a venderne di nuovi. “Io continuo a usare il mio vecchio Blackberry come segno della mia libertà di consumatore. Non voglio essere costretto ad acquistarne uno nuovo solo perchè a quello vecchio manca qualcosa”. ll nostro sistema economico non deve semplicemente cambiare, dice Sukhdev. Deve anche farlo in fretta: entro il 2020. fino ad allora l’Europa ha intenzione di migliorare la sua efficienza energetica, aumentare la quota di fonti di energia rinnovabili del 20 percento e ridurre le emissioni di anidride carbonica di un altro 20 per cento. La proposta dell’ex manager è quella di incorporare l’idea di bene comune nei bilanci aziendali. La società, su cui fino a oggi sono stati scaricati i costi di produzione, dovrà essere sempre al corrente di quello che le imprese distruggono nel corso della loro crescita. Sukhdev parla a raffica e con precisione ed è difficile prendere appunti a mano. Devo usare il mio vecchio registratore. In questo momento Pavan Sukhdev ricopre, agli occhi di molti, il ruolo assunto quattro anni fa da Nicholas Stern, l’ex funzionario della Banca mondiale che in un rapporto per il governo britannico ha definito il cambiamento climatico un fallimento catastrofico del mercato. Sukhdev è deciso a non perdere tempo, ma la sua non è una posa ,è una convinzione profonda. Ha fretta, è vero, ma senza cedere alla frenesia o a un eccesso di moralismo. L’impeto della indignazione è dovuto al fatto che quasi tutte le imprese continuano a inseguire il profitto come se vivessimo ancora nel1920, cioè attraverso intense attività di lobby, vaste campagne pubblicitarie e l’impiego aggressivo di capitali esteri. Sukhdev cita The corporation, il libro di Joel Bakan. Le aziende hanno perso la bussola morale e inseguono senza sosta il potere e i profitti, scaricando sulla società tutte le conseguenze delle loro azioni. Per cominciare a gesti re l’economia in modo da non sperperare le risorse naturali mancano gli stima i. Ma ora bisogna crearli: una priorità assoluta”.
Ottimista ostinato
Sukhdev si è preso un periodo di aspettativa dal suo lavoro ai vertici della sede indiana della Deutsche Bank e dal 2008 ha assunto la direzione del progetto di ricerca The economics of ecosystems and biodiversity (Teeb), su incarico della Commissione europea e del la Germania e, in un secondo momento, delle Nazioni Unite. L’obiettivo del progetto è calcolare il valore delle risorse naturali. Fino a marzo del 2ott Sukhdev ha diretto la Green economy initiative dell’Onu, ha fondato l’impresa Gist, che offre consulenze su temi ambientali ai governi e alla Commissione europea, e ha accettato una borsa dell’università di Yale per scrivere Corporation 2020, un libro sulla necessaria rivoluzione culturale nella contabilità aziendale. Il Programma di Sukhdev è questo: se il nemico numero uno è il “business as usual”, allora le principali alleate nella sua battaglia devono essere le nuove aziende, sopratutto quelle che praticano una forma di responsabilità ambientale. Jochen  Zeitz,  l’ex presidente del consiglio d’amministrazione della Puma, è un buon esempio:è stato il primo dirigente a calcolare i costi ambientali della produzione a livello globale e li ha messi a disposizione dell’opinione pubblica. L’azienda brasiliana Natura, che produce cosmetici, e l’ indiana Infosys sono altri casi esemplari citati da Sukhdev, il quale è convinto che sia in atto un cambiamento di valori nelle aziende. Un mondo diverso è possibile, osserva Sukhdev, perchè alcuni protagonisti hanno capito che l’economia non può continuare a crescere in questo modo. Secondo lui il punto centrale non è la contrapposizione tra crescita e post-crescita. Sukhdev si spazientisce solo a sentirne parlare. I poveri di tutto il mondo non possono contare neanche su un sistema previdenziale di base. Le due cose devono andare di pari passo: “Bisogna creare condizioni generali che permettano la diffusione di una cultura imprenditoriale capace di aumentare sia il benessere dell’umanità sia l’equità sociale, allo stesso tempo riducendo i rischi ambientali”. Alcuni potrebbero infastidirsi di fronte all’ennesimo economista secondo cui le aziende risolveranno il problema spontaneamente. Sono amiche sentiamo parlare di questi obiettivi e di queste aspirazioni ma non è cambiato niente nei consumi energetici mondiali. E infatti anche Sukhdev è d’accordo sul fatto che non basta puntare sulla volontà delle aziende. Le sovvenzioni controproducenti vanno abolite, la proprietà pubblica dei beni comuni non deve essere più considerata un fallimento del mercato e gli investirne n ti statali devono concentrarsi su infrastrutture ecologicamente sostenibili. Le risorse devono essere tassate alla fonte, non al momento dell’utilizzo. In un primo momento la perdita di posti di lavoro sarà inevitabile, ma il  programma di Sukhdev prevede un’inversione di tendenza nel medio periodo. Ma chi detiene davvero il potere? Di fronte a questa domanda l’ex dirigente si anima. Spiega che ha lavorato nel mondo delle ong e che non è entrato in po litica a causa della corruzione. Invece è convinto che la sua attuale posizione gli permetterà di ottenere dei risultati. Nella cassetta degli attrezzi che usa per esercitare pressioni politiche, Pavan  Sukhdev ha trovato anche uno strumento nuovo in cui confida molto: la contabilità internazionale. Il suo compito è creare delle alleanze con organismi come l’International accounting standards board. Inoltre, entrerà anche a far parte del comitato di gestione della Global reporting initiative. Esiste già una vasta gamma di metodi di valutazione contabile,dice Sukhdev, adesso bisogna consolidarli, trasformarli in standard internazionali. Quindi i bilanci contabili salveranno il mondo? “Si, è quello che spero”. Sukhdev  è convinto che le parole di una persona con venticinque anni di esperienza nella gestione degli istituti bancari non possono cade re nel vuoto. “Chi si presenta con il biglietto da visita di un banchiere riconosciuto è ascoltato dai potenti di tutto il mondo”. Sukhdev è cresciuto in India, in un ambiente dove poteva scegliere quattro strade per la sua cartiera: l’avvocatura, la medicina, il settore bancario e l’ingegneria. Di sicuro il finto di nascere in una famiglia ricca non ha guastato, aggiunge guardando dritto davanti a se. Mi spiega che da quando si è separato dalla moglie e da quando le figlie si sono trasferite a New York, lui vive con i suoi parenti in India. Sukhdev racconta di suo padre, un agente d i polizia, che ripeteva spesso che fare bene il proprio mestiere è già un riconoscimento sufficiente. Sukhdev fa una breve pausa. “Mi sarebbe piaciuto anche diventare guardia forestale. Ma chi presta ascolto a un guardaboschi?”.
 




Environmental Indicator Report 2013: consumiamo ancora troppo e male

Il tifone nelle Filippine e l’alluvione in Sardegna. Se due indizi fanno una prova allora abbiamo risolto il caso. I cambiamenti climatici, e l’avido sfruttamento del territorio e delle risorse naturali stanno distruggendo il pianeta e chiedono in cambio un prezzo davvero troppo alto: la perdita di vite umane. Dopo avvenimenti di questo genere portare ulteriori evidenze scientifiche a quanto detto sembra quasi superfluo, tuttavia, le cifre esistono e forse sono troppo spesso ignorate.
In una sorta di macabra coincidenza, l’ultimo rapporto dell’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA) pone proprio l’attenzione sull’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali, che va contro il benessere dei cittadini.L’Environmental Indicator Report 2013, appena pubblicato, mette in guardia circa l’insostenibilità dei consumi sul territorio del Vecchio Continente. Una tendenza ancora più pericolosa se guardata nel più ampio contesto di una crescente domanda di risorse a livello globale. Le pressioni ambientali associate ai nostri stili di vita sembrano essere in diminuzione, almeno entro i confini dell’Europa, tuttavia, consumiamo troppa acqua, terra, foreste e cibo. Per non parlare dell’impatto che l’energia e le costruzioni esercitano sull’ambiente e quindi sulla salute dei cittadini, minacciando soprattutto le fasce più deboli della popolazione. Il soddisfacimento dei nostri bisogni dipende troppo dallo sfruttamento del territorio. Un modello del tutto insostenibile sul lungo periodo. Ecco alcuni numeri.
Per quel che riguarda l’acqua, nonostante in Europa l’efficienza nell’uso e nella gestione di questa preziosa risorsa sia aumentata, restano Paesi come Italia, Malta, Cipro, Belgio e Spagna, in cui lo stress idrico è notevole. Altro problema sottolineato dai ricercatori è l’emergere di sostanze contaminanti, una grave minaccia per il benessere della popolazione. Si tratta principalmente di componenti chimiche presenti nei prodotti farmaceutici e cosmetici la cui pericolosità solo ora inizia a diventare evidente. Nonostante, poi, la riduzione di alcuni inquinanti, meno della metà delle acque superficiali in Europa registrano un buono stato ecologico.
Dal punti di vista dell’approvvigionamento delle risorse alimentari, i terreni agricoli sono diminuiti del 13% negli ultimi 50 anni. Ma nello stesso arco di tempo – udite, udite – la loro produttività è aumentata al 259%. Anche se questa produzione intensiva consente all’UE di essere in gran parte autosufficiente per le materie prime ed i prodotti principali come carne, latticini, cereali e bevande, gli effetti sono devastanti (ci permettiamo di ricordarlo ad Antonio Pascale, autore del libello “Pane e pace“). Perché questo risultato non è dovuto esclusivamente al potere della razionalizzazione dei metodi di produzione, ma anche all’uso di pesticidi e fertilizzanti chimici. Che con un effetto a catena distruttivo hanno prodotto problemi ambientali persistenti, dall’eccesso di fosforo e azoto nelle acque (eutrofizzazione), all’aumento delle emissioni di gas a effetto serra.
Sul fronte energetico, i consumi non sono calati. Negli ultimi venti anni sono rimasti stabili a fronte di una produzione economica aumentata, nello stesso periodo, del 50%. Tuttavia, in questo campo, non è tanto importante sottolineare quanto consumiamo, ma grazie a cosa produciamo energia. E qui arriva la nota dolente. Sono, infatti, i combustibili fossili a farla ancora da padrone, con notevoli differenze tra i paesi dell’Unione. Un esempio su tutti: rappresentano il 96% dei consumi energetici nazionali a Cipro ma solo il 37% in Svezia. L’inquinamento atmosferico e il cambiamento climatico associato all’uso di combustibili fossili significa che essi sono la fonte energetica con il più alto impatto indiretto sul benessere della popolazione. Inoltre, la percentuale di biomassa bruciata per il riscaldamento domestico è aumentata del 56% tra il 1990 e il 2011, sollevando serie preoccupazioni per la salute. La mancanza di filtri nei bruciatori domestici significa che le famiglie sono ormai la principale fonte di emissioni di particolato nell’UE.
Infine, il rapporto si concentra sulle aree residenziali che, tra il 1990 e il 2006, in Europa sono aumentate quattro volte più velocemente rispetto alla crescita della popolazione, contribuendo alla frammentazione degli habitat naturali. L’efficienza delle abitazioni è in calo, ma allo stesso tempo, la relazione evidenzia gravi carenze negli sforzi europei per soddisfare le esigenze di risorse. Basti pensare che il 14% della popolazione europea non può permettersi di scaldare la propria casa, una quota che in alcuni paesi arriva a toccare il 40% dei cittadini.
Per ridurre le pressioni esercitate dall’uso delle risorse in Europa, la risposta dell’Agenzia è quasi univoca:predisporre una migliore pianificazione territoriale integrando diverse politiche. A fare la differenza è come un Paese decide di gestire il proprio patrimonio naturale. Si sottolinea come si debba andare verso la transizione ad una economia verde, definita come un sistema che faccia un uso ragionato del territorio ed allo stesso tempo salvaguardi il benessere umano. Soddisfare le nostre esigenze ad un costo ambientale molto più basso, in estrema sintesi.
 




Responsabilità sociale, primi passi dentro i cda

Che la responsabilità sociale sia un asset strategico per lo sviluppo e la sostenibilità delle imprese lo si ripete comunemente da più parti. Studi, analisi e indagini demoscopiche, corsi accademici, meeting e conferenze convergono da tempo su questa affermazione. Ma c’è una domanda che sorge spontanea, pur rimanendo generalmente nell’ombra: al dire segue anche il fare? In parole povere, la moneta della Csr (Corporate social responsibility) si spende principalmente per interesse reputazionale o si traduce anche in concrete strategie di business e in risultati tangibili?
Una (lodevole) ricerca ha elevato questo dubbio da cinica curiosità a quesito scientifico, indagando come sostenibilità e Csr entrino effettivamente nell’agenda dei board delle società quotate italiane. Promossa dal Csr manager network, l’associazione dei dirigenti della responsabilità sociale, in collaborazione con Assonime e Nedcommunity, e condotta con un gruppo di ricercatori di Altis, l’Alta scuola impresa e società dell’università Cattolica diretta da Mario Molteni, la ricerca fornisce un’inedita fotografia dell’attuale livello di coinvolgimento dei consigli d’amministrazione intorno ai temi della Csr. Ma c’è di più: i risultati vengono messi a confronto con i dati delle società quotate sul Ftse di Londra, l’indice principale del mercato azionario britannico.
«Qualche anno fa avremmo avuto paura delle risposte», confessa Fulvio Rossi, responsabile dell’area sviluppo e integrazione progetti di Terna e presidente del Csr manager network, da poco rieletto per il triennio 2014-17. «Il fatto stesso che per la prima volta ci siamo avventurati su questo terreno racconta di una maturazione in atto intorno al tema della responsabilità sociale». I risultati, in effetti, hanno premiato il coraggio: «Sono emersi dati buoni, addirittura impensabili fino a poco tempo fa», dichiara Rossi. Che però precisa subito: «Se ci fossimo aspettati di riscontrare l’ordinarietà della materia nell’agenda dei vertici aziendali saremmo però rimasti delusi, perché questa risposta ancora non c’è».
Ecco dunque, in sintesi, che cosa emerge dalla ricerca, che in particolare ha preso in esame le imprese quotate comprese nell’Indice Ftse Mib (di queste il 77,5% ha risposto al questionario). Il 90% delle società quotate sull’indice principale italiano ha adottato un codice etico, con relativi impegni, soprattutto in materia ambientale. Nel 64% dei casi il cda ha definito e comunicato erga omnes gli impegni. Il 77% pubblica un report di sostenibilità, che è passato per l’approvazione direttamente in consiglio. Il 38,7% dei membri del cda sono destinatari di formazione periodica in tema di responsabilità sociale. Due su tre sono aggiornati su base sistematica riguardo ai rischi socio-ambientali connessi all’attività dell’impresa. Solo il 42% delle società intervistate, tuttavia, ha integrato le tematiche socio-ambientali nel piano industriale, mentre il 25% ha adottato pratiche per agganciare parte del compenso dei consiglieri esecutivi a indicatori di performance anche ambientali. «Questo dimostra che siamo all’inizio della storia, non alla fine», chiosa Rossi. «Quando scatta la volontà di misurare un determinato fenomeno è più facile che partano le iniziative concrete».
Esigenza, quest’ultima, resa evidente anche dal confronto con la realtà britannica: nel 53% delle prime cento aziende quotate a Londra il cda è impegnato direttamente nelle politiche di Csr, mentre nel nostro Paese (con riferimento alle società intervistate nella ricerca) solo per il 15% dei casi i temi di sostenibilità sono assegnati esplicitamente al livello più alto della struttura gerarchica. Un folto gruppo (27,5%) delega a un comitato manageriale, che risponde al cda. Nei restanti casi (ossia oltre la metà) il coinvolgimento avviene attraverso organismi esterni al cda (ad esempio comitato rischi o audit). «Non si è ancora del tutto capito – spiega Rossi – che è normale occuparsi di questi temi per una buona conduzione del proprio business. A volte si fa Csr solo per cautela, per esempio quando si osservano i problemi unicamente nell’ottica della tutela dai rischi».
Va però aggiunto che, in un Paese come il nostro, caratterizzato da una diffusa rete di piccole e medie imprese, molte pratiche e iniziative che potrebbero a buon diritto essere classificate nell’ambito della Csr non emergono. Le ragioni sono diverse, in gran parte riconducibili alla storia e alla natura stessa del nostro sistema imprenditoriale. Ad esempio, come ricorda Rossi, «molte realtà hanno la caratteristica di essere fornitori, quindi curano al massimo la qualità e il prezzo, ma non beneficiano di alcuna spendibilità di brand e non hanno dunque interesse a comunicare le proprie pratiche di sostenibilità». La prossima sfida, pertanto, può diventare quella di mettere in evidenza questo «sommerso» di responsabilità sociale che, senza ombra di dubbio, esiste e che, una volta tanto, farebbe guadagnare note di merito al nostro Paese




GLI U2 E APPLE SONO I SECONDI A NON REGALARE UN ALBUM, MA UNA STRATEGIA DI MARKETING

Ci sono date che contano più di altre. Alcune per motivi storici, altri per motivi commerciali e altre ancora perché rendono tutto diverso. In altre parole, ci sono momenti in cui tutto cambia.
Una di queste è il 9 settembre 2014, giorno in cui gli U2Apple hanno contribuito a cambiare le regole del business musicale e contemporaneamente hanno certificato indirettamente alcune priorità che sono state sempre sottovalutate da molti “tecnici” e dal mercato.
Lo scorso 9 settembre, Apple ha donato ai propri utenti I-Tunes l’ultimo album della band irlandese. Gli utenti hanno trovato nella propria libreria il file pronto per essere scaricato gratuitamente. Tutti, anche quelli che mai avrebbero comprato un album della band di Bono Vox. Secondo il comunicato apparso  nella pagina creata appositamente sul sito ufficialeApple, l’operazione avrebbe interessato circa 500 milioni di utenti. Numeri da capogiro, talmente grandi da rendere difficile comprenderne la reale grandezza. Cerchiamo di farlo. Se è vero che in Italia ci sono circa 60 milioni di persone, immaginate che tutti gli abitanti di più di 8 Italie siano entrati in contatto con questo progetto.
Per prepararmi alla stesura e all’analisi di questo articolo, come sempre, mi sono informato e ho letto qualche decina di articoli.
Una delle cose che mi ha colpito maggiormente è che, testate musicali comprese, nessuno ha preso minimamente in considerazione la qualità del prodotto musicale. Nessuno ha sottolineato in qualche modo la bontà dell’album. Sarà bello? Orribile? Mediocre? Sembra che nel caso specifico non importi a nessuno. Ed è proprio così. Infatti, non a caso, ne parliamo su The Marketing Blog Italia.
Il vero “prodotto” da vendere è un’enorme operazione di marketing e d’immagine. L’album non è altro che un pretesto.
A dirla proprio tutta, l’album non sarà proprio del tutto gratis, infatti il prossimo 13 ottobre uscirà nella sua versione “fisica” e non digitale. E i veri fan, che sono anche collezionisti, compreranno l’oggetto da esporre in casa.
Ma qual è davvero la vera straordinarietà di questa operazione di marketing? Semplice, non ha nulla a che fare con la musica, ma con i numeri. Gli U2 hanno venduto – e a caro prezzo – ad Apple il proprio pubblico reale e potenziale. Di fatto hanno “ceduto in usufrutto” la propria credibilità e i propri volumi. In altre parole tutti  i risultati della passata strategia di brand management.
Apple invece, oltre al denaro, ha messo nel piatto anche i propri utenti e il loro spazio digitale.
Ad essere sinceri, questo accordo non è il primo del genere. Infatti, già nel luglio del 2013, Jay Z (oltre 21 milioni e mezzo di fan sulla sua paginaFacebook) ha regalato il suo Magna Carta Holy Grayl ad un milione di utenti della Samsung, firmando un accordo per una app con il colosso coreano.
Nell’eterna diatriba tra Samsung Apple un altro punto a favore dei coreani.
Ma torniamo al caso degli U2. Quali sono i parametri che hanno fruttato agli irlandesi qualche milione di dollari e un nuovo numero di utenti potenziali? A proposito, la cifra alla base dell’accordo non ci è data saperla.
I parametri la centro della transazione sono: valore del brand “U2”, anni di carriera, numero degli album e volumi di vendita, premi e riconoscimenti, press review, valore d’immagine delle attivitò sociali e diCSR, numero e imponenza dei tour, numero dei fan incontrati durante i concerti e le manifestazioni.
A questo bisogna aggiungere la salute del “corpo digitale” della band.
Proprio così, sono fondamentali il numero dei contatti sul sito ufficialee la capacità di attrarre, di rimanere in contatto e coinvolgere i propri fan attraverso i social. Fattori resi ancora più essenziali, visto che l’intera operazione è digitale.
A questo proposito, è molto interessante l’immagine iconica scelta per “visualizzare” l’operazione: un vecchio vinile con il titolo scritto a mano. Foto scelta per attivare i marcatori somatici e aiutare il nostrocervello a riconoscere e percepire come “più reale” un’azione puramente virtuale.
Anche in termini di social gli U2 sono dei giganti, anche se a dire il vero non dei titani.
I fan della pagina Facebook sono più di 18 milioni e i follower suTwitter sono più di 315.000. (1)
Dati lontani rispetto al già citato Jay Z e ad altri colossi digitali comeBon JoviQueenMichael Jackson, Beyoncé e altri. Analisi, sia ben chiaro, che si vuole basare solo su dati statistici e non su fattori musicali. (2)
Concludendo, la transazione economia alla base dell’accordo tra l’azienda californiana e gli U2 si basa sui volumi e su un nuovo modo di monetizzare il lavoro svolto dalla band e dall’ufficio marketing in passato. A capo  di questa operazione, e del cambiamento concettuale che ne è alla base, non troviamo più Paul McGuinness (storico manager della band ndr), ma Guy Oseary, già manager di Madonna.
Personalmente, non posso che trovare molti spunti di riflessione per la mia professione da questa immensa operazione di marketing, che troveranno adattamento nelle mie prossime strategie. Qualcosa è cambiato per sempre ed è arrivato il momento per i tecnici e per il mercato  di comprendere che spesso il vero prodotto venduto non è quello che viene proposto come tale, ma il pubblico potenziale che sarà coinvolto dal progetto. Questa operazione ufficializza il fatto che spesso l’apparente prodotto è il famoso “specchietto per le allodole”. Ma ancor di più, viene certificato in modo globale che parole come “personal branding” e “brand management” sono la moneta di scambio alla base del business.
Questa operazione di marketing avviene proprio mentre sono impegnato in uno studio internazionale indetto dal Global Marketing Research Institute, relativo alla creazione della credibilità dei musicisti attraverso i social media, e ha confermato molti dei dati preliminari attualmente in nostro possesso. I risultati definitivi saranno divulgati dall’Istituto nei prossimi mesi e ve ne darò conto anch’io.
A proposito, l’album degli U2 si chiama “Songs of innocence”, è formato da 11 tracce e a detta di chi lo ha ascoltato non parrebbe il miglior album della band, The Marketing Blog Italia si pregia di essere tra i primi a scriverlo. Ma come abbiamo visto, in questo caso, la musica non è la cosa più importante. Purtroppo.
(1) Dato aggiornato al 20/09/2014
(2) Michael Jackson (78.871.785 fan su Fb e 1,75 MLN di follower su Twitter) – Bon Jovi (27.062.705 fan su FB e 1,52 MLN su Twitter) – Queen (28.298.840 fan su FB e 694.000 su Twitter) – Beyoncé (64.363.813 fan su FB e 13.6 MLN su twitter)