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McKinsey: «La Csr ha fallito»

È TEMPO DI RAGIONARE SULL’INTEGRATED ENGAGEMENT
Finita l’epoca della Csr. È tempo di passare all’external engagement integrato. A formulare tale impietoso giudizio sono gli esperti di McKinsey, in un report secondo cui l’approccio tradizionale alla Csr avrebbe fallito la sua mission.
La società di consulenza ritiene che occorra guardare a un “Integrated external engagement” (Iee) in grado di portare l’engagement direttamente all’interno del processo decisionale a ogni livello dell’impresa.
Si parte da una definizione di external engagement come l’insieme degli sforzi compiuti da un’azienda per gestire la sua relazione con il mondo esterno. Questa relazione può includere diverse attività: la filantropia, l’azione di lobby politica, la partecipazione a programmi della comunità locale, ma anche la politica di selezione del personale. «Attualmente – si legge nel report – la maggior parte delle imprese hanno declinato l’external engagement in tre modi: creando uno staff centrale dedicato alla Csr, lanciando iniziative di altro profilo ma relativamente poco dispendiose, e pubblicando la revisione annuale dei progressi».
L’approccio tradizionale ha avuto alcuni effetti positivi. Le imprese sono più propense a valutare attentamente l’ambiente esterno rispetto al passato, e il loro programmi di filantropia hanno fornito aiuto a molte persone. Ma, nel concreto, nella maggior parte dei casi la Csr così intesa è venuta meno al suo scopo principale che consiste nel costruire relazioni più forti con il mondo esterno. Gli stessi manager interpellati da McKinsey hanno riconosciuto che il loro approccio è stato di fatto inadeguato. In un’indagine recente condotta a livello mondiale dal colosso della consulenza su più di 3.500 manager, meno del 20% degli interpellati ha dichiarato di aver ottenuto successo nel cercare di influenzare la politica del Governo oppure l’esito di decisioni legislative.
Dove, dunque, stanno sbagliando le imprese e che cosa non funziona nell’approccio tradizionale alla Csr?
Occorre partire da una constatazione. I cittadini e i governi tendono ad avere aspettative più elevate nei confronti delle aziende rispetto al passato: non basta più ottemperare alle legge e adeguarsi agli standard previsti, ma occorre assicurarsi, per esempio, che tali parametri vengano rispettati anche lungo la supply chain. Ci si aspetta inoltre che le imprese più grandi siano in grado di spingersi ancora oltre contribuendo alla soluzioni di questioni economiche, sociali e ambientali per quanto non strettamente correlate al loro business. Nel contempo, le aspettative dei cittadini sono cresciute di pari passo con la loro capacità di mettere sotto esame le aziende. La comunicazioni sui media digitali permettono agli individui singoli e alle associazioni (tra cui anche le organizzazioni non governative) di tenere sotto osservazione l’operato delle imprese ed eventualmente sollevare contro tali azioni campagne in tempi rapidissimi, anche a livello mondiale, e a costo molto contenuto se non quasi zero. Per questo le aziende devono essere attrezzate per far fronte sia al crescere delle aspettative sia alla capacità di osservazione e di critica pubblica.
La gestione delle Csr “classica” non avrebbe portato alcun beneficio su questo fronte. Secondo gli esperti di Mckinsey l’approccio centralizzato al tema presenta infatti quattro difetti principali.
1) In primo luogo, le iniziative promosse dall’alto raramente ottengono il pieno supporto del business e tendono a sfociare in discussioni su chi paga e chi ottiene il beneficio. Senza una partecipazione attiva delle funzioni a più elevato assorbimento di capitale – tipicamente la produzione e il marketing – le ambizioni del team centrale deputato alla Csr sono difficili da realizzare.
2) Gli uffici preposti alla Csr, inoltre, possono facilmente perdere il contatto con la realtà dal momento che hanno visione spesso ristretta e distante degli stakeholder dell’azienda. I manager attivi direttamente sul campo invece hanno una migliore comprensione del contesto locale sia in termini di stakeholder sia in termini di bisogni della popolazione.
3) Spesso, poi, la Csr è stata utilizzata come un mezzo per proteggere la propria reputazione. L’external engagement invece dovrebbe rappresentare molto di più e tradursi nella capacità di attirare nuovi consumatori, di motivare i lavoratori e promuovere proposte nei confronti dei governi.
4) Ultimo punto debole dell’approccio tradizionale alla Csr è la durata media dei programmi, solitamente troppo brevi. Questo avviene perché solitamente la loro messa in atto è radicalmente separata dall’attività commerciale dell’azienda. La loro sopravvivenza deriva unicamente dalla discrezionalità e dalle inclinazioni del momento del management piuttosto che dal loro valore in quanto tale. Pertanto la loro sopravvivenza è estremamente vulnerabile al cambio del management e ad eventuali tagli di costi.
ASSUNTI CONDIVISIMcKinsey ricorda che già Michael E. Porter and Mark R. Kramer, tra i precursori negli studi sulla creazione di “valore condiviso”, hanno individuato le cause di un possibile fallimento in «un miscuglio di Csr poco coordinata e di attività filantropiche disconnesse dalla strategia dell’azienda tale da non generare alcun impatto sociale significativo o rafforzare la competitività dell’azienda nel lungo periodo».
Come risposta a tale questione, alcuni studiosi hanno proposto una nuova cornice per comprendere come il business possa gestire la relazione con il mondo esterno. Quasi tutte le impostazioni concettuali, incluse quella di Porter e Kramer sul “valore condiviso” e quella di Ian Davis sul “contratto sociale” partono dallo stesso assunto: le imprese devono profondamente integrare l’external engament nella loro strategia e nelle loro procedure.
«Perché, appunto, il successo di un’azienda – si legge nel report di McKinsey – dipende strettamente dalla relazione con il mondo esterno (che comprende non solo i clienti attuali e potenziali, lo staff interno, ma anche il legislatore e gli attivisti). Le decisioni prese a tutti i livelli dell’azienda, dal centro (a livello di cda) alla periferia (a livello di singolo punto vendita) vanno a impattare su tutte queste relazioni. Per essere veramente efficace il processo decisionale deve quindi tenere in debito conto di questi effetti. L’external engagement non può essere separato dall’attività quotidiane di business, ma deve esserne parte integrante«».
Secondo gli analisti di McKinsey molti manager sono già pronti a condividere questo obiettivo, ma non sanno come conseguirlo in pratica.
Suggeriscono quindi di adottare principi cruciali.
a) Definire l’azienda attraverso il contributo che essa è in grado di dare alla società: questo non significa dover cambiare lo scopo dell’azienda bensì rendere più esplicito il come la realizzazione di tale scopo può a sua volta fornire benefici alla società.
b) Conoscere i propri stakeholder: l’azione, per quanto ovvia possa sembrare, richiede qualcosa di più rispetto a quanto comunemente fatto oggi. Significa conoscere i propri stakeholder nello stesso modo in cui si tende a conoscere i propri clienti.
c) Le aziende che hanno successo nell’integrare l’external engagement nel loro business lo vedono come un fattore per incrementare la profittabilità e per questo si impegnano nel creare capacità, definire i processi e misurare dei risultati. Anche sul fronte dell’external engagement, infatti, i risultati, alla pari di quelli di business, devono essere misurati e misurabili: occorre pertanto fissare obiettivi, valutare i progressi e collegare gli incentivi con i risultati ottenuti.




Brand che lottano a colpi di comunicazione sostenibile? Un’ottima notizia!

Da quando Coca-Cola ha lanciato la sua coraggiosa iniziativa anti-obesità, i dipendenti, sotto gli attacchi dei critici, si saranno sentiti come elefanti (o orsi bianchi) in un negozio di cristalli, ma in ultima analisi la mossa della società è stata decisiva. Coca-Cola ha guadagnato la posizione dominante non solo nel dibattito sull’obesità ma anche rispetto ai propri concorrenti. A me è sempre piaciuta la rivalità tra Pepsi e Coca-Cola. Non è questo il vero simbolo del capitalismo: le imprese che fanno di tutto per stare più avanti rispetto alla concorrenza? Che forniscono servizi e prodotti eccezionali e ora anche impegni per la sostenibilità a noi consumatori? Coca-Cola e Pepsi sono come due fratelli che cercano di essere al centro dell’attenzione, che cercano l’amore. Ma c’è qualcosa di importante da imparare dalle loro battaglie: la direzione in cui sta andando la comunicazione della sostenibilità.
Ripercorriamo velocemente gli eventi. Pepsi ha creato un putiferio al Super Bowl 2010, quando decise di non rinnovare la sua presenza pubblicitaria con Britney Spears, preferendo finanziare iniziative sociali con il Progetto Refresh. Appena un anno più tardi, verso la fine del 2011, Coca-Cola seguì l’esempio di Pepsi, con le lattine bianche a supporto degli orsi bianchi e della ricerca artica con la campagna Arctic Home.
Entrambi i casi sono esempi di marketing geniale. I consumatori non vogliono solo essere divertiti, vogliono che i brand si distinguano, che facciano la differenza per le persone e per il pianeta, e vogliono pensare di sostenere qualcosa di buono quando spendono i loro soldi. Coca-Cola non voleva che tale spazio fosse occupato solo da Pepsi. La concorrenza si è spostata dal campo tradizionale di battaglia per entrare nella dimensione della sostenibilità: quello che fai tu, lo so fare io e in modo più “verde”. Mentre Coca-Cola sta ampliando le attività a favore dell’Artico anche in altri mercati, purtroppo il Progetto Refresh di Pepsi è stato un po’ per volta abbandonato.
Ma ciò che rende ancora più interessante l’ingresso di Coca-Cola nella questione anti-obesità è l’uso dellacomunicazione della sostenibilità come strumento strategico: d’interesse del top management, e non un semplice fuoco di paglia commerciale tinto di verde. La campagna anti-obesità non è semplicemente rivolta ai consumatori; dice ai tantissimi stakeholder di Coca-Cola che l’azienda ha una strategia per combattere l’obesità. E’ un’abile mossa tattica, soprattutto dopo le recenti azioni delle autorità come Michael Bloomberg, il sindaco di New York, che ha imposto un divieto sulle maxi bibite zuccherate. Costituisce anche una strategia proattiva contro certi lobbisti come il Center for Science in the Public Interest che ha lanciato di recente il video The Real Bears (gli orsi veri), descritto da USA Today come “il video che Coca-Cola non vuole che tu veda”, facendolo diventare ancora più popolare e portando a oltre due milioni il numero di visualizzazione.
Una campagna di questo tipo gioca anche a favore degli investitori. Le agenzie di rating della sostenibilità stanno facendo la voce grossa tanto che l’obesità è stata indicata come uno dei due principali rischi finanziari di Coca-Cola (l’altro è l’acqua!). Da semplice vernice di marketing verde, la comunicazione della sostenibilità si sposta nelle casseforti delle banche, riflettendo l’apprezzamento degli investitori per le imprese che affrontano la maggiore sfida commerciale del 21esimo secolo: la sostenibilità. La posta in gioco è enorme. A dispetto dei critici, Coca-Cola è riuscita a sviluppare un approccio che ha convinto i suoi molti stakeholder, e a mostrare di aver formulato una strategia in grado di fare la differenza. Nei mesi e negli anni a venire si vedrà se Coca-Cola continuerà a dominare il dibattito. Prevediamo già una nuova battaglia tra i due giganti della cola, con prodotti che hanno lo stesso gusto ma meno calorie. Comunque vada, ormai Coca-Cola ha fatto il primo passo e non si può più tornare indietro.
Dal punto di vista dei consumatori, questa è una mossa audace, ma abile. Quando Coca-Cola ammette che le proprie bibite altamente zuccherate contribuiscono al problema dell’obesità è come dire che il Re è nudo! Quello che ha detto Coca-Cola è ovvio, ma adesso che affronta i suoi demoni può dedicarsi alla costruzione di un legame di vera fiducia con i consumatori. E Pepsi? L’AD Indra Nooyi non sarà felice della scelta difficile che ora deve affrontare. Coca-Cola ha alzato l’asticella in termini di ciò che ci si aspetta dall’industria delle bibite non alcoliche (e forse anche da altri settori) e i consumatori vorranno delle risposte precise. Siamo forse alla vigilia di una rivoluzione nel mondo delle bibite?
Coca-Cola non è l’unica società alle prese con simili sfide strategiche che minacciano le fondamenta del proprio modello d’impresa che si basa sulla vendita di bibite poco salutari e piene di zucchero. Anche McDonald’s e altre imprese nel settore del fast food, con offerte ad alto contenuto di grassi, sale e zucchero, sono sotto la lente del pubblico.
Dunque: quali sono i peggiori nemici nel vostro settore? Quali sono i temi che riuscite a gestire in modo attivo, anziché aspettare che i consumatori cambino atteggiamento (perché lo faranno, credetemi)? Alcune imprese hanno cercato di uccidere il grande nemico che stava in agguato, come ad esempio BP, che ha fatto finta di affrontare la sfida con il claim “Beyond Petroleum“, un tentativo che non è stato altro che un’iniziativa di marketing.
E qui ci sta una lezione importante. La comunicazione è capace di creare la visione e il dialogo indispensabile con gli azionisti, e di assumere un ruolo di primo piano, ma le azioni devono essere già operative o in posizione strategica, e devono essere trasparenti. Se la si gestisce bene, quella che sembrava una minaccia può essere trasformata in opportunità. E’ sempre meglio far fronte alla sfida e confrontare i veri nemici (soprattutto quelli interni) piuttosto che mettere la testa nella sabbia. A lungo andare si conquisterà il rispetto e il sostegno delle persone. Coinvolgete gli stakeholder e collaborate con loro per risolvere la questione: a quel punto i peggiori nemici potrebbero diventare i migliori amici…




Csr: cambiare le aziende dall'interno. Il potere dei dipendenti

Cosa spinge un’azienda a comportarsi in modo più etico? Secondo l’organizzazione americana Not for Sale, che si batte contro la riduzione in schiavitù delle persone, la spinta verso un vero cambiamento non viene tanto dall’esterno, dall’opinione di clienti e potenziali e acquirenti, quanto dall’interno, dai dipendenti. Vediamo perché.
Ogni giorno in India dei bambini nati nei quartieri più poveri delle grandi città lavorano in condizioni di schiavitù per produrre palloni che poi verranno utilizzati da altri bambini, in altre aree del mondo. Nella maggior parte dei casi, questi piccolissimi operai ricevono meno di un dollaro al giorno e non hanno diritto a nulla.
Un’inchiesta giornalistica ha recentemente riportato alla luce la triste realtà dello sfruttamento della manodopera minorile nel grande paese asiatico, rivelando che nella catena di approvvigionamenti di alcuni noti produttori australiani di palloni sono presenti casi simili. Not for Sale ha dichiarato di aver proposto, in passato, ai brand “incriminati” di lavorare insieme per eliminare il fenomeno, ma ogni tentativo di modifica è stato respinto perché “troppo costoso”.
Di fatto, la prospettiva di una migliore reputazione non è sufficiente, da sola, a spingere un’azienda a spendere qualcosa in più per applicare cambiamenti importanti all’interno del proprio ciclo di produzione e della proprio catena di approvvigionamento. Anche perché perseguire o meno obiettivi sociali, ambientali o umanitari non incide (ancora) in modo determinante sui profitti. Se lo stimolo al cambiamento che può provenire dall’esterno, dall’opinione di clienti e potenziali acquirenti, non basta, cosa può “obbligare” un’azienda a comportarsi in modo etico?
La risposta, secondo Not for Sale, è di una semplicità disarmante: lo stimolo più forte al cambiamento è rappresentato dai dipendenti. E questo per almeno due ordini di ragioni. In primo luogo, perché essere un’azienda responsabile permette di reclutare i talenti migliori presenti sul mercato. I giovani più promettenti che oggi escono dalle università (appartenenti alla generazione dei cosiddetti millennial, che saranno la metà di quanti cercheranno lavoro nel 2020) sono molto più sensibili alle tematiche sociali e ambientali di quelli delle generazioni precedenti e, potendo scegliere tra un’azienda con un’ottima reputazione ed un’azienda dalla condotta poco chiara o – peggio – con una condotta deprecabile, tendono a preferire la prima.
A conferma di ciò, il report What workers want in 2012, realizzato per Net Impact, mostra che oltre la metà dei lavoratori aspira ad un’occupazione che le permetta di avere un impatto positivo sul mondo circostante e accetterebbe anche un salario inferiore se le venisse offerta una posizione con tali caratteristiche.
In secondo luogo, i dipendenti che vengono coinvolti nelle cause sociali e ambientali sostenute dall’azienda rendono di più e sbagliano meno: lo conferma lo studio The impact of employee engagement on performance, realizzato dalla società di consulenza australiana Insync Surveys, che mostra come un team “impegnato” è più motivato, più soddisfatto del proprio lavoro e più leale nei confronti di azienda e datore di lavoro.
Insomma, se la reputazione esterna non è (ancora) uno stimolo particolarmente sentito, l’efficienza, la qualità e la coesione interna che nascono dal perseguire tutti insieme un obiettivo etico sono indispensabili al successo di un’azienda e avranno un peso via via maggiore sulla sua competitività e sule sue performance.




Sostenibilità: 8 grandi sfide di Csr per le Pmi

Quali sono le sfide specifiche per le PMI in tema di sostenbilità? A fare il punto della situazione è un report del Network for Business Sustainability, un’organizzazione no-profit canadese impegnata nella creazione di una rete di esperti accademici internazionali e dirigenti d’azienda impegnati nella Csr.

Quest’anno, il suo Consiglio per le PMI si è focalizzato, con il suo report “SME Sustainability Challenges 2013”, sull’importanza delle interazioni con la società, che coinvolgono i rapporti di un’azienda con gli attori della sua catena del valore, i politici, i ricercatori, le ONG e i clienti. Per le PMI, il successo nella sostenibilità dipende dal grado di collaborazione e dalla qualità di queste interazioni.
Per questo la relazione illustra le otto principali sfide di sostenibilità delle PMI nel 2013. Queste sfide riflettono due preoccupazioni principali: migliorare le performance organizzative e migliorare l’integrazione nella società. Per questo devono trovare un equilibrio tra i pilastri dello sviluppo sostenibile, l’innovazione, e la business continuity. Inoltre, il loro obiettivo deve essere quello di costruire ponti tra le PMI e i Governi per coordinare gli sforzi di sostenibilità, migliorare la comunicazione e coinvolgere il pubblico, cioè i loro clienti.
Le sfide individuate nel report sono state definite da un consiglio composto da amministratori di piccole e medie imprese, nonché da rappresentanti di organizzazioni pubbliche e governative. Ogni partecipante rappresenta un settore diverso ed è riconosciuto per il suo impegno nella sostenibilità. Le seguenti otto domande, in ordine di importanza, definiscono le grandi sfide di sostenibilità per le PMI nel 2013:
1) Come possono gli investimenti delle PMI in materia di sostenibilità portare concreti risultati finanziari?
2) Come promuovere la creazione di regole di sostenibilità coerenti ed efficaci?
3) Come innovare per mantenere la competitività e contribuire alla sostenibilità?
4) Come sensibilizzare l’opinione pubblica sui tre pilastri della sostenibilità?
5) Come incorporare le azioni di sostenibilità nella loro cultura organizzativa?
6) Come preparare la successione d’impresa e garantire continuità?
7) Come possono le PMI manifatturiere coinvolgere i rivenditori nella promozione dei loro prodotti sostenibili?
8) Come aumentare la competitività contro i chi pratica greenwashing?
Per leggere il report clicca qui




Oltre la CSR: l’impresa come laboratorio di social innovation

Tra le imprese che hanno già sviluppato azioni e processi maturi nel proprio percorso di responsabilità sociale si affaccia una nuova sfida, una sfida in grado di ridefinire il modello di creazione di valore mediante un’applicazione efficace e sostenibile di una nuova idea di prodotto, servizio, modello: trasformarsi in promotori, attori e protagonisti di pratiche di Social Innovation. La domanda è semplice: come può un’impresa dare risposta a bisogni sociali emergenti in modo innovativo, creando al contempo valore (non necessariamente economico) anche per se stessa? Come può un’impresa collocarsi come attore di sviluppo del contesto sociale in cui opera utilizzando il proprio business come leva per la creazione di nuove relazioni, collaborazioni e partnership e per proporre una risposta efficace (e redditiva) a istanze della collettività? Ovvero, l’impresa può, attraverso la propria value proposition, essere promotrice di un’offerta innovativa che soddisfi una domanda proveniente dalla collettività?
Due premesse, due dati di fatto liberi da ogni interpretazione morale (e moralistica). La prima: lo stato sociale è in fase di contrazione, e anche il terzo settore, che in Italia è stato per anni efficace supplente di alcune carenze del welfare, non vive la sua epoca migliore. La seconda: la crisi (chiamiamola così, per brevità) sta sollevando nuovi bisogni sociali e rafforzando, consolidandoli, i vecchi.
Questo periodo storico ha le credenziali per collocarsi come fertile laboratorio di innovazione sociale. E le imprese responsabili non possono permettersi di non sedersi a questo tavolo, non possono permettersi che il know how di cui sono portatrici sia tagliato fuori. Anche perché proprio da questo tema passano le future sfide di un vantaggio competitivo (o meglio, di un vantaggio collaborativo) per le imprese stesse. Forse è giunto il momento di avviare, per le imprese, un tentativo di riduzione delle dicotomie che da sempre le caratterizzano (capitale e lavoro, ambiente e salute, economia ed ecologia) per abbattere un capitalismo che cade a pezzi e ricostruire un nuovo modello economico, sostenibile, ad un tempo economico e sociale.
E proprio in questa ultima affermazione passa operativamente il tentativo per le imprese di inserirsi in tale processo di innovazione: attraverso azioni ad un tempo economiche e sociali.
Passare da un’ottica di giving tipica di un certo modo di concepire la CSR, ad un’ottica di co progettazione, di condivisione delle azioni e dei fini tra mondo profit e rappresentanti dei bisogni sociali, in grado di conciliare le esigenze di attori estremamente diversi tra loro in quanto a profilo culturale, metodologico e valoriale. La complementarietà delle risorse dei partner offre l’opportunità di generare soluzioni win win, in cui entrambe le parti perseguono i propri obiettivi sfruttando i vantaggi della collaborazione e ragionando in termini di innovazione.
Come può un’impresa trasformare operativamente la propria strategia di CSR in una strategia di innovazione sociale? Gli approcci possono essere due: il primo è legato alla domanda.
L’impresa può farsi veicolo e amplificatore di idee imprenditoriali sostenibili coerenti con la propria catena del valore, per rafforzarla e arricchirla. Una nuova strategia di valore di un’impresa deve essere aperta all’ascolto e in grado di intercettare i promotori di un’innovazione sociale coerente con il business. La completa e reale integrazione di processi e modelli sostenibili nell’attività dell’impresa ha un approccio sartoriale, naturalmente personalizzato alle peculiarità della missione. Si tratta di un rovesciamento dell’approccio di CSR che richiede un ripensamento del modo di lavorare delle direzioni aziendali, d’ora in avanti aperte a un’osmosi collaborativa con l’ambiente esterno. “This framework has the potential to reverse the typical role of CSR, currently viewed as a way to “give back” to communities that a business operates in. What happens when you reverse that model and place these investments at the front-end of your corporate innovation strategy? Can you drive both new opportunities and new behavior within your organization while achieving social impact?”, ha scritto recentemente Robert Fabricant sull’Harvard Business Review.
Alcuni esempi: Pepsi ha innovato il proprio modello di corporate giving, invitando innovatori a sottoporre idee in 6 categorie e finanziando fino a 32 idee al mese, anche rinunciando agli spazi pubblicitari acquistati in occasione del Super Bowl, Marks and Spencer ha strutturato un fondo di investimento (del valore di 50 milioni di sterline in 5 anni, destinati a 200 fornitori e 10.000 agricoltori) per promuovere innovazione sostenibile lungo tutta la catena di fornitura.
Il secondo approccio è legato all’offerta. Come e cosa può essere messo a disposizione dall’impresa, a costi marginali ridotti, per soddisfare un bisogno sociale in modo più efficace rispetto alle alternative esistenti? Il presupposto è semplice: l’azienda prospera se il territorio in cui opera prospera (e viceversa). L’intuizione dello Shared Value può essere d’aiuto: mappando la catena del valore di un’impresa (asset, processi, attività già in essere presso l’impresa) è possibile identificare le aree ad alta potenzialità di generazione di valore condiviso, utile all’azienda e al contesto in cui opera. Si tratta di lasciarsi guidare dall’efficienza (utilizzando quindi tutti gli asset al massimo delle possibilità), di aprirsi ad una nuova cultura d’impresa, trasparente e collaborativa, in grado di trasformare l’impresa in interlocutore credibile in tema di innovazione sociale. Identificare e mettere a disposizione le proprie leve di valore (come il know how, l’infrastruttura, i sistemi di gestione) a partner in grado di soddisfare bisogni sociali, uscendo dalla logica bidirezionale della CSR (impresa vs. stakeholder) ed entrando in una logica multidirezionale (impresa, partner, stakeholder, società), reticolare. Il processo di ricerca e sviluppo di un’impresa è un utile esempio, per quanto semplificato: abbracciare nell’azienda una strategia di innovazione sociale, significa trasformare le attività R&D da attività tipicamente interne a processi aperti e informali, che attivano intelligenza collettiva ed economie collaborative. Nike ha trasformato la propria Direzione CSR in “Nike Sustainable Business and Innovation”, predisponendo un Innovation Lab che investe in tecnologie sostenibili di rottura, con un approccio open, per i settori in cui Nike stessa opera. Un’ulteriore esempio ad alto potenziale è offerta dall’interazione strutturata e innovativa con i fornitori che compongono la supply chain, per rafforzare ad un tempo le attività di impresa, permettendo una crescita organica dei fornitori stessi, che a loro volta, incrementando la propria competitività e rilevanza sociale, possono farsi portatori di soluzioni innovative nei contesti di riferimento.
Si tratta di un cambiamento culturale forte, che poggia sulle spalle della responsabilità sociale, per uscire da una logica di protezione degli asset (operativi, reputazionali, etc.) ed entrare in un nuovo modello di vera creazione di valore. Si tratta di un cambiamento forse ineluttabile per le imprese che aspirano a mantenere una leadership nelle pratiche di sostenibilità come strumento di competitività: un nuovo punto di vista, un nuovo modo di osservare i bisogni, sociali ed economici, e di interpretare il ruolo dell’impresa, rileggendo la propria identità (ottimizzando tutti gli strumenti già a disposizione), per offrire risposte condivise e sostenibili.