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CSRTOOL

Intervista a Laura Corazza, dottoranda in Business e Management, presso il Dipartimento di Management dell’Università di Torino e creatrice (insieme al Prof. Maurizio Cisi) del sito CSR4UTOOL.

Cos’è CSR4UTOOL?
CSR4UTOOL (www.csr4utool.org) è un’applicazione web pensata per le aziende che sono interessate al tema della responsabilità sociale e della creazione di valore condiviso. Ti permette di ottenere una valutazione della propensione dell’azienda a comportarsi “bene”, ma soprattutto è un percorso di crescita verso una gestione più responsabile.
A chi si rivolge?
E’ dedicato a tutte le aziende profit e no profit, ed è stato studiato in particolare per le Piccole e Medie Imprese (italiane ed europee). Lo strumento non è solo per chi sa già che cosa significa una gestione responsabile, ma anche per chi non ne sa nulla, vorrebbe sapere di più ed è interessato.
La grande azienda può diffonderlo presso la propria catena di fornitura diventando una “cassa armonica” per le altre aziende della propria rete.
Non solo, lo possono utilizzare i consulenti e i formatori che possono impostare un profilo per il cliente, e da li ragionare con lui sulle tematiche, passo dopo passo.
Perché un imprenditore dovrebbe usarlo?
E’ utile: ti permettiamo di ottenere un bilancio delle tue abilità valorizzando i punti di forza della tua azienda (perché ti facciamo vedere come stanno andando le altre aziende che compilano il questionario).
E’ reale: si basa sui tuoi dati di bilancio, sulle tue risposte, sul tuo settore, sulla tua situazione.
E’ gratis: non chiediamo nulla, se non una diffusione presso la tua rete di contatti. Più aziende lo compilano, più i risultati saranno “reali”.
E’ scientifico: è frutto di un intenso lavoro di ricerca, finanziato in parte tramite un progetto europeo, è uno strumento applicato di ricerca che segna un legame forte tra Università (Università di Torino, Dipartimento di Management) ed industria. Stiamo lavorando per poter pubblicare a livello scientifico i risultati.
E’ chiaro: si usano termini semplici e le domande sono state formulate studiando un linguaggio comprensibile anche ai neofiti.
E’ anonimo: perché non vogliamo creare paura o timore. L’azienda è fatta di uomini, ed ogni tanto si commettono errori, ma l’importante è imparare da questi errori. E noi ti diamo uno strumento per farlo.
Nessuna debolezza?
L’unico neo è che per essere utilizzato al meglio occorre un minimo di impegno, altrimenti sarebbe un questionario. Spesso i questionari vengono compilati dalle aziende, entrano a far parte di un rapporto di ricerca e vengono dimenticati. Nessuno vantaggio per le aziende, un piccolo tassello di conoscenza del fenomeno.
Qui puoi fermare e riprendere il percorso quando vuoi e ricominci da dove ti sei fermato. E se non vuoi fornire una risposta, nessun problema, puoi saltare quella domanda.
E alla fine?
Le aziende che lo compilano avranno un report di feedback a livello dei più avanzati gestionali perché si basa anche su dati di bilancio (civilistico e, nel caso, sociale e/o integrato). In più, se l’azienda vuole metterci la faccia, abbiamo dedicato una sezione del tool su cui inserire il profilo e il link al sito della tua azienda.
Intanto, si osserveranno i risultati di una sperimentazione scientifica e si sarà compiuto un passo avanti nella cultura della sostenibilità in economia aziendale.
Da quanto tempo è online?
E’ stato presentato ufficialmente nel mese di Luglio e attualmente abbiamo circa 20 aziende che accedono regolarmente al tool ed hanno utilizzato le sue funzionalità. In più, essendo frutto di un progetto europeo abbiamo degli sviluppi positivi anche in Spagna e Bulgaria (stati partner di progetto). In Spagna, vi è stato dell’interesse soprattutto nel campo della consulenza, in Bulgaria si sta studiando come la pubblica amministrazione può utilizzarlo come strumento di valutazione delle aziende negli appalti pubblici.
Su cosa si basa?
Si basa su fondamenti teorici scientifici quali: lo sviluppo morale di un individuo (Kohlberg, 1971), la piramide della responsabilità di un’azienda (Carroll, 1979), teoria degli stakeholder (Freeman, 1984), social accounting and environmental reporting (Gray, 1997), fino alla creazione di valore condiviso (Porter e Kramer, 2011). Inoltre trae ispirazione da standard e norme quali: ISO 26000, AA1000 (stakeholder engagement), Bilancio sociale GBS, GRI, Modello di bilancio (ex) Agenzia per le ONLUS, e molto altro.
Come sarà il futuro di CSR4UTOOL?
Sicuramente molto solido. Lo sviluppo del modello teorico alla base, la sua realizzazione ed ora la sua diffusione è avvenuta gradualmente durante la mia tesi di dottorato (senza borsa). Ora, il progetto andrà avanti sicuramente per altri 18 mesi grazie al Master dei Talenti della Fondazione Goria e della Fondazione CRT e si effettuerà la sperimentazione presso Laurea University of Applied Science ad Espoo in Finlandia.
In più vogliamo: creare schede dedicate maggiormente al valore sociale prodotto dal no profit, tenendo conto delle diverse realtà esistenti; aumentare la base di utilizzatori e quindi l’efficacia dello strumento; creare sinergie con quanti condividono la passione e l’interesse per “fare la differenza”; in più, qualche piccola modifica ed aggiornare le domande agli sviluppi degli standard utilizzati come base di riferimento.
Concludendo?
Abbiamo bisogno di utilizzatori e abbiamo ben presente che le aziende di oggi, più che mai, non vogliono perdere tempo. Un nostro utente, un artigiano, ci ha detto testualmente: “all’inizio ho avuto mal di testa, ma poi mi son detto, si vede che queste domande non sono stupide; il mattino dopo in azienda mi sono reso conto che certi nostri modi di fare andrebbero cambiati. Costerà, ma almeno andrò nella giusta direzione”. Se saremo in grado di creare qualcosa di nuovo che può effettivamente migliorare la consapevolezza delle aziende, perché non farlo?




Drogati di Internet? Ecco come disintossicarsi

Iconsumatori compulsivi di media digitali sono come gli affamati che finiscono ad abbuffarsi in un fast food? Come Slow Food è nato per promuovere un’alimentazione sana e sostenibile, così Slow Communication nasce per promuovere una dieta mediatica equilibrata per tutti.
Avete presente la storia di Tony Schwartz, consulente di fama internazionale, che un giorno, non tanto tempo fa, ha sentito la necessità di una disconnessione digitale totale? Ne è uscito, dopo qualche crisi di astinenza, convinto di quanto sia essenziale imporsi delle pause quotidiane dalla Rete. Ecco, il Movimento Slow Communication nasce nella primavera del 2012 proprio con l’obiettivo di “riportare a terra” la nostra abbuffata virtuale, promuovendo una sana cultura digitale attraverso eventi pubblici, borse di studio in collaborazione con le Università e iniziative di solidarietà internazionale.
Ne parliamo con il fondatore, Andrea Ferrazzi, giornalista e consulente di comunicazione, che mercoledì 29 maggio presenta l’iniziativa a Roma  nell’ambito degli “Stati Generali per la Comunicazione Politica” presso l’Università Luiss.
Per i nativi digitali, la Rete è come il pane. C’è davvero bisogno di fare attenzione?
Assolutamente sì. Pensiamoci: sino a non molti decenni fa il pane era un problema, nel senso che la sua presenza sulle tavole non era scontata e, quindi, non finiva nella spazzatura. Io ricordo i miei nonni: si infuriavano quando vedevano il pane buttato via, loro che avevano conosciuto la fame durante la guerra. Chi è nato nel benessere non dà importanza a questi aspetti: cosa vuoi che sia un pezzo di pane che non vale niente? E’, per così dire, una questione culturale. Analogamente i nativi digitali – soprattutto loro, ma non solo loro – danno per scontata la presenza delle nuove tecnologie nella loro vita, quindi l’accettano acriticamente, senza interrogarsi su un loro corretto utilizzo. Non si accorgono di assomigliare spesso a degli zombie messaggianti, per dirla con le parole di Jonathan Franzen. Pensano di avere centinaia di amici e non si accorgono che, in questo modo, anche l’amicizia è diventata un prodotto e non è più un valore. Stanno insieme, ma sono spesso soli. Racconto un aneddoto. Ogni mattina, alle sei e trenta, mentre vado a prendere il treno in auto, incontro una ragazzina e ogni giorno la vedo china sul suo cellulare, che piova o ci sia il sole, che sia estate o inverno. E mi chiedo: si renderà conto del mondo che c’è lì fuori dallo schermo del suo telefono?
Quali sono i sintomi di un’indigestione mediatica?
Se i social media e le mail sono l’ultimo pensiero della sera e il primo del mattino, è già un sintomo emblematico. Ma il punto vero è quello che dicevo prima: dare per scontata la presenza delle nuove tecnologie nella nostra vita, quando si pensa che sia normale essere sempre connessi, quando non si dà più alcuna rilevanza alla qualità delle informazioni assunte. Chi frequentava i fast food pensava solo a riempire un buco nello stomaco e, così, ogni piatto andava bene. Poco importa se era un concentrato insapore di calorie. Lo stesso vale per i consumatori compulsivi di media digitali. Per contrastare l’ignoranza alimentare è nato Slow Food, ecco Slow Communication si propone proprio di promuovere una nuova cultura digitale.
Qual è il pericolo maggiore?
Accettare supinamente che la tecnologia condizioni la nostra vita, dimenticando che è a nostro servizio. Dobbiamo maturare la consapevolezza che abbiamo bisogno di momenti di disconnessione, anche per rimanere soli con noi stessi, per riflettere senza distrazioni e interruzioni, anche per annoiarci. A volte mi chiedo se i bambini di oggi sapranno ancora riconoscere l’odore dell’erba appena tagliata che a me evoca i ricordi dei giochi all’aria aperta. Nostalgia? Forse sì, ma mi chiedo che infanzia sia quella trascorsa negli spazi virtuali…
E quali sono, allora, gli ingredienti di una dieta equilibrata?

  1. Controlli periodici. Valutare periodicamente il proprio grado di cyber-dipendenza rinunciando a collegarsi: se dopo poche ore le vostre buone intenzioni crollano, iniziate a preoccuparvi e a pensare a una cura adeguata, magari una vacanza slow.
  2. Ridurre le ore. Limitare l’utilizzo dei social network e di Facebook in particolare per evitare cyber-dipendenza. Se avvertite la necessità di assumere una massiccia dose quotidiana di social network l’unica terapia è cancellare il proprio profilo.
  3. Alzare lo sguardo. Non trasformarsi in «zombie messaggianti» (la definizione è dello scrittore Jonathan Franzen) che non staccano mai il proprio sguardo, e quindi il proprio cervello, dallo schermo di un cellulare o di un tablet.
  4. Prendere tempo. Smettere di controllare cellulari e tablet come ultima azione della sera e come prima del mattino: se c’è una nuova mail è molto probabile che possa essere letta anche dopo mezz’ora senza compromettere la vostra esistenza.
  5. Parlarsi a voce. Non affrontare, per quanto possibile, argomenti complessi o delicati nelle e-mail o con gli sms: dato che i fraintendimenti sono molto comuni, è preferibile un colloquio telefonico o meglio ancora a quattr’occhi.
  6. Tornare al libro. Alimentare l’abitudine a leggere articoli lunghi e possibilmente d’autore e i cari vecchi libri: per i nativi digitali c’è una preoccupante incapacità a comprendere, analizzare e rielaborare testi scritti.
  7. Meditare. Coltivare i propri momenti di solitudine che, come insegna Zygmunt Bauman, è quel sublime stato in cui è possibile raccogliere le proprie idee, meditare, riflettere, creare e dare senso alla comunicazione.

 




Social network contro le malattie sociali?

Intervista a Enrico Coiera, Director Centre for Health Informatics, Australian Institute of Health Innovation, University of New South Wales, Sydney (Australia), autore di un recente editoriale sul tema, pubblicato dal British Medica Journal
In quali principali aree della sanità i social media hanno già dimostrato di essere utili?
Gli ambiti in cui il social web trova già applicazione con buoni risultati sono diversi: dalla misurazione della qualità e della sicurezza dell’assistenza sanitaria alle emergenze; dalla salute pubblica e promozione della salute al disease management.
E la ricerca clinica?
I social media stanno già iniziando a trasformare il modo con cui conduciamo la ricerca e ne trasferiamo i risultati alla pratica assistenziale. Possono aiutare a identificare le persone candidate ad essere arruolate nelle sperimentazioni cliniche così come – ed è un aspetto ancora più interessante – possono darci la possibilità di coinvolgere i cittadini come veri collaboratori del lavoro di ricerca. I grandi siti come Facebook e Twitter contribuiscono alla sorveglianza delle malattie, al punto che Twitter è ormai un canale prezioso per diffondere informazioni nel corso di pandemie e uno strumento di analisi in tempo reale della distribuzione e diffusione delle patologie.
Ritiene che i modelli secondo i quali il social web è usato dai clinici, dagli epidemiologi o dalle infermiere siano studiati in modo adeguato dalla comunità scientifica?
Non mi sembra; come spiego nella mia Analysis pubblicata recentemente sul BMJ, i modi con cui i professionisti sanitari usano il social web restano approfonditi in maniera superficiale. Attualmente, il focus in sanità è sull’uso dei social media come supporto della pratica clinica e per coinvolgere le persone malate. In realtà, un’opportunità molto più importante è quella che ci verrebbe dall’uso del social web per affrontare le malattie più costose, dannose e complesse dei nostri tempi.
Perché lei ritiene che possano avere, però, un ruolo ancora più importante?
Nell’articolo sul BMJ ho tracciato un quadro della crescita delle riflessioni sui social network e ho descritto numerosi degli utilizzi che oggi vengono fatti del social web. Nell’articolo, cerco di descrivere come il nostro modo di conoscere questi strumenti potrebbe essere governato per trattare quelle che ho definito le “socially shapen diseases”, così da permettere di gestire in maniera migliore problemi sanitari quali l’obesità, la depressione, il diabete e le malattie cardiovascolari. Per queste malattie, che prendono forma socialmente, i social media potrebbero essere sfruttati per intervenire direttamente in una fase precoce del divenire della patologia, accelerando quella che qualcuno chiama la network medicine. Gli interventi in rete sono l’uso mirato dei social network per influenzare positivamente i comportamenti.
Secondo lei, la popolarità crescente del social web può essere messa in relazione con iniziative come la campagna AllTrials per la trasparenza dei dati della ricerca lanciata da Ben Goldacre o la petizione Open Data promossa dal BMJ?
Man mano che cresce la pressione per rendere pubblici i dati degli studi clinici, il modello sociale collaborativo su web è destinato a cambiare il modo attraverso il quale i ricercatori collaborano tra loro e con i cittadini. Oggi, chi fa ricerca raccoglie i dati, li analizza e pubblica i risultati ma i dati restano dietro le quinte accademiche o industriali. Nel modello sociale collaborativo, i dati della ricerca sono archiviati in banche dati aperte, probabilmente finanziate da denaro pubblico, alle quali anche altri possono accedere e analizzare nuovamente i dati o riesaminarli per dare risposta a domande diverse. La comunità può formulare quesiti di ricerca, suggerire analisi e interpretare i risultati.




Passo indietro di Ferrero: il World Nutella Day creato dai fan si farà

Dopo il frettoloso blocco, l’evento che da anni celebrava da anni il suo prodotto di maggior successo è stato autorizzato dall’azienda torinese (ma senza scuse alla promotrice Sara Russo)Si chiude il caso Ferrero contro Sara Rosso, che aveva cercato di organizzare un World Nutella Day. Dopo il social fail nei confronti di una fan della Nutella, ecco il comunicato dell’azienda italiana:
“Un positivo contatto diretto tra Ferrero e Sara Rosso, owner di una fan page non ufficiale di Nutella chiamata World Nutella Day, ha chiuso il caso. Ferrero desidera esprimere a Sara Rosso la sincera gratitudine per la sua passione per Nutella, gratitudine che estende a tutti i fan del World Nutella Day. Il caso è nato da una procedura di routine a difesa dei marchi, attivata in seguito ad alcuni usi impropri del marchio Nutella all’interno della fan page. Ferrero è lieta di annunciare che oggi, dopo aver contattato Sara Rosso ed aver trovato insieme le appropriate soluzioni, ha immediatamente interrotto ogni precedente azione. Ferrero si considera fortunata ad avere fan di Nutella così devoti e leali come Sara Rosso”.
Quella dello scorso 7 febbraio è stata la settima edizione del World Nutella Day, l’evento che celebra la famosa, imitata, ineguagliata crema alla nocciola, un marchio che tanto piace ai fan da essere tra i brand più di successo su Facebook, e raccogliendo – in Italia – quasi 3 milioni di Like, più di ogni altra pagina di prodotto. Tanto successo che dal 2007 la Nutella è celebrata anche in un appuntamento in grado di richiamare 40mila fan su Facebook e 7mila follower su Twitter. Un’iniziativa tanto di successo da aver attirato l’attenzione dell’azienda di Pino Torinese, che ha deciso di farla chiudere.
Lo scrive Sara Rosso, l’organizzatrice, sulla homepage del sito ufficiale dell’evento: “Il 25 maggio chiuderò il sito e tutti gli account sui social media (Facebook, Twitter), in conformità alla lettera che intima di chiudere e desistere ricevuta dai legali rappresentanti di Ferrero, SpA (che produce Nutella)”. Con il sito verranno oscurate anche le oltre 700 ricette che sono state inviate da blogger e appassionati, raccolte e pubblicate negli anni.
La lettera arriva a sorpresa, racconta Sara, soprattutto dopo anni di collaborazione con diversi dipendenti del gruppo Ferrero e di contatti con l’ufficio di pubbliche relazioni e i consulenti di brand strategy, volti a creare uno spirito di collaborazione nel celebrare il prodotto.  “Ho la speranza che questo non sia un addio alla Giornata Mondiale della Nutella: per il bene dei fan, spero di poter rivivere l’esperienza in futuro, anche in un’altra forma”.
Già quasi 200 commenti, sotto il post che annuncia la chiusura, praticamente un solo coro di disappunto dei fan: si va dall’incredulità per un’occasione di pubblicità gratuita gettata al vento – “Smettere? Dovrebbero pagarti” come anche “Conosco gente che ha conosciuto la Nutella solo grazie al World Nutella Day” – alla minaccia di cessare e desistere dai prodotti Ferrero. La migliore è un gioco di parole che in italiano rende poco, quindi eccola in originale: “Nutella… more nuts in company management than in every jar”. Si può tradurre così: “Più matti (nuts) nella gestione dell’azienda che noccioline (nuts) in ogni barattolo” (l’avevo detto che faceva più ridere in inglese).
In un’epoca di crescente importanza dei social network in cui le aziende cercano il dialogo e l’interazione con i fan, l’episodio fa riflettere sull’effettivo valore dell’ascolto della Rete. Che ne pensi?




McKinsey: «La Csr ha fallito»

È TEMPO DI RAGIONARE SULL’INTEGRATED ENGAGEMENT
Finita l’epoca della Csr. È tempo di passare all’external engagement integrato. A formulare tale impietoso giudizio sono gli esperti di McKinsey, in un report secondo cui l’approccio tradizionale alla Csr avrebbe fallito la sua mission.
La società di consulenza ritiene che occorra guardare a un “Integrated external engagement” (Iee) in grado di portare l’engagement direttamente all’interno del processo decisionale a ogni livello dell’impresa.
Si parte da una definizione di external engagement come l’insieme degli sforzi compiuti da un’azienda per gestire la sua relazione con il mondo esterno. Questa relazione può includere diverse attività: la filantropia, l’azione di lobby politica, la partecipazione a programmi della comunità locale, ma anche la politica di selezione del personale. «Attualmente – si legge nel report – la maggior parte delle imprese hanno declinato l’external engagement in tre modi: creando uno staff centrale dedicato alla Csr, lanciando iniziative di altro profilo ma relativamente poco dispendiose, e pubblicando la revisione annuale dei progressi».
L’approccio tradizionale ha avuto alcuni effetti positivi. Le imprese sono più propense a valutare attentamente l’ambiente esterno rispetto al passato, e il loro programmi di filantropia hanno fornito aiuto a molte persone. Ma, nel concreto, nella maggior parte dei casi la Csr così intesa è venuta meno al suo scopo principale che consiste nel costruire relazioni più forti con il mondo esterno. Gli stessi manager interpellati da McKinsey hanno riconosciuto che il loro approccio è stato di fatto inadeguato. In un’indagine recente condotta a livello mondiale dal colosso della consulenza su più di 3.500 manager, meno del 20% degli interpellati ha dichiarato di aver ottenuto successo nel cercare di influenzare la politica del Governo oppure l’esito di decisioni legislative.
Dove, dunque, stanno sbagliando le imprese e che cosa non funziona nell’approccio tradizionale alla Csr?
Occorre partire da una constatazione. I cittadini e i governi tendono ad avere aspettative più elevate nei confronti delle aziende rispetto al passato: non basta più ottemperare alle legge e adeguarsi agli standard previsti, ma occorre assicurarsi, per esempio, che tali parametri vengano rispettati anche lungo la supply chain. Ci si aspetta inoltre che le imprese più grandi siano in grado di spingersi ancora oltre contribuendo alla soluzioni di questioni economiche, sociali e ambientali per quanto non strettamente correlate al loro business. Nel contempo, le aspettative dei cittadini sono cresciute di pari passo con la loro capacità di mettere sotto esame le aziende. La comunicazioni sui media digitali permettono agli individui singoli e alle associazioni (tra cui anche le organizzazioni non governative) di tenere sotto osservazione l’operato delle imprese ed eventualmente sollevare contro tali azioni campagne in tempi rapidissimi, anche a livello mondiale, e a costo molto contenuto se non quasi zero. Per questo le aziende devono essere attrezzate per far fronte sia al crescere delle aspettative sia alla capacità di osservazione e di critica pubblica.
La gestione delle Csr “classica” non avrebbe portato alcun beneficio su questo fronte. Secondo gli esperti di Mckinsey l’approccio centralizzato al tema presenta infatti quattro difetti principali.
1) In primo luogo, le iniziative promosse dall’alto raramente ottengono il pieno supporto del business e tendono a sfociare in discussioni su chi paga e chi ottiene il beneficio. Senza una partecipazione attiva delle funzioni a più elevato assorbimento di capitale – tipicamente la produzione e il marketing – le ambizioni del team centrale deputato alla Csr sono difficili da realizzare.
2) Gli uffici preposti alla Csr, inoltre, possono facilmente perdere il contatto con la realtà dal momento che hanno visione spesso ristretta e distante degli stakeholder dell’azienda. I manager attivi direttamente sul campo invece hanno una migliore comprensione del contesto locale sia in termini di stakeholder sia in termini di bisogni della popolazione.
3) Spesso, poi, la Csr è stata utilizzata come un mezzo per proteggere la propria reputazione. L’external engagement invece dovrebbe rappresentare molto di più e tradursi nella capacità di attirare nuovi consumatori, di motivare i lavoratori e promuovere proposte nei confronti dei governi.
4) Ultimo punto debole dell’approccio tradizionale alla Csr è la durata media dei programmi, solitamente troppo brevi. Questo avviene perché solitamente la loro messa in atto è radicalmente separata dall’attività commerciale dell’azienda. La loro sopravvivenza deriva unicamente dalla discrezionalità e dalle inclinazioni del momento del management piuttosto che dal loro valore in quanto tale. Pertanto la loro sopravvivenza è estremamente vulnerabile al cambio del management e ad eventuali tagli di costi.
ASSUNTI CONDIVISIMcKinsey ricorda che già Michael E. Porter and Mark R. Kramer, tra i precursori negli studi sulla creazione di “valore condiviso”, hanno individuato le cause di un possibile fallimento in «un miscuglio di Csr poco coordinata e di attività filantropiche disconnesse dalla strategia dell’azienda tale da non generare alcun impatto sociale significativo o rafforzare la competitività dell’azienda nel lungo periodo».
Come risposta a tale questione, alcuni studiosi hanno proposto una nuova cornice per comprendere come il business possa gestire la relazione con il mondo esterno. Quasi tutte le impostazioni concettuali, incluse quella di Porter e Kramer sul “valore condiviso” e quella di Ian Davis sul “contratto sociale” partono dallo stesso assunto: le imprese devono profondamente integrare l’external engament nella loro strategia e nelle loro procedure.
«Perché, appunto, il successo di un’azienda – si legge nel report di McKinsey – dipende strettamente dalla relazione con il mondo esterno (che comprende non solo i clienti attuali e potenziali, lo staff interno, ma anche il legislatore e gli attivisti). Le decisioni prese a tutti i livelli dell’azienda, dal centro (a livello di cda) alla periferia (a livello di singolo punto vendita) vanno a impattare su tutte queste relazioni. Per essere veramente efficace il processo decisionale deve quindi tenere in debito conto di questi effetti. L’external engagement non può essere separato dall’attività quotidiane di business, ma deve esserne parte integrante«».
Secondo gli analisti di McKinsey molti manager sono già pronti a condividere questo obiettivo, ma non sanno come conseguirlo in pratica.
Suggeriscono quindi di adottare principi cruciali.
a) Definire l’azienda attraverso il contributo che essa è in grado di dare alla società: questo non significa dover cambiare lo scopo dell’azienda bensì rendere più esplicito il come la realizzazione di tale scopo può a sua volta fornire benefici alla società.
b) Conoscere i propri stakeholder: l’azione, per quanto ovvia possa sembrare, richiede qualcosa di più rispetto a quanto comunemente fatto oggi. Significa conoscere i propri stakeholder nello stesso modo in cui si tende a conoscere i propri clienti.
c) Le aziende che hanno successo nell’integrare l’external engagement nel loro business lo vedono come un fattore per incrementare la profittabilità e per questo si impegnano nel creare capacità, definire i processi e misurare dei risultati. Anche sul fronte dell’external engagement, infatti, i risultati, alla pari di quelli di business, devono essere misurati e misurabili: occorre pertanto fissare obiettivi, valutare i progressi e collegare gli incentivi con i risultati ottenuti.