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POLITICAL PEOPLE: il primo social network con identità certificate

“quando  troveremo il coraggio della responsabilità e ognuno farà di sè una piazza, sarà l’ora di farsi sentire senza urlare, di trasformare le idee in un’ideale.”
E’ questa una delle frasi presenti nel video che potrete vedere appena digiterete sulla vostra tastiera questa nuova combinazione di parole:POLITICAL PEOPLE.
Una piattaforma di social networking pensata per creare un luogo d’incontro , quasi un caffè politico.Un progetto che si estende in orizzontale e verticale, a livello nazionale, regionale, provinciale e comunale.  Rappresenta un nuovo format per la partecipazione cosciente e responsabile alla vita pubblica.
Appena aperto il suddetto sito, si può procedere al login ed esplorare questa fucina di informazioni e idee.
Avventuriamoci nella scoperta di questo social network attraverso delle domande poste ai suoi ideatori e fondatori.
Cos’è, precisamente, PoliticalPeople?

PoliticalPeople non è solo una piattaforma è una visione del mondo. Una visione non verticistica. Una piattaforma, concepita come social network, che ha come obiettivo quello di accorciare le distanze tra eletti ed elettori. Una azione di controllo sociale sull’operato di chi amministra la cosa pubblica, un sistema di co-working del cittadino che non supera ma valorizza il concetto di rappresentanza che sta alla base delle moderne democrazie mondiali. L’idea e la sua realizzazione sono il frutto di un confronto continuo tra due mondi: i nativi digitali, giovani abituati a pensare la rete come piano parallelo rispetto alla propria vita reale, e il mondo delle amministrazioni, della politica, di coloro che avvertono internet e la rete come una “spinosa” e rischiosa opportunità di confronto.
Perché le persone dovrebbero iscriversi al vs sito?

Perché non siamo un social network generalista. Non vogliamo esserlo. Siamo una fucina di idee, di opinioni, di segnalazioni che puntano a migliorare la gestione della cosa pubblica. I recenti eventi nel panorama italiano, ma anche esempi in giro per il mondo, hanno chiaramente evidenziato la potenza dei social network, la loro capacità di influire sul corso degli eventi. Lo sforzo che tentiamo di fare, l’idea che alimento PoliticalPeople è quella di passare dalla denuncia alla proposta, alla costruzione dei temi, all’attività di lobbing (in senso costruttivo) perché i temi che interessano ai cittadini possano arrivare sui tavoli che contano. Chi governa non sempre recepisce questi messaggi, riteniamo che uno strumento che sia insieme di controllo sull’operato, di proposta, di studio e di pungolo vada incontro alla richiesta di partecipazione.
Credete possa essere una idea vincente?
Il presupposto principale è la voglia di partecipazione che emerge dai recenti accadimenti, italiani ma non solo. Il sistema si autogoverna, non ci sono ingerenze esterne. Non ci sono filtri né algoritmi che possano pilotare consensi o temi. Una piazza virtuale in cui ciascuno dice la sua. La sfida però è quella di metterci la faccia. In più PoliticalPeople non rischia di essere inopportuno. Chi entra nella piattaforma e si registra decide di “partecipare” alla costruzione di un paese migliore. Di dire la sua. Non di “ammazzare il tempo o la noia” condividendo contenuti o immagini in maniera passiva e, spesso, talmente automatica da perderne completamente l’origine.
Cos’ha di più e di diverso rispetto a facebook e twitter, che rappresentano in assoluto i social network più utilizzati?
PoliticalPeople è un social network di settore. Partecipazione civile, passione politica, impegno sociale sono gli ingredienti di una scelta che l’utente decide di compiere iscrivendosi alla piattaforma in maniera gratuita. Unisce all’immediatezza dei tradizionali social network una serie di strumenti (segnalazioni, sondaggi, petizioni e tavoli di lavoro) che concretamente possono tradursi in momenti di confronto e arricchimento per amministratori e governanti. PoliticalPeople aspira ad essere meno dispersivo e, soprattutto, più attendibile sul piano delle informazioni che circolano.
E infine, i ragazzi, dicono..
L’obiettivo di PoliticalPeople è quello di superare l’equivoco dell’anonimato. Se una piattaforma deve essere di e-democracy il cittadino deve essere conscio, così come accade del mondo “analogico”, dei propri diritti e dei propri doveri. L’idea della certificazione, della firma digitale, come opzione per dare forza alle proprie opinioni all’interno della piattaforma mira a catapultare il mondo PoliticalPeople nei procedimenti amministrativi e di governo tarandoli sulle effettive necessità dei cittadini. La firma digitale obbligatoria per i politici mette al sicuro il cittadino con una interlocuzione certa e diretta. La firma facoltativa per i cittadini è una opportunità per rafforzare le opinioni espresse e le segnalazioni fatte.




La Rewoolution di Reda: un ritorno al futuro della lana

Mentre diversi lanifici del biellese, in Piemonte, stavano fallendo, il gruppo Reda ha scelto la via della sostenibilità. Dopo la certificazione Emas, ottenuta per la prima volta nel 2004, nel 2010 l’azienda di Valle Mosso ha aggiunto alla produzione di tessuti per le grandi case di moda una vera e propria linea di abbigliamento sportivo tecnico in lana merino, lanciando il marchio Rewoolution. “Abbiamo sempre pensato alla questione di andare a valle”, racconta l’amministratore delegato di Reda Ercole Botto Poala. “In un momento in cui però il mercato degli abiti formali si sta restringendo, non volevamo entrare in concorrenza con i nostri clienti. Per questo abbiamo pensato ai capi tecnici per sport all’aria aperta, con l’intenzione di offrire prodotti in sintonia con chi li utilizza e con l’ambiente”. Non solo perché t-shirt e pantaloni sono 100% fatti di lana e completamente oil free, ma anche per l’intero processo di produzione: “Il nostro obiettivo è ridurre al minimo l’impatto ambientale”.
Dopo l’idea iniziale, nel lanificio Reda, nato nel 1865 e rilevato e rilanciato nel 1919 dalla famiglia Botto Poala, è iniziato un processo di studio e perfezionamento delle tecniche di filatura, per ottenere un tessuto adatto a tutti gli sport outdoor: sci e snowboard, golf, vela, trekking, climbing. “Abbiamo eliminato i limiti della lana di una volta e l’abbiamo resa più performante dei tessuti sintetici: adesso non punge più e addirittura al tatto non sembra neanche lana, perché è più sottile. Rispetto alle fibre sintetiche, la lana si asciuga prima, non prende cattivi odori, e ha un effetto di termoregolazione. Al contrario di quello che si pensa di solito, infatti, la lana è più utile in estate che in inverno: una t-shirt sintetica trattiene un calore pari a 8 gradi in più. Una t-shirt in merino è traspirante, ha un alto potere di assorbimento e protegge dai raggi UV-A e UV-B”.
La fase a più alto impatto ambientale è sicuramente quella del trasporto: la lana, infatti, è importata da Australia e Nuova Zelanda e poi lavorata nello stabilimento Reda nel biellese. Anche in questo ambito, però, l’azienda è impegnata per alleggerire la propria impronta ecologica: “In Nuova Zelanda abbiamo tre fattorie che allevano 30.000 pecore secondo i canoni di Zque, un programma basato su pratiche sostenibili, rispettose dell’ambiente e del benessere degli animali. Per il trasporto, cerchiamo di utilizzare le compagnie navali che ci garantiscono le minori emissioni possibili”. Un lavoro che in certi casi diventa quasi un percorso a ostacoli: “Tutto questo ha un costo, che il mercato per adesso non ripaga: più andiamo su prodotti di lusso e meno interesse c’è per l’impatto ambientale. Oltre a questo, non è sempre facile trovare fornitori attenti alla sostenibilità”.
Rewoolution è solo l’aspetto più visibile di un percorso verso la sostenibilità che Reda ha iniziato alla fine degli anni Novanta e a cui ha aggiunto nel 2004, unico lanificio al mondo, la certificazione Emas: “Il primo passo è stata nel 1998 la costruzione del nuovo stabilimento: già allora, quando ancora non si parlava di bioedilizia, sono stati presi una serie di accorgimenti che hanno reso la nostra sede adatta a tutte le misure di sostenibilità successive. L’edificio, per esempio, è esposto a Sud, e questo ha facilitato l’installazione dei pannelli solari sul tetto. La posizione delle macchine è stata cambiata per ridurre i costi di trasporto”. Sei anni dopo, è arrivata la prima certificazione, che prevede un controllo annuale ed interventi continui in chiave di sostenibilità, dalla formazione del personale all’installazione dell’impianto fotovoltaico, dalla riduzione dei consumi dell’acqua al recupero del calore, che “ha permesso di risparmiare, dal 2011 ad oggi, 2 tonnellate di CO2 e tagliare i consumi energetici del 2%”. Interventi che hanno richiesto investimenti consistenti, pari a 6 milioni di euro in quattro anni, parte della quota (il 10% del fatturato) destinata ogni anno da Reda a innovazione e tecnologia.
Oggi gli abiti tecnici Rewoolution sono commercializzati, oltre che nell’e-commerce on line, in diversi negozi italiani ed europei (in Francia, Germania, Austria, Belgio, Danimarca), ma anche in Groenlandia, a Taiwan e in Kuwait, dove per difendersi dal caldo ci si veste di lana.




La CSR è morta, viva la CSR. Riflessioni sul caso MPS

C’era una volta una banca considerata da analisti e esperti del settore tra le buone pratiche in termini di responsabilità sociale d’impresa. Una banca che, sul suo sito web, dichiara[va] che “i temi di sviluppo sostenibile maggiormente rilevanti per il business e per gli stakeholder sono integrati nei processi aziendali”. 
Una banca sinonimo di territorialità, in osmosi con il tessuto economico locale, volano di cultura e tradizione ai livelli più alti. Una banca dotata di tutti o quasi gli strumenti tipici in grado di dare concretezza ad una strategia di responsabilità sociale: un bilancio di sostenibilità completo e redatto secondo tutte le linee guida di riferimento, dotato del massimo livello di assurance (A+), un processo di stakeholder engagement realizzato in modo sistematico, l’adesione ai principi e ai consessi internazionali di più alto livello (Global Compact e Equator Principles, per esempio), il dialogo costante e strutturato con le associazioni dei consumatori concretizzato attraverso uno tra i più interessanti ed efficaci progetti a livello nazionale, un sistema di rating ESG (Ambiente, Società, Governance) dei fondi/sicav in offerta presso la rete, una porzione di offerta a forte contenuto di sostenibilità, una policy per la cessazione dell’operatività residuale nel settore degli armamenti, l’inclusione di principi legati al rispetto dei diritti umani nel Codice Etico e nella “Politica sulla sostenibilità nella catena degli approvvigionamenti”, un impegno globale per la lotta al riciclaggio e al terrorismo e soprattutto, una serie infinita di erogazioni liberali, sponsorizzazioni e donazioni per soggetti profit e non profit della città e più in generale del Paese, un’immissione di capitali in grado di far fiorire arte, cultura, sport, eventi, sostegno alle persone svantaggiate.  Insomma, c’era una volta una best practice di CSR nel settore finanziario italiano ed europeo.
C’era una volta. Perché quella best practice è da alcune settimane nell’occhio del ciclone. Le accuse ad alcuni rappresentanti degli ex vertici aziendali sono pesanti. Partono da presunte irregolarità nel processo di acquisizione di un’altra banca, passano per operazioni su titoli tossici, toccano ipotesi di corruzione, falso in bilancio e ostacolo alla vigilanza. A ciò si aggiungono ulteriori ombre da chiarire, a partire dal ruolo giocato dall’interferenza politica nella gestione dell’omonima fondazione, che partecipa al 37,5% all’assetto azionario dell’azienda.
E dunque la domanda è: come è possibile che un’azienda dotata di processi di CSR così sviluppati, a presidio del capitale reputazionale e del valore per gli stakeholder, possa essere travolta da uno scandalo fondamentalmente di carattere “(dis)etico”? E per estensione: la CSR, classicamente intesa (e i professionisti che la governano) ha ancora un senso all’interno delle aziende o rappresenta solo il braccio buono del capitalismo, la spugnetta che lucida i comportamenti opachi?
A queste domande non siamo riusciti, qui ad Avanzi, a rispondere senza innescare una dialettica tutta interna, di cui riportiamo di seguito una sintesi. I punti di vista non sono opposti, ma esprimono sensibilità diverse.
Giovanni Pizzochero – Due riflessioni: una strategia di CSR ha senso solo se è preceduta da un’analisi approfondita di materialità in grado di definire significatività e interesse delle azioni implementate dall’impresa per i portatori di interesse. Una strategia di CSR deve essere ancorata ad un’analisi delle reali esigenze delle stakeholder, affinché l’organizzazione produca valore per essi su tematiche di reale importanza, in grado di generare valore come risposta ad un bisogno rilevabile. Astraendo, ma non troppo, dal caso Montepaschi: il compito di una banca è quello di erogare credito. La “vera” CSR pertanto deve essere connessa al processo core, alle sue declinazioni, alle sue modalità. A che serve una banca che non eroga credito a determinate categorie di popolazione, che non vigila sui propri processi di compliance, che mette a rischio il risparmio dei suoi clienti, ma stampa la propria modulistica su carta riciclata? A che serve una banca che finanzia il settore delle armi o altri settori controversi, ma elargisce donazioni a supporto di ONP impegnate in territori di guerra?
Il secondo spunto: la generazione di valore per l’impresa e per gli stakeholder deve avvenire attraverso un unico atto economico. La CSR ha senso se include un principio di contemporaneità rispetto al business. La CSR ha senso se è integrata al business, se è essa stessa business. Da fare Corporate Social Responsiility, ad essere una Socially Responsible Corporate. L’azione dell’organizzazione deve essere ad un tempo in grado di essere sostenibile per l’impresa e per la società. La teoria dei due tempi (prima faccio profitto “costi quel che costi” e poi lo redistribuisco) è vecchia ed evidentemente controproducente. A meno che non si voglia correre il rischio di ritrovarsi di fronte ad una banca (o ad una qualsiasi azienda) con una legittimità sociale solida acquistata a suon di beneficienza, spazzata via dal colpo di vento dell’inadempienza ai principi più elementari.
Come mostra l’esempio di cui sopra (solo uno dei tanti che possono essere citati), la CSR così come è stata interpretata da molti sino ad oggi mostra molte debolezze. E’ necessario aprire un dibattito, in questa fase storica, sul futuro della disciplina: ridefinire i confini della materia, osare per superare e correggere buona parte delle anomalie relative alle interpretazioni della responsabilità sociale. Creare valore economico in modalità tali da generare contemporaneamente valore per l’azienda ma anche per gli stakeholder e per i territori di riferimento. E non è solo un fatto aziendale: è soprattutto un fatto culturale che risponde ad un unico refrain, sentito mille volte, applicato raramente: integrare l’etica nel business, identificando nuove forme di economia (sociale). E quando si parla di valori etici, si parla di ricambi generazionali in quanto legati a modelli culturali. L’attuale modello di CSR non funziona in sé, o sono i suoi interpreti ad esprimerlo nel modo sbagliato?
Estremizzando, se le aziende sapranno davvero integrare nella propria cultura, nella propria missione, nei propri processi di governo questa nuova sostenibilità in grado di paragonare (o anteporre) il valore sociale al valore economico, a cosa servirà parlare ancora di CSR? A che serviranno le funzioni aziendali di CSR? A che serviranno i consulenti di CSR? A niente, perché saremo di fronte ad un nuovo modello economico, l’unica via per uscire dalla crisi.
Davide Dal Maso – La mia analisi vuole essere realistica, non ideologica. La CSR non è la soluzione ai mali del mondo – e su questo siamo tutti d’accordo. È un approccio che un’organizzazione adotta per governare se stessa. Ma questo non significa che assumerne lo spirito e utilizzarne gli strumenti, di per sé, la renda perfetta. Darsi un codice etico non vuol dire che tutte le regole in esso previste siano immediatamente e completamente rispettate. Il rispetto delle norme dipende [non solo, ma in gran parte] dall’allineamento tra il loro contenuto e il sentire dei destinatari – che in una grande azienda sono tanti e tutti portatori di una diversa cultura e di una specifica visione etica. I codici, quindi, hanno anche un obiettivo aspirazionale: dicono come devono andare le cose, ma anche come dovrebbero andare, pur sapendo che ci potrebbero essere dei fallimenti. La Costituzione della nostra Repubblica è piena di riferimenti a obiettivi irrealizzati, che tuttavia esprimono una tensione verso il miglioramento, che non va considerata né ingenua né inutile.
Tutto questo significa forse che gli scandali e gli abusi vanno accettati come un fatto ineluttabile? Ovviamente no. Però dobbiamo riconoscere la possibilità che occorrano. La possiamo ridurre, ma non eliminare. Ma è proprio per questo che, nonostante tutto, codici, politiche e pratiche di CSR sono importanti: perché richiamano continuamente l’azienda verso i principi che essa stessa ha dichiarato di voler rispettare. In altre parole, uno può anche non mantenere una promessa; ma, se non fa alcuna promessa, non ci si può nemmeno richiamare agli impegni che ha preso.
Non posso sapere, ovviamente, se i vertici di Montepaschi abbiano commesso dei reati; spetterà ad altri stabilirlo. Ma certamente hanno tradito la fiducia delle loro controparti. Dei dipendenti del gruppo, in primo luogo, dei clienti, di tutti quelli che si erano affidati loro. Anzi, arrivo a dire che è l’azienda, intesa come comunità di persone e di interessi, ad essere stata tradita. Montepaschi (e, con essa, tutte le imprese danneggiate dai propri stessi amministratori) è la vittima dell’irresponsabilità di alcuni, che hanno distrutto il senso di responsabilità di molti. Le buone pratiche di CSR di Montepaschi non erano “finte”; i rating ESG tanto positivi non erano regalati; le cose buone fatte, non poche, restano. Su questo lavoro Montepaschi dovrà ricostruirsi. Se dovesse cedere alla tentazione di smantellare i progetti e le pratiche di CSR, sotto la spinta dei tagli ai costi, allora sì dovremmo preoccuparci: dovremmo riconoscere ragione ai detrattori, a tutti quelli che sostengono che la CSR è solo fumo negli occhi, è pura comunicazione, è un abbellimento che, alla prima difficoltà, viene messo da parte. Io sono convinto, invece, che in Montepaschi si sia cercato di realizzare davvero un percorso serio di responsabilità sociale e che i risultati degli investimenti del passato, se non saranno dilapidati da scelte emergenziali, se si continuerà a coltivarli, arriveranno.




LICENZIAMENTI IN AZIENDA: COME GESTIRE UNA SITUAZIONE DI CRISI INTERNA…COMUNICANDO.

Intervista a Luigi Tartarelli, esperto in Out placement (*)

In una situazione di crisi un programma di licenziamenti può generare panico in azienda. Come si può gestire internamente al meglio questo scenario?
Ufficialmente non vi sono molte soluzioni. Normalmente i manager trattano con il dipendente da estromettere una buona uscita straordinaria, magari anche in nero, ma questo può creare problemi con i sindacati o non rivelarsi favorevole all’azienda in caso di successiva causa di lavoro. Oppure i dirigenti avviano una vera e propria campagna di mobbing con pressioni di vario tipo finalizzate a convincere la persona ad andarsene di propria volontà. In quest’ultimo caso, viene messa in discussione la personalità stessa del collaboratore, con il rischio di far emergere malattie sintomatiche dell’ansia e dello stress, che tra l’altro rischiano di riflettersi anche sulla famiglia, a causa delle preoccupazioni, del nervosismo e del senso di precarietà. Di tutto ciò l’azienda potrebbe essere portata a rispondere anche in Tribunale. Tra l’altro il problema si riflette su tutta la forza lavoro, non solo sul dipendente da estromettere.
Il conflitto crea problemi di comunicazione interna e pregiudica il rendimento della produzione in genere?
Certamente sì, è del tutto normale che quando ci si trova a lavorare in un ambiente con un clima conflittuale la mente sia aggredita da input negativi che portano ad un imbarazzo nel confrontarsi con il proprio ambiente di lavoro. Si genera panico, un timore diffuso internamente alla società, la sindrome del “chi sarà il prossimo”, emotività che finiscono per pregiudicare la serenità dei dipendenti, a rendere critici i flussi di comunicazione interna, e a impattare anche sulla capacità di giudizio e di programmazione dei dirigenti, con risultati nefasti su tutta la produttività.
 
Qual’è quindi la soluzione con il miglior rapporto tra costi e benefici?
Premesso che è del tutto fisiologico che in un’azienda possa esserci una risorsa umana da rimuovere, la soluzione per minimizzare l’impatto del cambiamento è sicuramente l’out placement, o – come l’ho ribattezzato io – l’out head hunting, che mira a ridurre il grado di “violenza” proprio di questi scenari. Le persone avvicinate da un head hunter hanno spesso timore, anche perché non conoscono quel’è il reale motivo dell’incontro. Può capitare che – specie in momenti di crisi generalizzata quali quello che stiamo vivendo – le aziende facciano simulare da un terzo una proposta di lavoro per valutare la fedeltà del dipendente, quindi c’è sempre una diffidenza iniziale. Per questo il nostro è una specie di “corteggiamento”, al fine di costruire un rapporto di fiducia con il dipendente e portarlo a valutare i plus di un riposizionamento professionale. Mano a mano costruiamo un dossier sulla persona: valutiamo attentamente la risorsa, i suoi talenti, il suo orientamento, i desideri inespressi. Investighiamo nella sua mente, per certi versi rendiamo “seducente” per lui il cambiamento. Puntiamo anche sull’autostima, che è sempre un vettore potente di emozioni. Alla fine comunque devono vincere tutti: il lavoratore che esce da un ambiente critico e conflittuale, chi lo accoglierà, che fruirà dei vantaggi di una persona che ha voglia di riscattarsi e dare il meglio di se, il nostro committente, che potrà inserire una risorsa più consona alle proprie esigenze, e soprattutto l’azienda nel suo insieme, che ritroverà serenità.
E’ anche più “autentico” trattare per un out placement, piuttosto che dare battaglia internamente all’azienda?
Sicuramente si. Piuttosto che incancrenire la situazione con scontri continui, se è venuto meno definitivamente un rapporto di fiducia e collaborazione, è bene comunicare con schiettezza la situazione e analizzare quali possono essere le possibili opzioni. Ci si guarda in faccia e si trovano soluzioni in grado di non pregiudicare il futuro, sia del dipendente che dell’azienda stessa. Anche in questo caso, una piccola crisi ben gestita può generare un’opportunità, per entrambi.
(*) Luca Poma e Luigi Tartarelli non hanno alcun accordo di collaborazione o partnership
 




NONVIOLENZA E BUSINESS: COME COMUNICARE LA NECESSITA’ DI UN COMPORTAMENTO DI TIPO COOPERATIVO IN AZIENDA

Luca Poma intervista Federico Fioretto(1), esperto di Nonviolenza applicata alla vita aziendale
Cos’è la nonviolenza oggi, nel nostro mondo, secondo la tua visione?
Un modo di vedere vita e lavoro, e anche una metodologia concretamente applicabile, che pone al primo posto la necessità di promuovere azioni per la risoluzione dei conflitti quotidiani nei quali tutti ci troviamo in qualche modo coinvolti. Un conflitto riduce in un certo senso il nostro potere su ciò che ci circonda, il nostro grado d’influenza, quanto del nostro potenziale mettiamo a frutto. La Nonviolenza quindi è un modo di pensare e di agire basato si su principi “spirituali”, ma che si traduce in un’etica estremamente pragmatica, comprensibile e praticabile da chiunque senza alcuno sforzo, anzi con una certa facilità. Tutt’altro che una visione relegata nel passato della storia, come alcuni possono pensare, la nonviolenza oggi è di estrema attualità e di pressante necessità, purché si sappia adattarne il contenuto etico al quotidiano in azienda senza prese di posizione ideologiche.
Perché ritieni che questo paradigma sia importante nel mondo degli affari e del lavoro?
Per una ragione molto semplice: le imprese, le organizzazioni produttive e di servizio sono composte da persone. Se l’obiettivo è quello di far rendere al massimo queste persone, il modo migliore e più efficiente di raggiungere quest’obiettivo è quello di permettere che gli individui esprimano il proprio potenziale appieno(2). Può forse sembrare banale, ma non lo è: chiunque lavora oggi a contatto con le persone in qualsiasi ambiente lavorativo e presta ascolto con onestà intellettuale al racconto del loro vissuto, deve ammettere che il livello di scontento e di stress è generalmente piuttosto elevato(3), e questo fa sì che il valore aggiunto della loro prestazione lavorativa non sia ottimale. L’approccio “spietato” al management dei decenni scorsi, quello che vedeva nelle persone solo dei soggetti da spremere fino all’osso, ha dimostrato tutti i suoi limiti con la crisi che ha colpito il mondo intero e non accenna sostanzialmente a ridimensionarsi. La violenza strutturale insita in un sistema di questo tipo può apparire buona per i miopi operatori della finanza che sbavano su profitti di brevissimo periodo, ma non costruisce valore nel tempo. Ho conosciuto aziende dove con la vecchia proprietà – quella del “padrone” che partecipava alle feste di comunione dei figli dei propri dipendenti – gli operai stavano svegli la notte per inventarsi modifiche che miglioravano il funzionamento delle macchine, magari con mezzi di fortuna e coniugando alla massima potenza passione e creatività. Dopo il passaggio a una proprietà multinazionale quando un macchinario si ferma, c’è disinteresse, non si fa altro che chiamare la ditta che ha in appalto la manutenzione. Questo accade perché non sono coinvolti nella vita e nelle strategie aziendali, non si sentono valorizzati né rispettati e non hanno più voglia di tirare fuori il meglio.  Quanto costa questo all’azienda in termini di mancata redditività? Un’enormità. E, come dimostrano studi approfonditi fatti negli Stati Uniti, non è solo un eventuale aumento di stipendio che li motiva(4).
Privilegiare comportamenti cooperativi – nonviolenti per definizione – potrebbe essere una valida soluzione?
Si, perché l’Uomo è una specie animale sociale, questo fa sì che abbiamo una predisposizione naturale a privilegiare comportamenti che apportano beneficio al gruppo piuttosto che solo a noi stessi come singoli individui. Per fare un esempio senza perderci in tecnicismi, ricordo la bellissima scena del film “A beautiful mind” nella quale con la metafora della conquista delle ragazze viene spiegata la base della Teoria dei Giochi che John Nash svilupperà e che lo porterà al Nobel per l’economia: l’essere umano vince quando persegue un obiettivo di gruppo, altrimenti si condanna alla sconfitta. E ci sono determinati comportamenti che sono inaccettabili perché minano la possibilità per la persona di avere un posto degno nel gruppo(5). Il concetto di dignità è vivissimo nell’essere umano, più di quanto pensiamo: una delle regole più semplici e più trascurate dal management, è che chi viene valorizzato al meglio darà tutto se stesso per il bene del gruppo cui sente profondamente di appartenere, mentre per contro chi si sente penalizzato diverrà – in modo più o meno conscio – un “sabotatore” del gruppo stesso, dando voce concreta alla sua voglia di ribellione. Se poi saboti attivamente, o semplicemente “si risparmi” facendo il minimo indispensabile e non promuovendo quindi sviluppo e benessere per il gruppo, questo dipende da caso a caso e da contesto a contesto.
Come è possibile tradurre nel concreto di una realtà aziendale questi concetti?
Bisogna ridefinire il concetto di “leadership efficace” del quale si parla tanto ma che è assai poco compreso.
Diciamo che il capo – o il vertice collettivo – di un’organizzazione, secondo il tipo di leadership esercitato(6), detiene un “potere apparente” e un “potere reale”. Il potere apparente è quello che consente di “piegare” le persone al proprio volere in funzione delle proprie deleghe. E’ costituito da un insieme di elementi di forza coercitiva dovuti principalmente alla forza del mandato ricevuto ma soprattutto alla possibilità di soddisfare i bisogni materiali dalle persone sottoposte alla sua autorità, dunque è basato su un meccanismo di “bastone e carota”: il metodo Marchionne, per capirci. Questo potere è in grado di produrre risultati mediocri in termini sia di qualità della produzione sia di capacità d’innovazione e dunque, in ultima analisi, di competitività dell’organizzazione. Il potere reale, e dunque veramente efficace, è quello che viene dalla forza del ruolo di modello di valori vissuti e condivisi testimoniato in prima persona dal leader(7), dalla capacità di radunare dietro e di fianco a sé i cuori delle persone che si comandano, dall’intelligenza di saper di coinvolgere i propri collaboratori in una missione comune, lungimirante e ben definita, della quale sia compreso da tutti il potenziale di creare benefici diffusi e non solo riservati ad alcuni individui. In una situazione di questo tipo ognuno sa di poter trovare una gratificazione personale secondo i propri limiti e le proprie aspirazioni contribuendo nel contempo al bene della collettività, il che è umanamente essenziale. Questo tipo di leadership – anche questo è dimostrato ampiamente dai più recenti studi sulla competitività delle aziende che applicano serie politiche di sostenibilità e responsabilità sociale – produce performance più significative nel lungo periodo e dunque maggiori profitti per tutti(8).
Questo tipo di leadership dipende da qualche dote innata o può anche essere acquisita?
Appartiene alla natura umana, ma certamente può essere appresa, anche perché no con l’aiuto di un buon consulente specializzato in queste specifiche tematiche. Certamente ognuno potrà raggiungere il massimo della propria capacità di leadership: non possiamo parametrarci a standard eguali per tutti. Non tutti siamo Gandhi o Adriano Olivetti, per restare nel campo imprenditoriale, ma ognuno può essere se stesso al 100% del proprio potenziale, e questo è già tantissimo. Si possono raggiungere risultati veramente straordinari con un rapporto costo efficacia impressionante, poiché il contributo che persone coinvolte, motivate e gratificate possono portare al successo di un’organizzazione è davvero oltre ogni capacità d’immaginazione.
 
Note:

  1. Federico Fioretto è un consulente e formatore specializzato nello sviluppo di progetti di sostenibilità, con particolare focus sulla risoluzione dei conflitti nell’ambiente di lavoro. La sua passione è creare per le aziende strumenti di marketing e nuove linee di business che diano risposta alle pressanti domande sociali del vivere contemporaneo, creando benessere diffuso e significative economie di sistema (informazioni tratte da www.federicofioretto.eu )
  2. E’ anche uno dei parametri adottati dal modello EFQM (European Foundation for Quality Management) per l’eccellenza sostenibile, adottato da più di 30.000 aziende nel mondo per raggiungere l’eccellenza nella gestione dei propri affari. EFQM Model 2010, Brussels, EFQM Publications.
  3. L’80% degli europei in età attiva si attendono un aumento dello stress sul lavoro nei prossimi 5 anni e il 52% che l’aumento sarà “marcato” (Fonte: Studio IPSOS Mori per conto Agenzia Europea per la Salute, Sole 24 Ore 28/3/2012).
  4. T. Teretz, 22 Keys to Creating a Meaningful Workplace, 2000, Avon, MS, Adams Media.
  5. Jones D. O., Goldsmith T. H., Law and behavioral biology, in Columbia Law Review, Vol. 105. Dic. 2005, New York, Columbia University.
  6. Page D., Finding meaning through servant leadership in the workplace, documento presentato al Servant Leadership Symposium at the International Conference on Searching for Meaning in the New Millennium, July 13-16, 2000, Vancouver, BC.
  7. In base al modello EFQM è un criterio di eccellenza dell’impresa. EFQM 2010, cit. alla nota 2.
  8. Eccles R. G., Ioannou I., Serafeim G., The Impact of a Corporate Culture of Sustainability on Corporate Behavior and Performance, 2010, Harvard Business School, Cambridge, MS.