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PROTESTE “LIQUIDE”

Dinamiche di comunicazione critica e di massa nel XXI Secolo
 Come ci ricorda un bell’articolo del più antico giornale domenicale del mondo, il britannico “The Observer”, le proteste brasiliane e quelle turche presentano notevoli analogie. Anche l’Ambasciatore Terzi, già Ministro degli Esteri, in una lucidissima analisi pubblicata sulla propria pagina Facebook – a onor del vero qualche giorno prima del giornale inglese – tendeva una sottile linea rossa tra le due piazze, quella alle porte dell’UE e quella nella lontana America Latina: milioni di persone scese in piazza per un apparente pretesto – in Brasile l’aumento del costo dei biglietti dell’autobus, in Turchia l’abbattimento di alberi per costruire un centro commerciale – ma in realtà determinati – come sottolineava anche l’Economist – a far sentire la propria voce su temi ben più importanti: la corruzione dilagante, il costo della vita in crescita esponenziale, l’assottigliarsi delle garanzie sociali, la disoccupazione giovanile, lo sperpero di denaro pubblico, e – non ultimo – un eccessivo autoritarismo del Governo.
Nel passato, i movimenti di protesta erano connotati sostanzialmente da tre fattori chiave: un’istanza politica forte che includeva una richiesta di cambiamento rispetto a un modello dominante; un’organizzazione piramidale con in testa un leader riconosciuto dalla base e riconoscibile all’esterno; un’organizzazione permanente nel tempo, perlomeno fintanto che l’istanza di cambiamento non veniva recepita o in qualche modo “assorbita” dal centro del potere.
I movimenti di massa contemporanei – rileva Peter Beaumont, intelligente cronista degli esteri del gruppo The Guardian – presentano invece caratteristiche che a un’analisi più approfondita rivelano peculiarità ben differenti rispetto al passato, e che vorrei provare a codificare per praticità in cinque punti:

  1. organigramma disintermediato. Non esiste in nessun caso un “leader” chiaramente identificabile, quanto invece una totale “polverizzazione” di leadership all’interno dei movimenti, con una “moltitudine di voci” a rappresentare le istanze della protesta;
  2. attivazione delle masse mediante strumenti di “marketing conversazionale”. Sono i “buzz”, i passaparola, che determinano il movimento delle masse, non gli ordini delle gerarchie politiche e/o dell’opposizione. In queste dinamiche, i social media e gli strumenti di interazione 2.0 rivestono un ruolo fondamentale, disegnando però una medaglia a due faccie: rapido e libero assembramento, ma per contro “collegamenti deboli”, perché Twitter da solo non costruisce un’ideologia;
  3. approccio “Glocal”. L’accezione che do a questo termine, ben noto agli addetti ai lavori, in questo caso afferisce alla capacità della protesta di condurre battaglie globali identificate però fortemente con specifici luoghi nello spazio locale, in uno sforzo di riscrittura della storia degli spazi pubblici in nome di un’attività di cittadinanza attiva: Piazza Tharir in Egitto, Zuccotti Park in USA, Parco Gezi e Piazza Taskim in Turchia, etc.;
  4. produzione orizzontale di istanze. Le proteste di piazza – oggi – sono produttive delle istanze che le animano, che sono frutto dell’elaborazione della folla stessa, mentre in passato le masse si riunivano per “ascoltare le proposte” dei leader della protesta ed eventualmente sostenerle con le proprie braccia e le proprie gambe. Come per il passaggio dal web 1.0, vetrina, al web 2.0, costruzione condivisa, anche in questo caso notiamo un ruolo assai più proattivo degli utenti che partecipano alla protesta;
  5. orizzonte temporale limitato. I movimenti di protesta del passato erano strutturati non solo nello spazio – organigramma, uffici, addetti alle relazioni con i mass-media, etc. – ma anche nel tempo: “perduravano” fintanto che l’obiettivo non era raggiunto, eventualmente “cambiando pelle” durante il percorso. Attualmente, secondo Tati Hatuka, geografa urbana israeliana che studia le forme di protesta e le mobilitazioni di massa nel mondo occidentale, “il messaggio oggi è l’evento stesso”. Le manifestazioni di piazza non sono lo sbocco naturale di un percorso di protesta, che partendo da un’analisi dell’esistente propone poi un modello differente: ne costituiscono l’inizio. E dopo? Posto che la situazione com’è non è più accettabile…quali sono le soluzioni? Questo può essere il limite di questo genere di esplosioni di disappunto: rischiano di restare fini a se stesse, e vengono quindi spesso sottovalutate dai Governi, i quali vedono come possibile soluzione il semplice “scorrere del tempo”, accompagnato a volte dalla repressione, e quindi il naturale riassorbimento della protesta con il ritorno dei manifestanti alle proprie case e alle proprie occupazioni giornaliere…

Questi i cinque punti che ci tenevo a enfatizzare, altri colleghi potranno fare di meglio, con analisi più approfondite.
La “Marcia Mondiale per la Pace”, nata nel 2008 da una scommessa tra cittadini qualunque e sviluppata poi con oltre 300 eventi di piazza consecutivi in 98 nazioni del mondo, costituisce un buon modello – “non belligerante”, ma di proposta – che attivò milioni e milioni di persone, purtroppo non adeguatamente e costruttivamente “intercettato” dalle leadership convenzionali, sempre troppo impegnate a gestire l’emergenza quotidiana e quindi incapaci di percepire i segnali deboli di crisi.
La vera sfida quindi è: chi coglierà oggi l’occasione per imparare a governare con efficacia questi movimenti di piazza? L’iniziale paura e diffidenza, da parte di governi e decisori, lascerà spazio alla volontà di una relazione sana con lo stakeholder “cittadini insoddisfatti”, così da trarre dal mutuo riconoscimento spunti utili per trasformare le istanze di protesta in idee creative per migliorare lo scenario sociale esistente?
I cittadini oggi si sentono – anche nei paesi d’impronta non democratica – sempre più liberi di manifestare la propria opinione, o perlomeno hanno la piena consapevolezza di “essere parte dell’equazione globale”. I politici per contro si ostinano a tentare – invano, ormai è sotto gli occhi di tutti – di tenerli fuori dalle dinamiche di decisione. Questa carenza di autenticità – vera e propria distonia tra l’esistente e il percepito – quanto potrà durare ancora prima di produrre strappi insanabili? Quando i decisori comprenderanno che assets immateriali come “fiducia”, “reputazione” e “rispetto” sono ormai parte della catena del valore, per le aziende come per le amministrazioni pubbliche?
Sempre l’Observer pubblicava una foto dalla piazza Brasiliana, uno striscione esposto dai manifestanti con scritto: “Siamo tutti social network”.
E’ vero, in ragione di quanto la tecnologia web non fa che agire da “acceleratore di processo” in una società sempre più fortemente interconnessa. L’interazione, la capacità e disponibilità di creare engagement sociale con gli stakeholder e addivenire a un modello di costruzione condivisa di contenuti, a tutti i livelli, è a mio avviso la vera keyword che farà la differenza nel rapporto tra istituzioni e cittadini, in questo e nei decenni a venire.




NONVIOLENZA E BUSINESS: COME COMUNICARE LA NECESSITA’ DI UN COMPORTAMENTO DI TIPO COOPERATIVO IN AZIENDA

Luca Poma intervista Federico Fioretto(1),
esperto di Nonviolenza applicata alla vita aziendale

 
Cos’è la nonviolenza oggi, nel nostro mondo, secondo la tua visione?
Un modo di vedere vita e lavoro, e anche una metodologia concretamente applicabile, che pone al primo posto la necessità di promuovere azioni per la risoluzione dei conflitti quotidiani nei quali tutti ci troviamo in qualche modo coinvolti. Un conflitto riduce in un certo senso il nostro potere su ciò che ci circonda, il nostro grado d’influenza, quanto del nostro potenziale mettiamo a frutto. La Nonviolenza quindi è un modo di pensare e di agire basato si su principi “spirituali”, ma che si traduce in un’etica estremamente pragmatica, comprensibile e praticabile da chiunque senza alcuno sforzo, anzi con una certa facilità. Tutt’altro che una visione relegata nel passato della storia, come alcuni possono pensare, la nonviolenza oggi è di estrema attualità e di pressante necessità, purché si sappia adattarne il contenuto etico al quotidiano in azienda senza prese di posizione ideologiche.
Perché ritieni che questo paradigma sia importante nel mondo degli affari e del lavoro?
Per una ragione molto semplice: le imprese, le organizzazioni produttive e di servizio sono composte da persone. Se l’obiettivo è quello di far rendere al massimo queste persone, il modo migliore e più efficiente di raggiungere quest’obiettivo è quello di permettere che gli individui esprimano il proprio potenziale appieno(2). Può forse sembrare banale, ma non lo è: chiunque lavora oggi a contatto con le persone in qualsiasi ambiente lavorativo e presta ascolto con onestà intellettuale al racconto del loro vissuto, deve ammettere che il livello di scontento e di stress è generalmente piuttosto elevato(3), e questo fa sì che il valore aggiunto della loro prestazione lavorativa non sia ottimale. L’approccio “spietato” al management dei decenni scorsi, quello che vedeva nelle persone solo dei soggetti da spremere fino all’osso, ha dimostrato tutti i suoi limiti con la crisi che ha colpito il mondo intero e non accenna sostanzialmente a ridimensionarsi. La violenza strutturale insita in un sistema di questo tipo può apparire buona per i miopi operatori della finanza che sbavano su profitti di brevissimo periodo, ma non costruisce valore nel tempo. Ho conosciuto aziende dove con la vecchia proprietà – quella del “padrone” che partecipava alle feste di comunione dei figli dei propri dipendenti – gli operai stavano svegli la notte per inventarsi modifiche che miglioravano il funzionamento delle macchine, magari con mezzi di fortuna e coniugando alla massima potenza passione e creatività. Dopo il passaggio a una proprietà multinazionale quando un macchinario si ferma, c’è disinteresse, non si fa altro che chiamare la ditta che ha in appalto la manutenzione. Questo accade perché non sono coinvolti nella vita e nelle strategie aziendali, non si sentono valorizzati né rispettati e non hanno più voglia di tirare fuori il meglio.  Quanto costa questo all’azienda in termini di mancata redditività? Un’enormità. E, come dimostrano studi approfonditi fatti negli Stati Uniti, non è solo un eventuale aumento di stipendio che li motiva(4).
Privilegiare comportamenti cooperativi – nonviolenti per definizione – potrebbe essere una valida soluzione?
Si, perché l’Uomo è una specie animale sociale, questo fa sì che abbiamo una predisposizione naturale a privilegiare comportamenti che apportano beneficio al gruppo piuttosto che solo a noi stessi come singoli individui. Per fare un esempio senza perderci in tecnicismi, ricordo la bellissima scena del film “A beautiful mind” nella quale con la metafora della conquista delle ragazze viene spiegata la base della Teoria dei Giochi che John Nash svilupperà e che lo porterà al Nobel per l’economia: l’essere umano vince quando persegue un obiettivo di gruppo, altrimenti si condanna alla sconfitta. E ci sono determinati comportamenti che sono inaccettabili perché minano la possibilità per la persona di avere un posto degno nel gruppo(5). Il concetto di dignità è vivissimo nell’essere umano, più di quanto pensiamo: una delle regole più semplici e più trascurate dal management, è che chi viene valorizzato al meglio darà tutto se stesso per il bene del gruppo cui sente profondamente di appartenere, mentre per contro chi si sente penalizzato diverrà – in modo più o meno conscio – un “sabotatore” del gruppo stesso, dando voce concreta alla sua voglia di ribellione. Se poi saboti attivamente, o semplicemente “si risparmi” facendo il minimo indispensabile e non promuovendo quindi sviluppo e benessere per il gruppo, questo dipende da caso a caso e da contesto a contesto.
Come è possibile tradurre nel concreto di una realtà aziendale questi concetti?
Bisogna ridefinire il concetto di “leadership efficace” del quale si parla tanto ma che è assai poco compreso.
Diciamo che il capo – o il vertice collettivo – di un’organizzazione, secondo il tipo di leadership esercitato(6), detiene un “potere apparente” e un “potere reale”. Il potere apparente è quello che consente di “piegare” le persone al proprio volere in funzione delle proprie deleghe. E’ costituito da un insieme di elementi di forza coercitiva dovuti principalmente alla forza del mandato ricevuto ma soprattutto alla possibilità di soddisfare i bisogni materiali dalle persone sottoposte alla sua autorità, dunque è basato su un meccanismo di “bastone e carota”: il metodo Marchionne, per capirci. Questo potere è in grado di produrre risultati mediocri in termini sia di qualità della produzione sia di capacità d’innovazione e dunque, in ultima analisi, di competitività dell’organizzazione. Il potere reale, e dunque veramente efficace, è quello che viene dalla forza del ruolo di modello di valori vissuti e condivisi testimoniato in prima persona dal leader(7), dalla capacità di radunare dietro e di fianco a sé i cuori delle persone che si comandano, dall’intelligenza di saper di coinvolgere i propri collaboratori in una missione comune, lungimirante e ben definita, della quale sia compreso da tutti il potenziale di creare benefici diffusi e non solo riservati ad alcuni individui. In una situazione di questo tipo ognuno sa di poter trovare una gratificazione personale secondo i propri limiti e le proprie aspirazioni contribuendo nel contempo al bene della collettività, il che è umanamente essenziale. Questo tipo di leadership – anche questo è dimostrato ampiamente dai più recenti studi sulla competitività delle aziende che applicano serie politiche di sostenibilità e responsabilità sociale – produce performance più significative nel lungo periodo e dunque maggiori profitti per tutti(8).
Questo tipo di leadership dipende da qualche dote innata o può anche essere acquisita?
Appartiene alla natura umana, ma certamente può essere appresa, anche perché no con l’aiuto di un buon consulente specializzato in queste specifiche tematiche. Certamente ognuno potrà raggiungere il massimo della propria capacità di leadership: non possiamo parametrarci a standard eguali per tutti. Non tutti siamo Gandhi o Adriano Olivetti, per restare nel campo imprenditoriale, ma ognuno può essere se stesso al 100% del proprio potenziale, e questo è già tantissimo. Si possono raggiungere risultati veramente straordinari con un rapporto costo efficacia impressionante, poiché il contributo che persone coinvolte, motivate e gratificate possono portare al successo di un’organizzazione è davvero oltre ogni capacità d’immaginazione.
Note:

  1. Federico Fioretto è un consulente e formatore specializzato nello sviluppo di progetti di sostenibilità, con particolare focus sulla risoluzione dei conflitti nell’ambiente di lavoro. La sua passione è creare per le aziende strumenti di marketing e nuove linee di business che diano risposta alle pressanti domande sociali del vivere contemporaneo, creando benessere diffuso e significative economie di sistema (informazioni tratte da www.federicofioretto.eu )
  2. E’ anche uno dei parametri adottati dal modello EFQM (European Foundation for Quality Management) per l’eccellenza sostenibile, adottato da più di 30.000 aziende nel mondo per raggiungere l’eccellenza nella gestione dei propri affari. EFQM Model 2010, Brussels, EFQM Publications.
  3. L’80% degli europei in età attiva si attendono un aumento dello stress sul lavoro nei prossimi 5 anni e il 52% che l’aumento sarà “marcato” (Fonte: Studio IPSOS Mori per conto Agenzia Europea per la Salute, Sole 24 Ore 28/3/2012).
  4. T. Teretz, 22 Keys to Creating a Meaningful Workplace, 2000, Avon, MS, Adams Media.
  5. Jones D. O., Goldsmith T. H., Law and behavioral biology, in Columbia Law Review, Vol. 105. Dic. 2005, New York, Columbia University.
  6. Page D., Finding meaning through servant leadership in the workplace, documento presentato al Servant Leadership Symposium at the International Conference on Searching for Meaning in the New Millennium, July 13-16, 2000, Vancouver, BC.
  7. In base al modello EFQM è un criterio di eccellenza dell’impresa. EFQM 2010, cit. alla nota 2.
  8. Eccles R. G., Ioannou I., Serafeim G., The Impact of a Corporate Culture of Sustainability on Corporate Behavior and Performance, 2010, Harvard Business School, Cambridge, MS.



Il ruolo dell’investimento socialmente responsabile nella ricerca di performance di lungo periodo

Gli ultimi 2 decenni hanno visto un interesse ed una sofisticatezza crescenti dal lato degli investitori desiderosi di esporsi a “strategie sostenibili” che includono criteri ambientali, sociali e di governance nel processo di investimento. Una volta largamente associata con l’allineamento tra valori ed obiettivi di investimento, la corporate social responsibility è ora sempre più vicino all’idea che l’investimento socialmente responsabile possa fare una differenza quantificabile nella ricerca di performance di lungo periodo.

Gli asset gestiti in modo socialmente responsabile sono costantemente cresciuti, con più di 640 miliardi di dollari in fondi di questo tipo a fine 2011 contro i 159 miliardi del 2005. Uno sguardo più recente ai fondi azionari gestiti attivamente secondo i criteri dell’investimento socialmente responsabile mostra che, tra il 2003 ed il 2013, in controtendenza rispetto al resto dei fondi azionari che hanno visto generalmente segni meno, questi fondi hanno attratto asset (rispettivamente -9,5% e +33%).
La storia del settore insegna che si possono ottenere rendimenti competitivi investendo in società che rispondono ai criteri dell’investimento sostenibile. Per esempio, l’analisi dei fondi gestiti attivamente che incorporano criteri ambientali, sociali e di governance mostra che questi hanno consegnato risultati favorevoli, il gruppo ha infatti sovraperformato l’indice S&P 500 del 2,4% annualizzato tra il giugno 2001 ed il febbraio 2014. Storicamente, il periodo considerato rappresenta uno dei momenti più difficili per gli investimenti, che comprende 2 crisi di mercato e 2 riprese.
Dal nostro punto di vista, sempre più società hanno sostenuto queste tendenze, comprendendo che le questioni legate all’investimento socialmente responsabile possono produrre valore durevole. Si tratta di temi universali, non legati a particolari settori. Inoltre, un filone crescente di ricerca ha riconosciuto che introdurre strategie di corporate social responsibility (CSR) può rappresentare un beneficio per le società su aspetti quali la riduzione del costo del capitale ed il miglioramento della performance finanziaria.
Il management e gli investitori concordano sul fatto che la nozione di sostenibilità possa servire ad identificare tendenze sottostanti più ampie con un potenziale impatto sui cicli di mercato in grado di generare sia opportunità sia rischi.
Ad esempio, temi ambientali quali il cambiamento climatico, l’accesso ad acqua pulita e alle materie prime sono elementi cruciali per molte aziende leader. Oggi, più dell’80% delle società “Global 500” fanno rapporto al Carbon Disclosure Project, una percentuale cresciuta significativamente in 10 anni (erano il 44% nel 2003). L’iniziativa rende note e registra le tendenze legate alle emissioni di gas serra e gli investimenti per ridurre l’impronta ambientale. Ad oggi, 722 investitori con asset aggregati pari a 87 mila miliardi di dollari sostiene questi sforzi.
La ricerca costante, da parte degli investitori di lungo periodo, di strade per investire i loro asset si combina con l’interesse crescente per il tema della sostenibilità come nuovo indirizzo nel modo di fare business. Gli investitori che tengono conto dei criteri ambientali, sociali e di governance all’interno del loro processo decisionale è probabile siano ben attrezzati per identificare società di alta qualità guidate da un management attento sia da una prospettiva di opportunità sia di rischio. I temi della sostenibilità, siamo convinti, resteranno un fattore cruciale per business ed investitori per i prossimi decenni.



CONSUMO SOCIALMENTE RESPONSABILE: NIELSEN,CRESCONO GLI ITALIANI CHE ACQUISTANO DA AZIENDE IMPEGNATE NELLA CSR

In crescita del 12% vs. il 2012 il numero degli italiani che, negli ultimi 6 mesi,  hanno acquistato prodotti e/o servizi da aziende impegnate socialmente. Sono il 45% (+ 5 punti rispetto alla media europea) coloro che si dichiarano disposti a pagare di più per acquisti da aziende che hanno sviluppato programmi di responsabilità sociale. Il 53% della popolazione preferirebbe lavorare per un’azienda con un positivo impatto sociale e ambientale. 
I dati emergono dalla survey Global Corporate Citizenship realizzata da Nielsen – azienda leader globale nelle misurazioni e analisi relative ad acquisti e consumi, utilizzo e modalità di esposizione ai media – intervistando oltre 30.000 utenti internet in 60 Paesi del mondo. L’indagine, giunta alla sua terza edizione, ha l’obiettivo di individuare i giudizi e le percezioni dei consumatori sui comportamenti socialmente responsabili propri e delle aziende operanti sul territorio.
L’attenzione nei confronti della Corporate Social Responsibility – ha dichiarato Giovanni Fantasia, amministratore delegato di Nielsen Italia – sta crescendo nel corso degli ultimi anni, sia a livello di ricerca accademica che di pratica di management. Questo maggiore focus segue una crescente sensibilità al tema da parte del consumatore che esprime un bisogno informativo in relazione alla Corporate Social Responsibility delle aziende produttrici: il consumatore, infatti, vuole sapere come chi ha prodotto quel determinato bene o servizio ha operato su tutta la filiera produttiva e se lo ha fatto in maniera responsabile. In questo contesto, l’impegno delle imprese in progetti di Corporate Social Responsibility è un ulteriore fattore di valutazione da parte dei clienti; pertanto una maggiore attenzione al tema diventa strategica, soprattutto agli occhi di un consumatore per il quale il  gap “tra il dire e il fare” si va sempre più assottigliando”.
Tra le principali ragioni che spingono gli italiani all’acquisto consapevole troviamo:  l’impegno delle aziende per la riduzione della mortalità infantile (62%, media UE 57%), per la disponibilità di acqua potabile sul pianeta (58%, media UE 59%) e per l’eliminazione della povertà estrema e della fame (56%, UE 53%).
A livello europeo, Italia compresa, altre motivazioni sono i progetti di sviluppo messi in campo dalle aziende per l’accesso alle cure sanitarie (53%), il sostegno alla ricerca su malattie croniche non trasmissibili (57%) e malattie trasmissibili come l’HIV (47%).
I consumatori più attivi dell’Eurozona che hanno acquistato da aziende responsabili negli ultimi sei mesi si trovano in Slovenia (51%), Grecia (49%), Portogallo e Austria (entrambi al 46%). Sul fronte opposto, in un’ottica di coerenza diffusa tra attitudini e comportamenti dichiarati, Paesi Bassi (30%) e Belgio (29%) hanno la più bassa proporzione di consumatori che hanno concretizzato in acquisti consapevoli le loro “buone intenzioni”.
A livello globale, l’indagine di Nielsen evidenzia che attualmente il 55% dei consumatori è disposto a pagare di più per prodotti e servizi di aziende che hanno sviluppato programmi di responsabilità sociale e tale proporzione è in crescita (+9 punti percentuali rispetto alla rilevazione 2012). I dati evidenziano qualche accentuazione territoriale: in Asia Pacifico (64%), Medio Oriente e America Latina (entrambi 63%) i consumatori sono, infatti, maggiormente disposti a pagare un premium price per prodotti e servizi di aziende che hanno sviluppato programmi di responsabilità sociale, seguiti dai consumatori del Nord America (42%). In Europa, invece, si registra un incremento di 4 punti tra i consumatori socialmente consapevoli. All’interno dell’Eurozona, il primo posto è occupato dalla Slovacchia (47%), seguita da Slovenia (46%), Portogallo (45%) e Grecia (44%). Si registra, invece, una proporzione sensibilmente inferiore di consumatori socialmente consapevoli nei paesi del Nord Europa, soprattutto in Belgio (29%), Paesi Bassi (30%), Finlandia (32%).

 




Csr: perche' investire nella sostenibilita' conviene

Le imprese devono investire in CSR? La risposta a tale domanda divide manager e imprenditori: chi ritiene possa essere un’importante leva di vantaggio competitivo per l’azienda e chi, in periodo di crisi, la considera un costo superfluo.
I dati riportati nel V Rapporto Nazionale SWG per l’Osservatorio Socialis su “L’ impegno sociale delle Aziende in Italia” parlano chiaro: in Italia dal 2009 al 2011, e con tendenza confermata per il 2012, èdiminuito dal 69% al 64% il numero aziende che hanno investito in CSR. E’ aumentata però l’entità degli investimenti: si è passati, infatti, da 165.000 euro mediamente investiti nel 2009, a 210.000 euro nel 2011.

Per il 2012 è stato avvalorato il trend in aumento: si sono previsti investimenti pari a 224.000 euro, anche se a oggi i dati sono ancora da confermare. In Italia ad interessarsi di CSR sono soprattutto aziende con un fatturato maggiore di 100 mln euro, promuovendo iniziative di sostegno alla comunità locale ed azioni legate al wellbeing dei dipendenti.
Che dire delle PMI? Secondo quanto riportato nello studio effettuato dall’Università Ca’ Foscari di Venezia e da Unioncamere Veneto nel 2012 su “Prassi imprenditoriali e responsabilità sociale d’impresa nei Distretti del Veneto”, anche queste si interessano di CSR, soprattutto per cultura imprenditoriale, implementando azioni rivolte alla sostenibilità ambientale, alla salute e sicurezza dei lavoratori e alla solidarietà sociale.
A livello internazionale, il report “The sustainable future – Promoting growth through sustainability” redatto dall’Economist Intelligence Unit del 2011, rivela come nel medio termine i principali investimenti in CSR delle grandi multinazionali saranno mirati prevalentemente ad interventi di ottimizzazione dell’efficienza energetica, ad azioni di miglioramento della salute e della sicurezza dei lavoratori e allo sviluppo di prodotti ecocompatibili.
Che si tratti di un’azienda piccola o grande, è chiaro come il focus sia sulla sostenibilità ambientale, probabilmente perché le normative in materia sono sempre più stringenti, e sul benessere dei dipendenti, per il suo legame ormai conclamato con la produttività aziendale. CSR non è più solo filantropia, quindi.
C’è pieno accordo, inoltre, nel ritenere che ciò che spinge le imprese a investire in CSR sia principalmente il ritorno d’immagine, anche se molto sentita è l’esigenza di ridurre i rischi operativi e di assicurare dei risultati economici nel lungo termine. Tuttavia, è proprio la prospettiva di lungo periodo a preoccupare di più gli imprenditori: per il 37% delle aziende intervistate dall’Osservatorio Socialis, ciò che rappresenta il principale ostacolo all’implementazione di pratiche di CSR è la mancanza di ritorni economici immediati degli investimenti. L’assenza di incentivi premianti, come sgravi fiscali o bonus nella partecipazione a bandi di concorso, così come la poco diffusa cultura manageriale in merito, rappresentano un ostacolo per il 25% dell’aziende.
Se da un lato lo scetticismo, la scarsa cultura manageriale, l’assenza di ritorni economici immediati, frenano la grande diffusione di pratiche CSR, dall’altro è l’Harvard Business School a lanciare l’allarme: le imprese che investono in CSR sono caratterizzate da migliori performance economiche, finanziare e non finanziare nel lungo periodo. L’indagine “The Impact of a Corporate Culture of Sustainability on Corporate Behaviour and Performance” del 2012, nella quale vengono analizzati i risultati di 180 aziende in 18 anni di osservazione, evidenzia infatti che:
• La redditività delle aziende “sostenibili” supera del 4,8% quello delle concorrenti “non sostenibili”
• Ogni dollaro investito in azioni “sostenibili” nel 1993, alla fine del 2010 vale 22,6 $
• Ogni dollaro investito in azioni “non sostenibili” nel 1993, alla fine del 2010 vale 14,3 $
• Le azioni delle compagnie responsabili hanno avuto una minore volatilità nel tempo.
Non solo: le imprese che investono in CSR hanno dimostrato di avere consumatori più fedeli, relazioni migliori con gli investitori e dipendenti più qualificati. Ancora qualche dubbio sulla necessità o meno di investire in CSR?