Cosa ci sta dicendo Trenitalia?

La pubblicità di Trenitalia sulle nuove classi dei Freccia Rossa – non più I e II, ma ben quattro – ha scatenato polemiche: l’immagine dell’ultima classe, quella Standard, da cui non si può neanche accedere alla carrozza ristorante, è rappresentata da una famigliadi stranieri.
Trenitalia è dunque stata accusata di razzismo, e la brillante idea del pubbblicitario di accostare una famiglia dalla carnagione scura – a occhi si direbbe indiana – alla Standard (di cui si dice che “a prezzi competitivi” si può usufruire della “velocità, tecnologia e sicurezza” del Frecciarossa. E quell’accenno alla sicurezza è inquietante…perché gli altri treni no?), è suonata a tutti come la trasposizione del più bieco luogo comune: immigrato uguale povero.
In realtà c’è molto di più. Se Trenitalia avesse scelto di rappresentare il viaggiatore della classe Standard con un uomo di origini straniere dall’evidente status di “povero” – o meglio di lavoratore di cui si suppone il reddito non sia altissimo, mettiamo caso i lavoratori immigrati che si incontrano spessissimo sui treni (ma non sui Frecciarossa) carichi delle merci da vendere ai mercati – si sarebbe trattato di un’operazione certamente poco elegante, ma tutto sommato veritiera. Gli istituti di ricerca ce l’hanno raccontato in tutte le salse che i lavoratori immigrati si posizionano prevalentemente nelle fasce più basse del mercato del lavoro, e che anche a parità di mansione con un italiano guadagnano di meno.
L’immagine della famiglia straniera ritratta nei cartelloni di Trenitalia, invece, è del tutto middle class. Bellissima donna lei, in un tailleur elegante, bellissimo uomo lui, in giacca e cravatta e così affettuoso con la loro deliziosa e riccioluta bambina! Insomma, il razzismo è proprio palese: la coppia bianca in classe Executive e la coppia – identica – ma nera in classe Standard.
Siccome però è sicuramente vero che i pubblicitari di Trenitalia non hanno confezionato questa perla con intenti manifestamente razzisti, è il caso di chiedersi: che cosa ci vuole comunicare Trenitalia? Se per descrivere questa quarta classe Standard al pubblicitario non viene niente di meglio che metterci una famiglia di “negri” – ovviamente infiocchettati, è pur sempre pubblicità – qual è il messaggio? Che la quarta classe di Trenitalia, aldilà del claim incoraggiante, è stata pensata e disegnata per gli sfigati, cioè noi tutti che non possiamo vantare redditi a sei zeri, magari pure “forzati” delle tasse nel senso che neanche possiamo permetterci il “lusso” di immaginare di evadere.
Gli immigrati rappresentano da parecchi anni, ormai, quella categoria di cittadini ai cui doveri non corrisponde mai certezza di diritto. Quelli che devono pagarsi il permesso di soggiorno, ma senza nessuna assicurazione circa i tempi di rilascio. Quelli che per averlo un permesso di soggiorno che duri più di due anni devono avere un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Quelli che anche se lavorano qui da anni, per ottenere la carta di soggiorno devono avere una casa che risponda a determinati canoni. Quelli che pagano le tasse ma non votano. Insomma, cittadini di serie B.
Bene, ora quella condizione si sta estendendo un po’ a tutti. A tutti noi, “negri” della società, che viaggeremo nelle classi Standard.

Prevenire costa meno che guarire

Nell’ultimo decennio, grandi aziende, multinazionali, banche d’affari e altre organizzazioni complesse sono state vittima della loro intrinseca arroganza, incapaci di strutturare anticorpi efficaci per far fronte a situazioni di crisi. “Con il termine crisi – ricorda Elio Borgonovi, professore ordinario di Management all’Università Bocconi – l’opinione pubblica convive quotidianamente perlomeno dal 2007, non perchè in precedenza non vi fossero state crisi, ma perchè quella  scoppiata quell’anno – e apparsa evidente nel 2008 – si è caratterizzata da subito come crisi sistemica”. Nata secondo molti in occasione della crisi della Royal Bank of Scotland, salvata dal governo inglese, o dell’insolvenza di Fannie Mae e Freddie Mac, salvate dal governo statunitense, o ancora dal fallimento di Lehman Brothers, la crisi che poi si è propagata all’intera economia del mondo occidentale, nel 208-2009 con la caduta della fiducia reciproca tra le banche e nel 2010-2011 con il braccio di ferro tra Stati Uniti e Europa sulla stabilità finanziaria e il ruolo dell’Euro. Questa situazione di forte incertezza ha coinvolto economie in forte crescita e caratterizzate da rilevanti investimenti in Titoli di Stato, Stati esportatori di petrolio , e infine la Cina, lasciando nella penombra un’altra tipologia di crisi: quella di imprese non riconducibili alla situazione economica generale. Riduzioni drammatiche del fatturato e degli utili, perdite di quote di mercato, sovradimensionamento degli organici e conseguenti politiche di licenziamento o di delocalizzazione, cui vanno a sommarsi gravi incidenti, che trovano spesso impreparati sia gli imprenditori ia i consulenti legai o in comunicazione, come in Italia – pur non rilevandosi un’incidenza maggiore di questo tipo di crisi rispetto ad altri paesi occidentali – vi fosse una costante “sottostima” di quell’articolata serie di problemi in grado di creare pregiudizio alla business continuity e alla reputazione di aziende, istituzioni pubbliche e organizzazioni politiche.

Governare i fattori di crisi

Rispetto al passato, a questo scenario si aggiunge un’altra variabile: i nuovi mas media e le reti. Le informazioni si diffondono tra molto rapidamente e arrivano a soggetti che hanno interessi diretti o indiretti nell’impresa. Il modo in cui le informazioni di propagano e in cui un evento è “governato” sono fattori spesso più rilevanti della crisi stessa. Eventi di per se poco significativi possono essere ingigantiti e situazioni che nulla hanno a che fare con l’impresa possono avere riflessi molto negativi: è il caso ad esempio dei rischi alimentari connessi a casi di sofisticazioni e danno alla salute di pochi individui che però si ripercuotono sui comportamenti di milioni di consumatori, oppure di eventi gravi e drammatici ancorchè statisticamente poco frequenti che possono colpire e danneggiare la reputazione dell’impresa, come avviene nel caso di gravi incidenti aerei o navali. La corretta gestione della comunicazione di crisi diventa quindi uno strumento fondamentale per evitare che la professionalità e la dedizione che manager e altri collaboratori hanno profuso per molti anni possano essere vanificate o messe in discussione a causa di una situazione mal gestita. I riscontri sono in grado di confermare l’adagio popolare della stipula della polizza furo presso l’abitazione solo dopo la “visita” dei rapinatori sono numerosissime nel nostro paese., e all’ordine del giorno. Molto pochi sono infatti gli imprenditori previdenti che hanno usufruito delle professionalità sul mercato per “prevedere” una crisi, esaminare i possibili scenari e creare gli “anticorpi” e gli strumenti adeguati – nel caso peggiore – per affrontarla. Un po’ per scarsa cultura d’impresa, un po’ per malinteso e pericoloso concetto di scaramanzia, rare sono le crisis room e i crisis plan voluti dagli amministratori delegati i imprese nostrane. Ma i “virtuosi” esistono, anche se più all’estero che in Italia: Leclerc, il colosso francese dei supermercati che in occasione di un’intossicazione alimentare di aluni hamburger richiamò in servizio niente meno che 700 dipendenti per contattare oltre 15000 consumatori, a SAS, la compagnia aerea scandinava che gestì in modo eccellente la comunicazione in occasione dell’emergenza vulcano in Islanda, a GUN, azienda farmaceutica leader in Itaia nel comparto della mediciina complementare, che dispone di un piano di crisi in grado di prendre il controllo de governare le principali criticità in 120 minuti da qualunque grave evento dannoso che possa pregiudicare il suo business.

Una questione di equilibrio

Le domande che un buon crisis manager deve porsi sono molte e differenti:

  • cosa fare nei primi 180 minuti di una crisi, ma soprattutto cosa non fare;
  • come gestire i rapporti con i mass media, soddisfacendo le esigenze di una comunicazione trasparente e autentica e quelle della riservatezza ei processi industriali;
  • che tipo di equilibrio garantire tra la necessità di rendicontare ai propri pubblici e quella di limitare gli indennizzi nell’immancabile successiva fase di richiesta danni;
  • come preservare il valore del brand – anche in Borsa, per le società quotate – e come gestire a proprio favore la forza rappresentata dalla community fdi marca, in grado di orientare il consenso sull’operato dell’azienda nei momenti difficili;
  • gestire i buzz del web, che diano milioni in caso di crisi, e spesso ostili;
  • come rendere i dipendenti dell’azienda una risorsa e non una fonte di fuga di informazioni pericolose e scorrette.

Come dimostra anche il recente caso di Costa Concordia, quella del crisis management e della ccrisis communication è una sfida ricca di complessità, che può toccare grandi imprese come piccolissime aziende, sfida alla quale spesso gli imprenditori italiani arrivano purtroppo impreparati: il mancato investimento di risorse adeguate – e meno imponenti di quanto si possa sospettare – bella pianificazione preventiva di scenari di crisi e nella creazione degli strumenti per affrontarle in modo adeguato, espone le nostre imprese a un alto costo post-crisi, in termini sia economico-finanziari che reputazionali. Come ha scritto un importante relatore pubblico, Paul Seaman, sulla rivista online “21st Century PR Issues”, <<Come le aziende e i governi gestiscono le loro relazioni pubbliche durante qualsiasi crisi, può fare un grnde differenza per l’eisot finale>>.


(box) Costa Concordia, una crisi in pena regola

Un caso eclatante legato alla cronaca recente è quello della Costa Concordia. La tragedia dalla motonave al largo dell’Isola del Giglio, avvenuta nella note tra venerdì 13 e sabato 14 gennaio 2012 è e resterà uno degli eventi più dolorosi su piano umano, economico e reputazionale che possa toccare la compagnia di navigazione e il nostro paese. Ma non solo, dal momento che l’organizzazione convolta è parte della multinazionale americana Carnival, guidata dal CEO ;icky Arison, e soprattutto che bordo della nave naufragata vi era un equipagio di lavoratori e passeggeri provenienti da numerose nazioni del mondo. Si è trattato di di un evento a bassissima probabilità ma ad altissimo impatto, che ha evidenziato molte caratteristiche tipiche di una crisi in piena regol: l’effetto sorprea, la mancazna di informazioni certe nelle prime ore, l’incalzare degli eventi e la perdita di controllo da parte della compagnia, la pressione dei mass media, e l’utilizzo dei new media per documentare l’evento, a opera direttamente dei passeggeri che sono diventati parte integrante del processo di comunicazione verso il grande pubblico, lo scatenarsi del panico e infine il grave costo in termini di vite umane. Ma – prima di ogni altra cosa – è saltato all’occhio dei media di tutto il mondo il mancato ascolto dei cosiddetti “segnali deboli” di una crisi: l’approfondimento della pratica degli “inchini” , prassi pericolosa e non adeguatamente monitorata – se non tollerata o addirittura promossa, a detta di alcuni commentatori – da parte di Costa Crociere, e l’assenza di un sistema per mappare gli scostamenti delle navi dalla rotta prevista, come peraltro ammesso direttamente dal presidente e AD Pier Luigi Foschi ne corso della conferenza stampa del 16 gennaio scorso: “noi non siamo in grado di valutare con esattezza nè gli orari nè la rotta che la nave ha tenuto nel momento precedente all’impatto ocn gli scogli”. Lo stesso Foschi afferma pochi giorni dopo, il 20 gennaio, in un’intervista al “Corriere della Sera”, che tra le lezioni da imparare occorre fare in modo di “replicare a terra il sistema di suoni e segnali emessi sulla nave quando essa esce dalla rotta per poter conoscere in anticipo tali spostamenti”, confermando quindi la relativa impreparazione tecnica della compagnia in termini di risk management, perchè proprio sulla costante simulazione di scenario preventivo si basa la buona riuscita di un crisis plan.


La lezione di marketing di Angry Birds

Avete mai giocato ad Angry Birds? Vi sembrerà una storia incredibile, un’eccezione, un colpo di fortuna: non è niente di tutto questo. Angry Birds è l’esempio di come funziona l’economia e la prova di come le più elementari regole del marketing, soprattutto nel mercato dei beni immateriali, abbiano subito un’evoluzione profondissima.
È un gioco gratuito disponibile per smartphone, tablet e anche per Pc, è un rompicapo e si basa su un meccanismo molto semplice: il giocatore deve uccidere maiali lanciando uccelli con una fionda. Ogni uccello ha caratteristiche e potenzialità diverse e ogni livello presenta elementi di complessità progressivamente crescenti.
È bastata questa idea per trasformare Angry Birds nel gioco più scaricato della storia: 700 milioni di download entro la fine del 2011 e l’obiettivo di superare la soglia del miliardo entro il 2012.
Angry Birds è stato sviluppato da Rovio, una società finlandese che un anno fa contava 20 dipendenti e oggi, sulla scia del clamoroso successo del gioco, dà lavoro a 250 persone.
Un miliardo di download a costo zero? Perché lo fanno? Come si guadagnano da vivere? Qual è il modello di business che ha portato i programmatori a mantenere il gioco gratuito anche dopo un successo straordinario?
L’intervista di Cristiana Raffa (Sole24Ore) a Ville Heijari, vicepresidente del settore Media Franchise di Rovio è illuminante.
Angry Birds svela il grande, ancora incompreso e per certi versi spaventoso passaggio culturale del mondo contemporaneo dello scambio di beni e servizi: giorno dopo giorno assistiamo allo svuotamento del concetto di prodotto (e soprattutto alla sparizione del margine relativo alla sua vendita) e il relativo slittamento verso il concetto di servizio.
La musica è il mercato dove questa trasformazione è già avvenuta e non è stata ancora digerita del tutto né dalle etichette discografiche né dai musicisti. Vendere un brano su iTunes genera un margine infinitamente inferiore rispetto alla vendita dei biglietti di un concerto, al merchandising, alla cessione dei diritti, all’indotto generato dal ‘brand-musicista’.
Rovio ha accettato la sfida e ha trasformato Angry Birds in un servizio, nel suo servizio di punta. E ha deciso di offrirlo liberamente a tutti, coprendo i costi con le inserzioni pubblicitarie (banner non particolarmente invasivi), e cedendo il 30% alle piattaforme che ospitavano il gioco, come l’Apple Store.
La regola fondamentale su cui si basa il successo di Angry Birds è oramai una vera e propria regola generale di (web-)marketing: il successo di un prodotto/servizio online dipende dalla capacità di ridurre al massimo le barriere al suo accesso, in particolare quelle relative al costo e alle difficoltà tecniche di fruizione.
Questa regola rende drammatica la differenza tra l’offerta di un prodotto a zero centesimi e l’offerta a un solo centesimo. Stabilire anche il prezzo più basso possibile crea la barriera del costo, dunque la necessità di dover eseguire una procedura, utilizzare la propria carta di credito, perdere tempo.
I giochi gratuiti su smartphone, inoltre, sono percepiti dal cliente come commodity: essendo utilizzati come passatempo leggero e non richiedendo alcun impegno cognitivo ed economico per essere scaricati, sono ‘tutti uguali’ in partenza. Un gioco, soprattutto se è sconosciuto (come lo era Angry Birds al suo esordio), vale l’altro.
Per queste ragioni se Rovio avesse offerto Angry Birds in cambio di una cifra anche infinitesimale, il gioco sarebbe stato percepito come meno interessante di un qualsiasi alternativa gratuita, a prescindere dalla sua qualità relativa.
La scelta di Rovio, dunque, è non solo giusta ma quasi inevitabile: bisogna distribuire il prodotto/servizio di punta gratuitamente allo scopo di attirare il maggior numero di clienti in potenza possibili, di farli affezionare al gioco, ai personaggi, ai nuovi sviluppi del software o a nuovi giochi, magari a pagamento.
A quel punto scatta la seconda parte del piano: Rovio oggi ha 700 milioni di clienti potenziali (chissà quanti sarebbero se il gioco fosse costato un centesimo: certamente molti meno), che non hanno ancora speso nulla e che sono maggiormente disponibili a valutare altre offerte economiche da parte degli sviluppatori di Angry Birds rispetto al momento in cui l’applicazione è stata scaricata.
E così Angry Birds, apparentemente un semplice gioco in cui colpire maiali con degli uccelli, diventa il cavallo di Troia della complessa strategia commerciale di Rovio: un’estesa offerta di mercandising, una speciale applicazione per Facebook che offre agli utenti la possibilità di acquistare speciali funzionalità e condividerle con gli amici, forse anche un film nei prossimi anni.
L’economia online, oggi, ci dice sempre la stessa cosa: se cerchi il profitto subito, sei destinato a soccombere sotto i colpi dell’enorme mole di contenuti gratuiti di qualità. Bisogna essere lungimiranti e non avidi. E bisogna divertirsi e far divertire i nostri interlocutori, che oramai sono molto più che semplici clienti: sono fan, testimonial, recensori. Non serve la pubblicità, basta convincere loro per avere successo.
Queste regole valgono con tutto ciò che è digitale: il giornalismo, le arti, i servizi.Chiunque pretende soldi per tutto ciò che produce, dice e fa è fuori dalla storia o forse deve scegliersi un’altra professione.


Sostenibilita, Csr. Bilancio di sostenibilità, arriva il servizio 'review' per migliorare il documento

Il bilancio di sostenibilità è ormai diventato uno strumento diffuso in moltissime aziende nel mondo. Si tratta di un documento, che si affianca a quello economico, che illustra l’approccio, gli impegni ei risultati ottenuti dall’azienda in ambito economico, sociale e ambientale, definendo al contempo gli obiettivi per i mesi a venire. Per migliorare questo percorso per arrivare all’obiettivo di un report integrato, il Csr manager network, l’associazione di riferimento per i professionisti della responsabilità sociale d’impresa in Italia promossa da Altis (Alta scuola impresa e società dell’università Cattolica di Milano) e Isvi (Istituto per i valori d’impresa) offre un servizio di reporting review. Gli associati al Network possono sottoporre il loro report a un apposito gruppo di lavoro volontario allo scopo di migliorare il documento grazie ai suggerimenti ricevuti. Al network possono aderire: manager responsabili delle politiche di sostenibilità; società di professionisti, consulenti o certificatori; rappresentanti della pubblica amministrazione; professionisti dei fondi etici e delle agenzie di rating etico; organizzazioni non profit. Possono far parte anche piccole imprese rappresentate da singoli imprenditori e fondazioni d’impresa. Condizioni privilegiate sono previste per studenti di corsi di laurea specialistici/Mba, laureati e giovani professionisti e per tutti sono previste anche quote di iscrizione semestrale. Oltre al reporting review, l’Associazione offre molteplici vantaggi. Accanto ai benefici propri di confronto e appartenenza alla comunita’ professionale, chi aderisce può prendere parte o co-promuovere eventi pubblici in cui valorizzare le proprie best practice; ha l’opportunità di beneficiare di un supporto per l’implementazione di politiche di sostenibilità particolarmente complesse; può approfondire in anticipo nuovi standard o modelli di sostenibilità condividendo esperienze, traguardi e criticità in una logica di apprendimento continuo Per i soci sono inoltre organizzati workshop periodici riservati di aggiornamento, all’incirca 4-6 ogni anno. Il primo di questi appuntamenti, a marzo, sarà dedicato al tema della comunicazione e valorizzazione delle proprie politiche di sostenibilità a partire dai dati del bilancio, mentre a maggio il tema sarà il coinvolgimento della Csr nel piano strategico d’impresa. Nel corso degli anni, il Csr manager network ha visto crescere il numero degli iscritti, ad oggi pari a un centinaio di professionisti. Tra i soci che hanno aderito in questi ultimi mesi i rappresentanti di alcune grandi aziende e di società di consulenza nella sostenibilità e nelle risorse umane tra cui Mondadori, Pirelli, Sap, Sea-Aeroporti di Milano, Solvay, G-Restart, Altran e Ecoways.


MA (NON) FATECI RIDERE!

Aaron Perlut, professionista delle RP da 18 anni e partner dell’agenzia digitale Elasticity di Saint Louis, pubblica su Forbes un articolo in cui si invitano gli addetti alle relazioni pubbliche a fare ricorso all’umorismo per creare un maggiore attaccamento del pubblico al brand di riferimento.
L’autore afferma che gli show nazionali che trattano di attualità in maniera satirica sono per molti americani il solo modo di venire a conoscenza delle notizie.
Due report (uno dell’Indiana University, l’altro di Rasmussen Reports) dimostrerebbero anzi che il 32% dell’audience fra i 30 e i 39 anni sostituirebbe all’informazione di tipo tradizionale (quale quella dei telegiornali) l’informazione di tipo comico/satirico di programmi quali “Weekend Update” di SNL, “The Daily Show” di Jon Stewart e il “Colbert Report”.
Milioni di persone si tengono aggiornate attraverso le fonti di informazioni tradizionali, in cui le notizie comunicate dalle aziende entrano in concorrenza con quelle su politici, celebrità e uomini d’affari. Per arrivare al cuore del target di riferimento, l’azienda dovrebbe invece cercare delle forme di comunicazione alternative ai circuiti dominanti. L’autoironia e la satira possono essere potenti strumenti di comunicazione, se utilizzate in maniera efficace.
Perlut, che è anche Presidente del Consiglio d’Amministrazione dell’American Mustache Institute, ha recentemente lavorato per la Quicken, società controllata dalla Intuit, pubblicando un report sul dato che gli Americani con i baffi si trovano in una condizione di crisi finanziaria perché spendono i soldi per le donne, i pantaloni di pelle e lo sbiancamento dentale. Ne è risultata per l’azienda una visibilità maggiore di quanto abbia mai ricevuto e un aumento di consumatori attratti grazie all’umorismo.
Perlut crede che oggi, comunque, l’uso della parodia nell’attività di public relations per far parlare di aziende e brand sia abbastanza diffuso. Si tratta, tuttavia, di un risultato raggiunto lentamente, nel tempo; mentre l’uso dello humor nel messaggio pubblicitario ha una lunga storia con personaggi quali il Re decrepito di Burger King e il “Vero uomo di Genio” della Bud Light.
“Erroneamente, la maggior parte degli addetti alle RP sono convinti che il mondo viva e muoia sulle pagine di media come The Wall Street Journal e propendono per l’uso di vocaboli tecnici quale “strategico”, “orientato ai risultati”, “sinergie””: parole che hanno poco significato per un target composto di non addetti ai lavori.
Le aziende gestite da questo tipo di RP finiscono per perdere l’occasione di conquistarsi la simpatia del vecchio e nuovo pubblico.
I consumatori, attualmente, vogliono comunicare con i brand nei social forum online: qui ricercano ‘voci’ autentiche e autocritiche, che non si prendano troppo sul serio.
Lo staff RP di Hormel Bacon ha creato il World Bacon Games, un evento online regionale e nazionale dove i partecipanti potevano vincere medaglie di bacon: una strategia di attrazione del pubblico molto più efficace – sostiene Perlut – del contattare giornalisti enogastronomici per scrivere recensioni brillanti sui propri prodotti.
L’iniziativa, infatti, ha avuto ottimi risultati tanto che secondo le statistiche nel periodo della campagna la parola ‘bacon’ era più ricercata sul web della keyword ‘Obama’.
La valutazione sull’includere o meno una comunicazione di tipo ‘satirico’ nell’attività di RP va comunque ponderata con attenzione affinché lo humour non danneggi il brand. Tuttavia dovrebbe almeno essere presa in considerazione, in quanto costituisce una buona opportunità per entrare in contatto e catturare il proprio target di riferimento.


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