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Twitter migliora le ricerche grazie al “fattore umano”

Non si tratta di un particolare algoritmo o di una sofisticata tecnologia, bensì l’esatto opposto, l’utilizzo di personale “umano” che affiancherà la ricerca per definire i contenuti che le macchine non riescono a comprendere.
Anche l’algoritmo più complesso non è in grado di valutare un determinato contenuto alla stregua di un essere umano. Ecco perchè Twitter ha deciso di compiere quello che all’apparenza può sembrare un passo indietro, ricorrere all’opera di persone in carne ed ossa in un settore che è  sempre più automatizzato, che è quello della ricerca.
La rivoluzione in atto nella piattaforma di microblogging è qualcosa di ormai noto. Da quando è scoppiata la “guerra dei social network” l’uccellino cinguettante si è smarcato dalle definizioni di cui “soffriva” in precedenza (piattaforma spartana e priva di un valido business model) e si è lanciato di peso nel mercato dei social network che contano, con nuove features che consentono di non rimpiangere i competitor maggiori come Facebook.
Al pari della concorrenza, Twitter ha individuato nella ricerca e nelle notizie le chiavi di volta per trasformarsi da piattaforma di microblogging a vero e proprio social network, di quelli in grado di fornire agli utenti tutte le informazioni di cui hanno bisogno, senza la necessità di cercarle in altri lidi. Come selezionare e categorizzare al meglio i contenuti? Gli algoritmi di ricerca sono sempre più evoluti ma continuano ad essere limitati rispetto alle potenzialità della mente umana.
Ecco perchè Twitter ha individuato centinaia di volontari in tutto il mondo che, per una manciata di euro, sette giorni su sette  trascorrono intere giornate davanti al pc, cercando di attribuire le giuste categorie ed i giusti collegamenti a quelli che sono i top trend sulla piattaforma. Un contributo che si rivela particolarmente prezioso soprattutto nell’analizzare espressioni, slang e modi di dire che l’automatizzazione degli algoritmi non potrebbe mai cogliere.
A cosa serve tutto questo? La sezione del social network chiamata “scopri” raccoglie quelli che sono gli argomenti più caldi al momento su Twitter. Una migliore categorizzazione e indicizzazione dei contenuti trasformerebbe la sezione in una vera e propria rassegna stampa, una raccolta di articoli che consentirebbe agli utenti di mantenersi informati senza abbandonare la terra dei tweet. La divisione degli argomenti per tematiche, quindi, sarebbe un passaggio fondamentale.
Una maggiore organizzazione dei contenuti poi sarebbe di enorme aiuto per la piattaforma per i tweet sponsorizzati ed anche in questo caso i volontari giocano un ruolo cruciale, garantendo con il loro lavoro pubblicità più specifiche ed efficaci, e quindi più redditizie.
Twitter ha dato il via al servizio annunciandolo in maniera piuttosto ironica, con un video realizzato proprio dai volontari che si occupano della ricerca.




Premi di mercato e coinvolgimento delle pmi per promuovere la Csr

E’ la ricetta dell’eurodeputato Raffaele Baldassarre
Premi di mercato, norme di indirizzo e coinvolgimento delle Piccole e medie imprese. E’ questa la ricetta di Raffaele Baldassarre, Rapporteur per la Responsabilità Sociale d’Impresa al Parlamento Europeo per promuovere e diffondere maggiormente una cultura delle responsabilità sociale d’impresa. Sul tema, spiega all’Adnkronos l’eurodeputato, “l’Unione europea è estremamente attenta”. Basti pensare alla ‘Strategia rinnovata dell’Ue per il periodo 2011-2014 in materia di responsabilità sociale delle imprese’ che ha definito la Csr (Corporate social responsability) “la responsabilità delle imprese per l’impatto sulla società”. Si tratta, spiega Baldassarre, “di una strategia ampia che mira a rendere più consapevoli le imprese del loro ruolo nella società”.
Sulla Csr il dibattito si è concentrato per molto tempo sul tipo di approccio da proporre alle imprese: volontario o obbligatorio? L’approccio “non può essere universalistico anche perché parliamo di settori e aziende che sono diverse. L’approccio dunque deve essere rispettoso di una multidisciplinarietà ma con criteri uniformi”. Secondo Baldassarre “bisogna puntare sullo stimolo e la persuasione. L’approccio deve essere sollecitato da premi di mercato e da norme che vanno in questa direzione. Bisogna stimolare e porre le premesse per una generale osservanza delle norme. Più un’azienda è trasparente tanto più favorisce se stessa sul mercato”.
Le grandi imprese ormai, spiega Baldassarre, “hanno acquisito questo valore. Molto più importante e difficile, invece, riguarda l’approccio alla Csr da parte delle Piccole e medie imprese, che rappresentano il 98% delle imprese europee. L’obiettivo dei prossimi anni deve essere un maggior coinvolgimento delle Pmi che possono svolgere un ruolo fondamentale nella promozione della responsabilità sociale d’impresa proprio per la loro vicinanza con i territori”.
 




CSR: i 10 errori più frequenti dei report di sostenibilità (e come evitarli)

I report di CSR sono diventati la norma per qualsiasi azienda impegnata in un business responsabile. Ma se redatti in modo errato, possono fare più male che bene. Un report stilato nel giusto modo aumenta il prezzo delle azioni e rafforza la fiducia degli stakeholder nell’azienda. Un report fatto male, invece, espone alla mancanza di fiducia da parte dei consumatori e a critiche pesanti da parte delle parti interessate.
Dopo aver visto quali azioni intraprendere per integrare la CSR davvero nelle strategie aziendali, ecco, allora, i 10 errori da evitare al momento di pianificare, condurre e promuovere un rapporto di CSR, con piccoli suggerimenti per evitarli.
1) Obiettivi deboli: i rapporti di sostenibilità costruiti intorno a deboli obiettivi organizzativi sono destinati a fallire. Sapere cosa si desidera per la propria azienda è fondamentale e bisogna costruire il report attorno a questo
2) Dati mal gestiti: una buona raccolta dei dati è essenziale per ottenere risultati significativi ricavati da iniziative quali l’auditing o l’impronta ambientale. Bisogna assegnare le responsabilità della raccolta dei dati a persone preparate – sia all’interno che all’esterno della vostra azienda – e controllare continuamente i numeri con precisione
3) Priorità poco chiare: non riconoscere l’importanza dell’integrazione fra i tre pilastri dello sviluppo sostenibile (ambiente, economia e società) è un errore gravissimo. La sostenibilità a lungo termine va oltre i profitti degli azionisti e un buon manager avrà come priorità tanto la sostenibilità che la performance finanziaria
4) Sottovalutare i feedback: le segnalazione non dovrebbe essere uno sforzo a senso unico. Al contrario, bisogno accettare i consigli che vengono da terze parti, come auditor e stakeholder. Potrebbero commentare la relazione e contribuire a verificare l’accuratezza dei dati
5) Infrangere le regole: un buon report dovrebbe seguire una struttura o linea guida di fiducia. La Global Reporting Initiative ne è un ottimo esempio.
6) Evitare il confronto: le aziende tendono a monitorare i loro progressi internamente. Bisogna, invece, accettare di non essere gli unici a vagare nel grande mare della sostenibilità. I soggetti interessati vorranno sapere quanto sei diventato sostenibile rispetto ai colleghi del settore, non necessariamente con i propri parametri di riferimento.
7) Obiettivi irraggiungibili: gli obiettivi del report di CSR dovrebbero essere collegati alle priorità aziendali. Renderli rilevanti e ambiziosi è importante, ma lo è ancor più che siano realizzabili.
8) Sottostimarsi: non limitare la comunicazione della performance di sostenibilità al bilancio sociale. Utilizzare una varietà di mezzi per comunicare i progressi e le sfide, assicurandosi che il messaggio sia coerente in tutti i media utilizzati.
9) Pensare a breve termine: non si dovrebbe abbassare un’opportunità di sostenibilità semplicemente perché ha un prezzo più alto o risultati visibili solo sul lungo periodo. Sì, i risultati trimestrali sono importanti, ma, se si allungasse lo sguardo al futuro, la ricompensa potrebbe essere molto più grande.
10) Fare inavvertitamente greenwashing: trasmettere il vostro progresso ambientale e sociale è importantissimo, ma sarebbe un errore gravissimo concentrarsi esclusivamente solo sugli aspetti positivi o sui programmi irrilevanti per la vostra organizzazione. La segnalazione deve essere significativa e coinvolgere le aree in cui si hanno ancora margini di miglioramento rispetto agli obiettivi di CSR della mission aziendale.




L'azienda paga i dipendenti per i lavori socialmente utili


I DIPENDENTI SI DEDICANO A CURA DEL VERDE, ASSISTENZA AGLI ANZIANI E IMBIANCANO LE SCUOLE La scelta di Alessi invece di chiedere la cassa integrazioneIn questo modo il Comune non dovrà tagliare servizi
OMEGNA (Verbano-Cusio-Ossola) – Da queste parti si dice: la Niguja la va’n su, e la legg a la fem nu!, la Nigoglia va in su e la legge la facciamo noi; perché il torrente emissario del lago d’Orta, qui a Omegna, scorre verso le montagne, insomma va controcorrente. Proprio come Michele Alessi, amministratore delegato della storica azienda di design (85 milioni di fatturato nel 2012) nata tra le Prealpi novaresi nel 1921, che «la legge» se l’è fatta da solo e anziché mettere in cassa integrazione i dipendenti nei momenti fisiologici di minor produzione, da giugno a novembre, li impiegherà per dei lavori socialmente utili al paese: ridipingeranno 3.200 metri quadrati di scuole in via De Amicis; terranno puliti lungolago, giardini e sentieri nei parchi; assisteranno anziani, disabili e bambini. Il reclutamento ha avuto un’adesione bulgara: ha detto di sì oltre l’85% dei 340 dipendenti dello stabilimento di Crusinallo, con cda e dirigenti al completo.
L’amministratore delegato Michele Alessi (Piaggesi)L’amministratore delegato Michele Alessi (Piaggesi)«Ho grande rispetto per il lavoro, che non è soltanto fonte di remunerazione, ma è uno degli strumenti per costituire la nostra identità. Ecco perché non mi piace l’idea di essere pagato per non fare niente», spiega Michele Alessi, che di suo metterà a disposizione quattro mezze giornate, una delle quali da trascorrere con i rappresentanti sindacali per curare il verde. Alla parte organizzativa ha pensato Nicoletta, primogenita dei suoi quattro figli, fondatrice della Goodpoint, una società che supporta le aziende nel sociale. Il risultato è questa iniziativa, unica nel suo genere, che fa risparmiare lo Stato due volte: non paga la cassa integrazione e non paga i servizi ai cittadini.«Ho aderito perché ho fatto l’obiettore di coscienza e questa mi sembrava una bella cosa per la comunità», racconta Moreno Mastantuono mentre canta «Andrea si è perso» e passa il rullo con la vernice sul soffitto. Ha 40 anni, metà li ha trascorsi qui a fare manutenzione.Nel salone accanto, Gianluigi Vicini, 52 anni di età e 25 di azienda, con una pennellessa in mano va subito al punto: «Se tante fabbriche facessero lo stesso, l’Italia andrebbe meglio». Loro due fanno parte del gruppo che ha già cominciato i lavori «alternativi», dedicando il massimo consentito, cioè 64 ore a persona, e che adesso sta risistemando uno spazio di 130 metri quadrati dove si trasferirà una cooperativa di disabili che non ha più lo spazio in paese. «I locali resteranno a loro disposizione in comodato gratuito a tempo indeterminato. Già offrono servizi a diverse aziende della zona: per noi mettono le guarnizioni nelle buste o avvitano i tappi delle saliere. È bello che possano integrarsi nella realtà produttiva», aggiunge Nicoletta Alessi.
Chi non se l’aspettava è il sindaco di Omegna, Adelaide Mellano, medico specializzato nelle terapie del dolore e palliative, eletta un anno fa con il Pd. «Quando gli Alessi mi hanno contattata per propormi il progetto “Buon lavoro” non ci potevo credere. Mai avremmo sperato tanto. In questi mesi di crisi abbiamo mantenuto i servizi fondamentali, cercando di tutelare i malati e le fasce più deboli, senza toccare la mensa scolastica, ma abbiamo ridotto gli interventi negli altri settori, compresa la pulizia degli spazi pubblici», racconta nel suo ufficio di primo cittadino che si affaccia sul lago. Adesso, invece, si ritrova con novemila ore a disposizione, grazie alle quali spera di poter recuperare anche alcuni edifici in disuso che potrebbero essere riutilizzati come alloggi popolari. Prosegue: «Era importante spiegare ai miei cittadini rimasti senza lavoro che i dipendenti dell’Alessi non gli stavano togliendo nulla, anzi. Che senza il loro aiuto non avremmo fatto niente». E invece ora tutti i lunedì e i venerdì quattro gruppi di tre persone terranno pulito il paese, e il mercoledì si dedicheranno ai sentieri.
Non a caso il sindaco del vicino Pettenasco si dice «un po’ invidioso», ma ben felice di poter fare la sua parte in veste di buyer della Alessi. Mauro Romagnoli farà l’imbianchino alle medie e alle elementari, tenendo conto delle richieste dei bambini: niente grigio o marrone alle pareti. Dice: «La proposta è bella per due motivi: dà la possibilità di fare e di conoscere, per esempio il disagio». Certo, se ci fossero degli sgravi fiscali l’esperimento si potrebbe anche replicare. Conclude l’amministratore delegato Alessi: «Questa esperienza è un unicum, difficile fare previsioni per il futuro. Ma se gli interlocutori diventassero tre, l’azienda, il Comune e lo Stato, allora si potrebbe pensare di riproporla».




Violazione copyright, chi ci rimette? "In fondo è tutto marketing gratuito"

Studio indipendente commissionato dall’Agcom inglese va controcorrente. E prova ad anticipare le soluzioni utili a un giusto equilibrio tra offerta legale dei contenuti e l’ampliamento della libertà di scelta dei consumatori. Per evitare la criminalizzazione dei comportamenti quotidiani
OGNI VOLTA che rigiriamo una email, pubblichiamo un poster pubblicitario su Facebook o una clip musicale su Youtube violiamo il copyright di qualcuno. Ogni volta che facciamo lo schizzo di un quadro durante la riunione aziendale violiamo un copyright, ogni volta che incolliamo la copertina di un libro su Twitter o pubblichiamo un articolo di giornale sul nostro blog violiamo un copyright. Ogni volta che fotografiamo i nostri bambini dentro un museo violiamo un copyright. Siamo tutti trasgressori. Ma chi ci rimette? Secondo i pubblicitari nessuno, è tutto marketing gratuito; secondo le associazioni di categoria a rimetterci sono gli autori delle opere. Un professore americano, John Tehranian, nel suo libro “Infringment Nation” ha calcolato l’ammontare delle potenziali richieste di risarcimento per ognuno di questi innocui atti quotidiani stimandolo su circa un milione di dollari al giorno.
Tutti criminali allora? Per l’industria del copyright sì. Le associazioni di categoria in tutto il mondo  –  gli editori belgi, l’associazione cinematografica americana, la Siae italiana, la Business Software Alliance e molte altre  –  lamentano quotidianamente perdite di miliardi di dollari o di euro di mancati introiti, tasse inevase e perdita di posti di lavoro, dovuti alla diffusione illegale di opere creative. I numeri che danno sono stratosferici e qualche dubbio su come vengono calcolati rimane.
Di recente l’Autorità inglese per le telecomunicazioni, Ofcom equivalentealla nostra AGCOM, ha pubblicato uno studio esteso sulla violazione del diritto d’autore in Inghilterra. Condotto su un campione di alcune migliaia di persone con un metodo inedito, questionari online e interviste faccia a faccia, lo studio di Kantar Media incaricata da Ofcom e pagata dall’Intellectual property office (Ipo) inglese ha fatto un po’ di chiarezza sull’allarme copyright.
La ricerca ha stimato che nei tre mesi di monitoraggio dei comportamenti del campione su Internet solo 1l 16% dei soggetti considerati, dai 12 anni in su, aveva scaricato o “strimmato” o “acceduto” a materiale “illegale”, cioè materiale di cui non si posseggono i diritti relativi all’acquisto. I livelli di violazione di questi diritti sono piuttosto variabili: l’8% ha consumato musica senza pagare, il 6% lo ha fatto coi film, il 2% con software e videogames. La maggior parte dei trasgressori sono maschi tra i sedici e i trentaquattro anni. Ma l’analisi ha anche registrato che questi consumatori scorretti consumano più contenuti digitali di tutti gli altri, anche pagandoli. Di questo 16% la metà ha dichiarato di farlo illegalmente perché i contenuti sono “gratuiti”, e perché è comodo e veloce. Un quarto dei trasgressori dice di farlo per provare i “prodotti” e decidere se comprarli oppure no.
Il problema senza dubbio esiste e pone un questione centrale dell’era della riproducibilità tecnica di ogni oggetto e opera dell’ingegno umano, quello della giusta retribuzione degli autori e del mantenimento della filiera industriale grazie alla quale le loro opere arrivano confezionate al grande pubblico. Ma l’irrigidimento delle norme per tutelare il copyright non è l’unica strada per farlo. Nello studio di Ofcom il 39% dei trasgressori intervistati ha dichiarato che se i prodotti costassero meno non li scaricherebbero illegalmente, il 32% non lo farebbe se quello che cercano fosse disponibile legalmente, il 26% non lo farebbe se fosse finalmente chiaro cosa sia sotto copyright e cosa no.
Non a caso la Commissione Europea ha dichiarato di voler avviare un dialogo strutturato con tutti gli stakeholder per adattare il copyright all’era digitale e affrontare il tema della portabilità transfrontaliera dei contenuti, la questione degli user generated contents (contenuti generati dagli utenti) e del data mining (analisi di una grande mole di dati), come pure i prelievi sulle copie private. Un dialogo necessario per evitare che capiti ancora di poter sequestrare il computer a una bambina finlandese di nove anni che aveva scaricato la canzone di una pop star nazionale, molto popolare tra le adolescenti e le ragazzine.
Tutto qui? No. Le proposte alternative a riequilibrare i diritti degli autori e dei consumatori sono molteplici. A cominciare da quella del Centro Nexa del Politecnico di Torino di dare la facoltà a tutti gli autori di rilasciare le proprie opere nel pubblico dominio e di indicare di volta in volta le opere che non debbono starci. Una proposta simile a quella del dual licensing lanciata da Creative commons e molti gruppi di artisti e attivisti di poter distribuire le proprie opere con full-copyright o con un copyright attenuato secondo le convenienze e gli scopi del proprio lavoro. Il meccansimo potrebbe funzionare. Creative Commons ha festeggiato proprio questo mese i 10 anni dalla nascita del set di licenze libere che oggi campeggiano su moltissimi contenuti di Flickr o Tumblr, giornali, settimanali e televisioni come Al Jazeera e che ci dicono che tutto quello che non è vietato è permesso. Permesso d’autore.