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Chi si fida di Big Pharma?

È tempo che l’industria farmaceutica si impegni per riconquistare la fiducia di medici e pazienti, modificando molti suoi comportamenti che alla lunga le si stanno ritorcendo contro. Negli anni trascorsi un gran numero di ombre si sono addensate su questo settore industriale che pure è un potente motore di sviluppo di nuovi trattamenti capaci di portare un importante contributo alla salute delle persone. Ne parla un editoriale pubblicato su Jama intitolato significativamente Restoring Confidence in the Pharmaceutical Industry.
Tra i problemi principali segnalati dall’editoriale c’è la tendenza da parte dell’industria farmaceutica a manipolare e presentare in maniera scorretta i dati provenienti dalla ricerca che produce o sponsorizza. Dicono gli autori, Howard Bauchner e Phil Fontanarosa: “Un report che ha comparato l’informazione proveniente da trial di efficacia inclusi nei documenti della Food and Drug Administration (FDA) americana per le domande di approvazione di nuovi farmaci, con l’informazione pubblicata in articoli scientifici, ha scoperto che molti trial clinici inseriti nelle domande non erano pubblicati 5 anni dopo l’approvazione del farmaco”. Un fatto di per sé molto grave anche dal punto di vista concettuale, perché separa il percorso per il raggiungimento dell’approvazione di un farmaco da quello dell’avanzamento delle conoscenze scientifiche, e anche la loro condivisione con la comunità dei ricercatori. Come se fossero due cose diverse, come se l’approvazione di un nuovo farmaco fosse un obiettivo esclusivamente industriale ed economico. Il che ovviamente, dal punto di vista della società civile non è e non può essere.
Ma c’è di più, lo stesso report citato dall’editoriale ha anche trovato discrepanze tra obiettivi primari, analisi statistiche e conclusioni dei documenti per l’FDA e quelli presenti negli articoli che comunque alla fine sono stati pubblicati nella letteratura scientifica. Insomma, un gran pasticcio, una manipolazione non giustificabile. Se si considera che tutto questo sta diventando sempre più di pubblico dominio e che le grandi multinazionali farmaceutiche sono incorse anche in diverse multe per marketing non etico e illegale, si capisce quanto sia importante e urgente un cambiamento.
Secondo gli autori dell’editoriale, per recuperare credibilità sociale è tempo che l’industria farmaceutica si impegni a:

  • Lasciare ai ricercatori indipendenti il compito di analizzare i dati delle ricerche eventualmente disegnate e sponsorizzate dall’industria stessa.
  • Lasciare ai ricercatori indipendenti la stesura degli articoli scientifici su ricerche sponsorizzate dall’industria.
  • Rendere pubblici i dati dei trial clinici sponsorizzati dall’industria perché ricercatori indipendenti qualificati possano revisionarl.
  • Evitare la pubblicità diretta ai consumatori (nei paesi in cui è permessa) almeno fino a quando non siano stati completati anche tutti gli studi postmarketing, mostrando così di avere a cuore la sicurezza dei pazienti (che non può essere garantita dai brevi e numericamente limitati trial per la registrazione).

Poi restano comunque aperti molti altri problemi. Ad esempio il fatto che nel 2013 scadranno almeno 40 brevetti di farmaci con ridotti introiti per l’industria farmaceutica di oltre 35 miliardi di euro. Come farà a recuperare cifre tanto colossali? Secondo un articolo comparso su The Economist una strategia in corso è quella di proporre vecchi farmaci per nuove indicazioni. Si tratta di un modo per risparmiare fino al 40 per cento sui costi dello sviluppo di nuove molecole. Un approccio che può essere utile, tanto che oggi viene portato avanti anche da alcune università, ma che se diventa l’alternativa al vero sviluppo di nuove molecole, rischia di minare nei prossimi anni il potenziale per la scoperta di farmaci realmente innovativi.




Poca sostenibilità nella Supply Chain

OSSERVATORIO BILANCI CSR 2011 DI AVANZI E A&S
Non tutte le crisi vengono per nuocere. Quella attuale potrebbe infatti spingere le imprese a rivedere le proprie strategie tra cui quella relativa agli acquisti e alla selezione dei fornitori sulle basi di criteri che premiano i comportamenti etici e sostenibili. La tendenza emerge dalla quinta edizione dello studio “Le pratiche di sostenibilità della Supply Chain nei Bilanci Csr 2011” condotto dall’Osservatorio Bilanci Csr di Avanzi e da Acquisti & Sostenibilità che sottolinea una crescente attenzione al reporting delle pratiche di Csr all’interno della filiera degli acquisti.
Nonostante la forte spinta determinata dalla disclosure richiesta dagli analisti Sri e prevista dalla nuova versione G4 dallo standard GRI, la strada tuttavia è ancora in salita. L’adozione dei criteri Csr nella selezione dei fornitori e l’inserimento della clausola contrattuale relativa al rispetto del Codice Etico, con effetti anche sanzionatori nel caso di inosservanza, non risponde di fatto a un miglioramento del profilo ambientale e sociale della catena di fornitura. Nella maggior parte dei casi, infatti, l’obiettivo di tali procedure resta prevalentemente quello di mitigare il rischio operativo e reputazionale dell’azienda. Allo stesso modo, le iniziative di coinvolgimento specifico sui temi Esg sono scarse e perlopiù confinate al semplice scambio di informazioni gestito attraverso il portale fornitori.
Come se ciò non bastasse, chi ha condotto l’indagine, che ha lo scopo di valutare attraverso indicatori di facile lettura i progressi nella rendicontazione e comunicazione della gestione della sostenibilità nella supply chain, ha dovuto purtroppo spesso fare i conti con la mancanza non solo di informazioni e dati quantitativi, ma anche di uniformità tra gli indicatori stessi.
L’ambito della ricerca è rappresentato dalle società quotate negli indici Ftse All Share a fine agosto 2012 per un totale di 222 titoli. All’interno di questo universo di riferimento, ad aver pubblicato il bilancio Csr in versione completa sono state 40 società. I ricavi conseguiti ammontano complessivamente a circa 576 miliardi di euro, mentre il valore degli acquisti di beni e servizi è invece di circa 230 miliardi di euro, con un’incidenza media sui ricavi pari al 40%. Per reperire le informazioni oggetto di analisi sono stati considerati l’Annual Report, i Codici Etici, i Bilanci Csr, le sezioni sostenibilità dei siti web e i portali fornitori dedicati.
La prima evidenza positiva emersa dall’Osservatorio è lo spazio attribuito alla rendicontazione relativa agli aspetti di integrazione della Csr nella catena della fornitura: il 53% del campione ha dichiarato di dedicare uno spazio di 5 pagine e oltre. La prima nota dolente riguarda invece il ruolo del Codice Etico ( o Codice di Condotta aziendale): nonostante il 90% del campione preveda all’interno del documento uno spazio riservato ai rapporti con i fornitori, solo il 10% ha indicato precisi impegni etici verso i fornitori ( come ad esempio la puntualità nei pagamenti) oppure l’integrazione reale dei principi di responsabilità sociale e ambientale nella catena di fornitura (ad esempio, la preferenza per i fornitori più virtuosi).
Nel processo di selezione dei fornitori il 78% delle aziende esaminate dichiara di considerare anche criteri di responsabilità ambientale e sociale: il valore è confortante anche se rispetto allo scorso anno non vi sono stati incrementi. Ben il 60% del campione ( con un’incidenza del 76% sul valore complessivo degli acquisti) inserisce clausole di Csr nei contratti e documenti di gara: tra queste la più frequente è il rispetto del Codice Etico della società committente. Quando si guarda tuttavia alle prassi concrete, tuttavia, non è chiaro se l’eventuale inosservanza dia o meno luogo a una sanzione, né tanto meno all’interruzione del contratto. La stessa percentuale di aziende è in grado di fornire informazioni relative al rating dei propri fornitori sulla base dei parametri di Csr: nonostante la valutazione delle prestazioni dei fornitori rispetto agli standard previsti dal committente sia una pratica fondamentale per migliorare la qualità degli acquisti sotto il profilo ambientale e sociale, tale monitoraggio resta prevalentemente un’attività ad esclusivo appannaggio delle grandi aziende. La percentuale si riduce ulteriormente quando si passa alla fase di verifica vera e propria: solo il 40% delle società del campione dichiara di effettuare audit presso i propri fornitori sia ai fini della selezione iniziale, sia in fase di monitoraggio successivo.
Il principale elemento distintivo, e anche più critico, dell’ultima edizione dell’indagine rispetto a quella dell’anno precedente, risiede nel livello di rendicontazione quantitativa. La tendenza positiva è data dal livello di diffusione della rendicontazione: il 73% del campione è in grado di presentare dati e Key Performance Indicators (Kpi) rispetto alla gestione dei fornitori. Tale percentuale viene fatta risalire dagli autori stessi dell’Osservatorio all’attenzione posta dagli analisti Sri (tra cui SAM-Dow Jones) che nei questionari per il rating hanno anticipato l’ampliamento degli indicatori sulla supply chain previsti dalla nuova versione dello standard Gri G4 che entrerà in vigore l’anno prossimo.
Nonostante l’incremento nella disponibilità di dati relativi alla caratterizzazione sia degli acquisti, sia della base dei fornitori, le difficoltà nell’analisi tuttavia permangono: i Kpi impiegati dalle aziende, e in grado di misurare, e quindi rappresentare, correttamente l’efficacia della gestione rispetto ai criteri di sostenibilità, hanno di fatto ancora una diffusione limitata e si confermano poco omogenei tra loro.




Sostenibilita': studenti a lezione di Csr e di tutela ambientale

La realizzazione di uno stagno didattico nel giardino della scuola, lo sviluppo di un progetto di responsabilita’ sociale d’impresa (Csr) per migliorare la propria citta’ e una passeggiata educativa nei boschi di legno certificato della Val Chisone. Sono alcune delle attivita’ al centro dei tre progetti educativi ideati da Leroy Merlin in collaborazione con gli enti locali, Koine’ cooperativa sociale onlus, fondazione Sodalitas e Pefc Italia. Protagoniste delle iniziative sull’educazione al vivere sostenibile e al rispetto dell’ambiente saranno 61 classi delle scuole primarie e secondarie della Lombardia e del Piemonte per un totale di 1.220 studenti.
“Io scelgo sostenibile” e’ il progetto che nato dalla collaborazione con Koine’ cooperativa sociale onlus che prevede tre percorsi educativi (fai da te e riutilizzo, caccia agli sprechi, cura del microhabitat a casa e a scuola) grazie ai quali gli studenti impareranno a realizzare panchine per la scuola, cestoni per la raccolta differenziata, orti didattici, giardini delle farfalle, casette nido per educare alla biodiversita’. “I giovani per il territorio”, in collaborazione con la fondazione Sodalitas, invita gli studenti a realizzare un progetto di Csr per il proprio territorio dedicato alla riqualificazione territoriale e prevede l’introduzione alle tematiche della Csr e analisi del territorio, in cui gli studenti si interfacciano con enti locali, cittadinanza, imprese per individuare l’opera che puo’ migliorare la propria citta’.
Una giuria composta da rappresentanti di fondazione Sodalitas, Leroy Merlin e degli istituti scolastici di riferimento scegliera’ il progetto vincitore da reaizzare. “Conosciamo e compensiamo i nostri impatti”, in collaborazione con Pefc, e’ un percorso dedicato alla conoscenza del legno, con un’introduzione in aula sui cambiamenti climatici e un’esperienza diretta in un bosco di legno della Val Chisone da cui deriva legname tracciato e certificato. Ai ragazzi della scuola media statale Nicoli di Settimo Torinese sara’ proposto un percorso di sensibilizzazione al fine di conoscere e poter calcolare in maniera coinvolgente e diretta alcuni impatti ambientali: perfomance dell’Istituto scolastico (energia, gas, emissioni di gas a effetto serra), utilizzo dell’acqua, trattamento dei rifiuti, trasporti.




Movimento a cinque sette

Di Luca Poma
La comunicazione dell’M5S: un decalogo di criticità
 
Mentre il fenomeno del M5S prosegue la Sua corsa, arrancando al Comune di Roma dopo gli inaspettati e strabilianti successi delle recenti elezioni politiche, prosegue senza sosta il dibattito sul web – tra addetti ai lavori del settore comunicazione, e non solo – circa i presunti atteggiamenti “settari” dei suoi iscritti, e s’impone quindi una riflessione di taglio più tecnico su alcuni aspetti critici relativi alle strategie di comunicazione del team di Grillo.
Il fondatore non è certo nuovo nel mondo del web: in molti – troppi – dimenticano l’eccellente ranking del suo blog, che non è nato certamente come strumento di propaganda per le ultime elezioni politiche. Attivo da anni, è riconosciuto come uno dei blog più frequentati al mondo – sebbene disponibile solo in lingua italiana, non certo la più utilizzata nel pianeta – e il passaggio da piattaforma di dimensione movimentista e di protesta a piattaforma di dimensione politica era quindi se non probabile perlomeno possibile, nonchè del tutto legittima: bene anzi farebbero i vetusti uffici di comunicazione dei partiti “tradizionali” a fare il punto sulle proprie iniziative di engagement sul web, assai inefficaci fatta eccezione forse per il PD, a mio avviso però più per merito dell’iniziativa frizzante dei suoi giovani aderenti che di linee guida chiare da parte dei vertici romani. Come è noto, Grillo ha intercettato lo scoramento e la voglia di cambiamento, ha viaggiato su e giù per il paese, di piazza in piazza e di post in post tra la supponente indifferenza dei leader politici italiani – PdL in testa, realmente all’età della pietra da punto di vista delle Digital PR – giungendo a fine campagna elettorale – partendo da posizioni neo ecologiste e un po’ “nimby” tipiche di una certa sinistra radicale, e con qualche ammiccamento a CasaPound con la sua dichiarazione da “non antifascista” – a catalizzare il consenso di ben 8.000.000 di cittadini italiani.
Pur tuttavia, la ribalta dei mass-media nazionali ha evidenziato anche alcune contraddizioni del movimento, e diversi osservatori hanno sempre più insistentemente tracciato analogie tra le prassi del M5S sul tema della comunicazione e delle relazioni interne ed esterne e le prassi in vigore in alcuni movimenti settari (1)
Pur volendo dare per scontata la buona fede di fondatori e aderenti, alcuni paralleli in effetti s’impongono:
1)      l’M5S non risulta abbia mai pubblicato alcun bilancio, o perlomeno esso non risulta accessibile e adeguatamente pubblicizzato. Peggio, il “resoconto” delle spese della campagna elettorale 2013 – Tsunami Tour è risultato tanto incompleto e carente da lasciare spazio a non pochi dubbi e critiche anche accese. Questa situazione pone infatti un concreto problema sotto il profilo della trasparenza della comunicazione, e autorizza qualunque osservatore a formulare le ipotesi più balzane – e probabilmente neppure fondate – circa quantità di denaro movimentato e modalità di approvvigionamento dei fondi;
2)      dal punto di vista formale, nonostante gli sforzi – indubbi e sotto gli occhi di tutti – di Grillo nel ridimensionare la propria immagine di “guru” del Movimento, l’intero apparato dà ancora l’impressione di essere “eterodiretto dall’alto”. E’ bene considerare con obiettività la difficoltà di un gruppo così eterogeneo di cittadini da poco impegnati attivamente in politica di interfacciarsi e dialogare sia con le istituzioni – delle quali ora fanno parte integrante – che con il mondo dell’informazione e del giornalismo: tuttavia una gestione più partecipata pare una strada obbligata per stemperare questo tipo di polemica;
3)      dal punto di vista sostanziale, esiste non solo un problema sotto il profilo del perfezionamento delle direttive di comportamento, ma – quali che esse siano – oggi come oggi, nonostante l’indubbio attivismo di tipo “assembleare” dei Meet-Up, ogni “variazione alla dottrina” è guardata ancora con forte sospetto se non ostracizzata pubblicamente. In buona sostanza, per la base, ancor più difficile che partecipare alla “costruzione” di una strategia, è il discostarsene una volta che essa è stata definita;
4)      il M5S – forse nuovamente a causa della comprensibile difficoltà di imbrigliare in regole inequivoche di engagement sul web un “popolo” così variopinto ed eterogeneo – pare tradire paradossalmente quelle stesse regole della netiquette fissate in forma definitiva dall’ottobre 1995 con il documento RFC 1855, che contiene tutte le regole ufficialmente ed universalmente riconosciute per un buon uso della rete (2), e che un movimento che si picca di essere nato sul web non può proprio ignorare. L’atteggiamento tipico di non pochi iscritti è invece rissoso, litigioso, a tratti sguaiato, poco coerente con la propria identità web-oriented: chiunque in uno spazio internet controllato dal Movimento o da membri dello stesso azzardi delle critiche, anche costruttive, rischia di essere insultato, vilipeso, etichettato come “servo della casta” o bannato. Gli esempi si contano ormai a decine di migliaia e non sono più solo riconducibili all’eccesso di entusiasmo di pochi scalmanati. Un caso di scuola al riguardo è rappresentato dalla proposta di elezione a Presidente della Repubblica della giornalista RAI Milena Gabanelli, quasi “santificata” durante le “Quirinarie” on-line e poi ferocemente attaccata poche settimane dopo per il solo fatto di aver promosso nel suo programma “Report” un’inchiesta sulla gestione amministrativa del M5S;
5)      il caso citato della Gabanelli pone in realtà un problema ancora più grave: quello della incapacità di includere e governare il dissenso interno, che è una delle peculiarità – a citare la notissima esperta di nuovi movimenti religiosi Prof. Raffaella Di Marzio – di molti gruppi settari. L’impermeabilità alle critiche e la reazione scomposta a esse è infatti secondo la Di Marzio una delle caratteristiche proprie dei movimenti religiosi minoritari, per i quali vale l’assunto “chi è contro di noi va attaccato”. Come per alcune sette, per il M5S parrebbe valere la regola del circolo vizioso che alimenta se stesso, creando i presupposti per l’inattaccabilità del movimento stesso mediante la tecnica di demolizione sistematica della credibilità della fonte: “se il nostro gruppo lotta per il benessere diffuso della cittadinanza, chiunque lo critica è contro il benessere diffuso della cittadinanza, quindi ogni critica è distruttiva e chiunque ci critica ha di per se torto”;
6)      la necessità di “avere un nemico” per “serrare le fila” dei propri adepti è un’altra tipica caratteristica settaria che Grillo e Casaleggio non dovrebbero sottovalutare, nel tentativo – auspicabile – di smarcarsi da questo genere di accuse: esemplare è il caso del nemico pubblico numero uno della Chiesa di Scientology, “Martini”, “spettro” invocato in occasione di ogni operazione di found-raising della sezione italiana del movimento religioso americano, si rivelò in realtà essere la classica “casalinga di Voghera” amministratrice di un data-base critico on-line, che però Scientology non pareva avere poi così fretta di smascherare pubblicamente, in quanto probabilmente utile appunto per generare quel grado di “allarme” tra gli adepti utile per sollecitarli a donazioni per battaglie a favore della libertà di religione, messa in pericolo – secondo i vertici di quel gruppo – proprio “dall’indefinito ma sicuramente pericoloso antagonista”. L’analogia con le teorie cospirazioniste tanto in voga nell’M5S – Trilaterale, Bildemberg, governo dei banchieri, scie chimiche, chip sottopelle, controllo della volontà etc. – è evidentissima;
7)      il difficile rapporto con il mondo dell’informazione – fino ad oggi, perlomeno – è anch’esso tipico dei movimenti settari, in ragione di quanto essi tendono a mantenere la distanza e a diffidare da ciò che non riescono con certezza a governare;
8)      le categorie “soggettive” degli aderenti presentano anch’esse inquietanti analogie tra il M5S ed alcuni movimenti settari: si va dagli “scoraggiati” critici verso qualunque proposta delle istituzioni tradizionali, agli “entusiasti” utili per il proselitismo, a coloro che hanno un approccio fideistico in senso assoluto nei confronti del guru, a coloro che “sono in cerca di soluzioni”, o ancora alla ricerca di un “gruppo dalla forte appartenenza”, etc.: pare che tutte le categorie esaminate negli studi della Prof. Di Marzio (3) siano in qualche modo incluse – per fortuna non solo esse, ovviamente – nelle categorie degli iscritti al M5S;
9)      un’ulteriore apparente criticità del Movimento è la carenza di “autenticità”, in ragione di quanto un’organizzazione che ha fatto dell’engagement 2.0 una propria “bandiera”, diffida e rifiuta poi sistematicamente la “contaminazione” con sensibilità “altre” ogni qual volta essa avvenga in territorio  – reale o virtuale – non rigidamente controllato dal Movimento stesso;
10)   a ormai molte settimane dal successo elettorale alle politiche, ciò che infine ancor più stupisce è la bassa attenzione del Movimento ai più elementari processi di “crisis management preventivo”: vero è che le travolgenti percentuali di successo sono giunte inaspettate probabilmente anche per coloro che ne sono stati i diretti protagonisti, ma di tempo ne è passato, e l’incapacità del M5S di dotarsi di strumenti per meglio gestire le crisi reputazionali delle quali il Movimento è vittima quasi quotidianamente è francamente incomprensibile.
Le scene alle quali ci hanno abituato i mass-media – vero, spesso assai faziosi nel fare il loro lavoro, ma parte dell’equazione, e quindi in qualche modo da governare – dei “cittadini parlamentari” assediati dai giornalisti che si defilano trincerandosi dietro un “no-comment” suggeriscono in modo sempre più pressante l’urgenza di un netto cambio di rotta nelle strategie di comunicazione, di gestione della reputazione e di digital PR del Movimento 5 Stelle. Diversamente, il messaggio faticherà a passare, e rischierà di ingolfarsi vittima delle sue stesse contraddizioni.
 
(1)    per un analisi critica sulle RP della “Chiesa di Scientology” è online questo mio articolo
(2)    http://www.arcetri.astro.it/CC/rfc1855_it.html
(3)    http://nuovereligioniesette.blogspot.com




COSA FARE SE UN DIPENDENTE INSULTA OBAMA SU TWITTER

Cosa c’è di più inaspettato ed esplosivo di un dipendente che twitta dal login aziendale un insulto al presidente degli USA nel bel mezzo di un confronto elettorale?
La gestione della comunicazione di crisi sui social media che ha coinvolto KitchenAid, marchio di Whirlpool, il 3 ottobre è il caso portato da Giuseppe Geneletti, director Communications and learning Whirlpool EMEA, nel suo intervento al Social business forum in corso a Milano.
Trattando il tema “Managing the unexpected: social crisis control”, Geneletti ha mostrato un breve video che sintetizza la successione rapidissima di eventi seguente al tweet di insulti postato da un dipendente del team Twitter di KitchenAid nei confronti di Barack Obama, impegnato in un confronto con il candidato sfidante alle Presidenziali Mitt Romney trasmesso dall’emittente NBC. Il dipendente credeva di trovarsi sul login personale di Twitter; soltanto quando il tweet è stato pubblicato è stato chiaro che il login era quello dell’azienda.
Ed era anche impossibile rimediare, infatti, benchè se ne fosse accorto subito provando a eliminarlo, in brevissimo tempo i retweet erano diventati 24mila e aumentavano a ritmo esponenziale mettendo a repentaglio la reputazione dell’azienda.
«È stata una pronta assunzione di responsabilità, quella del capo di KitchenAid Cynthia Soledad, a ribaltare una situazione che stava precipitando – ricorda Geneletti -: in un tweet ha chiesto scusa al presidente Obama e alla sua famiglia, si è assunta, come vertice dell’azienda, tutta la responsabilità dell’accaduto».
Soledad ha poi utilizzato anche Facebook per creare contatti con i giornalisti che seguivano l’evento mettendosi a loro disposizione per chiarire l’accaduto. In poche ore l’emergenza è rientrata con molti tweet che hanno espresso apprezzamento per la presa di posizione di KitchenAid.
«Il caso estremo di questa comunicazione di crisi originata da un evento imprevisto sui social media dimostra tutte le potenzialità e i rischi di questi strumenti, e l’importanza di una strategia ben strutturata per rispondere a ogni evenienza – prosegue Geneletti -.Per questo un’azienda si deve attrezzare innanzitutto con un atteggiamento di “social listening” costante, definendo le responsabilità, allineando i messaggi, monitorando le reazioni e coordinando le risposte; in una parola mettendosi in gioco. Si tratta di una vera e propria strategia aziendale, che si serve di strumenti avanzati di social listening. Si è così creato un modello olistico di social business che, oltre a essere di supporto in caso di comunicazione di crisi, permette una conoscenza più approfondita dei propri consumatori, quindi consente di rispondere al meglio alle loro esigenze».
Whirlpool EMEA ha realizzato un manuale con specifici protocolli da seguire in caso di comunicazione di crisi provocata da messaggi negativi o lamentele dei consumatori sui social media; protocolli graduati sulla base dell’indice di rischio e che arriva a coinvolgere livelli diversi dell’organizzazione con l’attivazione di procedure ad hoc.
«Essere presenti sui social media per un’azienda significa formare i dipendenti che ne faranno uso – conclude Geneletti -; per questo Whirlpool EMEA ha dato vita da oltre un anno alla Digital School, un programma che coinvolge diverse funzioni, dal marketing alla finanza alle risorse umane per creare una struttura di competenze che possa sfruttare al meglio le potenzialità offerte dai new media».