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L’intelligenza artificiale che sgama i taccheggiatori

L'intelligenza artificiale che sgama i taccheggiatori

Predire i furti con l’intelligenza artificiale avvisando tempestivamente guardie e proprietari di un’attività commerciale. Non è il sistema Precrimine di Minority Report, ma quello che promette Veesion, un algoritmo che è in grado di individuare i furti utilizzando i sistemi di video sorveglianza attraverso un’Ai addestrata a leggere i movimenti sospetti di eventuali taccheggiatori. Ogni algoritmo è associato a un gesto sospetto di un furto e incorpora “l’apprendimento continuo”, il che significa che impara dalle situazioni che incontra e migliora costantemente le sue prestazioni in base ai dati che che riceve ed elabora.

Il software di Veesion si collega al sistema di videosorveglianza del negozio e quando rileva un gesto sospetto invia una notifica con un estratto della sequenza sospetta ai dispositivi collegati. Si tratta di una piccola box che viene collegata al videoregistratore della telecamera di sorveglianza. Una volta ricevuta la notifica da parte del software, le guardie di sicurezza e addetti alle vendite possono intervenire sulla base di “prove evidenti”. L’azienda francese rileva una media di 100.000 gesti sospetti al mese in più di 2000 negozi, di cui circa 150 in Italia e promette di ridurre le perdite di fatturato dal 30 al 70%.

In pratica il software di Veesion è in grado di confrontarsi su entrambe le memorie presente nel sistema, quella istantanea e quella nascosta dove si accede solo su richiesta giudiziaria – quella che tiene in memoria le immagini relative alle  72 ore precedenti. Sostanzialmente il server funge da ponte tra il sistema già esistente e Telegram, dove arriva la notifica in 50 secondi.

L'intelligenza artificiale che sgama i taccheggiatori

Chi avuto l’idea e i chi sono i clienti (attuali e potenziali)

Creata nel 2018 e lanciata nel 2021 è nata dall’idea di tre giovani ingegneri al tempo iscritti all’ Università HEC e al Polytechnique di Parigie. La scale-up ha la sua sede principale a Parigi e conta circa 130 dipendenti ed è presente in oltre duemila negozi in 20 Paesi, tra cui l’Italia con un fatturato 2022 intorno a 5 milioni, dopo il round di raccolta fondi da 10 milioni di euro all’inizio dello stesso anno.

Il mercato è sicuramente promettente: secondo uno studio realizzato da Crime&Tech, spin-off company del centro Transcrime dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, il settore del retail in Italia ogni anno perde l’1,8% del fatturato a causa dei furti nei negozi per una cifra stimabile intorno ai 3,4 miliardi di euro. Al momento, ad utilizzare il software, sono Carrefour, MD, Conad, Sigma, Crai. Tra gli obiettivi della tech company c’è quello di investire oltreoceano: “Abbiamo una sede anche a San Francisco e il nostro obiettivo è quello di arrivare nei casinò di Las Vegas per smascherare i bari”, ha dichiarato il team.

Un grosso passo avanti verso l’implementazione massiva dei sistemi di sorveglianza evoluta, partendo dai software di riconoscimento facciale e tutte le altre armi potenzialmente utili a reprimere i crimini, piccoli e grandi. Un altro passo avanti verso il futuro predetto in Minority Report dove il crimine non si sventa attraverso predizioni, ma sul controllo di massa gestito da algoritmi di intelligenza artificiale.




Esselunga, maxi sequestro da 48 milioni. L’accusa: frode fiscale

Esselunga, maxi sequestro da 48 milioni. L’accusa: frode fiscale

Per presunti indebiti vantaggi fiscali, ovvero la detrazione di quasi 48 milioni di euro di Iva indetraibile, la Guardia di Finanza di Milano, su input del pm Paolo Storari, ha sequestrato la somma all’Esselunga. L’ipotesi degli inquirenti è che la frode fiscale milionaria, commessa dal 2016 al 2022, si configura nei rapporti di esternalizzazione a fornitori esterni dei lavoratori della logistica (trasporto merci e gestioni magazzino). Società «serbatoio» di manodopera schermate da società «filtro» connotante da criticità fiscali e di sfruttamento dei lavoratori. Al colosso della grande distribuzione gli inquirenti contestano di essere «priva di qualsiasi presidio idoneo a selezionare» i propri fornitori dei servizi di logistica in modo da evitare che «gli stessi siano meri serbatoi di personale (controlli in ordine a eventuali compensazioni a fini tributari, al pagamento di Iva e contributi, alla non coincidenza tra amministratore di fatto e di diritto, al rapporto diretto tra Esselunga e i lavoratori, alla eventuale assenza di qualsiasi struttura organizzativa delle società fornitrici, al continuo cambio delle cooperative, al fenomeno della transumanza)».

Dal 2016 fino all’anno scorso Esselunga ha ricevuto fatture per servizio di logistici per un ammontare di 221 milioni di euro da diverse cooperative. Fornitori in molti casi con evidenti e profonde criticità fiscali che hanno consentito a Esselunga «di fruire delle prestazioni dei lavoratori inquadrati formalmente come dipendenti delle società cosiddette “serbatoi” di manodopera, beneficiando al contempo del diritto alla detrazione dell’Iva esposta sulle fatture che caratterizzano questi rapporti».

Un «sistema», già emerso in altre indagini del pm Storari, attraverso il quale grandi aziende si garantiscono «tariffe altamente competitive appaltando manodopera» in modo irregolare per i loro servizi. Manodopera che gli viene fornita da una serie di cooperative e altre società, che nascono e muoiono in breve tempo. A livello giudiziario, si legge nel nuovo decreto, «la Procura di Milano si è già interessata di fenomeni analoghi al presente: Dhl Supply Chain (Italy), gruppo Gls, Spumador spa, Salumificio Beretta, Spreafico spa, Movimoda, Uber, Tnt, Lidl, Fiera Milano, Schenker, Aldieri spa, gruppo Cegalin – Hotel Volver, Brt, Geodis». Negli atti sul caso Esselunga vengono riportati, passaggio per passaggio e indicando le presunte fatture false emesse, tutte le società e i consorzi che avrebbero avuto rapporti, sul fronte della «somministrazione illecita di manodopera», con Esselunga. Tra i nomi indicati anche quello di Fabrizio Cairoli, amministratore di fatto del Consorzio Lavoro Più Società Cooperativa e di In.Job Società Consortile, realtà già attenzione, ad esempio, nelle inchieste sull’azienda Fratelli Beretta e la società ortofrutticola Spreafico.

In un’altra indagine al momento non collegata lo stesso pm Storari ha ottenuto dal gip milanese Domenico Santoro il controllo giudiziario per l’ipotesi di reato di caporalato della «Servizi Fiduciari soc. coop.», società da oltre 9mila lavoratori del gruppo leader nella vigilanza privata non armata Sicuritalia. Vigilantes – ad avviso dei finanzieri del nucleo di Polizia economico-finanziaria della GdF di Como – sfruttati da una paga oraria di 5,3 euro che gli consentiva di portare a casa a fine mese un stipendio lordo di 930 euro. Una somma che «non appare certamente proporzionata e si palesa in contrasto con quanto sancito dall’art. 36 della Costituzione» che garantisce il diritto a «una esistenza libera e dignitosa». Un trattamento economico iniquo – ravvisa il giudice – che non può essere scusato dal fatto che è stato accettato dai lavoratori «solo perché posti dinnanzi alla scelta sul se avere, o meno, una qualche forma di introito necessaria a qualcosa che somigliasse alla sopravvivenza». Lo stesso giudice Santoro definisce poi «una sorta di amaro calice» gli straordinari a cui, di fatto, sono imposti i lavoratori per la loro «condizione di vulnerabilità dal momento» che diventata il tentativo di «conseguire somme che consentissero un minimo di sostentamento». Addetti al sicurezza impiegati da grandi società committenti tra cui i supermercati (Gs, Esselunga, Carrefour, Lidl) ma anche come Fincantieri, Regione Sardegna, Bnl, Allianz, Generali, Tnt, Enel, Unicredit, Barilla, Rete Ferroviaria Italiana.




#Metoo, la parola pubblica è un atto trasformativo della società

#Metoo, la parola pubblica è un atto trasformativo della società

In questi giorni il mondo della comunicazione è attraversato da quello che i giornalisti hanno già definito il #MeToo della pubblicità. Il riferimento è alla campagna lanciata sui social nel 2017 in sostegno alle artiste di Hollywood abusate dal regista Harvey Weinstein, come rivelato dal New York Times a ottobre di quell’anno. In soli due giorni, oltre dodici milioni di donne, in ogni parte del mondo, condivisero con lo stesso hashtag – talvolta adattato e tradotto in lingue diverse – le proprie storie di molestie e violenza spesso taciute, puntando il dito contro un sistema che limitava la libertà delle donne e giustificava la prevaricazione degli uomini. In Italia, il testimone del #MeToo venne raccolto inizialmente dalla campagna #quellavoltache, lanciata dall’attivista e autrice Giulia Blasi, che diventò anche un libro, intitolato #quellavoltache – storie di molestie, pubblicato dalla casa editrice del Manifesto e grazie al quale vennero raccolte molte testimonianze. Successivamente, 124 attrici e lavoratrici dello spettacolo firmarono un documento, dal titolo “Dissenso comune”, per contestare “un intero sistema di potere e non (solo) il potente di turno”. Spiragli di un dibattito che tuttavia, in Italia, non ha mai prodotto una vera e propria reazione, come ha ricordato in questi giorni Nadia Somma attivista presso il Centro antiviolenza Demetra: distinguo, delegittimazione delle testimonianze, paura di generalizzazioni a danni di innocenti (#notallmen) hanno impedito un’assunzione di responsabilità radicale e collettiva. Almeno, finora. Il caso di oggi nasce dalle dichiarazioni di un uomo, e questa è una novità: Massimo Guastini, pubblicitario, due volte presidente dell’Art Directors Club Italiano, che da anni conduce la sua battaglia contro le molestie sulle donne. Intervistato su Facebook da Monica Rossi (pseudonimo di un editor), risponde a 33 domande raccontando e denunciando comportamenti sessisti e discriminatori nei confronti delle donne, ma anche violenze e abusi. Pochi giorni e il caso è su tutti i media nazionali. Anche noi, all’interno della comunità FERPI, ne abbiamo parlato e abbiamo avvertito subito l’urgenza di prendere una posizione chiara e netta. In FERPI, il 55% delle socie è donna, ma soprattutto molte socie sono anche attiviste in associazioni che di violenza di genere si occupano con competenza e serietà ogni giorno. La cultura si trasmette da persona a persona, così sia io sia molte altre socie abbiamo avuto un ruolo pedagogico nei confronti della nostra comunità, ben disposta – va detto – ad assorbirlo. Non solo, tra di noi ci sono professionisti e professioniste dediti allo studio della responsabilità d’impresa, oggi declinata nelle attività ESG, che contemplano – alla voce “Diversity & Inclusion” – anche la parità di genere. Recentemente, ho partecipato alla presentazione dell’indagine “Asserzioni etiche e di sostenibilità delle aziende e false ESG” finanziata dal Parlamento Europeo, da cui sono emerse criticità sui rating delle imprese e in generale sulle asserzioni etiche aziendali. Coloro che credono profondamente nel percorso di sostenibilità dell’imprese come parte di un cammino per rendere il mondo un posto migliore, chiedono a gran voce che tale adesione sia autentica, anzi che si sanzioni il falso in bilancio sociale. Di fronte alle notizie che si rincorrevano sui giornali, anche quel mondo ha reagito, perché a fare la parte del green o pink washing non ci sta. Ed ecco come siamo arrivati, come comunità, a quella posizione cui seguiranno una serie di azioni che saranno proposte al prossimo direttivo.

Intanto, qualche considerazione che spero sia utile al dibattitto di questi giorni. La violenza di genere accomuna tutte le donne del mondo, è persistente non soltanto rispetto alle epoche storiche, ma anche rispetto a culture e a geografie diverse; ed è, come sancito dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1993, “una manifestazione delle relazioni di potere storicamente disuguali tra uomini e donne”. Si tratta di un concetto ribadito anche dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, detta anche Convenzione di Istanbul (2011). Sebbene sia corretto e doveroso distinguere tra molestie e violenza sessuale, è importante riconoscerne la radice culturale comune e adoperarsi insieme, uomini e donne, per cambiarla. Come ricorda la giudice Paola Di Nicola, nel suo bellissimo libro “La mia parola contro la sua”, nessuna donna si sognerebbe di mettere la mano sul ginocchio di un uomo durante una riunione. Chiediamoci perché.

Seconda considerazione, che è soprattutto un dato. Le donne non denunciano le molestie, tantomeno le violenze. Non solo, non ne parlano nemmeno all’interno della loro cerchia di amicizie. Secoli e secoli di storia, ci hanno insegnato che in fondo, se succede, la colpa è anche un po’ la nostra e alla violenza si accompagna la solitudine. A ciò si aggiunge che quando una donna denuncia una violenza, spesso viene archiviata e l’autore assolto. Qui andrebbe aperto un capitolo a parte, e non ne abbiamo il tempo, ma ha ancora a che fare con la cultura in cui siamo cresciuti tutti e tutte. Ben vengano quindi survey di clima, whistleblowing e codici etici, nella piena consapevolezza che ad essi vanno affiancati percorsi di conoscenza del fenomeno della violenza, possibilmente erogati da chi se ne occupa ogni giorno.

Da ultimo, come ci ricorda la Di Nicola, sono stati pochissimi i nomi degli aggressori rivelati durante e dopo il primo #MeToo, perché il punto non era quello di accusare il singolo, ma un sistema di potere disuguale che sta dalla parte di chi fa del male, di chi copre, di chi rende tutto questo la norma. La presa di parola pubblica, conclude Di Nicola, apre a una fase nuova che non deve essere vissuta come contrapposizione, ma come trasformazione della cultura e dei comportamenti, anche quelli dei nostri figli e delle nostre figlie. 

Come FERPI daremo il nostro contributo, insieme a tutti coloro che vorranno affrontare la questione in maniera profonda e radicale.




Media relations: nella relazione coi giornalisti non dimentichiamo il corretto uso di tecniche e strumenti operativi

Media relations: nella relazione coi giornalisti non dimentichiamo il corretto uso di tecniche e strumenti operativi

Se è vero che le media relations nascono dal giornalismo – The Publicity Bureau, la prima società specializzata in relazioni pubbliche fondata a Boston nel 1900, era composta interamente da ex giornalisti – e, ancora oggi, ad occuparsene sono spesso giornalisti (pubblicisti o professionisti), questi sono “mestieri diversi per finalità, valori, abilità e competenze richieste” e, tuttavia, tra essi “esiste un rapporto che, per quanto difficile, è di stretta interdipendenza” (Toni Muzi Falconi).

Da un lato, infatti, divergono le loro finalità – la soddisfazione dell’interesse del lettore per il giornalista e il raggiungimento degli obiettivi dell’organizzazione per il professionista di media relations – dall’altro sono profondamente interrelati, poiché le media relations sono tra le fonti principali dell’informazione giornalistica. La relazione con i giornalisti, quindi, è una relazione complessa – che si situa nel punto di incontro tra potere economico (l’azienda), potere mediatico (l’editore) e potere politico (che, spesso, è in relazione con i primi due) – ed è assolutamente necessario fondarla sulla fiducia reciproca.

Quanto contano, però, le abilità tecniche – le skill operative dei professionisti – per rendere sempre più proficuo questo rapporto tra operatori della comunicazione? Quanto sono efficaci gli strumenti operativi a supporto di questa relazione tradizionalmente “dialettica”?

Dai primi dati emersi dalla ricerca “Giornalisti e uffici stampa: una relazione complicata” – effettuata da Eco della Stampa e Mediaddress su un campione di circa 400 giornalisti italiani che operano in testate sia tradizionali che online – il comunicato stampa rimane uno strumento fondamentale per i professionisti dell’informazione: l’89,6% dei giornalisti, infatti, utilizza abitualmente i comunicati come fonte per scrivere un articolo e l’82,2% li considera “attendibili”. Questo nonostante il giudizio sulla completezza e sulla qualità dei contenuti non sia troppo lusinghiero (il 33,9% pensa che siano “poco” esaustivi, a fronte di un 58,2% che li ritiene “abbastanza” – e solo un 6,3% “molto” – esaustivi), soprattutto perché spesso sono privi dei tradizionali materiali a corredo (fotografie, contatti diretti dell’ufficio stampa, testi di approfondimento e link alla press room online sono quelli più richiesti dai media).

Il volume dei comunicati che arrivano in redazione, però, è decisamente elevato e poco gestibile: più del 90% dei giornalisti, infatti, riceve – ogni giorno – oltre 10 comunicati stampa e oltre il 40% più di 50, mentre alcuni giornalisti ricevono addirittura più di 300 email al giorno (verosimilmente i capiredattori, soprattutto della cronaca territoriale, più esposti alle segnalazioni di eventi e manifestazioni di ogni tipo). Una volta letti, però, la maggioranza dei giornalisti scopre che questi comunicati non sono di loro interesse (l’83%) o che – pur essendo pertinenti – non risultano utili al loro lavoro (il 52%). La ragione? I comunicati vengono spesso inviati dai professionisti senza un’accurata segmentazione dei destinatari o a media list vecchie che non tengono conto dell’alto turnover nelle redazioni. Il risultato è che 4 comunicati su 5, purtroppo, finiscono nel cestino dopo una rapida lettura (anche del solo titolo).

Tra i canali che i giornalisti prediligono per essere contattati l’email rimane lo strumento principe (scelto da più del 95% degli intervistati), mentre il telefono – pur ritenuto necessario – è poco amato, così come i social network (Whatsapp compreso), che non vengono considerati un mezzo di contatto utile per ricevere i comunicati stampa (al netto, ovviamente, della tipologia di relazione personale che si ha col giornalista).

Piuttosto sorprendente, infine, il dato sulle conferenze stampa: i giornalisti, infatti, dichiarano di frequentarle ancora “regolarmente” (il 90% degli intervistati, metà dei quali lo fa addirittura “spesso”) e oltre 3 su 4 le ritengono utili occasioni di incontro e networking. Un fenomeno che si spiega tenendo presente che oggi molte press conference sono in streaming e possono, quindi, essere seguite in remoto e che, probabilmente, nella fase post-Covid molti giornalisti hanno scelto di ritornare a coltivare le relazioni “in presenza”.

Quali sono i suggerimenti che – come professionisti delle relazioni pubbliche – possiamo, quindi, ricavare da questa fotografia? Gli ampi margini di miglioramento che lo studio evidenzia nei “fondamentali” della professione – maggiore qualità nella redazione del testo dei comunicati stampa, presenza di recapiti e allegati e, soprattutto, accurata segmentazione dei destinatari nella fase di disseminazione – lasciano intravvedere la necessità di offrire percorsi formativi di carattere operativo (con spazi dedicati anche all’utilizzo di database digitali come Mediaddress o Medias), alle nuove generazioni ma non solo. Inoltre, si devono incrementare gli investimenti nelle nuove tecnologie a supporto della professione, sfruttando anche le potenzialità dell’intelligenza artificiale: circa il 75% dei giornalisti intervistati, ad esempio, dichiara di essere interessato a uno strumento che permetta di aggregare tutti i comunicati stampa e di poterli organizzare secondo i propri interessi, evitando così il rischio di perdersi le notizie. Un “aggregatore” che dovrebbe contenere anche un calendario delle conferenze stampa, i press kit aziendali e un database dei contatti dei responsabili media relations di aziende, enti e istituzioni.

Insomma, senza dimenticare l’approccio strategico della professione e il valore fondamentale delle relazioni, forse è opportuno ritornare a presidiare con maggiore attenzione anche le tecniche e gli strumenti operativi che le supportano. Il tutto, possibilmente, sempre in dialogo con i diretti interessati: i giornalisti.




Perché sarebbe meglio spendere soldi in esperienze e non in beni materiali

Perché sarebbe meglio spendere soldi in esperienze e non in beni materiali

Il paradosso del possesso dei beni

Uno studio condotto per 20 anni dal Dr. Thomas Gilovich, professore di psicologia alla Cornell University, ha raggiunto una conclusione certa: non spendere soldi per le cose. Il problema con le cose è che la felicità che forniscono sfuma rapidamente. Ci sono tre ragioni per questo:

  • Ci abituiamo ai nuovi oggetti che possediamo. Ciò che prima sembrava nuovo ed eccitante diventa ben presto la normalità.
  • Continuiamo ad alzare l’asticella. I nuovi acquisti portano a nuove aspettative. Non appena ci abituiamo al nuovo, cerchiamo qualcosa di meglio.
  • I Joneses stanno sempre nelle vicinanze. Il possesso, per natura, favorisce i confronti. Compriamo una nuova auto e ne siamo entusiasti fino a quando un amico ne acquista una migliore e c’è sempre qualcuno che ne ha una migliore.

“Uno dei nemici della felicità è l’adattamento”, ha detto Gilovich. “Compriamo cose per renderci felici e ci riusciamo. Ma solo per un po’. All’inizio le cose nuove sono eccitanti, ma poi ci adattiamo a loro”.

Il paradosso dei beni materiali è che supponiamo che la felicità ottenuta dall’acquisto di qualcosa duri quanto la cosa stessa. Sembra intuitivo che investire in qualcosa che possiamo vedere, ascoltare e toccare su base permanente fornisca il miglior valore. Ma è sbagliato.

Il potere delle esperienze

Gilovich e altri ricercatori hanno scoperto che le esperienze – per quanto fugaci possano essere – offrono felicità più duratura delle cose materiali. Ecco perché:

Le esperienze diventano parte della nostra identità. Non siamo i nostri beni, ma siamo l’accumulo di tutto ciò che abbiamo visto, delle cose che abbiamo fatto e dei posti in cui siamo stati. Comprare un Apple Watch non cambierà chi sei; prendersi una pausa dal lavoro per percorrere l’Appalachian Trail dall’inizio alla fine quasi sicuramente lo farà.

“Le nostre esperienze sono una parte più grande di noi stessi rispetto ai nostri beni materiali”, ha detto Gilovich. “Puoi davvero apprezzare le tue cose materiali, puoi persino pensare che parte della tua identità sia connessa a quelle cose, ma rimangono comunque separate da te, al contrario, le tue esperienze sono davvero parte di te. Siamo la somma totale delle nostre esperienze”.

I confronti contano poco. Non paragoniamo le esperienze nello stesso modo in cui confrontiamo le cose. In uno studio di Harvard, quando veniva chiesto alle persone se preferivano avere uno stipendio alto ma inferiore a quello dei loro coetanei o uno stipendio basso ma superiore a quello dei coetanei, le risposte erano incerte. Ma quando è stata fatta la stessa domanda sulla durata di una vacanza, la maggior parte delle persone ha scelto una vacanza più lunga, anche se era più breve di quella dei loro coetanei. È difficile quantificare il valore relativo di due esperienze, il che le rende molto più piacevoli.

L’attesa conta. Gilovich ha anche studiato l’attesa e ha scoperto che in una esperienza provoca eccitazione e divertimento, mentre l’attesa di ottenere un possesso di un bene provoca impazienza. Le esperienze sono piacevoli dai primi momenti della pianificazione, fino ai ricordi che amerai per sempre.

Le esperienze sono fugaci (che è una buona cosa). Hai mai comprato qualcosa che non era poi così bello come pensavi sarebbe stato? Una volta acquistato, è proprio lì a ricordarti la tua delusione. E anche se un acquisto soddisfa le tue aspettative, il rimorso del compratore può essere questo: “Certo, è bello, ma probabilmente non ne valeva la pena”. Non lo facciamo invece con le esperienze. Il fatto stesso che durino solo per poco tempo fa parte di ciò che ce le fa apprezzare così tanto, e quel valore tende ad aumentare col passare del tempo.

Mettere tutto insieme

Gilovich e i suoi colleghi non sono gli unici a credere che le esperienze ci rendano più felici delle cose. Anche Elizabeth Dunn dell’Università della British Columbia ha studiato l’argomento e fa ricadere la felicità temporanea ottenuta acquistando cose in quello che lei chiama “pozzanghere di piacere”. In altre parole, quel tipo di felicità svanisce rapidamente e ci lascia con la “voglia di avere di più”. Le cose possono durare più a lungo delle esperienze, ma i ricordi che persistono sono ciò che importa di più.