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Green Globe Banking: come le banche potrebbero spingere l’economia verde

In tempo di crisi, tra criticità nell’accesso al credito e sviluppo dei mercati della green economy, quali sono le soluzioni per “fare banca” correttamente?
Banche e imprese hanno compreso che la green economy rappresenta una concreta opportunità di business e viaggiano alla stessa velocità o restano sfasate? Le imprese hanno a disposizione gli strumenti finanziari per trasformare queste opportunità in risultati concreti? Le banche si sono interrogate sul vantaggio di aggiornare il loro modello di valutazione del merito creditizio al mondo “green”? Quali aspetti, in definitiva, limitano un dialogo efficiente tra mondo bancario e aziende della green economy? Sono alcune delle domande emerse nella conferenza di Green Globe Banking della giornata di giovedì 13 giugno all’hotel NH President di Milano.
Valore ambientale e valore economico si presentano, del resto, come due facce della stessa medaglia. E la banca, volendo, è in grado di orientare i comportamenti, ad esempio attraverso lo sviluppo di prodotti e servizi bancari che possano favorire consumi intelligenti ed ecocompatibili. Oggi la banca ha l’opportunità di sviluppare un percorso strategico in cui al profit della stessa si sovrappone il profit per il consumatore, le comunità e i territori in termini di una maggior qualità del contesto ambientale di cui fanno parte. È una logica di scambio in cui all’utilizzo dei servizi della banca, coinvolta nella tutela dell’ambiente, corrisponde la prospettiva per il consumatore di un vantaggio non solo finanziario e non solo nel breve periodo. “Per questo nella nostra idea il Green Banking non è un mero progetto di responsabilità sociale d’impresa“, precisano gli organizzatori dell’incontro milanese.
“Il green banking diventa dunque un frame concettuale, il fondamento teorico, il punto d’aggancio di una cultura d’impresa entro cui si formano le strategie e le attività di business d’impresa”, racconta Marco Fedeli il fondatore dell’iniziativa. “Siamo alla settima edizione della Conference – spiega – eppure nessuno ci avrebbe scommesso qualche anno fa. Il nostro target sono le famiglie. L’80% degli italiani pensano che la problematica ambientale sia una priorità, quindi sbaglia chi pensa che ci rivolgiamo a una élite”. Tanto più che il giro d’affari della green economy è 8 miliardi, non briciole, uno spazio enorme per il business. “Dobbiamo poi tenere sempre presente che la green economy non è solo energia, ma smart city, agroalimentare, turismo sostenibile ed edilizia ecoefficiente“, ricorda Fedeli. “Pensiamo che il mondo della green economy e delle banche debba trovare il modo di dialogare e rispetto agli inizi qualcosa è cambiato”. L’apertura arriva da Giuseppe Bonini, della Direzione Marketing Imprese, Banca dei Territori di Intesa Sanpaolo, che accetta la sfida: ”cosa può dunque fare una banca?”. E’infatti evidente che al di là del dialogo e del confronto serve definire azioni e strumenti precisi, per essere incisivi. “Un nuovo approccio di marketing in cui la logica economica si coniughi con l’attenzione e il rispetto dell’ambiente è il nostro obiettivo”, interviene Bonini. “Il sistema bancario può e deve assumere oggi un ruolo fondamentale nell’incentivare l’adozione di pratiche virtuose in campo ambientale, promuovendo temi della “finanza ecocompatibile”. Ormai siamo consapevoli che un’impresa orientata allo sviluppo sostenibile, sulla base di una visione di lungo termine, acquisisce una maggiore potenzialità di innovazione e di gestione del cambiamento. Anche la Commissione Europea gioca un ruolo importante, finanziando progetti di sensibilizzazione a queste tematiche. Infine, l’Unione Europea ha anche la possibilità di sviluppare azioni rivolte specificamente al settore bancario. Il progetto Green Banking For Life, per esempio”.
La giornata si è chiusa infatti con la cerimonia di premiazione del 6° Green Globe Banking Award. Il premio per le best practices del sistema bancario e finanziario in tema di impatti ambientali, si è svolto alla presenza di Marco Flavio Cirillo, Sottosegretario del Ministero dell’Ambiente. Lo scettro va ogni anno alla banca in grado di presentare la miglior iniziativa attraverso esperienze concrete, prodotti, progetti, servizi finanziari e politiche aziendali dedicate al “green”. Per l’edizione 2013 sul podio Banca Intesa Sanpaolo con il progetto “Filiale ad energia quasi 0″.
Quest’anno, invece, il Premio Speciale per gli Impatti Diretti, riservato alla Banca che meglio di tutte ottimizza i propri consumi interni, è stato vinto dalla Banca di Credito Cooperativo di Castagneto Carducci con il progetto “Tu, la tua Banca e il Territorio – Green Deposit”.
Il Premio Ad Honorem dell’organizzazione è assegnato, in questa edizione, alla Global Alliance for Banking on Values, un network indipendente di banche “innovative” con sede in Olanda che raggruppa 25 istituti bancari in Asia, Africa, Australia, America Latina,Nord America e Europa leader in fatto di sostenibilità ed etica. Tra gli associati a più spiccata vocazione ambientale, l’inglese Ecology Building Society, la statunitense First GreenBank, la Clean Energy Development Bank in Nepal, la californiana New Resource Bank e l’italiana Banca Popolare Etica, rappresentata dal direttore generale Mario Crosta, che ritira il premio per il network.




Capitalismo da reinventare?

IL CAPITALISMO È SOTTO ASSEDIO E OCCORRE REINVENTARLO.
Lo sostiene, nell’ampio saggio che caratterizza il numero di gennaio 2011 di Harvard Business Review, quello che oggi può essere a buona ragione considerato il maggiore pensatore contemporaneo di business e management: Michael Porter (con Mark Kramer). Ma è vero che il capitalismo è sotto assedio? E, se lo è, cosa significa “reinventare il capitalismo”?
Non c’è dubbio che la crisi finanziaria del 2008-9 abbia scatenato un’ondata di critiche su un certo modo di gestire le imprese, le istituzioni economico-finanziarie e i mercati, ma è forse più appropriato dire che la grande maggioranza delle critiche si sono appuntate più su un capitalismo selvaggio e senza scrupoli che sul capitalismo in quanto tale. Se non altro perché, almeno in questo frangente storico, alternative al modo di produzione capitalistico non ne esistono, dato che la vera opzione alternativa dell’economia centralizzata e pianificata è tramontata vent’anni fa e che gli indirizzi intra-capitalistici di stampo dirigista vengono perseguiti in modo essenzialmente strumentale al contenimento delle emergenze.
È più vero, come infatti sostiene Porter, che il mondo delle imprese sia stato investito da una valanga di critiche e che di questo abbiano sofferto, e stiano tuttora soffrendo, sia le imprese colpevoli di comportamenti deviati, sia quelle incolpevoli. Nei fatti, l’opinione pubblica opera poche distinzioni e mette nello stesso barile banche e società finanziarie, imprese di produzione e di servizi, aziende di grande e di piccola dimensione. La critica è principalmente una ed è quella di realizzare spesso, anche se non sempre, profitti a spese della collettività. Questo sentimento è molto diffuso e accoglie sia spinte razionali sia impulsi irrazionali, ma il risultato è comunqueche il mondo del business ha perso legittimità e la conseguenza è spesso che i politici cavalcano l’onda emotiva e tendono a stringere i freni della libertà economica e di iniziativa. Il che è bene quando si concentra sulle pratiche illecite, ma è molto male quando impastoia quelle legittime e lecite. Così le imprese, sottolinea Porter, si trovano ingabbiate in un circolo vizioso.
Una parte “sostanziale” della responsabilità della situazione pesa, secondo l’autore, proprio sulle imprese, «intrappolate in un approccio superato alla creazione del valore» che si è imposto negli ultimi trent’anni. Un approccio miope, focalizzato sul breve termine, incurante dei veri bisogni dei clienti e dei fattori di più ampia portata che possono garantire un successo di lungo termine. Quali fattori? L’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali, la trascuratezza rispetto all’ambiente fisico, l’indifferenza per la salute finanziaria dei fornitori-chiave e per il disagio delle comunità ospitanti, e altro ancora. Ma non è solo responsabilità delle imprese: amministrazioni pubbliche e società civile hanno esacerbato il problema, chiedendo spesso al mondo del business di risolvere le questioni sociali a proprie spese. In questo senso il capitalismo è sotto assedio; in questo senso le imprese vengono messe in mora e, almeno in parte, delegittimate. Ed è per questo che, sostiene Porter, occorre“reinventare il capitalismo”. Qual è dunque la possibile via d’uscita?
Le aziende, afferma Porter, devono attivarsi per riconciliare business e società e la strada da percorrere è quella di “creare valore condiviso”. L’espressione non è immediatamente chiara e va certamente spiegata per evitare che venga bollata come puramente utopistica. Di illusorio, nella visione porteriana, non c’è infatti nulla, anzi, è la concretezza che domina la scena. La soluzione del valore condiviso comporta che la creazione di valore economico avvenga in modalità tali da creare valore per l’azienda ma anche per la società, rispondendo a un tempo alle necessità dell’azienda e alle esigenze di tipo sociale.
La creazione di valore condiviso riconosce che non sono i bisogni economici convenzionali a definire i mercati, bensì i bisogni della società. Riconosce che i danni o i problemi sociali che un’azienda crea all’esterno si ribaltano inesorabilmente all’interno: il deterioramento dell’ambiente fisico o sociale fuori dall’azienda la rendono meno capace di creare valore e competere; al contrario, realizzare i fini dell’impresa in coerenza con l’esterno garantisce risultati migliori e più sostenibili all’interno.
E non è una questione di tipo redistributivo. L’impresa non deve proporsi di distribuire più valore all’esterno, ad esempio intaccando i profitti o compromettendo gli investimenti, poiché questa è una strada che porta diritti al suicidio. Al contrario, creare valore condiviso significa, per esempio, non rendersi disponibili ad accettare prezzi più alti da fornitori deboli e inefficienti, ma aiutarli a investire e a diventare più competitivi e profittevoli, creando assieme maggiore valore per tutti.
In buona sostanza, è la tesi coraggiosa di Porter, la competitività di un’impresa e il benessere della comunità circostante sono strettamente interconnessi. Così come l’azienda necessita di una comunità in buona salute per poter usufruire di un personale competente, di un ambiente in grado di investire e innovare e di una domanda effettiva per i suoi prodotti, allo stesso modo la comunità ha bisogno di imprese di successo per mettere a disposizione dei suoi componenti posti di lavoro e opportunità per creare ricchezza e benessere. E ambedue necessitano di politiche pubbliche che regolino in modo adeguato, incentivando e non frenando le interconnessioni globali nel mercato.
Questa la visione di Porter, che va forse considerata più una rivisitazione che una reinvenzione del capitalismo. Si pongono, a questo punto alcune domande ineludibili: il mondo è pronto per questa nuova visione dei ruoli rispettivi di imprese, pubbliche amministrazioni e società civile? Ciò che alcune imprese più consapevoli, alcune amministrazioni più illuminate e alcuni ambiti territoriali più avanzati stanno realizzando rientra in una prospettiva come quella tracciata? E nell’ambito del mondo delle imprese e del sistema politico italiano esistono le premesse per accogliere – o almeno iniziare a considerare – la proposta porteriana della creazione di valore condiviso?
L’articolo di Porter apre una discussione indispensabile nel mondo attuale che cerca di trovare, all’indomani della crisi più grave della storia economica, le forze e i motivi di una ripresa e Harvard Business Review si propone di stimolare su questi temi un dibattito allargato che possa contribuire a rendere attuale e concreta la visione di creazione di valore condiviso, nelle forme e nelle metodologie che appariranno più adatte allo scopo.
 




ELOGIO DELLA LUMACA

Come decrescere serenamente

Non più sviluppo, neanche “sostenibile”. E basta con l’idea di una “crescita virtuosa”. Siamo giunti all’epoca della decrescita radicale. Serge Latouche, 68enne antropologo, economista, filosofo francese, autore di diversi saggi, è convinto che occorre rivedere il mito del progresso, base di ogni idea della sinistra da almeno 160 anni, perchè l’interesse dell’umanità non è accumulare, ma “sconfiggere uno stile di vita che ci ha resi schiavi dei beni che continuiamo ad acquistare. Perchè assomigliamo a dei drogati che per un’illusione di felicità continuano a scommettere tutto sulla crescita, crescita del Pil (prodotto interno lordo) e crescita dei consumi. mentre il benessere significa semplicemente vivere bene, trovare il giusto equilibrio tra bisogni, consumo, tempo libero”. Per Latouche non occorre essere più poveri per essere più felici, basterebbe diminuire gli eccessi, fare a meno di cose inutili che accompagnano le merci, dalla pubblicità agli involucri costosi, ai trasporti da un capo del pianeta ad un’altro.
Latouche è un bel signore con una faccia da marinaio bretone e uno stile di altri tempi. Uno stile in piena coerenza con il suo programma delle “8R”: rivalutare, riconcettualizzare, ridistribuire, riciclare, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, ristrutturare, e che l’ha fatto bollare di volta in volta come “sognatore” e perfino come “reazionario”. Infatti il filosofo gode delle simpatie non solo dei no global, ma anche della nuova destra francese di Alan de Benoist e di settori della Lega nord. “Ammetto che il mio possa essere definito un progetto retrogrado”, concede Latouche, “nel senso che quando si è imboccata una via senza uscita, si deve per forza arretrare”.
Per questo una proposta come decrescita?
“La decrescita non è un concetto, ma uno slogan che vuole provocare. Sarebbe più corretto parlare di “acrescita” ricordiamo che la società occidentale ha come fine il “crescere per crescere”. Consumo, produzione, lavoro, profitto: abbiamo dimenticato la gioia di vivere, i nostri bisogni”.
Anche la sinistra oggi parla di crescita: responsabile, consapevole, ma pur sempre crescita.
“Marx sbagliava sostenendo che fosse possibile sostituire all'”accumulazione” cattiva del capitale – accumulazione è il nome marxista della crescita – quella buona di un’altro sistema. La scommessa della decrescita è che l’umanità possa fare una rivoluzione culturale, uscire dalla società di accumulazione illimitata. Invece di prendere come slogan, come fa il governo francese attuale, “lavorare di più per guadagnare di più”, lavorare di più per vivere meglio”.
Vuole fare qualche esempio?
“Il primo che mi viene in  mente. Dietro a ogni prodotto che consumiamo, mangiamo, usiamo ci sono milioni di chilometri, file di camion, consumi in pubblicità e packaging. In nome della razionalizzazione economica abbiamo distrutto la ragione”.
Non è un giudizio troppo pessimista?
“il mio è un pessimismo della ragione e ottimismo della volontà. Forse possiamo fermare la catastrofe. Ma gli scenari che si presentano sono terribili. Si parla spesso dei rapporti del Club di Roma. Ma di rado si fa riferimento all’ultimo della serie, del 2004: il più ottimistico degli otto scenari previsti, che pure richiederebbe misure drastiche, indica che il nostro sistema non arriverà a superare il 2060. Mentre il più cupo anticipa la catastrofe al 2030, anno in cui dovrebbero esaurirsi le risorse.
Stava parlando delle risorse che mancheranno. Lei dice spesso che non è la crescita demografica il vero problema.
“Il problema non è il numero di abitanti del pianeta. Il guaio è una società che ha come obiettivo produrre di più, consumare di più, generalmente rifiuti – 4 miliardi di tonnellate l’anno dai paesi ricchi – e danneggiare l’ambiente.  Se tutti consumassero come gli americani, per far fronte alle nostre esigenze servirebbero sei pianeti come il nostro. Se vivessimo come cittadini del Burkina Faso la Terra potrebbe accogliere agevolmente 23 miliardi di abitanti”.
Deve però ammettere che rispetto agli abitanti del Burkina Faso abbiamo qualche vantaggio: il progresso ci ha regalato cibo, acqua pulita, farmaci.
“Certo. Ma siamo troppo viziati, pensiamo solo alle malattie dovute a un’alimentazione  troppo ricca di grassi, zucchero, sale. Non auspico la rinuncia alle tecnologie. Dobbiamo imparare a conservare della modernità ciò che è utile. Ma senza esagerare. Per esempio: l’acqua potabile. Costruiamo piscine private dimenticando che fare il bagno è un piacere da condividere. In Sardegna ho visto alberghi con piscina a due passi dal mare. Io faccio volentieri una doccia quotidiana, ma quando ho attraversato le regioni dei Dogon nel Mali ho dovuto vivere per giorni senza lavarmi. Arrivato a Bamako sono stato contento di mettermi sotto l’acqua: ma le esperienze, gli incontri che ho fatto mi hanno ripagato ampiamente del loro sacrificio”.
Imparare ad essere felici con poco.
“C’è chi sostiene che si può essere felice guardando la pubblicità e andando al supermercato. Ma ci sono statistiche che mettono in dubbio queste convinzioni, come quella della diffusione dei suicidi o delle malattie mentali: la Francia, ad esempio, è in testa nel consumo degli antidepressivi. Il fatto è che siamo tutti stressati, viviamo nell’angoscia di non essere all’altezza dei compiti che ci sono proposti. Da un certo punto in poi, dagli anni ’70, la crescita economica non ha più generato effetti positivi sul benessere”.
Parliamo del cibo?
“Nel mangiare bene non c’è niente di sbagliato, anzi, a me piace il cibo buono. Ma abbiamo davvero bisogno di tanti tipi di biscotti, yogurt, pasta? Consumiamo gamberetti danesi che sono lavorati in Marocco, e tornano in Danimarca per ripartire verso i luoghi di distribuzione. Mi è capitato di vedermi servire yogurt sloveno in Sicilia, dove potevo vedere le mucche al pascolo nel prato vicino all’albergo. C’è chi ha ribattezzato la nostra società Absurdistan”.
In questo scenario l’alimentazione ha un ruolo importante.
“Apprezzo molto Carlin Petrini, e non solo perchè Slow Food ha scelto come emblema la lumaca: un esempio di moderazione – lo riconosceva già Ivan Illich – per come cresce il suo guscio in modo coerente con le sue necessità.
La passione per la lentezza non riguarda il cibo.
“In effetti, no. Dobbiamo imparare di nuovo a godere di quello che non si può comprare: una convinzione, un pranzo tra amici, un ambiente di lavoro dove ci di sente bene, la partecipazione a qualunque forma di attività culturale o sportiva. Riscoprendo il piacere di perdere tempo e riducendo il tempo di lavoro”.




ARTE PER PENSARE

CSR di carta, appesa ai muri
Difficile immaginare Friedhelm Hutte – con quell’aspetto da persona pronta a lasciarsi sorprendere a ogni istante, la figura sempre imponente sempre all’erta, che pare registrare anche il più lieve spostamento d’aria – impegnato, e con entusiasmo, in una banca. E’ uno storico dell’arte, ha compiuto studi in comunicazione e letteratura, fatto esperienza nel mondo del giornalismo e della pubblicità. Ma non è qui per caso: dirige infatti la collezione d’arte della Deutsche Bank, a livello mondiale la più grande mai realizzata da una realtà imprenditoriale.”Sono stato chiamato a Francoforte nel 1986 perchè il consiglio di amministrazione della banca si era reso conto della necessità, per la collezione che allora incominciava a prendere forma, di una curatella professionale”.Pochi anni prima, tra il ’70 e l’80, con il consiglio dei direttori della Staatsgalerie di Stoccarda e dello Staedelmuseum di Francoforte, era stata definita una strategia precisa: “Kunst Arbeitsplatz” arte contemporanea nell’arte del lavoro, perchè venisse fruita dai dipendenti.  Un concetto che avrebbe da li in poi indirizzato la politica culturale della banca e sulla cui tenuta Hutte non da dubbi: “Con il tempo, semmai, si rafforza. Anche perchè in azienda l’età media è oggi più bassa e l’interesse per l’arte contemporanea in aumento; si è concentrata più sui talenti  emergenti, invece che sui grandi nomi, e sui lavori su carta, come acquarelli, disegni, collage, fotografie e così via. “Una scelta lungimirante. Tra l’altro perchè compatibile con l’architettura della banca, rispettosa della volontà di non fare concorrenza ai musei e funzionale all’attenzione per il processo creativo. E’ sulla carta, infatti, che si ferma per la prima volta un’idea, dove si può seguire l’origine di molte opere d’arte. Tutti, anche gli scultori o i land artisti, fanno disegni”. Gli unici veri vincoli della raccolta riguardano i soggetti erotici e le opere troppo delicate, per ovvie ragioni.Questi principi hanno permesso alla banca di costruire una collezione imponente, passata grazie a Hutte da tremila a 53mila opere, di altissimo livello.Dopo in bilancio sull’impatto di tanta profusione d’arte nell’ambiente di lavoro si può tentare. “Sarebbe ingenuo pensare che un bel disegno randa creativi – scherza Hutte -. I collaboratori della banca ne apprezzano il valore quando l’opera sparisce, magari in occasione di una mostra. L’arte genera innanzitutto identità. Più in generale, il senso della collezione risiede nella sua qualità e nel significato specifico dell’arte: che permette alle persone di partecipare ai processi sociali e creativi. In una banca che si occupa di numeri e strategie ma anche di persone, di sviluppo sociale, l’arte contemporanea consente di rafforzare questo legame. E’ un sismografo, è più avanti, sa cogliere i cambiamenti in atto ma non ancora presenti nel mainstream: di che cosa hanno bisogno le persone? Che cosa interessa loro? Dove sono i problemi? Di tutto questo ha bisogno in’impresa che non produca macchine o detersivi, ma che viva di idee.” C’è naturalmente anche un apporto estetico e un contributo in termini di collaborazione: delle opere si discute. Così le si impiega sui biglietti di auguri, sui calendari, sulle carte di credito. “Cerchiamo di sfruttare il valore estetico senza trascurare i contenuti. Ad esempio nel prossimo calendario tutte le opere riprodotte (tratte dalla collezione) hanno a che fare con il problema del cambiamento climatico”.Siamo una riserva straordinaria per i musei, e ambasciatori del valore dell’arte in Paesi che non sostengono la produzione contemporanea, come un tempo il Giappone e oggi l’Indonesia. Diamo il buon esempio: chiunque, anche una piccola impresa può dare il suo contributo. 




SIX MEMO FOR THE NEXT TIME COMMUNICATION

Italo Calvino – definito da un articolo della Harvard University Press “Uno dei migliori storyteller del mondo” – morì com’è noto alla vigilia della sua partenza per la celebre università d’oltreoceano, dove avrebbe dovuto tenere le sue “Lezioni americane”, pubblicate postume con il titolo “Six Memo for the Next Millennium” (*). Il libro rappresenta probabilmente la vera eredità dello scrittore: vuoi perché scritto nell’ultimo mese di vita, vuoi perché – indirizzato agli uomini di domani – riassume quei valori universali da Lui ritenuti essenziali per garantire la sopravvivenza delle generazioni future.
Le lezioni di Calvino avevano ovviamente come oggetto la letteratura, che era la materia della quale il maestro si sentiva più a suo agio a parlare: la necessità di “leggerezza” nello stile, di “rapidità” nel saper combinare azione e contemplazione, di “esattezza”, ovvero chiarezza e precisione linguistiche, di “visibilità”, cioè – nell’accezione che ne da Calvino – di usare l’immaginazione visiva per conoscere il mondo, di “molteplicità”, o abilità di partire da un punto specifico per includere nel panorama del racconto orizzonti sempre più vasti, e – infine – di “coerenza”, capitolo rimasto incompiuto e sul contenuto del quale i filologi hanno potuto solo tentare delle ipotesi analizzando i precedenti lavori dell’autore.
Molto è stato scritto sui “Six Memo” combinati alle più diverse discipline, dall’arte contemporanea all’essenza stessa del web – bella a tal proposito una memorabile conferenza di Nico Tanzi, comunicatore della televisione Svizzera – ma non mi risulta che quei sei concetti chiave che Calvino ci suggeriva di portare nel secolo successivo come “valori guida” siano stati applicati a riflessioni sulla gestione della reputazione e sulle modalità di interazione che legano la Corporate Social Responsibility (CSR) con il mondo del web 2.0.

Lightness. Esiste un’“estetica” della CSR? A mio avviso sì, e mai come nella responsabilità sociale d’impresa l’estetica – per citare Baumgarten – è sorella della logica: “togliere peso” – o meglio, togliere pesantezza – al messaggio è davvero vitale, ed è una chiave per garantire il successo di un progetto di CSR. Pochi fronzoli, ritorno all’essenziale, un approccio quasi impalpabile – siamo o no nel secolo del virtuale e degli scenari “liquidi”? – con lo scopo di far interiorizzare il nostro DNA ad altri soggetti in modo semplice, naturale, senza forzature. Niente vaghezza, niente superficialità, niente frivolezza, bensì una sobria contaminazione di valori raggiunta attraverso una precisione “leggera” ma non per questo meno consapevole.

Quickness. Se consideriamo che l’opera di Calvino data 1985, e che internet all’epoca pur esistendo già nelle università – la prima pubblicazione scientifica con oggetto il web è “On-line man computer communication”, del 1962, e il progetto Arpanet prende il via nel 1969 – era lontanissimo da essere la piattaforma orizzontale e democratica di accesso all’informazione che conosciamo oggi, le parole dello scrittore prendono nella seconda Lezione toni quasi “profetici”. Rapidità, intuizione, capacità di sintonizzarsi velocemente con i frequenti cambiamenti di stato dell’ambiente che ci circonda, abilità di collegare punti dell’equazione apparentemente lontani tra loro: sono tutte caratteristiche che devono comporre la “cifra” di un buon comunicatore, specie quando tratta temi eticamente sensibili quali sono quelli propri della CSR. Calvino in quella Lezione cita però anche André Virel, lo scrittore ed antropologo francese, anteponendo a Mercurio, il Dio della comunicazione e della velocità, Vulcano, Dio che forgia il metallo con la forza, come richiamo alla necessità di far sedimentare i pensieri prima di condividerli – velocemente – nelle reti neurali delle quali siamo tutti parte e protagonisti. I due opposti sono fasi antitetiche ma complementari dello stesso processo, specie nella CSR veicolata sul web 2.0: la leggerezza nella forma e la rapidità nella trasmissione non devono far abdicare alla consistenza del messaggio.

Exactitude. In questa lezione Calvino più che mai si concentra sulla forza della parola e sulla crescente banalizzazione del linguaggio. Le parole – aggiungo io – sono come un abito che dà forma ai nostri pensieri e ci permette di stabilire una nostra pedagogia, di decidere come desideriamo essere percepiti all’esterno, da chi ci circonda, dagli stakeholder con i quali inevitabilmente entriamo quotidianamente in contatto. Quanto poi la forma può essere distante dalla sostanza? Ricordo le lezioni della mia psicologa, quando mi spiegava che all’inizio di ogni depressione sub-clinica vi sono spesso spunti narcisitici che si traducono nella costruzione di un’alta considerazione di noi distonica rispetto alla realtà. Ebbene, questa lezione, questa consapevolezza, dovrebbe anche essere al centro dell’azione di ogni buon crisis manager, e tutti sappiamo quanto c’è bisogno di crisis management preventivo sul web 2.0, per un’intelligente gestione della reputazione, in particolare quando si trattano temi delicati quali sono spesso quelli legati alla CSR: costruire l’identità di un’azienda sovra-enfatizzando gli aspetti positivi, dandosi una mano di verde perché essere “ecò” orienta in modo più efficace i comportamenti di acquisto, senza accompagnare questo genere di marketing con una genuina iniezione di consapevolezza circa le criticità del nostro “essere” e delle relazioni che abbiamo costruito con i nostri pubblici influenti, è ciò che di più pericoloso possa fare un manager in termini di rischio assoluto per il valore degli azionisti.

Visibility. Italo Calvino in questa lezione pone – tra le altre cose – l’accento sulla crescita esponenziale dell’importanza del ruolo delle immagini nella civiltà contemporanea: nuovamente predittivo come pochi altri, se consideriamo che ancora non esisteva Youtube. Le statistiche dimostrano poi che ancor più dei video – che richiedono già l’impegno di un “click” e del tempo necessariamente dedicato a guardarli – su Facebook il maggior grado d’interazione possibile con l’utente si ottiene attraverso le immagini fotografiche. Ben combinate con un wording adeguato, aggiungo io. Certamente in un progetto di CSR veicolato sul web le immagini hanno un ruolo fondamentale, insostituibile, e una riflessione s’impone in generale sulla scarsa capacità di professionisti e aziende di trasmettere con efficacia la propria identità attraverso le immagini: La pubblicità usa da sempre potenti immagini per condizionare il “consumatore”, ma le relazioni pubbliche, la CSR, lo storytelling, toccano corde ben più profonde che non il condizionamento del processo mentale che porta banalmente a un acquisto, e questi confini – che hanno a che fare con la capacità di generare emozione, empatia, di “farmi sentire con” un brand – sono a mio avviso ancora troppo poco indagati in ambito professionale.

Multiplicity. In questa lezione l’autore cita il suo collega scrittore Carlo Emilio Gadda, noto per un approccio alla scrittura che dal particolare si estende a orizzonti sempre più vasti, attraverso una rete di relazioni costruita in modo da ricordare – diremmo ai giorni nostri – un internet letterario. Scrive Calvino: “Chi è ognuno di noi se non una combinatoria di esperienze e informazioni, che può essere rimescolata e riordinata in tutti i modi possibili?”. Proseguendo nella nostra analisi comparata tra letteratura e linguaggi della CSR e del web, non possiamo non notare come i digital media e i social network in particolare siano parte di una rete che fa della molteplicità una vera e propria keyword: come piccole parti di una grande mappa degli stakeholder, nella quale ogni elemento è fortemente interconnesso con tutti gli altri che lo circondano, dovremmo riflettere più incisivamente – nell’immaginare, scrivere ed attuare le nostre strategie di comunicazione – sugli effetti concreti che le nostre azioni hanno sugli stakeholder dei nostri stakeholder, dal momento che siamo agenti attivi in una rete neurale molto più ampia di quanto normalmente sospettiamo.

Consistency. La moglie di Calvino ricorda come il titolo originale della sesta e ultima lezione – mai terminata, ci restano solo alcuni appunti dello scrittore – avrebbe dovuto essere “Openness”, da tradursi non tanto e solo come “franchezza”, bensì come apertura mentale, ovvero disponibilità a includere nel proprio mondo “cose altre”. Probabilmente Calvino – in ossequio a una delle possibili traduzioni del termine consistency, ovvero coerenza semantica – desiderava anche enfatizzare la necessità di dare continuità e coerenza al testo ponendo gli elementi della narrativa in relazione l’uno con l’altro, e poi l’insieme del prodotto letterario in relazione con il “sapere” nel quale esso s’inserisce, andando ben al di là del significato sintattico e grammaticale, e analizzando il ruolo dei processi cognitivi delle persone nel momento in cui “danno senso” ai concetti espressi dall’opera letteraria. L’uomo include le opere nel proprio sapere, ma anche le opere in un certo senso includono l’uomo, in quanto la medesima opera – che sia un romanzo, un saggio, un piano strategico di comunicazione, un progetto di responsabilità sociale… – può attivare una serie differente di relazioni all’interno dello spazio di lavoro mentale di soggetti umani diversi.

Quest’ultimo dei Six Memos in particolare mi rimanda prepotentemente al concetto d’interazione 2.0 così tipica nel mondo contemporaneo, che dovrebbe essere parte insostituibile della cassetta degli attrezzi di ogni buon comunicatore, specie quando approcciamo a tematiche importanti quali quelle dell’introduzione di preoccupazioni di carattere etico nella vita d’impresa: è quanto mai necessario sottolineare l’urgenza del passaggio da un’ “erogazione di conoscenza” a una “costruzione condivisa di saperi e di consapevolezza”, diversa a seconda della differente sensibilità dei soggetti coinvolti, del particolare momento storico, del DNA delle aziende direttamente o indirettamente interconnesse in un dato scenario, del capitale umano disponibile, ma sempre orientata ad enfatizzare l’inevitabile ruolo di ognuno di noi – cittadini, professionisti della comunicazione, imprese – nella costruzione di un business dal volto umano e nella “manutenzione” di un mondo realmente a misura d’uomo in grado di sopravviverci.

(*) un particolare ringraziamento va ad Alberto Tedeschi, ingegnere e ricercatore, che – con un SMS inviato dal suo Smartphone – mi ha ricordato l’importanza di quest’opera di Italo Calvino, stimolandomi così a scriverne.