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Terrorismo e iconoclastia

C’è stato un tempo, neanche tanto lontano, in cui si urlava al No Logo. Si consideravano i marchi di fabbrica responsabili – simbolici ma non per questo meno efferati – di tutti i mali del mondo. E li si distruggeva, fisicamente prima ancora che spiritualmente, per ogni dove questi logo si presentavano: nei cartelloni pubblicitari, nelle vetrine, nei capi d’abbigliamento.
C’era chi di nascosto toglieva il coccodrillo alle magliette, ma c’era anche chi apertamente bruciava i pannelli delle pompe di benzina o le insegne dei ristoranti di cibo veloce. Per una strana congiuntura economico-culturale si costruiva entro una unica configurazione un Nemico fatto di multinazionali del petrolio e hamburger nauseabondi, look arciglamour e sneakers d’ordinanza, senza dimenticare la bolla informatica e i suoi mentori industriali. In Italia, nella Genova d’inizio millennio, si sono celebrati gli involontari funerali di tutto ciò. E oggi si ripiega sulle talpe che trivellano le montagne alpine per far accelerare i convogli ferroviari che devono sfrecciare, per volere di chissà chi, lungo le nuove vie commerciali d’Europa.

Ma sul logo è rimasta l’ombra del sospetto, come se quelle griffe che vestono i corpi di tutti noi, volenti o nolenti, e più in generale quei disegnini immancabilmente presenti sulle merci di ogni tipo e natura, natura compresa, fossero i depositari di quel feticismo dietro cui si nasconde l’oppressione capitalistica dell’uomo sull’uomo teorizzata, duecento anni fa, da un genio solitario dalla pessima reputazione.
Ma i logo, poracci, che c’entrano? Perché accanirsi contro questi simboletti che schiere di grafici e designer, strateghi della comunicazione e direttori aziendali mandano in giro, indifesi, per il mondo – pronti a essere esibiti, consumati, riesumati, interpretati, distrutti? La ragione certo c’è, e non sta tanto nel capitalismo, e nemmeno in quel suo avatar mediatico che è il sistema dei brand. Sta in qualcosa di molto diverso, al tempo stesso più profondo e più leggero che è, molto semplicemente, lo statuto semiotico dell’immagine. Come ci hanno da tempo spiegato i grandi teorici del visivo, da Panofsky a Gombrich, da Freedberg a Marin e a Elkins, un’immagine, qualsiasi immagine, sia essa artistica o meno, prima ancora di rappresentare qualcosa del mondo si presenta in esso, è un oggetto fra gli altri, una cosa che non sta lì soltanto a dire o a simboleggiare ma semmai agisce, fa, colpisce, trasforma.

Il famigerato potere delle immagini consiste nel fatto che esse sono, appunto, potenti, talvolta prepotenti, e spesso hanno lo stesso medesimo peso, se non maggiore, delle armi. Uccide più il pennello che la spada. Ragion per cui risorge ciclicamente l’iconoclastia, che alle immagini/armi accanitamente si oppone, ora vincendo ora perdendo, ma in ogni caso innescando una guerra senza quartiere nella quale, alla fine, a rimetterci non sono le immagini ma noi che le facciano, le guardiamo, le subiamo, le sopportiamo con malcelato fastidio.
La forma più recente dell’iconoclastia è stato insomma il movimento No Logo, analogo nei gesti e negli esiti a coloro i quali gettavano via le statue dei santi dalle chiese cristiane in piena rivoluzione francese, quelle di Lenin e Stalin dalle piazze dopo la caduta del muro di Berlino, o quelle di Buddha dagli anfratti afghani in pieno delirio talebano. Cattelan, al confronto, è un improvvisatore.

Tutto questo per dire che è appena uscito un libro che non potrà che mettere di buon umore Naomi Klein, autrice della celebre bibbia mondiale dei no global intitolata appunto No Logo, e con lei gli iconoclasti di risulta che, come rinnovati fantasmi, ancora s’aggirano per l’Europa e oltre. L’hanno messo insieme Artur Beifuss e Francesco Trivini Bellini, s’intitola Branding Terror. Loghi e iconografia di gruppi di rivolta e organizzazioni terroristiche, ed è pubblicato – guarda caso – dalle edizioni del Sole-24ore  (pp. 336, € 27,90) con una prefazione di Steven Heller. Si tratta della più completa raccolta di marchi dei gruppi terroristici di tutto il mondo, da al-Quaeda al Fronte popolare per la liberazione della Palestina, dai Tamil Tigers alle nostrane Brigate rosse e tante altre gradevolezze.

Si ricostruisce brevemente la storia di questa miriade di gruppi e gruppuscoli, e se ne presenta il logo, descrivendone caratteristiche grafiche e valori simbolici. Una vera e propria miniera semiotica, che si riallaccia a un’operazione analoga fatta alcuni anni fa nel blog Ironic sans su cui eravamo caduti – incuriositi – un po’ per caso, dove si proponeva un dibattito ancora oggi di grande richiamo.

La ragione di questa raccolta e del suo interesse, nella sua lapidaria, sconvolgente chiarezza, è esplicitata nell’introduzione di Beifuss: il terrorismo è un vero e proprio processo di comunicazione, che non solo fa uso dei media ma esiste, in quanto tale, se i media già esistono prima di lui, in qualche modo generandolo. Un attentato è un segno con precisi significati di promozione di una determinata ideologia, non un atto di violenza fine a se stesso. Al punto che, per quanto sia antipatico dirlo, un fattaccio come quello di cui è stato protagonista Anders Breivik potrebbe essere letto come un’eclatante operazione di lancio del suo ‘manifesto politico’ dal giorno dopo scaricabile da Internet.
Così, i gruppi terroristici sono grandi produttori di segni, alla stregua delle aziende commerciali o delle istituzioni pubbliche, e come tali devono saperli maneggiare con cura, ai propri fini specifici, di tipo, appunto, promozionale e comunicativo. Analogamente a qualsiasi brand, la scelta dei logo, per essi, non è accessoria ma consustanziale. Lo dice anche Heller nella prefazione con grande chiarezza: “questi gruppi terroristici sono tutti marchi, e ottengono una certa possibilità di sopravvivenza grazie a metodi legati al branding.

Il branding è uno strumento senza coscienza o moralità; può essere usato a scopi sia positivi sia negativi, a volte in contemporanea”. E così come ogni brand lavora per eliminare ogni possibile divario fra l’identità di sé che tende a veicolare e l’immagine che ne viene percepita dal pubblico, analogamente i terroristi devono saper usare, coi kalashnikov, un po’ di Illustrator e di Photoshop per gestire la comunicazione visiva del proprio gruppuscolo armato. Lo fanno bene, male, un po’ e un po’? Vista l’estrema povertà del repertorio figurativo, cromatico e formale messo in gioco in questi logo (stelle, bandiere, falci e martello, pistole, fucili che s’incrociano, fari, scritte… pochissimo altro) si direbbe abbastanza male. Spiccano, a mo’ di controesempio, i tedeschi della Baader Meinhof, banali nella scelta dei simboli e tuttavia eccellenti nella loro resa grafica.
Ma uno studio più approfondito sugli aspetti visivi di questo materiale, c’è da scommetterci, non sarebbe privo di sorprese. Per esempio: a una prima occhiata, si ha una forte impressione di uniformità; la maggior parte dei logo sembrano proprio assomigliarsi fra loro. Ma un vero logo, oltre a far accoliti, deve sapersi distinguere dai concorrenti, diretti e indiretti. Una delle sue prime qualità è la differenziazione. Sorge così una strana contraddizione fra l’enorme quantità dei gruppi terroristici esistenti, fatemelo dire, sul mercato, e la riproposizione sempre uguale dei loro segni. Che dicano tutti la stessa cosa?

 




LE CONSEGUENZE DI UNA CRISI MAL GESTITA: IL CASO COSTA CROCIERE

Mentre procedono le operazioni di recupero del relitto della Costa Concordia, ecco una nuova tesi universitaria, redatta – anche con il mio personale contributo – da Valeria Lamberti studentessa all’Università Bocconi di Milano, sulla crisi che ha coinvolto Costa Crociere e sui più evidenti errori di crisis management commessi dalla Compagnia;
Leggi tutta la tesi “LE CONSEGUENZE DI UNA CRISIMAL GESTITA:IL CASO COSTA CROCIERE” a questo link




CSRTOOL

Intervista a Laura Corazza, dottoranda in Business e Management, presso il Dipartimento di Management dell’Università di Torino e creatrice (insieme al Prof. Maurizio Cisi) del sito CSR4UTOOL.

Cos’è CSR4UTOOL?
CSR4UTOOL (www.csr4utool.org) è un’applicazione web pensata per le aziende che sono interessate al tema della responsabilità sociale e della creazione di valore condiviso. Ti permette di ottenere una valutazione della propensione dell’azienda a comportarsi “bene”, ma soprattutto è un percorso di crescita verso una gestione più responsabile.
A chi si rivolge?
E’ dedicato a tutte le aziende profit e no profit, ed è stato studiato in particolare per le Piccole e Medie Imprese (italiane ed europee). Lo strumento non è solo per chi sa già che cosa significa una gestione responsabile, ma anche per chi non ne sa nulla, vorrebbe sapere di più ed è interessato.
La grande azienda può diffonderlo presso la propria catena di fornitura diventando una “cassa armonica” per le altre aziende della propria rete.
Non solo, lo possono utilizzare i consulenti e i formatori che possono impostare un profilo per il cliente, e da li ragionare con lui sulle tematiche, passo dopo passo.
Perché un imprenditore dovrebbe usarlo?
E’ utile: ti permettiamo di ottenere un bilancio delle tue abilità valorizzando i punti di forza della tua azienda (perché ti facciamo vedere come stanno andando le altre aziende che compilano il questionario).
E’ reale: si basa sui tuoi dati di bilancio, sulle tue risposte, sul tuo settore, sulla tua situazione.
E’ gratis: non chiediamo nulla, se non una diffusione presso la tua rete di contatti. Più aziende lo compilano, più i risultati saranno “reali”.
E’ scientifico: è frutto di un intenso lavoro di ricerca, finanziato in parte tramite un progetto europeo, è uno strumento applicato di ricerca che segna un legame forte tra Università (Università di Torino, Dipartimento di Management) ed industria. Stiamo lavorando per poter pubblicare a livello scientifico i risultati.
E’ chiaro: si usano termini semplici e le domande sono state formulate studiando un linguaggio comprensibile anche ai neofiti.
E’ anonimo: perché non vogliamo creare paura o timore. L’azienda è fatta di uomini, ed ogni tanto si commettono errori, ma l’importante è imparare da questi errori. E noi ti diamo uno strumento per farlo.
Nessuna debolezza?
L’unico neo è che per essere utilizzato al meglio occorre un minimo di impegno, altrimenti sarebbe un questionario. Spesso i questionari vengono compilati dalle aziende, entrano a far parte di un rapporto di ricerca e vengono dimenticati. Nessuno vantaggio per le aziende, un piccolo tassello di conoscenza del fenomeno.
Qui puoi fermare e riprendere il percorso quando vuoi e ricominci da dove ti sei fermato. E se non vuoi fornire una risposta, nessun problema, puoi saltare quella domanda.
E alla fine?
Le aziende che lo compilano avranno un report di feedback a livello dei più avanzati gestionali perché si basa anche su dati di bilancio (civilistico e, nel caso, sociale e/o integrato). In più, se l’azienda vuole metterci la faccia, abbiamo dedicato una sezione del tool su cui inserire il profilo e il link al sito della tua azienda.
Intanto, si osserveranno i risultati di una sperimentazione scientifica e si sarà compiuto un passo avanti nella cultura della sostenibilità in economia aziendale.
Da quanto tempo è online?
E’ stato presentato ufficialmente nel mese di Luglio e attualmente abbiamo circa 20 aziende che accedono regolarmente al tool ed hanno utilizzato le sue funzionalità. In più, essendo frutto di un progetto europeo abbiamo degli sviluppi positivi anche in Spagna e Bulgaria (stati partner di progetto). In Spagna, vi è stato dell’interesse soprattutto nel campo della consulenza, in Bulgaria si sta studiando come la pubblica amministrazione può utilizzarlo come strumento di valutazione delle aziende negli appalti pubblici.
Su cosa si basa?
Si basa su fondamenti teorici scientifici quali: lo sviluppo morale di un individuo (Kohlberg, 1971), la piramide della responsabilità di un’azienda (Carroll, 1979), teoria degli stakeholder (Freeman, 1984), social accounting and environmental reporting (Gray, 1997), fino alla creazione di valore condiviso (Porter e Kramer, 2011). Inoltre trae ispirazione da standard e norme quali: ISO 26000, AA1000 (stakeholder engagement), Bilancio sociale GBS, GRI, Modello di bilancio (ex) Agenzia per le ONLUS, e molto altro.
Come sarà il futuro di CSR4UTOOL?
Sicuramente molto solido. Lo sviluppo del modello teorico alla base, la sua realizzazione ed ora la sua diffusione è avvenuta gradualmente durante la mia tesi di dottorato (senza borsa). Ora, il progetto andrà avanti sicuramente per altri 18 mesi grazie al Master dei Talenti della Fondazione Goria e della Fondazione CRT e si effettuerà la sperimentazione presso Laurea University of Applied Science ad Espoo in Finlandia.
In più vogliamo: creare schede dedicate maggiormente al valore sociale prodotto dal no profit, tenendo conto delle diverse realtà esistenti; aumentare la base di utilizzatori e quindi l’efficacia dello strumento; creare sinergie con quanti condividono la passione e l’interesse per “fare la differenza”; in più, qualche piccola modifica ed aggiornare le domande agli sviluppi degli standard utilizzati come base di riferimento.
Concludendo?
Abbiamo bisogno di utilizzatori e abbiamo ben presente che le aziende di oggi, più che mai, non vogliono perdere tempo. Un nostro utente, un artigiano, ci ha detto testualmente: “all’inizio ho avuto mal di testa, ma poi mi son detto, si vede che queste domande non sono stupide; il mattino dopo in azienda mi sono reso conto che certi nostri modi di fare andrebbero cambiati. Costerà, ma almeno andrò nella giusta direzione”. Se saremo in grado di creare qualcosa di nuovo che può effettivamente migliorare la consapevolezza delle aziende, perché non farlo?




Drogati di Internet? Ecco come disintossicarsi

Iconsumatori compulsivi di media digitali sono come gli affamati che finiscono ad abbuffarsi in un fast food? Come Slow Food è nato per promuovere un’alimentazione sana e sostenibile, così Slow Communication nasce per promuovere una dieta mediatica equilibrata per tutti.
Avete presente la storia di Tony Schwartz, consulente di fama internazionale, che un giorno, non tanto tempo fa, ha sentito la necessità di una disconnessione digitale totale? Ne è uscito, dopo qualche crisi di astinenza, convinto di quanto sia essenziale imporsi delle pause quotidiane dalla Rete. Ecco, il Movimento Slow Communication nasce nella primavera del 2012 proprio con l’obiettivo di “riportare a terra” la nostra abbuffata virtuale, promuovendo una sana cultura digitale attraverso eventi pubblici, borse di studio in collaborazione con le Università e iniziative di solidarietà internazionale.
Ne parliamo con il fondatore, Andrea Ferrazzi, giornalista e consulente di comunicazione, che mercoledì 29 maggio presenta l’iniziativa a Roma  nell’ambito degli “Stati Generali per la Comunicazione Politica” presso l’Università Luiss.
Per i nativi digitali, la Rete è come il pane. C’è davvero bisogno di fare attenzione?
Assolutamente sì. Pensiamoci: sino a non molti decenni fa il pane era un problema, nel senso che la sua presenza sulle tavole non era scontata e, quindi, non finiva nella spazzatura. Io ricordo i miei nonni: si infuriavano quando vedevano il pane buttato via, loro che avevano conosciuto la fame durante la guerra. Chi è nato nel benessere non dà importanza a questi aspetti: cosa vuoi che sia un pezzo di pane che non vale niente? E’, per così dire, una questione culturale. Analogamente i nativi digitali – soprattutto loro, ma non solo loro – danno per scontata la presenza delle nuove tecnologie nella loro vita, quindi l’accettano acriticamente, senza interrogarsi su un loro corretto utilizzo. Non si accorgono di assomigliare spesso a degli zombie messaggianti, per dirla con le parole di Jonathan Franzen. Pensano di avere centinaia di amici e non si accorgono che, in questo modo, anche l’amicizia è diventata un prodotto e non è più un valore. Stanno insieme, ma sono spesso soli. Racconto un aneddoto. Ogni mattina, alle sei e trenta, mentre vado a prendere il treno in auto, incontro una ragazzina e ogni giorno la vedo china sul suo cellulare, che piova o ci sia il sole, che sia estate o inverno. E mi chiedo: si renderà conto del mondo che c’è lì fuori dallo schermo del suo telefono?
Quali sono i sintomi di un’indigestione mediatica?
Se i social media e le mail sono l’ultimo pensiero della sera e il primo del mattino, è già un sintomo emblematico. Ma il punto vero è quello che dicevo prima: dare per scontata la presenza delle nuove tecnologie nella nostra vita, quando si pensa che sia normale essere sempre connessi, quando non si dà più alcuna rilevanza alla qualità delle informazioni assunte. Chi frequentava i fast food pensava solo a riempire un buco nello stomaco e, così, ogni piatto andava bene. Poco importa se era un concentrato insapore di calorie. Lo stesso vale per i consumatori compulsivi di media digitali. Per contrastare l’ignoranza alimentare è nato Slow Food, ecco Slow Communication si propone proprio di promuovere una nuova cultura digitale.
Qual è il pericolo maggiore?
Accettare supinamente che la tecnologia condizioni la nostra vita, dimenticando che è a nostro servizio. Dobbiamo maturare la consapevolezza che abbiamo bisogno di momenti di disconnessione, anche per rimanere soli con noi stessi, per riflettere senza distrazioni e interruzioni, anche per annoiarci. A volte mi chiedo se i bambini di oggi sapranno ancora riconoscere l’odore dell’erba appena tagliata che a me evoca i ricordi dei giochi all’aria aperta. Nostalgia? Forse sì, ma mi chiedo che infanzia sia quella trascorsa negli spazi virtuali…
E quali sono, allora, gli ingredienti di una dieta equilibrata?

  1. Controlli periodici. Valutare periodicamente il proprio grado di cyber-dipendenza rinunciando a collegarsi: se dopo poche ore le vostre buone intenzioni crollano, iniziate a preoccuparvi e a pensare a una cura adeguata, magari una vacanza slow.
  2. Ridurre le ore. Limitare l’utilizzo dei social network e di Facebook in particolare per evitare cyber-dipendenza. Se avvertite la necessità di assumere una massiccia dose quotidiana di social network l’unica terapia è cancellare il proprio profilo.
  3. Alzare lo sguardo. Non trasformarsi in «zombie messaggianti» (la definizione è dello scrittore Jonathan Franzen) che non staccano mai il proprio sguardo, e quindi il proprio cervello, dallo schermo di un cellulare o di un tablet.
  4. Prendere tempo. Smettere di controllare cellulari e tablet come ultima azione della sera e come prima del mattino: se c’è una nuova mail è molto probabile che possa essere letta anche dopo mezz’ora senza compromettere la vostra esistenza.
  5. Parlarsi a voce. Non affrontare, per quanto possibile, argomenti complessi o delicati nelle e-mail o con gli sms: dato che i fraintendimenti sono molto comuni, è preferibile un colloquio telefonico o meglio ancora a quattr’occhi.
  6. Tornare al libro. Alimentare l’abitudine a leggere articoli lunghi e possibilmente d’autore e i cari vecchi libri: per i nativi digitali c’è una preoccupante incapacità a comprendere, analizzare e rielaborare testi scritti.
  7. Meditare. Coltivare i propri momenti di solitudine che, come insegna Zygmunt Bauman, è quel sublime stato in cui è possibile raccogliere le proprie idee, meditare, riflettere, creare e dare senso alla comunicazione.