1

Non tutte le aziende redigono il report Csr o trascurano il consumatore

E’ quanto emerge da una ricerca sulle nuove tendenze dei bilanci di sostenibilità presentata in occasione del Forum Csr da Chiara Mio dell’Università Ca’ Foscari.Non tutte le aziende redigono il bilancio di sostenibilità e quelle che lo fanno trascurano la dimensione del consumatore. E’ quanto emerge da una ricerca sulle nuove tendenze dei bilanci di sostenibilità presentata in occasione del Forum Csr da Chiara Mio dell’Università Ca’ Foscari. Mio spiega di aver condotto “una ricerca sulle principali quotate italiane in particolare le prime 50 per dimensione di capitalizzazione. Il primo risultato è che non tutte, anzi solo 31 su 50 redigono un report di sostenibilità e di responsabilità sociale. Questa è già un’indicazione di come nel nostro paese non sia così evoluta la consapevolezza di una responsabilità sociale”.
Inoltre, aggiunge, “all’interno di questi report, per i 31 che lo fanno, vi è la netta sensazione e la certezza dell’indagine che la dimensione del consumatore non sia ritenuta molto importante”. Infatti, “si rendiconta e si comunica solo ciò che è obbligatorio ai sensi dei framework più consolidati in materia ma non si considerano invece iniziative di comunicazione proattiva”.E non solo. “Non vi è neanche un atteggiamento a misurare quelli che sono i risultati e gli impatti. Tutta la comunicazione delle società è volta a dire ‘abbiamo rispettato i codici’, ‘abbiamo rispettato la legge’ ma non vi è mai un approccio che parta dai diritti del consumatore mettendo al centro la persona”. Certamente, conclude, “le aziende sono molto attente a mettere al centro il mercato e quindi il cliente come potere di acquisto. Credo che su questo il nostro paese debba fare una grande riflessione”.




Intervista sul Movimento Cinque Stelle

A seguito del recente articolo pubblicato sul Movimento, sono stato intervistato da Luisa Perugini  per SBS Radio… ecco la registrazione del servizio:




Gli stakeholder dimenticati nella piazza

Come ci ricorda un bell’articolo del più antico giornale domenicale del mondo, il britannico The Observer, le proteste brasiliane e quelle turche presentano notevoli analogie. Anche l’Ambasciatore Giulio Terzi, già Ministro degli Esteri, in una lucidissima analisi pubblicata sulla propria pagina Facebook – a onor del vero qualche giorno prima del giornale inglese – tendeva una sottile linea rossa tra le due piazze, quella alle porte dell’Ue e quella nella lontana America Latina: milioni di persone scese in piazza per un apparente pretesto – in Brasile l’aumento del costo dei biglietti dell’autobus, in Turchia l’abbattimento di alberi per costruire un centro commerciale – ma in realtà determinati – come sottolineava anche l’Economist – a far sentire la propria voce su temi ben più importanti: la corruzione dilagante, il costo della vita in crescita esponenziale, l’assottigliarsi delle garanzie sociali, la disoccupazione giovanile, lo sperpero di denaro pubblico, e – non ultimo – un eccessivo autoritarismo del Governo.
Nel passato, i movimenti di protesta erano connotati sostanzialmente da tre fattori chiave: un’istanza politica forte che includeva una richiesta di cambiamento rispetto a un modello dominante; un’organizzazione piramidale con in testa un leader riconosciuto dalla base e riconoscibile all’esterno; un’organizzazione permanente nel tempo, perlomeno fintanto che l’istanza di cambiamento non veniva recepita o in qualche modo “assorbita” dal centro del potere.
I movimenti di massa contemporanei – rileva Peter Beaumont, intelligente cronista degli esteri del gruppo The Guardian – presentano invece caratteristiche che a un’analisi più approfondita rivelano peculiarità ben differenti rispetto al passato, e che vorrei provare a codificare per praticità in cinque punti:
1) organigramma disintermediato. Non esiste in nessun caso un “leader” chiaramente identificabile, quanto invece una totale “polverizzazione” di leadership all’interno dei movimenti, con una “moltitudine di voci” a rappresentare le istanze della protesta;
2) attivazione delle masse mediante strumenti di “marketing conversazionale”. Sono i “buzz”, i passaparola, che determinano il movimento delle masse, non gli ordini delle gerarchie politiche e/o dell’opposizione. In queste dinamiche, i social media e gli strumenti di interazione 2.0 rivestono un ruolo fondamentale, disegnando però una medaglia a due faccie: rapido e libero assembramento, ma, per contro, “collegamenti deboli”, perché Twitter da solo non costruisce un’ideologia;
3) approccio “Glocal”. L’accezione che do a questo termine, ben noto agli addetti ai lavori, in questo caso afferisce alla capacità della protesta di condurre battaglie globali identificate però fortemente con specifici luoghi nello spazio locale, in uno sforzo di riscrittura della storia degli spazi pubblici in nome di un’attività di cittadinanza attiva: Piazza Tharir in Egitto, Zuccotti Park in Usa, Parco Gezi e Piazza Taskim in Turchia, etc.;
4) produzione orizzontale di istanze. Le proteste di piazza – oggi – sono produttive delle istanze che le animano, che sono frutto dell’elaborazione della folla stessa, mentre in passato le masse si riunivano per “ascoltare le proposte” dei leader della protesta ed eventualmente sostenerle con le proprie braccia e le proprie gambe. Come per il passaggio dal web 1.0, vetrina, al web 2.0, costruzione condivisa, anche in questo caso notiamo un ruolo assai più proattivo degli utenti che partecipano alla protesta;
5) orizzonte temporale limitato. I movimenti di protesta del passato erano strutturati non solo nello spazio – organigramma, uffici, addetti alle relazioni con i mass-media, etc. – ma anche nel tempo: “perduravano” fintanto che l’obiettivo non era raggiunto, eventualmente “cambiando pelle” durante il percorso. Attualmente, secondo Tati Hatuka, geografa urbana israeliana che studia le forme di protesta e le mobilitazioni di massa nel mondo occidentale, «il messaggio è l’evento stesso». Le manifestazioni di piazza non sono lo sbocco naturale di un percorso di protesta, che partendo da un’analisi dell’esistente propone poi un modello differente: ne costituiscono l’inizio. E dopo? Posto che la situazione com’è non è più accettabile, quali sono le soluzioni? È qui che può leggersi il limite di questo genere di esplosioni di disappunto: rischiano di restare fini a se stesse, e vengono quindi spesso sottovalutate dai Governi, i quali vedono come possibile soluzione il semplice “scorrere del tempo”, accompagnato a volte dalla repressione, e quindi il naturale riassorbimento della protesta con il ritorno dei manifestanti alle proprie case e alle proprie occupazioni giornaliere.
Questi i cinque punti che ci tenevo a enfatizzare. Altri colleghi potranno fare di meglio, con analisi più approfondite.
La “Marcia Mondiale per la Pace“, nata nel 2008 da una scommessa tra cittadini qualunque e sviluppata poi con oltre 300 eventi di piazza consecutivi in 98 nazioni del mondo, costituisce un buon modello – “non belligerante”, ma di proposta – che attivò milioni e milioni di persone, purtropponon adeguatamente e costruttivamente “intercettato”dalle leadership convenzionali, sempre troppo impegnate a gestire l’emergenza quotidiana e quindi incapaci di percepire i segnali deboli di crisi.
La vera sfida quindi è: chi coglierà oggi l’occasione per imparare a governare con efficacia questi movimenti di piazza? L’iniziale paura e diffidenza, da parte di governi e decisori, lascerà spazio alla volontà di una relazione sana con lo stakeholder “cittadini insoddisfatti”, così da trarre dal mutuo riconoscimento spunti utili per trasformare le istanze di protesta in idee creative per migliorare lo scenario sociale esistente?
I cittadini oggi si sentono – anche nei Paesi d’impronta non democratica – sempre più liberi di manifestare la propria opinione o, perlomeno, hanno la piena consapevolezza di “essere parte dell’equazione globale”. I politici per contro si ostinano a tentare – invano, ormai è sotto gli occhi di tutti – di tenerli fuori dalle dinamiche di decisione. Questa carenza di autenticità – vera e propria distonia tra l’esistente e il percepito – quanto potrà durare ancora prima di produrre strappi insanabili? Quando i decisori comprenderanno che assets immateriali come “fiducia”, “reputazione” e “rispetto”sono ormai parte della catena del valore, per le aziende come per le amministrazioni pubbliche?
Sempre l’Observer pubblicava una foto dalla piazza Brasiliana, uno striscione esposto dai manifestanti con scritto: «Siamo tutti social network».
E’ vero, in ragione di quanto la tecnologia web non fa che agire da “accelleratore di processo” in una società sempre più fortemente interconnessa. L’interazione, la capacità e disponibilità di creare engagement sociale con gli stakeholder eaddivenire a un modello di costruzione condivisa di contenuti, a tutti i livelli, è a mio avviso la vera keyword che farà la differenza nel rapporto tra istituzioni e cittadini, in questo e nei decenni a venire.
 




POLITICAL PEOPLE: il primo social network con identità certificate

“quando  troveremo il coraggio della responsabilità e ognuno farà di sè una piazza, sarà l’ora di farsi sentire senza urlare, di trasformare le idee in un’ideale.”
E’ questa una delle frasi presenti nel video che potrete vedere appena digiterete sulla vostra tastiera questa nuova combinazione di parole:POLITICAL PEOPLE.
Una piattaforma di social networking pensata per creare un luogo d’incontro , quasi un caffè politico.Un progetto che si estende in orizzontale e verticale, a livello nazionale, regionale, provinciale e comunale.  Rappresenta un nuovo format per la partecipazione cosciente e responsabile alla vita pubblica.
Appena aperto il suddetto sito, si può procedere al login ed esplorare questa fucina di informazioni e idee.
Avventuriamoci nella scoperta di questo social network attraverso delle domande poste ai suoi ideatori e fondatori.
Cos’è, precisamente, PoliticalPeople?

PoliticalPeople non è solo una piattaforma è una visione del mondo. Una visione non verticistica. Una piattaforma, concepita come social network, che ha come obiettivo quello di accorciare le distanze tra eletti ed elettori. Una azione di controllo sociale sull’operato di chi amministra la cosa pubblica, un sistema di co-working del cittadino che non supera ma valorizza il concetto di rappresentanza che sta alla base delle moderne democrazie mondiali. L’idea e la sua realizzazione sono il frutto di un confronto continuo tra due mondi: i nativi digitali, giovani abituati a pensare la rete come piano parallelo rispetto alla propria vita reale, e il mondo delle amministrazioni, della politica, di coloro che avvertono internet e la rete come una “spinosa” e rischiosa opportunità di confronto.
Perché le persone dovrebbero iscriversi al vs sito?

Perché non siamo un social network generalista. Non vogliamo esserlo. Siamo una fucina di idee, di opinioni, di segnalazioni che puntano a migliorare la gestione della cosa pubblica. I recenti eventi nel panorama italiano, ma anche esempi in giro per il mondo, hanno chiaramente evidenziato la potenza dei social network, la loro capacità di influire sul corso degli eventi. Lo sforzo che tentiamo di fare, l’idea che alimento PoliticalPeople è quella di passare dalla denuncia alla proposta, alla costruzione dei temi, all’attività di lobbing (in senso costruttivo) perché i temi che interessano ai cittadini possano arrivare sui tavoli che contano. Chi governa non sempre recepisce questi messaggi, riteniamo che uno strumento che sia insieme di controllo sull’operato, di proposta, di studio e di pungolo vada incontro alla richiesta di partecipazione.
Credete possa essere una idea vincente?
Il presupposto principale è la voglia di partecipazione che emerge dai recenti accadimenti, italiani ma non solo. Il sistema si autogoverna, non ci sono ingerenze esterne. Non ci sono filtri né algoritmi che possano pilotare consensi o temi. Una piazza virtuale in cui ciascuno dice la sua. La sfida però è quella di metterci la faccia. In più PoliticalPeople non rischia di essere inopportuno. Chi entra nella piattaforma e si registra decide di “partecipare” alla costruzione di un paese migliore. Di dire la sua. Non di “ammazzare il tempo o la noia” condividendo contenuti o immagini in maniera passiva e, spesso, talmente automatica da perderne completamente l’origine.
Cos’ha di più e di diverso rispetto a facebook e twitter, che rappresentano in assoluto i social network più utilizzati?
PoliticalPeople è un social network di settore. Partecipazione civile, passione politica, impegno sociale sono gli ingredienti di una scelta che l’utente decide di compiere iscrivendosi alla piattaforma in maniera gratuita. Unisce all’immediatezza dei tradizionali social network una serie di strumenti (segnalazioni, sondaggi, petizioni e tavoli di lavoro) che concretamente possono tradursi in momenti di confronto e arricchimento per amministratori e governanti. PoliticalPeople aspira ad essere meno dispersivo e, soprattutto, più attendibile sul piano delle informazioni che circolano.
E infine, i ragazzi, dicono..
L’obiettivo di PoliticalPeople è quello di superare l’equivoco dell’anonimato. Se una piattaforma deve essere di e-democracy il cittadino deve essere conscio, così come accade del mondo “analogico”, dei propri diritti e dei propri doveri. L’idea della certificazione, della firma digitale, come opzione per dare forza alle proprie opinioni all’interno della piattaforma mira a catapultare il mondo PoliticalPeople nei procedimenti amministrativi e di governo tarandoli sulle effettive necessità dei cittadini. La firma digitale obbligatoria per i politici mette al sicuro il cittadino con una interlocuzione certa e diretta. La firma facoltativa per i cittadini è una opportunità per rafforzare le opinioni espresse e le segnalazioni fatte.




La Rewoolution di Reda: un ritorno al futuro della lana

Mentre diversi lanifici del biellese, in Piemonte, stavano fallendo, il gruppo Reda ha scelto la via della sostenibilità. Dopo la certificazione Emas, ottenuta per la prima volta nel 2004, nel 2010 l’azienda di Valle Mosso ha aggiunto alla produzione di tessuti per le grandi case di moda una vera e propria linea di abbigliamento sportivo tecnico in lana merino, lanciando il marchio Rewoolution. “Abbiamo sempre pensato alla questione di andare a valle”, racconta l’amministratore delegato di Reda Ercole Botto Poala. “In un momento in cui però il mercato degli abiti formali si sta restringendo, non volevamo entrare in concorrenza con i nostri clienti. Per questo abbiamo pensato ai capi tecnici per sport all’aria aperta, con l’intenzione di offrire prodotti in sintonia con chi li utilizza e con l’ambiente”. Non solo perché t-shirt e pantaloni sono 100% fatti di lana e completamente oil free, ma anche per l’intero processo di produzione: “Il nostro obiettivo è ridurre al minimo l’impatto ambientale”.
Dopo l’idea iniziale, nel lanificio Reda, nato nel 1865 e rilevato e rilanciato nel 1919 dalla famiglia Botto Poala, è iniziato un processo di studio e perfezionamento delle tecniche di filatura, per ottenere un tessuto adatto a tutti gli sport outdoor: sci e snowboard, golf, vela, trekking, climbing. “Abbiamo eliminato i limiti della lana di una volta e l’abbiamo resa più performante dei tessuti sintetici: adesso non punge più e addirittura al tatto non sembra neanche lana, perché è più sottile. Rispetto alle fibre sintetiche, la lana si asciuga prima, non prende cattivi odori, e ha un effetto di termoregolazione. Al contrario di quello che si pensa di solito, infatti, la lana è più utile in estate che in inverno: una t-shirt sintetica trattiene un calore pari a 8 gradi in più. Una t-shirt in merino è traspirante, ha un alto potere di assorbimento e protegge dai raggi UV-A e UV-B”.
La fase a più alto impatto ambientale è sicuramente quella del trasporto: la lana, infatti, è importata da Australia e Nuova Zelanda e poi lavorata nello stabilimento Reda nel biellese. Anche in questo ambito, però, l’azienda è impegnata per alleggerire la propria impronta ecologica: “In Nuova Zelanda abbiamo tre fattorie che allevano 30.000 pecore secondo i canoni di Zque, un programma basato su pratiche sostenibili, rispettose dell’ambiente e del benessere degli animali. Per il trasporto, cerchiamo di utilizzare le compagnie navali che ci garantiscono le minori emissioni possibili”. Un lavoro che in certi casi diventa quasi un percorso a ostacoli: “Tutto questo ha un costo, che il mercato per adesso non ripaga: più andiamo su prodotti di lusso e meno interesse c’è per l’impatto ambientale. Oltre a questo, non è sempre facile trovare fornitori attenti alla sostenibilità”.
Rewoolution è solo l’aspetto più visibile di un percorso verso la sostenibilità che Reda ha iniziato alla fine degli anni Novanta e a cui ha aggiunto nel 2004, unico lanificio al mondo, la certificazione Emas: “Il primo passo è stata nel 1998 la costruzione del nuovo stabilimento: già allora, quando ancora non si parlava di bioedilizia, sono stati presi una serie di accorgimenti che hanno reso la nostra sede adatta a tutte le misure di sostenibilità successive. L’edificio, per esempio, è esposto a Sud, e questo ha facilitato l’installazione dei pannelli solari sul tetto. La posizione delle macchine è stata cambiata per ridurre i costi di trasporto”. Sei anni dopo, è arrivata la prima certificazione, che prevede un controllo annuale ed interventi continui in chiave di sostenibilità, dalla formazione del personale all’installazione dell’impianto fotovoltaico, dalla riduzione dei consumi dell’acqua al recupero del calore, che “ha permesso di risparmiare, dal 2011 ad oggi, 2 tonnellate di CO2 e tagliare i consumi energetici del 2%”. Interventi che hanno richiesto investimenti consistenti, pari a 6 milioni di euro in quattro anni, parte della quota (il 10% del fatturato) destinata ogni anno da Reda a innovazione e tecnologia.
Oggi gli abiti tecnici Rewoolution sono commercializzati, oltre che nell’e-commerce on line, in diversi negozi italiani ed europei (in Francia, Germania, Austria, Belgio, Danimarca), ma anche in Groenlandia, a Taiwan e in Kuwait, dove per difendersi dal caldo ci si veste di lana.