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Le 5 metriche più importanti per migliorare le performance su Twitter

Twitter In Italia conta circa 3,8 milioni di visitatori mensili (dati Audiweb/Nielsen di gennaio 2013). La sua crescita è lenta, ma il clamore mediatico sta spingendo molte aziende a sperimentarne l’utilizzo.
Il problema è che il social network non offre automaticamente uno strumento nativo per analizzare le performance ottenute, a meno di non comprare della pubblicità. In questo caso, disponendo di almeno 15.000 euro per tre mesi, si riceve anche l’accesso ad un pannello di controllo dei soli risultati della specifica campagna acquistata.
Per fortuna esistono sul mercato strumenti di analisi che ad un costo minore permettono di verificare le proprie performance su Twitter e migliorare le attività di coinvolgimento degli utenti (da TweetReach a TwentyFeet, passando per Social Analytics di Blogmeter, che ho contribuito a creare).
Ma scegliere lo strumento è l’ultimo passo, non il primo, di un percorso teso a comprendere quali siano le metriche più importanti da tenere sott’occhio, evitando di farsi abbagliare da cruscotti scintillanti e carichi di indici spesso fuorvianti.
Senza pretesa di esaustività condivido con voi quelle che mi sembrano le spie più interessanti da considerare per valutare le proprie performance su Twitter.
– Follower: il numero dei “seguaci” è la metrica principale che Twitter espone, ma non la più illuminante. Per un social network che basa tutto sull’attimo e sul flusso, il bacino dei follower conta relativamente. Indica un bacino potenziale di lettori e nulla più. Su Twitter le possibilità che i tweet non vengano visti sono elevate, semplicemente perché all’atto della pubblicazione molti non erano online;
– Mentions: con questo termine Twitter intende tutte le citazioni ricevute dal nostro account, siano esse spontanee o derivanti da retweet e reply. Misurarle vuol dire avere idea del cosiddetto “engagement” o coinvolgimento generato. In sintesi quante reazioni ha generato un certo account.
Ancora meglio sarebbe avere strumenti di analisi semantica che indichino quali di quelle menzioni sono positive o negative. Non avendoli si può assumere ragionevolmente che almeno il numero di retweet rappresenti un segnale di adesione al proprio messaggio. Quindi avere uno strumento che indichi separatamente il dettaglio del numero di retweet e reply aiuterebbe;
– Impressions: misurano l’esposizione raggiunta dall’account ossia il numero di volte che i tweet provienienti dall’account o citanti lo stesso possono essere stati visti. Si tratta di un potenziale teorico dato dalla semplice moltiplicazione del numero di tweet per i follower cui sono destinati.
Ancora più interessante è capire lo scarto che c’è tra le impressioni determinate dai cinguettii prodotti dal profilo e quelle guadagnate grazie alle menzioni dell’account da parte di altri soggetti. In questo modo si potrà capire il grado di amplificazione dei messaggi creato dalla rete di follower;
– Unique Authors o Reach: se le mention offrono un’idea del volume di discussioni, il numero degli autori unici ci dice quante persone citano l’account. Questi due valori non coincidono quasi mai perché soprattutto quando si considerano periodi lunghi di analisi, uno stesso individuo può citare più volte un certo account. Si tratta di un fenomeno molto frequente durante gli eventi (si pensi ai commenti alle trasmissioni televisive) o durante esperienze ricorrenti (ad esempio i viaggi);
– Engagement per tweet: a differenza delle altre metriche questo è un indice composto dal rapporto tra engagement e numero di tweet prodotti. Il primo valore, generalmente, si fa coincidere con il numero totale di mention ricevute. Ma non è sbagliato aggiungere ad esso la quantità di “Favourites” ricevute dai tweet. Ultimamente è proprio Twitter che sta spingendo gli utenti, rendendo pubblica l’azione relativa, a prendere l’abitudine di premere la stellina dei preferiti per mostrare il proprio gradimento. Una sorta di like che può essere considerata una reazione positiva all’attività editoriale.
Un valore alto di Engagement per tweet indica tendenzialmente che i cinguettii dell’account raccolgono i favori del proprio pubblico di riferimento.
 

I cinque indicatori sopra analizzati acquistano maggiore significatività se letti in prospettiva, ovvero se vi si aggiunge la dimensione temporale. Il fattore tempo permette di comprendere se si stanno compiendo dei progressi o se le performance sono stagnanti. Inoltre lo storico dei dati dà anche modo di proiettare i risultati futuri e decidere i prossimi obiettivi da assegnare al team di lavoro (interno o esterno all’azienda).
Un’altra dimensione utilissima per valutare le proprie performance è quella del mercato. In definitiva risulta molto utile avere uno strumento che permette di confrontare le metriche di cui sopra rispetto ai risultati dei concorrenti. Questi possono essere diretti, quelli che offrono prodotti o servizi simili, o indiretti, che tendono a soddisfare lo stesso bisogno. Per i monopolisti potrebbe essere interessante studiare account che hanno le stesse dimensioni di follower, anche se operanti in mercati diversi.
Vi invito, dopo aver compreso a fondo il significato di ognuna di queste metriche di base, a metterle in relazione. Ad esempio creando una “Engagement Map”, come quella in alto, che metta in relazione il numero di follower (asse delle ascisse) con quello delle mentions (asse delle ordinate). Arricchendo il tutto con la quantità dei tweet scritti, rappresentato dall’ampiezza delle bolle. In questo modo sarà possibile visualizzare immediatamente il posizionamento rispetto ai competitor e monitorare l’evolvere della situazione nel tempo.
Quali sono gli indicatori che usate per misurare le performance della vostra azienda su Twitter?
 




Intervista a Alberto Barbera

Intervista a Alberto Barbera, Direttore della Mostra del Cinema di Venezia e del Museo Nazionale del Cinema: la vittoria dell’Oscar di “la Grande Bellezza”, di Paolo Sorrentino è l’occasione per una “chiacchierata” a 360 gradi sullo stato di salute del Cinema italiano.
Ascolta l’audio dell’intervista:




I disegni dei bambini per i genitori licenziati

L’appello dei figli degli operai ai vertici della Fivit Colombotto, fabbrica metalmecccanica di Collegno, alle porte di Torino, che vuole chiudere


Tutta la famiglia ha la bocca all’ingiù, così fanno i bambini quando devono disegnare la tristezza, così ha fatto anche Laura con la sua matita. Ed è triste pure il sole, là nel cielo spento. Sono tristi i papà che hanno perso il lavoro, sono tristi le mamme, i fratelli, le sorelle, la città, tutti.
Questa è la storia di una fabbrica che ha appena chiuso, una storia in fondo comune, dentro la maledetta crisi che fa sanguinare non solo l’economia ma le persone, soprattutto le più fragili. E c’è qualcosa di più fragile di un bambino? “Non licenziate i nostri papà”, scrivono i figli col pennarello, ingenui e perfetti, sui loro fogli bianchi.
Era una fabbrica di viti e bulloni per automobili ed elettrodomestici, la Fivit Colombotto di Collegno, alle porte di Torino, il paese famoso per il manicomio. Forse, ci sono luoghi dove il dolore preferisce fermarsi e rimanere. Bulloni, viti: oggetti di una quotidianità materiale e disarmante, oggetti antichi che l’uomo usa da sempre. Ma da qualche settimana, l’azienda ha abbassato le saracinesche.
Nel 2003 era stata assorbita dal gruppo lombardo Agrati, però le cose sono andate sempre peggio. La perdita del lavoro riguarda 82 operai, anzi 82 famiglie: e i bambini hanno deciso di prendere matite e colori per dire no, per chiedere che non finisca così.
C’è un video su YouTube, ci sono pagine su Facebook, perché almeno questo ha di bello il presente: anche se ha messo in crisi i bulloni e i papà, ha inventato nuovi modi per parlare con gli altri, subito, adesso, e per farsi sentire. “Fai tornare il sorriso alla mia famiglia”. I disegni dei bimbi di Collegno spiegano più di tanti trattati di sociologia ed economia il disagio di questo sventurato presente. Lì dentro urla un dolore quotidiano, chissà quante sere passate a parlare della crisi attorno a un tavolo, con i piccoli zitti ma attenti, spugne pronte ad assorbire ogni cosa, perché loro sono così. E poi, quel tutto è rotolato sulla carta, si è rovesciato sui fogli.
“Mio papino, non c’è bisogno che piangi di nascosto”, scrive una bambina che si firma solo “figlia di un dipendente”. “Anche se davanti a noi sorridi, io ho capito tutto, non lascerò mai la mano che stringi da 11 anni”. Nel disegno, il papà e la bimba si tengono, appunto, per mano, su un prato di fiori rossi, c’è anche un cuore appoggiato a terra. “Cattivi, papà perde il lavoro”, qui invece la famiglia è come chiusa dentro una casaprigione,
il segno è nero, la desolazione è un tratto semplice e netto.
I bambini ne avranno parlato tanto tra loro, forse con le maestre, con i nonni. E il racconto dà il senso di una comunità, è corale e dolente. Lorenzo ha disegnato un paio di mani e vorrebbe regalarle al papà, perché lui con quelle mani possa continuare a lavorare. C’è la fabbrica dentro una palla di vetro, è l’idea di Mauro e Michele, ed è un futuro che si legge anche troppo bene. C’è una cassetta degli attrezzi che non serve più, ci sono le viti disegnate con attenzione e perizia, non manca neppure una zigrinatura, si vede che questi piccoli le hanno viste, toccate.
“State rovinando i nostri sogni”, dice un cuore triste firmato da Giulia, 6 anni, e Francesco, 3 anni. “Non lasciate il mio papà senza lavoro”. C’è un mantello di stelle colorate, quasi assurdo nel buio. I bambini disegnano la fabbrica con precisione, non è il nemico ma una specie di casa, è lì che papà e mamma guadagnavano i soldi per mantenere la famiglia. E graffia il cuore il disegno con le croci sopra i vestiti, il cibo, l’automobile, i libri, cioè le cose che bisogna cancellare a una a una. Nell’uovo di Pasqua, uno di questi bimbi chiede di trovare il regalo del lavoro, anche lui è un figlio di qualche papà che piange da solo, anche se ci sono situazioni impossibili da nascondere, i bambini vedono tutto, sentono tutto, captano con le antenne sempre dritte.
Stasera i loro genitori, i dipendenti della Fivit Colombotto, parteciperanno a un consiglio comunale aperto, a Collegno, e poi andranno in strada con le fiaccole. “La nostra azienda da cinque anni non è più in cassa integrazione, ha ricevuto molte commesse, non c’era nessun bisogno di chiuderla “, dicono gli operai. L’attività è stata interrotta da un giorno all’altro, nessuno era davvero preparato, meno che mai i bambini. “I nostri genitori non sono numeri”. “Il lavoro è un diritto di tutti”. Laura, Sara, Gianluca, ognuno ha una domanda, una frase. Giulia ha disegnato il suo papà che torna a casa con la cassetta degli attrezzi in mano, invece Lara scrive: “Senza lavoro non si va da nessunaparte”.
Ci sono lacrimoni che scivolano dagli occhi, e facce che gridano. Pupille spalancate, il fumo si alza dai comignoli e dalle ciminiere, sopra i tetti di Collegno che non capisce e non lo merita. E c’è anche la realtà disegnata come finalmente dovrebbe essere: un papà che spinge sorridendo una carriola rossa, tra file di bulloni bene avvitati, tutto in ordine, tutto funzionante, un piccolo cuore che vola come una farfalla e la frase dentro un fumetto: “Io amo il mio lavoro”, ogni parola scritta con un colore diverso, “lavoro” in verde, “io amo” in rosso, non potrebbe essere altrimenti. Anche se

il disegno che fa più male, dopo quello del padre che piange da solo e quello delle bocche all’ingiù, è un cubitale e semplice “Perché?”, appoggiato nel vuoto. Il bambino che l’ha scritto forse avrà già imparato che cisono domande senza risposta.




Bilancio Sociale FIGC, Abete: Fatti passi in avanti

Una fotografia dello stato di salute del calcio italiano, che attraverso l’analisi delle attività svolte dalla Figc e dalle sue componenti illustra tutti i numeri e i momenti salienti… del 2012, ma anche alcune delle iniziative più significative del 2013, dall’incontro con Papa Francesco in occasione dell’amichevole di agosto con l’Argentina al recente allenamento della Nazionale a Quarto, sul campo della squadra sottratta al controllo della Camorra e affidata ad un’associazione antiracket. E’ stato presentato questa mattina a Roma, presso la Sala Polifunzionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Bilancio Sociale Figc 2013, seconda edizione del documento realizzato con il contributo della UEFA e redatto in collaborazione con PricewaterhouseCoopers che analizza l’attività, l’identità e la mission della Federcalcio, il suo ruolo nel sistema sportivo, ma anche nel tessuto sociale del Paese. “E’ il bilancio di tutto il mondo del calcio – ha spiegato il direttore generale della Figc Antonello Valentini – e quest’anno all’interno troverete anche il resoconto di quanto è stato fatto dalle nostre componenti. Questo documento vuole essere la testimonianza dell’impegno civile e sociale in cui crediamo. Grazie a tutti gli uffici federali, che con la loro collaborazione determinante hanno reso questa seconda edizione più completa, ricca e documentata della precedente”. Non mancano le note positive, dall’aumento del numero dei tesserati (1milione e 359 mila nel 2011/2012 rispetto al milione e 342 mila del 2010/2011), al calo costante degli episodi di violenza negli stadi (si è passati dai 148 incontri con incidenti su 2289 partite nel 2005/2006 ai 60 incontri con incidenti su 2246 gare del 2011/2012). Nel Bilancio trovano spazio anche tutti i numeri che hanno accompagnato gli Azzurri in occasione dei Campionati Europei di Polonia e Ucraina e i dati relativi a tutte le componenti, dall’Associazione Italiana Arbitri alle Leghe (Serie A, B, Lega Pro e LND), con un occhio di riguardo allo sviluppo del Settore Giovanile. Grande attenzione inoltre al tema della responsabilità sociale, dall’impegno nella lotta al razzismo alle campagne di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne, la mortalità infantile, l’emergenza dopo il violento terremoto che ha colpito l’Emilia Romagna, la tutela degli animali e tanto altro ancora. Iniziative che hanno visto gli Azzurri di Prandelli sempre in prima fila, con gli allenamenti a Medolla e Quarto, la visita ai campi di concentramento di Auschwitz e Birkenau, fino all’impegno al fianco dei ragazzi di Special Olympics. “Bisogna dire bravi alla Figc – ha dichiarato il presidente del Coni Giovanni Malagò – perché questo impegno, nel pubblicare ogni anno il bilancio sociale, fa onore alla Federazione. Una cosa di cui c’è da essere orgogliosi, per questo esigo che anche il Coni faccia il suo Bilancio Sociale. E’ un nostro dovere. Vista la morbosa e maniacale curiosità mediatica che ruota attorno al calcio, l’idea di avere una volontà di precisione, trasparenza e impegno è il miglior biglietto da visita per la governance della Figc. Questo prodotto negli anni sarà sempre più di qualità”. Il presidente federale Abete ha ringraziato il Coni e ha voluto ricordare l’impegno nel mondo del calcio dell’ex capo della Polizia Antonio Manganelli e di due grandi dirigenti sportivi come Mario Valitutti e Lorenzo Righetti, quest’ultimo scomparso proprio ieri all’età di 83 anni: “Il Bilancio Sociale – ha spiegato il numero uno della Federcalcio – ha assunto quest’anno una dimensione più organica, facendo un piccolo ma significativo passo avanti. E’ un percorso che non ha mai fine, le cose da fare sono tantissime e le nostre forze sono limitate, ma la direzione è quella giusta. La dimensione del nostro calcio deve essere positiva e noi, nel nostro piccolo, abbiamo sempre cercato di essere presenti nelle zone dove ci sono state difficoltà, da Rizziconi a Medolla, fino all’ultimo allenamento della Nazionale sul campo di Quarto”. Un impegno nel sociale, quello della Federazione e degli Azzurri, caldeggiato da Don Luigi Ciotti: “Ci siamo conosciuti quando ho proposto alla Nazionale di venirsi ad allenare a Rizziconi e avete accettato venendo a giocare in quel campetto. Grazie a quel gesto è stato possibile costruire un percorso nuovo e 250 ragazzi hanno potuto finalmente frequentare la scuola calcio. Ho letto attentamente il Bilancio Sociale e ho notato come molti progetti abbiano una valenza culturale ed educativa”.




IL LUSSO A SCUOLA DI CINEMA…E DI CSR

Intervista a Marcello Foti, Direttore Generale del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, sulla partnership con il colosso del lusso Louis Vuitton
Direttore, in due parole, storia e missione della vostra prestigiosa struttura.
La Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia (1) è certamente la più importante istituzione pubblica italiana d’insegnamento, ricerca e sperimentazione nel campo della cinematografia. L’idea di realizzare una scuola nazionale di cinematografia in Italia è del regista Alessandro Blasetti e risale al 1930, ma si concretizzò nel 1935 grazie all’intraprendente iniziativa di Luigi Freddi e all’entusiasmo di alcuni studiosi e registi come Luigi Chiarini, Umberto Barbaro, Francesco Pasinetti e Alessandro Blasetti, che fu anche il primo docente del corso di regia. Fra le nostre finalità c’è lo sviluppo dell’arte e della tecnica cinematografica e audiovisiva a livello d’eccellenza, attraverso la Scuola Nazionale di Cinema, che costituisce un incubatore culturale dove confluiscono produttori, registi, fotografi, sceneggiatori, scenografi, attori, montatori, musicisti e tecnici del suono, oltre a esperti della cinematografia digitale, studenti e studiosi di tutto il mondo, e la Cineteca Nazionale, che conserva il patrimonio filmico italiano e si occupa della conservazione, incremento e restauro delle opere. Infine il nostro Centro Sperimentale di Cinematografia, che è tra le più antiche istituzioni d’alta formazione e ricerca nel campo della cultura cinematografica, nonché certamente la più celebre all’estero.
Una delle principali finalità del Centro Sperimentale di Cinematografia (CSC) è anche la sperimentazione di linguaggi innovativi connessi al mondo del cinema…
Si, perché se è vero che cinematografia ormai ha più 100 anni, negli ultimi 20 anni essa è stata oggetto di un ammodernamento dei linguaggi, basti pensare al digitale e al 3D, e questo si riflette anche fortemente sulla struttura dei nostri programmi didattici e sul modo che abbiamo di comunicare la nostra mission.
 
La celebre casa di moda francese Luis Vuitton (2) è recentemente diventata vostra partner, con un interessante progetto di Responsabilità Sociale d’Impresa che è anche un ambizioso progetto di comunicazione. Anche la moda può essere sperimentazione di nuovi linguaggi in ambito cinematografico?
Il matrimonio “moda-cinema” esiste da sempre, attraverso la moda il cinema spesso ha raccontato la nostra società, molto spesso attori e attrici hanno avuto la funzione di veri e propri testimonial per l’affermazione di nuove tendenze anche e soprattutto nel campo della moda: abbigliamento, gioielli, accessori, stili. Il cinema è sempre stata la vetrina d’eccellenza per il lancio di nuove tendenze, e anche in questo senso va inteso questo accordo. Tuttavia in questo caso non siamo d’innanzi ad una banale tentativo di valorizzazione dei prodotti Luis Vuitton: una delle cose che mi ha colpito sin dall’inizio è stato un atteggiamento molto “schivo” da parte loro riguardo all’aspetto puramente promozionale. La maison Vuitton si è avvicinata al Centro Sperimentale di Cinematografia per riaffermare la qualità dell’alta artigianalità: sicuramente è una delle case di moda più famose al mondo, che fa dell’eccellenza un valore fondante del marchio, e con quest’operazione ha voluto legarsi a una delle scuole di cinema più antiche del mondo proprio per testimoniare quanto sia importante in qualsiasi ambito della cultura – ma anche in ambito commerciale – l’alto livello dell’artigianalità.
Come si articola la collaborazione tra Vuitton e la SNC?
Siamo partiti nel 2012, in base a un accordo triennale 2012/2014, e l’intesa prevede di sviluppare tre laboratori di alta artigianalità. Il primo a partire è stato quello legato al costume, diretto dal maestro Piero Tosi e incentrato sull’ esaltazione del costume dal 1860, un’epoca in cui la moda ha avuto un’importanza assai rilevante nel nostro paese, successivamente enfatizzata dal cinema in molte occasioni. E’ stato realizzato un lavoro meraviglioso: abbiamo già una documentazione fotografica che attesta la qualità semplicemente eccelsa di questo lavoro, stiamo confezionando anche un video-documentario, e insieme a Vuitton troveremo anche il modo per pubblicizzare al meglio tutte la fasi di questo lavoro.
 
Esiste un filo rosso che lega la moda al cinema, un codice di valori in comune?
Assolutamente, anche se la massificazione della moda e la creazione di tendenze artificiali, dettate solo dal mercato e non dal gusto, ha contribuito a far perdere quei valori. L’alta sartorialità era una cifra importante fino ai primi decenni del secolo scorso, i nostri nonni ancora si facevano gli abiti “buoni” su misura dal sarto. Con questa partnership abbiamo cercato di recuperare proprio questi valori, che sono anche dei modi di essere dell’impresa, insiti nel DNA di Vuitton, e non sono soltanto dei valori legati alla moda del momento. Quando il presidente della maison Vuitton ci diceva che nella loro azienda è presente ormai solo un unico soggetto che porta il cognome di Vuitton, il quale però si occupa di una parte fondamentale del loro lavoro, e cioè della selezione dei materiali, scelti uno per uno, dei bottoni, dei chiodi per realizzare i bauli… ebbene, quest’atteggiamento potrebbe apparire come eccessivamente meticoloso, ma è invece secondo me la chiave di lettura del successo straordinario di questa grande azienda. Mettere assieme la Scuola di Cinema più famosa in Italia, una delle più famose al mondo, e un’azienda come Vuitton, credo che in questo senso sia stata una scelta vincente.
Non una semplice sponsorship in denaro, quindi, ma un progetto complesso e ambizioso.
Abbiamo realizzato questa intesa triennale a sostegno della giovane cinematografia italiana, e Vuitton ha scelto la nostra scuola dopo averne passate in rassegna diverse in tutta Europa, con l’obiettivo principale di sostenere i giovani. L’anno prossimo sceglieremo insieme un altro tema, molto probabilmente legato alla scenografia, sempre temi che sono vicini alle istanze della Maison. Inoltre Vuitton ha voluto anche costituire due borse di studio triennali, da destinare agli allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia, particolarmente capaci e meritevoli nei due settori del costume e della scenografia. Direi che per la complessità del progetto possiamo senz’altro parlare di partnership, più che di semplice sponsorship.
 
Quali saranno a vostro avviso le ricadute positive di questa iniziativa?
Per entrambi è una straordinaria opportunità di comunicazione, una grande maison internazionale ha scelto una prestigiosa istituzione pubblica, e il vantaggio sarà evidentemente reciproco, come in ogni accordo che si rispetti. Inoltre questo progetto sarà un’opportunità straordinaria per i nostri ragazzi: chi lavora al laboratorio ha l’opportunità di dimostrare in concreto le proprie competenze e le qualifiche tecniche che ha acquisito in questi anni di studio. Poi la guida del maestro Piero Tosi è un altro elemento, un valore aggiunto importantissimo, non capita tutti i giorni di realizzare un laboratorio sotto la guida di un maestro così importante e così apprezzato in tutto il mondo, e questo rappresenta una ricaduta positiva per tutti i protagonisti del progetto. Poi ci sono anche effetti positivi in un certo senso collaterali: Vuitton ad esempio ha recentemente inaugurato una propria sede, molto bella, a piazza San Lorenzo in Lucina a Roma, e il Centro Sperimentale di Cinematografia attraverso la Cineteca Nazionale ha offerto un importante contributo culturale nella programmazione della piccola sala cinema interna, uno spazio di proiezione che loro hanno realizzato nell’ambito di questa nuova struttura. C’è anche un’altra valenza, quella frose immediatamente meno evidente ma a mio avviso più importante di tutte: quest’accordo dimostra come le grandi aziende – non solo della moda, ma di qualsiasi settore – possono costituire un supporto fondamentale e concreto per l’ulteriore crescita del grande cinema italiano.
(1)   link a www.snc.it
(2)   link a www.louisvuitton.it