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Nintendo conferma: minori di 14 anni hanno lavorato presso Foxconn per assemblare il Wii U

A seguito della segnalazione di Foxconn riguardo l’assunzione di ragazzi minorenni presso i suoi stabilimenti dove le console Nintendo Wii U è in fase di montaggio, Nintendo ha confermato il caso, descrivendolo come una violazione delle linee guida della compagnia.
Il Senior director delle Corporate Communications di NoA, Charlie Scibetta, ha affermato ai microfoni di Kokatu: “Nintendo ha indagato sull’incidente ed ha determinato che si tratta di una violazione della guide linea delle Corporate Social Responsibility (CSR) sugli appalti che tutti i partner di produzione Nintendo sono tenuti a seguire, in base alle leggi, e alle norme internazionali.”Scibetta ha continuato, “Foxconn si è assunta la piena responsabilità per questo incidente e si è mossa rapidamente per garantire che tutti gli individui coinvolti non lavorino più presso l’azienda. Infatti, le politiche della compagnia vietano l’impiego di minorenni, e la società si è impegnata con Nintendo a migliorare il processo per far rispettare questa politica, ed evitare problemi simili in futuro.”Scibetta ha aggiunto che Nintendo personalmente continuerà ad effettuare ispezioni presso gli stabilimenti, per accertarsi che le condizioni di lavoro siano accettabili. “Come una delle tante aziende che lavorano con Foxconn, prendiamo molto seriamente la questione, per migliorare la responsabilità sociale delle imprese lungo la catena di fornitura.”




Suzy, la mamma che imbarazza il colosso Ryanair: 350 mila sostenitori su Facebook

Trecento euro per non aver stampato la carta di imbarco. Lei lo scrive su Facebook e 350 mila utenti la sostengono
Gli extra delle compagnie low cost, si sa, possono essere molto pericolosi. Peso eccedente, bagaglio con misure non adeguate. Ma Suzy McLeod di Newbury, Berkshire, mamma di due bambini, non poteva immaginare che una svista con una compagnia low cost potesse costarle ben 300 euro.
LA STORIA – È quello che le è accaduto con Ryanair per un volo del 15 agosto da Alicante a Bristol: dopo aver acquistato i biglietti, fatto il check in online e aver pesato le valigie prima di partire per evitare sorprese, questa mamma di due bambini non ha stampato le cinque carte di imbarco. Il risultato? Sessanta euro per persona da pagare, in totale 300 euro. Il giorno dopo la disavventura, Suzy ha scritto sulla pagina Facebook della compagnia low cost: «Avevo già fatto il check in online – il commento – ma poiché non ho stampato le carte di imbarco mi avete fatto pagare 60 euro a persona. In totale 300 euro per un semplice pezzo di carta. Cliccate mi piace se pensate che sia un’assurdità».
SUPPORTER – In 354 mila hanno accolto l’invito e oltre 18 mila persone hanno pubblicato un commento, generalmente poco gentile, contro il vettore low cost. Tant’è che la compagnia, dopo poco, ha cancellato l’appello di Suzy dalla sua pagina Facebook. «Avremmo potuto viaggiare in business per molto meno – ha dichiarato al Telegraph Suzy, 35 anni, che era in vacanza con suo figlio Harrison, la figlia Maria e i nonni dei bambini -. Siamo andati in ferie per 15 giorni e non sono riuscita a stampare le carte di imbarco per il ritorno perché puoi farlo solo due settimane prima del volo. Avevo le carte di imbarco sul mio cellulare in Pdf e pensavo che fosse sufficiente». Non era così.
RYANAIR – La compagnia irlandese, ha poi risposto tramite la stampa, alla cliente: «Com’è chiaramente delineato nei termini e nelle condizioni di volo che la signora ha accettato quando ha comprato il biglietto con noi – ha precisato il portavoce della compagnia Stephen McNamara – i passeggeri devono stampare la carta di imbarco e presentarla in aeroporto al momento della partenza. Se ciò non avviene, si paga l’extra».
 




Cose che non vanno più di moda

I treni di notte. Avevano nomi romantici e ottimisti, da anni del boom: la freccia del Sud, il treno del Sole, dell’Etna…Treni di notte non ne passeranno più. Scompariranno – o forse si trasformeranno in qualcos’altro – come carrozze di Cenerentola. In futuro sulle rotaie, dopo la mezzanotte, viaggeranno soltanto merci, non più persone addormentate. Non è una notizia. L’11 dicembre Trenitalia ha presentato il nuovo orario e c’erano cento carrozze di meno. “Abbiamo incominciato ad accorgercene nel 2009, tre anni fa”, mi raccontano. “I vagoni-letto che si rompevano non erano più sostituiti e i treni diventavano sempre più corti. Nel 2010 l’Espresso Notte 1910 Milano-Napoli era lungo soltanto 6 carrozze invece di 12”. La fine di cuccette e vagoni-letto rappresenta la scomparsa dell’utilizzo del tempo del sonno per spostarsi. Oggi si viaggia di giorno perché anche in viaggio si può lavorare. I treni notturni sono un ambiente saccheggiato da letteratura e cinema dove si sono mossi poveri e ricchi. Di notte, sui treni, Hercule Poirot ha risolto omicidi, grazie a Hitchcock la signora è scomparsa e il treno di Cary Grant e Eva Marie Saint è entrato in galleria. Totò ha litigato con un onorevole. Ma è molto di più. I treni di notte hanno cucito l’Italia ogni settimana, anno dopo anno, per mezzo secolo, trasportando milioni di esseri umani dalle case del sud dove erano nati alle città del nord dove avevano trovato lavoro. Era un “servizio universale”, garantito a tutti, comunque, perché di pubblica utilità, quasi indipendente dai risultati economici. Trenitalia pare abbia deciso di abolirlo. Gli utenti sono in diminuzione, sostengono. Ma dal 2004 al 2011 sono stati quasi 12 milioni. Erano i treni dei poveri, ma un biglietto di seconda in Freccia rossa può costare il doppio. Al vantaggio dell’abolizione di una spesa improduttiva si aggiunge l’eliminazione di un concorrente. Avevano scelto nomi romantici e ottimisti, da anni del boom: il treno del Sole, la freccia della Laguna e del Sud, il treno dell’Etna. La gente ci invecchiava sopra, settimana dopo settimana, estate dopo estate. Ci sudava, mangiava, parlava e dormiva. Alcuni li hanno usati per studiare e migliorare la propria condizione. Scrisse Gafyn Llawgoch, l’anarchico gallese: “Il treno è l’unico posto al mondo dove un povero può sedersi per parlare e pensare. È l’unico posto in cui può fare il borghese”. Cucivano le classi anche per un’altra ragione, i treni di notte. Perché niente emoziona come la visione di un interno illuminato. Non importa se sta fermo o si muove, se è una casa intravista da un treno oppure il vagone di un treno osservato da casa. L’apparizione pubblica di uno spazio privato, dà un senso di distanza e calore, di nostalgia per la vita calma degli altri. Per decenni, in Italia, questo sguardo reciproco è stato scambiato ogni notte, ovunque un treno passasse vicino a una casa. Ed è stato sempre il riconoscimento di una differenza, ma anche di una somiglianza tra umani, mobili o stanziali che fossero, tra residenti o emigranti. La notte tra il 7 e l’8 dicembre – tra Sant’Ambrogio e l’Immacolata – pochi giorni prima che Treniitalia varasse il nuovo orario, alcuni uomini si sono arrampicati sulla prima Torre Faro che si incontra lungo il binario 21 della Stazione centrale di Milano. È un traliccio alto 50 metri che serve per l’illuminazione dei binari. Vivono lì, al freddo, da allora, in pochi metri quadrati, per protesta. Ogni tanto si danno il cambio. Alla base altri lavoratori hanno costruito una tenda con cucina per garantire a chi sta in cima cibo, acqua e corrente. Da quel giorno sono passati più di 150 giorni. Loro tanno ancora là, come baroni rampanti ferroviari. E i treni, quando passano, li salutano fischiando.
 




Tutti siamo la storia

La storia è nota. In un’antica favola africana si narra di una foresta in fiamme e degli animali che fuggono spaventati. L’unico che non scappa, ma torna addirittura indietro con una goccia d’acqua nel becco è un piccolo colibrì. Il leone, che della foresta è il re, gli chiede sarcastico: «Ma cosa credi di fare, non vedi che la foresta sta bruciando?». Risponde serio il colibrì: «Faccio la mia parte».
E partito da qui, dalla «strategia del colibrì», il primo incontro del ciclo «Fede, orizzonte per vivere» organizzato giovedì scorso a Torino dalla Cattedra del dialogo, l’iniziativa culturale promossa dalla pastorale per la Cultura e comunicazioni sociali dei vescovi del Piemonte. A confronto la piccola sorella Maria Ida e il giornalista Luca Poma. Un’occasione davvero speciale, perché le piccole sorelle di Gesù vivono aiutando il prossimo nel silenzio ed è raro che accettino di partecipare ad un incontro pubblico. «Una testimonianza laica e una testimonianza religiosa», ha spiegato mons. Luciano Pacomio, vescovo di Mondovì e delegato Cep per le comunicazioni sociali, «unite nella ricerca di possibili itinerari di fede incarnati nella vita di tutti i giorni. Due protagonisti con esperienze molto diverse che hanno scelto però di spendere la propria vita mettendo al centro la persona». «Due strade diverse», recita il titolo dell’incontro, unite nella ricerca di «obiettivi comuni» che si coniugano nelle parole «accoglienza» e «relazione».
Al centro dell’incontro la domanda: è possibile cambiare il mondo a partire dalle scelte del nostro quotidiano? E’ possibile che i piccoli gesti di ogni giorno – a casa, sul lavoro, tra amici – possano influire sul corso della storia? La Storia, quella con la «s» maiuscola, è fatta da tutti o da pochi? E un vecchio dilemma, lo sappiamo. Che nessuno ha risolto e che forse nessuno risolverà mai. Diceva Pascal: se il naso di Cleopatra fossa stato più corto, l’intera faccia della terra sarebbe cambiata. E scriveva Bertrand Russell: «Lascia perdere, quel che accade nel mondo non dipende da te…». Che dipenda da noi è invece convinto Luca Poma, giornalista esperto in Crisis management e consulente del ministro degli Esteri per le strategie di comunicazione.
«Pochi sanno», ha esordito Poma, «che ogni 5 minuti nel mondo viene ucciso un cristiano. Negli anni Sessanta del Novecento a Betlemme i cristiani residenti erano il 60 per cento della popolazione, oggi sono appena il 20 per cento. In Bosnia-Erzegovina in vent’anni si sono dimezzati: dagli 800 mila cristiani residenti del 1981 si è passati ai 440 mila del 2011. Milioni i cristiani uccisi per motivi religiosi o politici nei secoli passati». Di fronte a questi dati Poma si è chiesto: «Cosa si può fare per difendere la libertà religiosa? E soprattutto cosa può fare il mio Paese, tenuto conto del capitale di credibilità di cui gode la Farnesina all’estero?».
La risposta è arrivata da sola: si può tentare di orientare il lavoro del ministero «anche» su questi problemi, nonostante la difesa della libertà religiosa non sia la mission di un’istituzione pubblica. Così come sono arrivati subito anche i primi risultati: su proposta dell’Italia è partita una task force a livello di Unione europea sul tema delle libertà religiose. Poi è stato aperto a Roma un Osservatorio, quindi è stato steso un Rapporto e infine sono stati stanziati dei fondi da destinare a quei paesi dove la libertà religiosa è più a rischio. Stesso discorso in tema di diritti civili, ha spiegato Poma. Risultato? L’Italia ha stanziato in Siria sconvolta dalla guerra civile 6 milioni di euro per attrezzare ospedali da campo per la popolazione, e in particolare per i bambini colpiti dai bombardamenti.
Luca Poma ha poi ricordato l’esempio (famoso) di Rafael de la Rubia, che insieme a un gruppo di sei amici, complice un meeting sulla pace, hanno ideato e poi organizzato quella che è passata alla storia come la più grande manifestazione del mondo: la Marcia mondiale per la pace e la nonviolenza partita il 2 ottobre 2009 da Wellington (Nuova Zelanda) e conclusasi il 2 gennaio 2010 ai piedi del monte Aconcagua, il tetto dell’Occidente, a Punta de Vacas (Argentina). Due milioni di persone (25 milioni quelli che l’hanno seguita sul web) hanno percorso oltre 200 mila chilometri attraverso 98 paesi, dal Giappone al Sudamerica, attraverso tutti i continenti, e oltre 300 città. A Milano 11 mila persone si sono riunite in piazza Duomo in un karaoke entrato nel Guinnes dei primati. Il messaggio della Marcia, iniziata il 2 ottobre, ricorrenza della nascita di Gandhi, è chiaro: «Non è necessario essere il Mahatma, ognuno nel suo piccolo può fare qualcosa per cambiare il mondo».
E l’impegno dei piccoli gesti quotidiani, quello che ci fa alzare al mattino chiedendoci, «Cosa possiamo fare oggi per gli altri?», è lo stesso che ha guidato Maria Ida, piccola sorella di Gesù, nella sua vita di dedizione al Signore. La sua è stata una testimonianza davvero toccante, perché come fratel Charles de Foucauld, monaco trappista nel silenzio del deserto, al quale si ispira la congregazione, «coniuga la fede come relazione, testimonia l’unità tra l’amore per Dio e l’amore per gli altri. Come Gesù a Nazaret».
La congregazione fondata dalla piccola sorella Magdeleine, che aveva una «fede folle nel Signore padrone dell’impossibile», chiede alle sorelle di vivere come Gesù a Betlemme e a Nazaret, povere tra i poveri, in piccole comunità, che chiamano «le fraternità», spesso ai margini della società, in appartamenti popolari, tende o roulottes, condividendo nella quotidianità la fatica ma anche le speranze degli ultimi fra gli ultimi. La Fraternità fondata in Algeria nel 1939 e consacrata all’islam, con il tempo si estende al mondo intero: nascono fraternità operaie (1946), fraternità orientali (1948), fraternità gitane (1949), fraternità consacrate ai lebbrosi, fraternità sotto le tende con i nomadi. Ogni fraternità, spiega la piccola sorella Maria Ida, «cerca di dare una testimonianza dell’incarnazione di Gesù a Nazareth per raggiungere l’uomo nella sua quotidianità, per mettersi alla scuola dell’altro, in amicizia, unità e fraternità, come ha insegnato fratel de Foucauld».
Unità nell’amore. E’ questo il segreto della piccola sorella Maria Ida. Come de Foucauld ha gridato il Vangelo in mezzo al deserto del Sahara ai più lontani dal Signore, persuaso che musulmani, ebrei e idolatri potessero guardarlo come un fratello, convinto – e qui sta la sua straordinaria intuizione – che la vita di Gesù a Nazaret potesse essere condotta in ogni luogo e in ogni tempo, così Maria Ida vive nella piccola fraternità condividendo con i più poveri ciò che ha e ciò che è, con fiducia e amicizia.
«Il Gesù di Nazaret è già piena rivelazione di Dio che si mostra dal basso», spiega, «umile e pieno di amore per l’umanità. Noi piccole sorelle viviamo nelle Fraternità cercando di dare nel nostro piccolo, attraverso la vita di tutti i giorni, in un tempo percorso da una crisi senza precedenti, testimonianza dell’amore di Dio. Credo davvero che il mondo abbia bisogno di testimoni, di apostoli, di piccole sorelle che vivano il rispetto e l’accoglienza nel quotidiano. Esempi dal basso del grande amore del Signore».




Dai rapporti riservati a Twitter. Com'è cambiata la comunicazione diplomatica

Rimango sempre sorpreso quando i miei colleghi mi chiedono perché uso Twitter. La vera domanda sarebbe: “perché voi non lo usate?”. Parola di Tom Fletcher, ambasciatore britannico in Libano, che in una recente conferenza a Beirut ha sottolineato l’inedito, e per certi versi singolare, rapporto tra la diplomazia e i social media e ha esortato i colleghi a vedere il proprio lavoro alla luce delle nuove tecnologie digitali: “la migliore espressione della diplomazia è sempre stata un binomio tra interpretare il mondo e cercare di definirne le sorti. I diplomatici che svolgono solo la prima attività dovrebbero lavorare nelle accademie. Quelli che si dedicano solo alla seconda dovrebbero stare solo in politica. Quelli che fanno entrambe dovrebbero essere su Twitter”. Tom Fletcher, insieme a numerosi diplomatici di tutto il mondo  sta cavalcando con impeto l’onda digitale che ha investito una delle professioni più antiche e meno permeabile ai cambiamenti. Se nella diplomazia tradizionale ambasciatori avevano il principale compito di mantenere i legami con i governi dei Paesi ospitanti, oggi questo rapporto bi-direzionale si è tramutato in una sfera più ambia e articolata di relazioni che coinvolge molteplici attori. “Gli Stati sono ancora importanti, ma il palcoscenico è sempre più affollato… Così lo studioso Joseph Nye, il padre del concetto di “Soft Power” in politica estera, ha sintetizzato questo nuovo ecosistema in cui i diplomatici sono chiamati a inserirsi per monitorare l’opinione pubblica e diffondere i messaggi ai diversi pubblici di riferimento cercando di estendere la sfera di influenza e di promuovere la reputazione e gli interessi del proprio Paese. Usando i mezzi più efficaci a loro disposizione compresi i social media. Il Presidente del Consiglio Europeo che Twitta durante le riunioni a porte chiuse, il Segretario Generali dell’Onu che dialoga con i cittadini cinesi su Sina Weibo, il rappresentante britannico presso la Santa Sede che racconta senza remore la sua attività su un blog, l’ambasciatore americano in Russi che si presenta con un video su YouTube. Sono alcuni esempi di questo rapporto tra due mondi all’apparenza così lontani: da una parte la diplomazia, paradigma di discrezione e riservatezza, e dall’altra parte il web, simbolo di apertura e partecipazione. La diplomazia digitale è un affascinante fenomeno di comunicazione che coinvolge sempre più nazioni e dà vita a una sorta di risiko online in cui lo scopo finale non è la conquista del territorio, ma dell’opinione pubblica internazionale. La conseguenza più evidente di questo fenomeno è inaspettata e quasi paradossale: i diplomatici sono attualmente i più all’avanguardia in tutto l’arco istituzionale nell’uso dei social media. Negli ultimi mesi anche il nostro Ministero degli Esteri ha cominciato a muoversi con dinamismo in questo nuovo terreno digitale che lascia ancora disorientate molte feluche abitate a tessere relazioni dietro le quinte dei palazzi e non tramite tweet da 140 caratteri. Dopo il deciso impulso dato dal ministro Giulio Terzi affiancato da un Consigliere la Digital Strategy, la Farnesina ha avviato un percorso che ha un obbiettivo ambizioso: portare la rivoluzione digitale nel cuore del ministero. Le tappe di questo percorso cominciano già a intravederci con chiarezza: il profilo Twitter del ministro in poco tempo ha raggiunto quasi 25.000 follower; Terzi è l’unico della compagine governativa ad avere una pagina su FaceBook, che in poco tempo è diventata un interessante spazio di dialogo con i cittadini (quasi 300.000 interazioni a settimana); lo studio dell’Agence France Presse sulla e-diplomacy ha inserito il capo della nostra diplomazia nella top ten degli influencer italiani; l’ufficio stampa ha creato un nuovo account Twitter@farnesinapress, che diffonde notizie direttamente ai giornalisti e ai cittadini; il sito web del Ministero ha ora una nuova veste e prevede anche l’uso di strumenti di storyelling multimediale: l’organizzazione da parte della Farnesina di due conferenze sulla “Twiplomacy” a Torino e Washington ha posto in primo piano il dibattito sulla diplomazia digitale; l’ambasciata italiana negli Usa ha da poco inaugurato la piattaforma online “Social Media Hub”, che può diventare un modello anche per altre missioni; l’Istituto Diplomatico infine, sta dedicando una crescente attenzione alla formazione tecnologica dei funzionari. Il prossimo tassello sarà l’ufficializzazione del nuovo Maecom, il piano di comunicazione della Farnesina per il 2013, attualmente in valutazione alla Presidenza del Consiglio. Il documento dedica ampio spazio alla comunicazione online, ponendo l’accento sulla necessità di comunicazione in modo non convenzionale e più informale, di stabilire un vero dialogo online con gli utenti e di snellire la catena di comando. Il Maecom rappresenta un punto di partenza fondamentale per l’innovazione della diplomazia italiana. Innanzitutto politico dell’importanza dei nuovi strumenti digitali e in secondo luogo perché offre un quadro strategico di riferimento che finora mancava, all’interno del quale si potranno sviluppare le future iniziative di comunicazione online per promuovere l’immagine e gli interessi del nostro Paese all’estero.