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IL CSO GAIL KLINTWORTH INDICA LA STRADA AI MANAGER

La Csr di Unilever diventa pragmatica
“I manager che nelle aziende si occupano di sostenibilità devono assumere un approccio più pragmatico e pratico se vogliono portare un reale cambiamento strategico in tale direzione nelle proprie società”. Se a dirlo è il chief sustainability officer di Unilever, quella che è unanimamente considerata l’azienda benchmark nella Csr mondiale, potete scommetterci che il futuro, anzi, il presente della Corporate social responsibility è diventato l’agire e non più solo un approccio culturale. Gail Klintworth, questo il nome della cso della multinazionale anglo-olandese proprietaria di molti tra i marchi più diffusi nel campo dei consumi, ha esortato i colleghi a passare all’azione dopo che finora ha prevalso un approccio più culturale per lo sviluppo della Csr, ha partecipato alla Sustainable Brands Conference tenutasi a Londra con un messaggio chiaro: i piani di Sostenibilità devono essere sostenuti oltre che da visioni ambiziose anche da sistemi applicabili che possono essere utilizzati nella normale pratica, un’azione fondamentale per ogni business. E’ la sua esperienza a dimostrarlo. Secondo la dottoressa Klintworth coinvolgere le persone nell’Agenda Csr richiede sia argomenti razionali sia coinvolgimento emotivo. “Passo almeno metà del mio tempo a cercare di rompere le resistenze delle persone e a veicolare entusiasmo per la sostenibilità” ha confidato il cso di Unilever. Ma non è tutto. Parlando a Londra, a una platea principalmente anglosassonee, Klintworth ha voluto rompere anche un certo isolamento inglese che le aziende britanniche tendono ad avere. “Non limitatevi al mercato della Regno Unito, la sostenibilità offre opportunità per le società a livello mondiale“.E Unilever è in prima persona impegnataa a spingere su una Csr globale. Ha ad esempio appena pubblicato, il libro bianco Toilets for Health commissionato alla London School of Hygiene and Tropical Medicine, per sensibilizzare sui rischi provocati da assenza di igiene e di medicine specifiche relativamente a diarrea, colera, tifo ed epatite che causano nel mondo milioni di morti ogni anno. Questo è solo l’ultimo passo fatto a sostegno del suo Sustaianble Living Plan, un progetto con cui Unilever si è impegnata ad agire su tutta la propria catena del valore, compreso il livello del consumatore finale, per contribuire al miglioramento di salute e benessere per un miliardo di persone entro il 2020. Un obiettivo ambizioso i cui modi per raggiungerlo la stessa Klintworth ha ammesso che sono ancora in diversi casi ancora in via di definizione. “Noi di Unilever non abbiamo di certo ancora tutte le risposte su come raggiungere i nostri target ma niente potrà fermarmi dal cercare di creare un business sempre più sostenibile. E’ una cosa che voglio tutti nell’azienda percepiscano”.




Aumentano le aziende statunitensi che rendicontano la propria Csr

La maggior parte delle aziende statunitensi segnalate dall’indice S&P 500 e che fanno parte della lista Fortune 500 rendicontano il proprio impatto ambientale, sociale e di governance. Lo rileva uno studio del Governance & Accountability Institute (G&A), partner del Global Reporting Initiative (Gri).
In particolare, secondo lo studio nel 2011 il 53% delle aziende quotate all’indice S & P 500 hanno pubblicato il rapporto di sostenibilità, mentre nel 2010 la percentuale era del 19%. Allo stesso modo, il 57% delle aziende segnalate da Fortune 500, mentre nel 2010 la percentuale era solo del 20%
Questo significa che per la prima volta sono in minoranza le aziende che non pubblicano il bilancio di sostenibilità. La relazione afferma che un numero crescente di manager aziendali ne stanno riconoscendo i benefici. Oltre ai vantaggi di reputazione, la relazione rileva che le aziende che misurano e gestiscono i proprio problemi di sostenibilità sembrano funzionare meglio nei mercati nel lungo termine.




TNT EXPRESS ITALY LANCIA “WEBCHAT”: IL CONTACT CENTRE DIVENTA ISTANTANEO

Unico in Italia nel settore, il servizio di digital customer relationship si attiva on-line in caso di necessità e consente di ottenere soluzioni in tempo reale
Si chiama “WebChat”, e il nome dice già tutto: è la soluzione più avanzata di customer relationship in Italia, attivata da TNT Express Italy in collaborazione con la web-company Everywhere dopo il successo del test avviato dallo scorso luglio. Si tratta di una webchat cui si accede digitando il numero di spedizione nella sezione tracking del sito www.tnt.it: solo se la spedizione necessita di un contatto con TNT per essere gestita al meglio, appare istantaneamente una finestra che consente a qualsiasi cliente di accedere alla webchat con l’operatore del contact centre TNT. Il modello di chat disegnato da TNT Express Italy, unico in tutto il mondo TNT e senza paragoni in Italia nel settore, si è basato su quattro premesse: attivazione del servizio in base a specifiche pre-condizioni (l’accesso al tracking sul web da parte del cliente e la necessità di TNT di avere ulteriori informazioni per “sbloccare” un impasse operativa), possibilità di estendere la chat ad altri ambienti on-line TNT (come il portale MyTNT), possibilità di automatizzare alcune risposte-tipo sulla base delle domande effettuate (l’operatore entra in azione solo in caso di problema non “mappato” dai sistemi informativi di TNT) e, naturalmente, l’aumento della soddisfazione del cliente Un approccio che Luca Dozio, Customer Experience Director di TNT Express Italy, spiega così: WebChat consente al cliente di interagire gratuitamente e in modo immediato con TNT: per le sue caratteristiche, tuttavia, il suo utilizzo va razionalizzato infatti – spiega – aprire “senza rete” un canale di questo genere espone alla possibilità di qualsiasi tipo di interazione con i clienti, anche quando questa non è utile né funzionale. Da qui – prosegue Dozio – l’esigenza di strutturare un accesso al servizio sulla base di un’esigenza effettiva, ottimizzando l’uso di uno strumento viceversa potenzialmente dispersivo”. E’ stato così creato un team di circa 40 operatori che interagisce attraverso circa 100 sessioni al giorno con i clienti, che in media in 12 secondi e solo in caso di anomalia legata alla spedizione, accedono alla mobilità “live chat”.
La web chat “selettiva” ha raggiunto pienamente gli obiettivi di TNT – sottolinea Dozio al momento un 50% delle risposte è fornita dall’operatore virtuale creato in partnership con Everywhere, e un 50% da operatori umani: l’obiettivo è arrivare ad un rapporto del 70% virtuale e del 30% umano.” L’IT di TNT Express Italy ha predisposto – sulla base della piattaforma Everywhere – uno schema di interazioni virtuali avanzatissimo, indistinguibile dall’approccio “umano”: “Va specificato – sottolinea Dozio – che l’interazione virtuale è al top nel suo genere: si basa su algoritmi sofisticati ed è in grado di mantenere una experience elevata e di qualità. Accessibile da PC come da Smartphone semplicemente collegandosi al sito www.tnt.it, questa soluzione sarà presto implementata sul portale web dedicato ai clienti TNT myTNT e va ad ampliare la piattaforma dell’interazione digitale di TNT che prevede anche l’SMS Alert, o quelli relativi al Lasciato Avviso di passaggio o di Riconsegna Programmata: “L’idea – spiega Luca Dozio – è quella di interagire a 360° con i nostri clienti, in un periodo in cui l’e-commerce sta rivoluzionando quello che è il modus operandi delle aziende di trasporto in Italia, e in questo i nostri touch point quali il Customer Service, un punto di riferimento assoluto non solo nel settore per la qualità del suo servizio, il sito web, il portale myTNT, la Web Chat, gli SMS e anche la presenza sui social media come Facebook ci consentono di disporre di una gamma di opzioni interattive assolutamente unica nel nostro settore, e totalmente in linea con i nostri obiettivi di digital customer relation”
 




Guna, bilancio integrabile in real time

PREMIO SODALITAS ALLA CSR DI FRONTIERA

Venerdì ho partecipato alla sempre emozionante cerimonia di premiazione dei Sodalitas Social Awards, che ha celebrato anche il successo dell’edizione “europea” della competizione, con il coinvolgimento di aziende da ventinove nazioni.
Vincitore dell’European Csr Award Scheme è stata Guna, l’azienda italiana leader nel settore della produzione e distribuzione di farmaci di origine biologico-naturale, e con la quale ho lavorato su diversi progetti di Csr. Guna è nata 30 anni fa in un piccolo magazzino a Milano, due coniugi e una segretaria, Antonella Zaghini – la più “anziana” delle dipendenti, anch’essa presente l’altro giorno alla premiazione – e che ora distribuisce i propri prodotti in trenta Paesi del mondo.
Scopo della selezione transnazionale dei progetti di Csr era quello di dare visibilità alle migliori pratiche di Responsabilità Sociale d’Impresa realizzate in Europa, e valorizzare le partnership di successo fra imprese e stakeholder, con una speciale attenzione ai programmi in grado di coniugare sostenibilità e innovazione.
Il prestigioso riconoscimento è andato al progetto pluriennale “Medicina Interculturale” sviluppato da Guna in collaborazione con la Ong Coopi, che va ben oltre una mera azione di charity – ha spiegato alla stampa il presidente e fondatore dell’azienda farmaceutica, Alessandro Pizzoccaro – e che consiste in un’azione integrata finalizzata alla creazione di un sistema di microimprese in Paraguay, dedicate alla produzione e vendita – tramite piccole farmacie nei villaggi – di medicine naturali ricavate dai principi attivi della flora endogena della regione del Chaco, particolarmente ricca di erbe medicinali.
L’azione di salvaguardia dei saperi medici tradizionali – di straordinario valore di per sé – si trasforma così in risorsa economica per fare impresa e in un’occasione di riscatto sociale per la popolazione locale, coinvolta significativamente nella selezione delle piante, nella costruzione dei vivai, nelle attività di formazione professionale e nell’apertura delle botteghe.
Il premio non è il primo, nel settore della Responsabilità Sociale di Impresa, vinto negli ultimi anni da quest’azienda: se avrete modo di passare dal loro colorato stabilimento di Milano – che la cartella stampa presenta come il più avanzato al mondo nel settore, dal punto di vista tecnologico – menzioni e diplomi sono esposti in sobrie cornici nella sala d’aspetto del palazzo del loro quartier generale.
Altrettanto interessante del prestigiosissimo premio “Sodalitas” è il Bilancio integrato dell’azienda, in grado di attirare l’attenzione di qualunque addetto ai lavori: un documento nel quale Guna espone sia i dati contabili che i progressi sul tema della Csr e del dialogo con i suoi stakeholder. Da un paio d’anni, l’azienda ha infatti iniziato a pubblicare la bozza di bilancio in un apposito spazio web, aperto alla consultazione e soprattutto all’interazione con tutti i pubblici di riferimento dell’azienda, che possono correggere e integrare il testo a loro piacimento. La versione definitiva del documento di rendicontazione è quindi il frutto di queste “contaminazioni”, in linea con la visione della teoria della Csr di moda in Guna, secondo la quale un’azienda non fa Csr, ma “è” la propria Csr: secondo questo assunto, se teorizziamo una totale coincidenza e sovrapposizione d’interessi tra l’impresa e i suoi pubblici, l’atto di rendicontazione non può più avere alcun senso se predisposto dalla sola azienda al netto degli stakeholder, in modo unidirezionale, ma dev’essere necessariamente “corale”, scritto a più mani con gli stakeholders, e condiviso con essi dalla stesura della prima parola sul foglio bianco di word.
Guna ha poi fatto un’ulteriore passo avanti: la predisposizione di un articolato “cruscotto di indicatori dinamici” che si arricchisce di dati, tabelle, informazioni, e soprattutto storie, in un percorso lungo un anno. È nato così il primo bilancio sociale “in tempo reale”, on-line 365 giorni, che è di per se un metodo di stakeholder engagement in grado di trasformare i pubblici in elemento strategico per la definizione in co-management della Csr aziendale e che disintermedia totalmente l’erogazione dei dati: i pubblici non chiedono più all’azienda notizie all’atto della chiusura del bilancio annuale, ma si costruiscono il proprio pannello di informazioni a una certa data, quale essa sia, e lo aggiornano più e più volte durante l’anno. Per questo progetto è stato scelto il neologismo “Web-Cam”, che richiama l’impossibilità di sottrarsi ai giudizi sul nostro modo di vivere il tempo e lo spazio da parte di soggetti “altri”, per troppo tempo relegati al ruolo di semplici spettatori e fruitori di messaggi preconfezionati.
In linea con tale concetto, il simbolo scelto da Guna per questo progetto è un pupazzone a forma di occhio, con la pupilla dilatata e una grande lente d’ingrandimento in mano, il che, tradotto dalla simbologia alla narrazione, significherebbe «non siamo solamente pronti a farci guardare dentro, ma t’invitiamo a farlo, ti riconosciamo il diritto di farlo, e ti diamo anche gli strumenti per farlo con efficacia».
Chiaramente tutto ciò implica la disponibilità dell’imprenditore a mettersi veramente in gioco, al di là delle parole, della propaganda e del greenwashing, processo forse più facile per un’azienda farmaceutica talmente all’avanguardia come vision da rinunciare – con il loro “Manifesto No Patent” – alla protezione brevettuale su ogni innovazione di prodotto e di processo, sui risultati della ricerca scientifica e sulla cospicua produzione cartacea ed elettronica della loro divisione editoriale.
L’approccio di quest’azienda – definita venerdì dal presidente di Assolombarda Alberto Meomartini «una vera e propria eccellenza del tessuto imprenditoriale» – rappresenta a mio personale avviso un’esperienza di assoluto interesse in termini di trasparenza della rendicontazione e di coraggio di rompere gli schemi, grazie a quello che il fondatore di Guna ebbe a definire in una videointervista pubblicata online come «quel pizzico di coraggio e quel pizzico di incoscienza che ci ha permesso di andare sempre un po’ controcorrente, in una bellissima e stimolante ‘passeggiata’ che dura ormai da trent’anni».




Vestiti Abercrombie ai barboni, la vendetta per distruggere il brand

Un caso di difficile soluzione: quando il marketing tira troppo la corda, il mercato si spezza e mina la marca alla sua base.
Proprio quello di cui il mondo aveva bisogno. Un CEO arrogante, sgradevole ed ironicamente contraddittorio – tanto quanto Hitler sognava di rappresentare la razza ariana.
Mike Jeffries, polimero umano a capo di Abercrombie&Fitch, è ora piu che mai sulle bocche non siliconate di tutto il mondo. Già si conoscevano le sue abitudini stravaganti da quando è trapelato il manuale Aircraft Standards da lui scritto per dettare legge sui comportamenti da tenere a bordo del suo jet privato. Totale assenza di impronte digitali su maniglie e cinture di sicurezza, infradito obbligatorie e giacche abbottonate fino al quarto bottone da sotto.
Le sue dichiarazioni manifestano l’odio per le grasse, guai a farle entrare nei negozi Abercrombie. Niente XL per le donne, chi le porta è uncool. Sfigata, non meritevole di portare il brand addosso (gli uomini XL sì, perché magari sono campioni di polo).
“Ecco perché assumiamo belle persone per i nostri negozi. Perché le belle persone attirano altre belle persone e noi facciamo marketing per le belle persone. Non ci interessa nessun altro, solo belle persone. In ogni scuola ci sono i ragazzi popolari e quelli sfigati. A noi interessano quelli cool, seguiamo il ragazzino americano attraente con un bell’atteggiamento e tanti amici. Molte persone non meritano i nostri vestiti, nè potranno mai meritarli. Siamo esclusivisti? Assolutamente.” Jeffries, 2006
Quando si renderanno conto che il brand è nulla senza l’umanità di chi lo vende e di chi lo compra? La marca non è mai stato un qualcosa di imposto. È la cristallizzazione di una verità universale che connette uomini, consumi e valori. Non c’è immagine senza identità, certo. Ma sono anni pericolosi nei quali rischiare di rendersi così antipatici nell’affermare il proprio posizionamento. Il re è nudo ed a dirlo non è un bambino, ma uno scrittore di Los Angeles chiamato Greg Karber.
Infastidito dalle opinioni di Jeffries e dal fatto che i capi fallati vengono bruciati piuttosto che dati in beneficenza, Karber ha dato vita al progetto #FitchTheHomeless. E’ andato in cerca di abiti Abercrombie nei negozi di usato e li ha donati ai barboni della città. E vi chiede di fare lo stesso: recuperare quegli abiti Abercrombie che avete ‘erroneamente’ comprato, regalarli ai meno fortunati e condividere lo sforzo sui social. Un’operazione di karma rebranding&hacking. “Insieme possiamo ridisegnare il brand”, promette lo slogan che accompagna il video. Non sarà facile intaccare un brand con ricavi crescenti da una decade a questa parte, esempio raro nel retail. Fin dove ci si può spingere nel perseguire una mission di marca senza alienare il mercato e mettersi alla sua berlina?
Un corto circuito che punta a cancellare l’associazione tra Abercrombie e coolness, instillata e stratificata negli anni a colpi di commessi splendidi, decisioni di prodotto e look&feel pubblicitari. Ora la minaccia viene da un video e da un hashtag: rendiamo Abercrombie&Fitch il brand numero 1 al mondo per i senzatetto. Si è sempre detto “dal basso” per indicare quei movimenti nati dalle persone e non dalle corporation, dall’alto. Ma forse è ora di invertire i termini.
Nota: guarda il video, a questo link