1

L’innovazione del settore automotive e le competenze del futuro

Hyundai sostiene il programma europeo ‘Our Future Mobility Now’. Un confronto diretto tra giovani dipendenti e vertici europei per l’innovazione del settore automotive e le competenze del futuro

Dopo aver lanciato ad aprile il progetto “Skills for the Future” rivolto alle giovani generazioni per lo sviluppo responsabile dell’industria automobilistica, Hyundai conferma ancora una volta il proprio impegno nell’ambito Corporate Social Responsibility grazie ad azioni concrete in ambito europeo.
La Casa Coreana è infatti tra i promotori di «Our Future Mobility Now» (Futuremobilitynow.com), progetto nato con l’obiettivo ambizioso di immaginare e realizzare la mobilità del futuro, creando sinergia tra i giovani talenti di tutta Europa e i principali Costruttori del Vecchio Continente per far fronte alle sfide attuali dell’industria del trasporto.
Con il supporto dell’Associazione dei Costruttori Europei dell’Auto (ACEA), Our Future Mobility Now ha organizzato mercoledì 10 ottobre a Bruxelles la tavola rotonda «Innovation for Europe, Skills for the Future» che ha visto la partecipazione di Presidenti e Amministratori Delegati delle principali Case Automobilistiche, insieme ai leader europei del comparto automotive.
Il dibattito si è svolto con l’obiettivo di promuovere lo scambio tra le più alte cariche e studenti e giovani dipendenti.
Alla giornata hanno partecipato 40 giovani, tra cui 3 delegati Hyundai, impegnati prima in una serie di workshop e successivamente in un dibattito di alto profilo con importanti dirigenti e policy maker del mondo dell’auto.
L’impegno di Hyundai in Europa viene evidenziato anche dalla partecipazione dell’azienda alla manifestazione ‘European Job Days’, organizzata dalla Commissione Europea. Nell’edizione di quest’anno, tenutasi di recente a Bruxelles, Hyundai ha annunciato 50 posizioni aperte rivolte ai neolaureati di varie discipline.
Allan Rushforth, Senior Vice President e COO di Hyundai Motor Europe, ha commentato: “Come membro attivo dell’ACEA e azienda socialmente impegnata in Europa, Hyundai è orgogliosa di supportare il progetto ‘Our Future Mobility Now’. Giovani e aziende affrontano in questo momento numerose difficoltà e promuovere il dialogo tra i decisori di oggi e i potenziali decisori di domani è essenziale per far circolare le idee e accrescere la reciproca comprensione“.
I costanti investimenti di Hyundai in Europa hanno lo scopo di sostenere le comunità locali per affrontare le attuali difficoltà sociali ed economiche. Oltre il 70% delle vetture vendute in Europa (e più dell’80% in Italia) viene prodotto negli stabilimenti Hyundai in Repubblica Ceca e Turchia.




Sostenibilita, Csr. In Gran Bretagna il 75% delle aziende comunica le emissioni

Più dei due terzi delle 350 principali aziende quotate alla borsa di Londra (FTSE 350) sono pronte ad applicare la normativa che impone, dal prossimo anno, la segnalazione della quantità di Co2 emessa, ed oltre ¾ delle imprese di media dimensione sono pronte a pubblicare i loro bilanci di sostenibilità. I dati sono contenuti in una relazione sullo stato delle imprese in rapporto alle emissioni di anidride carbonica, il Carbon Disclousure Project, alla vigilia dell’entrata in vigore delle nuove norme approvate dal parlamento europeo. Il sondaggio, curato dalla PricewaterhouseCoopers (PwC), ha ricevuto 238 risposte, pari al 69% del FTSE 350. Oltre il 90% degli intervistati ha riferito di essere pronto per le segnalazioni obbligatorie, tra le prime aziende ad avere trasmesso i dati sulle loro emissioni ci sono la Anglo American, la Reckitt Benckiser e l’Unilever.




Lo Sviluppo dimentica il social

DECRETO CRESCITA – POCO SPAZIO AL BUSINESS RESPONSABILE
Chi attendeva un Dl Sviluppo che prendesse in considerazione anche il social business ha raccolto gli esiti con qualche delusione. Dal provvedimento illustrato ieri in tarda serata (e presentato come “Decreto Crescita 2.0″) sono pochi, infatti, gli accenni diretti alla sostenibilità e responsabilità imprenditoriale. Che, quindi, si ritaglia assai poco spazio rispetto a quanto invece aveva ottenuto nel documento Restart Italia della Task Forse del ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera.
Tuttavia, c’è l’introduzione del crowdfunding per legge, con vigilanza e regolamentazione affidata a Consob, aspetto che potrà dare un forte impulso alla impresa responsabile, da intendersi qui come “condivisa” col territorio. E ci sono principi che possono essere interessanti anche in prospettiva di una promozione concreta del social business. Per esempio, è vero che il Decreto Crescita 2.0 si focalizza sulle start up innovative (e nelle definizioni non c’è spazio per equivoci: si parla di «servizi o prodotti ad alto contenuto tecnologico»), ma, nella presentazione del provvedimento, viene anche sottolineato che le misure adottate intendono «contribuire alla diffusione di una cultura dell’innovazione e dell’imprenditorialità, alla promozione della mobilità sociale, della trasparenza e del merito, alla creazione di occupazione qualificata, soprattutto giovanile». Insomma, i principi di base sono affini al social business.
Altro aspetto interessante, la promozione di strutture aggregative che favoriscano l’emergere di iniziativedel  territorio. «L’art 20 disegna – si legge sempre nella presentazione – l’architettura tecnica, di governo e di processo per la gestione delle comunità intelligenti e dei servizi e dati da queste prodotte. Le comunità intelligenti sono partecipative, promuovono l’emersione di esigenze reali dal basso, l’innovazione sociale e prevedono meccanismi di partecipazione, inclusione sociale e efficienza delle risorse, attraverso il riuso e la circolazione delle migliori pratiche».




LO STORYTELLING SI FA TRANSMEDIALE E 2.0

Grazie alla segnalazione del collega Stefano Ferranti ho partecipato qualche tempo fa presso la sala della Mediateca Santa Teresa di Milano all’incontro con Jeff Gomez, uno tra i massimi esperti internazionali di “storytelling”, tema introdotto nel nostro paese da colleghi esperti come Toni Muzi Falconi.
Gomez è co-fondatore di Starlight Runner Entertainment, uno studio di animazione e produzione di contenuti digitali leader nella creazione di “fictional worlds” come Avatar, Transformers e Tron, che nel 2011 risulta al quinto posto nella classifica delle 10 aziende più innovative del settore media (www.fastcompany.com).
Jeff usa spesso il termine “transmediale”, e la serata per certi versi lo è stata molto, non solo per i temi trattati nella sua lecture, ma anche per il modo in cui l’evento si è sviluppato, oltrepassando i confini della sala e raggiungendo il vasto pubblico della rete.
Gomez definisce lo story-telling come Il processo mediante il quale si trasmettono temi, messaggi e storie a un pubblico di massa attraverso l’uso sapiente e ben pianificato di più piattaforme mediatiche”. Si tratta di una filosofia di comunicazione e di brand extension che di fatto finisce per ampliare il ciclo di vita stesso dei contenuti creativi. Ogni media ha infatti potenzialità proprie e peculiari, che vanno sfruttate nel miglior modo possibile: essi infatti hanno modi differenti di interagire con il pubblico e si prestano a sviluppare alcune specifiche parti della storia, o a vederla da un punto di vista differente. In passato trovavamo la stessa versione della storia su tre formati diversi, e i fruitori potevano valutare solo se il film fosse aderente al libro, o la trama del videogioco agli altri due… Oggi invece si cerca di creare “una galassia” della proprietà individuale in cui la trama si sviluppi in maniera diversa – ma coerentemente – sui differenti mass-media, in una perfetta “architettura per il dialogo”. La metafora usata da Jeff è quella di alcuni mass-media visti come gli strumenti di un orchestra – la TV come un pianoforte, l’iPad come un violino, l’iPhone come un sassofono, i libri come percussioni, etc – che poi, combinati tra loro, danno origine a una vera e propria sinfonia, l’opera d’arte del futuro.
E’ ancora possibile oggi parlare di narrativa tradizionale? Le storie oggi come oggi non prendono forse una forma estetica e comunicativa più ampia del singolo medium cui originariamente erano destinate? Jeff Gomez esprime e applica nella sua professione la sua teoria del transmedia storytelling: ogni artista, ogni produttore ogni publisher, può lavorare per creare un racconto che si sviluppa e diffonde su differenti canali, ricombinando poi queste narrazioni per creare un nuovo e affascinante “arazzo narrativo”. Per la propria definizione di transmedia storytelling Gomez si rifà a Henry Jenkins, autore del libro “Convergence Culture”: il racconto di una storia da parte di un numero di autori decentralizzati che condividono e creano contenuti da distribuire attraverso le più diverse piattaforme. L’utente finale si sente coinvolto in un universo di storie con un denominatore comune, attraverso un buon numero di punti d’accesso differenti che procurano un’esperienza coordinata e di più vasta portata.
Come ci ricordano gli organizzatori dell’incontro con Jeff, lo staff di “Meet the Media Guru”, successi come Star Wars o come Matrix sono esempi di narrazione transmediale come la intende Gomez, e dimostrano che – anche in virtù dei nuovi strumenti offerti dal mondo digitale – le possibilità del racconto si possano espandere notevolmente, superando il percorso lineare che prevede un inizio, un centro e una fine. Il centro dell’attenzione non è più su particolare personaggio o su una “trama”, ma su come questi elementi possano generare mondi nuovi, da esplorare attraverso altre piattaforme mediatiche: una trama di un libro diventa film che a sua volta genera immagini che possono diventare interattive in un videogioco oppure possono vivere di vita propria nell’esperienza live di un parco-divertimenti. Il tutto viene progettato per coinvolgere individualmente i membri dell’audience, confermare il loro coinvolgimento e rafforzare positivamente la partecipazione personale. Il risultato è una forte lealtà, un coinvolgimento a lungo termine dell’utente e il desiderio di condividere l’esperienza raccontata dall’azienda e di sintonizzarsi su quel preciso “lifestyle”.
In questi processi, il pubblico è spesso invitato a dar voce alle proprie opinioni e a dialogare con gli ideatori della storia. A livello più avanzato, l’audience può anche interagire con gli stessi personaggi, attraverso l’uso sul web di avatar, videogames o altri escamotage esperienziali, e questo è il miglior “cemento” per mettere assieme una vera comunità di marca e per far tracimare un progetto di comunicazione ben oltre i tradizionali flussi informativi ufficio stampa/giornalisti/pubblico.
Di fatto si stanno definendo i contorni di una nuova professione, quella del “transmedia storyteller”, il quale secondo Gomez deve avere come valori la conoscenza approfondita delle basi della storia e dell’ascolto, l’abilità di cogliere l’essenza del mondo della storia e di espanderla, la conoscenza di come una storia è trasmessa su differenti piattaforme media, la capacità di identificare i punti di forza e di debolezza nel modo di rispondere alla storia sui diversi media e di anche di capire il processo di produzione per i differenti media, la capacità di negoziazione, di persuasione e di coordinamento, e infine l’abilità di visione d’insieme, di inserire molti dettagli in un unico insieme.
Il transmedia storytelling, ci dicono anche gli esperti di “Meet the Media Guru”, non solo rappresenta il futuro – anzi, ormai il presente – del narrare storie create dalle aziende, ma esprime il potere della cultura contemporanea che tende a fondere l’esperienza autoriale con quella dei fruitori, in una perfetta sintesi: un processo per cui si generano nuove trame e si aprono nuovi mercati partendo dalla circolazione dei contenuti e delle idee che gli stessi lettori/utenti creano attorno a un prodotto culturale.
L’era delle mere trasmissioni di contenuti – senza curarsi di dell’impressione e delle idee del proprio pubblico – è ormai alla fine, cosa che risulta evidentissima se solo si osservano le dinamiche relazionali dei vari social-network, e occorre lavorare su sistemi che prevedano un feedback istantaneo nonché strumenti di narrazione collettiva, perchè gli utenti non solo vogliono poter dire la loro sulla storia, cosa che ormai viene data assolutamente per scontato, ma vogliono anche poter influenzare gli autori: di fatto la storia di successo è solo quella che gli autori “abbandonano” dal punto di vista creativo come un guscio di noce nell’oceano della creatività del pubblico dei fruitori.
Questo è un territorio nuovo in cui produzione e consumo scambiano i propri ruoli e discutono le proprie ambizioni, mostrandosi specchio di un’era interconnessa, votata alla vera partecipazione 2.0.
Ai più attenti non sarà tuttavia sfuggito il messaggio “forte” trasmesso da Jeff durante la sua lecture: la tecnologia può certamente aiutare le persone a migliorare la società, ma solo se associata ai valori. Un monito di straordinaria attualità, certamente utile per far riflettere noi relatori pubblici e comunicatori.




Alitalia: la gaffe del logo cancellato

La vicenda è nota.Sabato 2 febbraio un aereo della compagnia Carpatair (partner Alitalia), è finito fuori pista all’aeroporto di Fiumicino in fase di atterraggio: 16 le persone a bordo rimaste ferite, due in modo grave (Quotidiano.net).Mentre il velivolo è a disposizione della magistratura per gli accertamenti di rito, dalla fiancata e dalla coda è scomparso il logo Alitalia. Ora l’aereo appare completamente bianco, con la bandiera della Romania e la matricola YR-ATS.E così si è scatenata l’ironia del Web e si sono accesi i riflettori su un incidente che, tutto sommato, non aveva avuto particolare ridondanza, soprattutto perchè non ci sono stati morti.Insomma: un aereo finisce fuori pista e il primo provvedimento della compagnia è togliere il logo dalla fiancata? Ma questi geni del marketing li pagano pure?Il direttore operativo di Alitalia, Giancarlo Schisano, ha tentato di spiegare la gaffe etichettandola come “prassi normale”: “Quando succedono questi eventi, per un normale motivo di decoro aziendale, è prassi cancellare la livrea, ed a maggior ragione in questo caso, per un aereo non di Alitalia”.Su Twitter, ovviamente, le battute si sono sprecate, e la maggior parte degli utenti ha commentato: “Si vede che siamo in Italia”, posizione che non condivido. Un italiano d’hoc non solo avrebbe eliminato il logo, ma l’avrebbe sostituito con quello di un’altra compagnia Comunque io mi candido spontaneamente per “sbianchettare” il logo Alitalia dal prossimo aereo che finirà fuori pista. Retribuzione a chiamata.