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Cristina Seymandi si affida al reputation manager Luca Poma. «Così tutelo la mia immagine»

Cristina Seymandi si affida al reputation manager Luca Poma. «Così tutelo la mia immagine»

«Ci vogliono 20 anni per costruire una reputazione, ma bastano 5 minuti per distruggerla». L’adagio «dell’Oracolo di Omaha», il finanziere miliardario Warren Buffet, comincia a fare scuola nella Torino dei salotti buoni, un tempo adusi solo al chiacchiericcio e oggi alle prese con le bordate degli tsunami mediatici. Così corre al riparo anche Cristina Seymandi, finita suo malgrado nell’occhio del ciclone per il video in cui l’ex compagno Massimo Segre manda all’aria il matrimonio e la accusa di vari tradimenti, ingaggiando nella sua squadra, oltre a un avvocato, il noto penalista Claudio Strata, un esperto di reputazione. 

Nel team che affianca la 47enne imprenditrice torinese è arrivato anche Luca Poma, professore di Reputation Management alla Lumsa di Roma. Poma è uno specialista in corporate social responsibility, digital strategy e crisis communication, ha pubblicato 11 libri ed oltre 150 tra saggi ed articoli, è stato consulente alla Farnesina dell’ex ministro degli Esteri Giulio Terzi
Nel 2016 è stato il primo in Italia a occupare una cattedra universitaria in management della Reputazione. 

Se Claudio Strata si occuperà della tutela legale di Cristina Seymandi, Luca Poma avrà il compito di tutelarne l’immagine. Nell’era digitale, quella in cui tutti dobbiamo convivere da una decina d’anni a questa parte, dalla diffusione dei dispositivi mobili in poi, la reputazione non rappresenta solo il buon nome di qualcuno, ma tende a sovrapporsi all’idea di persona. Da qui il valore sociale che si trasforma anche in valore economico. Tanto più sei si tratta di manager, imprenditori a capo di un’azienda. Come nel caso di Seymandi che da novembre è ceo di Savio. La web reputation è ormai un asset aziendale e vale un giro d’affari, secondo Digitalia 21, di circa 10 miliardi l’anno. Nel suo libro Il reputation management spiegato semplice, Luca Poma firma un decalogo su come risolvere le crisi aziendali, appunto, partendo, dalla reputazione. Al primo posto figura la qualità del prodotto, al secondo l’autenticità, a seguire l’ascolto, la mappatura, saper prevedere scenari. E soprattutto sapere chiedere scusa.




Luca Poma, chi è il reputation manager di Cristina Seymandi: vita privata, carriera, libri

Luca Poma, chi è il reputation manager di Cristina Seymandi: vita privata, carriera, libri

Chi è Luca Poma, reputation manager di Cristina Seymandi. Giornalista, autore e professore universitario, ha preso in mano il caso dell’imprenditrice dopo la gogna pubblica per la rottura pubblica con il fidanzato Massimo Segre.

Il nome di Cristina Seymandi ha fatto il giro del web nell’estate del 2023 dopo la rottura pubblica con Massimo Segre, che l’ha accusata pubblicamente di averlo tradito alla festa prematrimoniale dell’ormai ex coppia. Per far fronte alla gogna mediatica e ai gravi danni alla sua immagine, l’imprenditrice si è affidata ad un team di esperti, guidato dal reputation manager Luca Poma. Professore di Management di Reputazione all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, Poma è una delle principali autorità del settore. Ha scritto undici libri e oltre cento articoli sull’argomento, evidenziando l’importanza della comunicazione strategica nella società odierna. Nel corso della sua carriera ha lavorato anche alla Farnesina, come consulente dell’ex Ministro degli Esteri Giulio Terzi. Ha inoltre lavorato a progetti di comunicazione e relazioni pubbliche ed istituzionali in ben 23 paesi in tutto il mondo.

L’importanza della reputazione: “Identità ed autenticità più che apparenza”

Poma ha concesso diverse interviste in cui spiega nel dettaglio l’importanza dei suoi studi e del suo lavoro. “La reputazione è la licenza di operare e di compiere una nostra mission all’interno di una comunità.” -spiega il manager al Corriere della Sera– “Se viene danneggiata per un motivo o per un altro si rischia di perdere questa licenza. Non è cambiato il modo di percepire la reputazione, ma è tutto più veloce e bruciante. E questo non è un bene. Chiaramente è un fenomeno che va governato”.

Uno dei suoi lavori più noti è Il reputation management spiegato semplice, volume in cui Poma e la sua collega Giorgia Grandoni spiegano come risolvere crisi aziendali partendo proprio dalla reputazione di un’impresa. Intervistato da GreenRetail.news, ha spiegato: “L’impegno mio e del mio team di ricerca è, da decenni, quello di far comprendere l’importanza, per la costruzione di valore, dell’identità e dell’autenticità, più che dell’effimera apparenza. In un’epoca come la nostra, caratterizzata da un sovraccarico d’informazioni, connessioni e relazioni, la necessità di sentirsi accettati, rispettati e riconosciuti, in un’unica parola, la reputazione, è considerata un bisogno fondamentale da soddisfare. Ecco perché oggi le imprese sono chiamate a nuove responsabilità, in cui si può e si deve lavorare per definire il perimetro reputazionale di un’organizzazione, che sia azienda, ministero, ONG o anche un singolo opinion-maker”. 




La controversia di Maria Sofia Federico: isolamento e critiche alla Rocco Siffredi Academy

La controversia di Maria Sofia Federico: isolamento e critiche alla Rocco Siffredi Academy

Clamoroso episodio nel mondo dell’intrattenimento e del sociale con la controversia che ha coinvolto Maria Sofia Federico, una giovane influencer e creator di OnlyFans di cui abbiamo già avuto modo di parlare. La Federico è stata al centro di una polemica dopo essere stata isolata durante la sua partecipazione alla Rocco Siffredi Academy, un programma che ha attirato molta attenzione mediatica. Rocco Siffredi Academy, condotta dal noto pornostar italiano, ha guadagnato popolarità per la sua proposta unica di formazione e intrattenimento nel settore del porno.

Il motivo dell’isolamento di Maria Sofia Federico è emerso attraverso le dichiarazioni di Valentina Nappi, una collega e critica della Federico. Nappi ha affermato che Maria Sofia Federico non è riuscita a partecipare alle registrazioni del programma a causa di un accordo preesistente tra Rocco Siffredi e il padre della Federico che – noto per le posizioni conservatrici – aveva già espresso un forte disaccordo riguardo alle scelte professionali e personali della figlia, causando una controversia che ha influenzato la partecipazione al programma.

Questo caso solleva interrogativi significativi sul ruolo e sull’influenza dei genitori, specialmente in situazioni che coinvolgono minorenni e la loro carriera professionale. Sebbene Maria Sofia Federico sia stata coinvolta in un contesto pubblicamente discusso e le sue scelte siano state sotto i riflettori, il ruolo del padre rimane un aspetto centrale. In Italia, come in molte altre giurisdizioni, i genitori hanno un’influenza importante sul futuro professionale dei loro figli minorenni, ma la questione si complica quando i giovani cercano di seguire carriere non convenzionali o controverse.

La domanda che emerge è se un padre, in quanto figura autoritaria e protettiva, possa legittimamente influenzare la partecipazione di un figlio a progetti mediatici o professionali, soprattutto quando la figlia è minorenne. Questo solleva questioni legali ed etiche riguardo alla libertà individuale e al diritto di autodeterminazione, rispetto ai diritti e alle preoccupazioni dei genitori.

L’episodio ha portato a un acceso dibattito pubblico, con molti che sostengono che, sebbene il ruolo dei genitori sia cruciale, il diritto del giovane di scegliere la propria strada dovrebbe essere rispettato, specialmente quando si tratta di carriere e scelte personali. Altri, invece, ritengono che le preoccupazioni dei genitori debbano essere considerate, specialmente in contesti che possono avere un impatto significativo sulla reputazione e sul futuro del minore.

La controversia di Maria Sofia Federico alla Rocco Siffredi Academy, quindi, non solo evidenzia le tensioni tra aspirazioni personali e aspettative familiari, ma anche le complesse dinamiche di un settore che continua a sfidare norme e convenzioni sociali.




Vito Loiacono e il ritorno sui social: etica e giudizio pubblico dopo un evento tragico

Vito Loiacono e il ritorno sui social: etica e giudizio pubblico dopo un evento tragico

Vito Loiacono, uno dei membri del gruppo YouTube “The Borderline”, è tornato sui social media circa due mesi dopo un tragico incidente che ha scosso l’Italia. Il gruppo, noto per le sfide estreme e spesso pericolose, è stato coinvolto in un incidente mortale che ha portato alla morte di un bambino. Al momento dell’incidente, i membri del gruppo erano sotto l’effetto di sostanze, e questo tragico evento ha generato un’ondata di indignazione e dolore in tutto il paese.

Il ritorno di Loiacono sui social, in cui appare con una ragazza e adotta un tono vittimistico, ha sollevato numerose domande etiche. È davvero appropriato, e soprattutto etico, tornare a esibirsi pubblicamente su piattaforme social dopo essere stati coinvolti in un evento così deplorevole? La questione diventa ancora più delicata quando si considera il modo in cui Loiacono ha scelto di gestire il suo ritorno, apparentemente cercando di suscitare simpatia e comprensione in un contesto che, per molti, richiederebbe invece silenzio, riflessione e rispetto per la vittima e la sua famiglia.

La rapidità con cui Loiacono è tornato alla vita pubblica solleva dubbi sulla sua consapevolezza e comprensione della gravità delle sue azioni. In un momento in cui ci si aspetterebbe pentimento e un comportamento discreto, il ritorno sui social con un atteggiamento che potrebbe essere percepito come una mancanza di rispetto per la gravità della situazione potrebbe essere visto come una dimostrazione di insensibilità. In un contesto come questo, la scelta di Loiacono di riapparire sui social può sembrare più orientata al mantenimento della propria notorietà che alla vera introspezione e pentimento.

D’altra parte, la questione dell’etica nei social media non riguarda solo i comportamenti di chi è al centro della vicenda, ma anche le reazioni del pubblico. Dopo eventi tragici come questo, è comune vedere un’ondata di rabbia e insulti diretti verso i “carnefici” da parte degli utenti. Ma quanto è legittimo che queste persone vengano insultate e demonizzate a vita? Il desiderio di punizione e di giustizia può essere comprensibile, soprattutto quando è coinvolta la vita di un bambino innocente, ma l’incitamento all’odio e alla violenza verbale può portare a una spirale di negatività che non aiuta né le vittime né la società nel suo complesso.

La questione etica qui è duplice: da un lato, il comportamento di chi ha causato il danno, e dall’altro, la reazione collettiva a questo comportamento. Mentre è giusto che la società esiga responsabilità e giustizia, è altrettanto importante che le reazioni rimangano all’interno di un quadro di civiltà e rispetto. L’odio perpetuato sui social media, per quanto possa sembrare giustificato, non porta mai a una vera risoluzione o guarigione.

In conclusione, il ritorno di Vito Loiacono sui social media a seguito di un evento così tragico solleva questioni importanti riguardo all’etica del comportamento online. È davvero opportuno cercare di tornare alla ribalta in queste circostanze, e a quale costo? Allo stesso tempo, la risposta pubblica a tale comportamento deve essere ponderata, equilibrando la giusta indignazione con il rifiuto di perpetuare ulteriormente la violenza e l’odio. La vicenda di Loiacono ci ricorda che i social media, pur essendo un potente strumento di comunicazione, richiedono un uso responsabile e consapevole, soprattutto quando la posta in gioco è così alta.




INFLUENCER: la reputazione e la visibilità si costruiscono (solo) a colpi di like?

INFLUENCER: l’autenticità uccisa a colpi di like

Nell’epoca dei Social, il culto dell’immagine e della popolarità ha generato schiere di personaggi pubblici disposti a tutto pur di ottenere like, condivisioni, visibilità e “soldi facili”. Youtuber, Stremear o Content creator, tutte figure collocabili dentro il grande e variegato mondo degli influencer, che spesso tradiscono ipocritamente la loro identità in cambio di successo temporaneo e fugace notorietà: “sono quello che tu desideri, purché tu mi segua e faccia hype su di me”, paiono dire questi personaggi. Un esasperato desiderio di restare costantemente sotto i riflettori, che ha generato il declino della loro autenticità: sorridenti, felici, sexy e perfetti, e (seppur raramente) impegnati in battaglie legate al mondo sociale o della politica, nascondono un realtà soffocata dalla pressione di sembrare ciò che il pubblico pagante richiede. In non poche occasioni, questa strategia si è rivelata assolutamente controproducente: la mancanza di genuinità li trasforma in maschere vuote, incapaci di costruire solidi legami attraverso i quali connettersi con il proprio pubblico in modo realmente significativo.

Non è difficile incontrare sui vari social influencer che propongono sponsorizzazioni su come ottenere guadagni facili a Dubai con improponibili e inverosimili sistemi finanziari, o mental coach che spiegano quanto studiare a scuola o all’università sia ormai del tutto inutile, poiché sarebbe sufficiente seguire i loro consigli per conoscere le mosse giuste con le quali costruirsi un futuro radioso e prospero; personaggi pubblici focalizzati esclusivamente su se stessi e sul raggiungimento del successo personale, che trasmettono un pericoloso messaggio di individualismo esasperato al quale si ispira anche chi li segue, consolidando la ricerca ossessiva di un’approvazione virtuale in una società narcisistica orientata solo all’autocelebrazione, in cui il senso di comunità e solidarietà sono ridotti solo a spettacolo e apparenza.

Tuttavia, oggi gli influencer non sono solo playmaker in grado di muovere e condizionare i bisogni degli utenti, all’interno di un mercato dominato da brand che sfruttano sempre di più – e spregiudicatamente – i volti di questi personaggi per vendere prodotti e alimentare un consumismo spasmodico: restano anche veri e propri punti di riferimento a cui, specialmente le nuove generazioni, si rivolgono per costruire opinioni e pianificare ambizioni, e questo dovrebbe (in teoria) investirli di una ulteriore responsabilità. Disattesa, nella maggior parte dei casi.

Al netto di queste riflessioni, quanto è complesso diventare – ma soprattutto restare – influencer? Celebrità, al netto dell’assonanza, non è necessariamente sinonimo di capacità, e innumerevoli epic fail sono li a dimostrarlo: il crisis managament – che permette di prevedere, anticipare e gestire efficacemente scenari di crisi reputazionale – resta purtroppo una scienza sociale pressoché sconosciuta, sia ai singoli influencer che – purtroppo – alle agenzie che le gestiscono.

Non in ordine cronologico né per importanza e impatto, è certamente utile esaminare qualche caso di studio.

IMEN JANE: influcencer brillante e talentuosa… o ipocrita e classista?  

Imen Jane è una giovane influencer di origine marocchina, con una consolidata presenza sui Social, in particolare su Instagram. Ha guadagnato popolarità per la sua capacità di spiegare argomenti economici e politici in modo accessibile attraverso brevi video. Grazie al suo talento comunicativo, ha raggiunto un vasto pubblico, guadagnandosi una reputazione di divulgatrice esperta.

Jane è co-fondatrice di “Will Ita”, una startup di giornalismo online di successo, che ha catalizzato importanti investimenti ed è stata elogiata per la propria capacità di fare innovazione nel proprio settore. La reputazione di Imen ha subito un duro colpo quando è emerso un dettaglio sconcertante riguardo alla sua formazione accademica: aveva dichiarato di essersi laureata in Economia e amministrazione d’impresa presso l’Università Bocconi, ma il sito “Dagospia” ha rivelato che in realtà non aveva mai completato gli studi universitari. Questa scoperta ha suscitato sconcerto e forte delusione tra i suoi follower e il pubblico, poiché le sue false dichiarazioni mettevano in dubbio, in senso più generale, la sua credibilità e autenticità.

Dopo lo shit-storm generato dall’accusa di aver mentito, Imen ha ammesso di non aver mai completato gli studi, spiegando quali sarebbero stati gli impegni personali e lavorativi che glielo avrebbero impedito. Molte persone hanno trovato le sue scuse poco sincere e fuori contesto: nessuno l’aveva accusata di essere incapace per non aver conseguito una laurea, ma piuttosto ciò che era in discussione era la mancata coerenza per le bugie raccontate relativamente alla sua formazione.

Come se non bastasse, la situazione si è ulteriormente complicata quando durante un viaggio a Palermo, Imen e una sua amica, Francesca Mapelli, sono state coinvolte in un altro epic fail. Impegnate in un evento ambientalista, hanno assunto un comportamento arrogante e sprezzante nei confronti delle persone locali, dimostrando atteggiamenti snob e lievemente sprezzanti nei confronti dei residenti e dell’ambiente circostante.

In particolare, Francesca Mapelli ha raccontato di aver avuto un’interazione negativa con una commessa di un negozio di Palermo, e Imen ha commentato sarcasticamente sul fatto che la commessa avrebbe potuto “guadagnare di più facendo la guida turistica”, ironizzando sui bassi stipendi pagati dalle imprese in meridione d’Italia e sugli spazi di miglioramento che – a suo dire – avrebbe l’accoglienza in quella regione. Dichiarazioni di natura classista, con una buona dose di arroganza e umorismo di cattivo gusto, che hanno giustamente scatenato indignazione tra il pubblico.

Imen ha cercato di scusarsi pubblicamente attraverso dei video, ma le sue giustificazioni sono state accolte con freddezza e molto scetticismo. Molte persone hanno trovato il suo comportamento, a posteriori, poco convincente, ritenendo che avesse mancato di sincerità e di autenticità: i dislike da parte di una fetta dei suoi follower sono stati estremamente significativi.

DEMICHELIS: l’avvocata influencer che vorrebbe “i poveri bruciati all’inferno”

L’avvocata e “influencer” Alessandra Demichelis, nota per l’esibizione sui Social di uno stile di vita improntato al lusso più sfrenato, Insieme a un’altra avvocata, Federica Cau, ha aperto un profilo Instagram chiamato “DC Legal Show”, in cui combinano consigli legali con immagini glamour e a tratti “sopra le righe”. Dopo aver ricevuto vibranti segnalazioni da parte di colleghi all’Ordine degli avvocati, le due colleghe sono prima state licenziate dal loro studio legale e, di recente, la Demichelis anche sospesa dall’Ordine.

Demichelis è stata anche invitata a una trasmissione televisiva per spiegare e difendere il suo approccio sui Social, che da un lato ha contribuito a aumentare la sua popolarità e il numero di follower, dall’altro l’ha esposta ad attacchi e critiche.

Un video condiviso con un amico imprenditore, Franco Morando, ha però poi scatenato un vero e proprio scandalo: nella breve clip i due hanno espresso opinioni denigratorie nei confronti delle persone meno abbienti, in relazione a un graffio o danno che sarebbe stato arrecato alla Porche dell’imprenditore, affermando, niente meno, che i “poveri dovrebbero bruciare all’inferno”.

L’indignazione del pubblico – inclusi molti ristoratori e imprenditori colleghi di Morando – non si è fatta attendere, con alcuni di essi che hanno anche dichiarato di voler boicottare i prodotti della sua casa vinicola. Le scuse superficiali non hanno placato la rabbia: Demichelis ha cercato di giustificarsi dicendo che si riferiva ai “poveri di spirito” (!) ma le sue spiegazioni sono state considerate non genuine e assolutamente poco convincenti. Invece di affermare di sentirsi dispiaciuta e di essere consapevole di aver offeso la sensibilità altrui, ha invece puntato il dito contro chi si è permesso di accendere la polemica: “Voi che cosa avreste detto alle 2 di notte, presi dalla rabbia per un graffio alla macchina? È una reazione normale!”.

L’ennesima dimostrazione di quanto la visibilità sia relativamente facile da ottenere ma assai difficile da mantenere, in un ambiente complesso come quello che viviamo: la gestione della reputazione è un abilità che richiede spiccate competenze tecniche, e che gli influencer – sportivi, politici o persone dello spettacolo – danno troppo spesso per scontato, in modo assai dilettantesco.

STARDUST: lo scandalo che travolse una ragazza, con una shitstorm di insulti sessisti

Le “Collab-house” di TikTok Italia – grandi case prese in affitto da gruppi di tiktoker che decidono di convivere per stimolare la creatività e l’idea di community – hanno creato un ambiente stimolante per influencer provenienti da diversi settori. Nel 2022 una di queste realtà, la celebre Stardust House, realtà di punta di questo genere in Italia, è stata coinvolta in uno scandalo che ha scosso la comunità di TikTok.

Samara Tramontana e Lady Giorgia, membri della “casa”, sono state protagoniste di un furibondo litigio: Giorgia ha accusato Samara di avere una relazione con il suo ex-fidanzato e con altri sette coinquilini, pubblicando delle storie in cui raccontava questi episodi (utilizzando lo pseudonimo “Sara” per non far capire di chi si stesse parlando). Dopo qualche tempo la community di TikTok ha scoperto che la ragazza a cui si faceva riferimento era Samara e questa rivelazione ha scatenato una reazione a catena, con hashtag contro e a favore di “Sara” e un notevole hype, purtroppo molto aggressivo e negativo.

Il caso ha ha sollevato dibattiti sulla privacy, sul giudizio online e sul cyberbullismo: Samara è stata infatti coinvolta in una shitstorm di insulti e forti critiche, tanto da spingerla a lasciare, perlomeno temporaneamente, la Stardust House. È assurdo pensare che vi possano essere polemiche legate al numero di persone con cui una ragazza maggiorenne decide di avere liberamente rapporti sessuali reciprocamente consenzienti, ed è ancora più doloroso e preoccupante se pensiamo a quanto questa linea di pensiero sia ancora molto diffusa.

Il futuro delle “collab-house” italiane potrebbe essere influenzato da questa vicenda, in quanto Stardust house non si è dimostrata adeguata nel gestire questa delicata situazione e lo scenario di crisi in cui venivano coinvolte le protagoniste della casa: nessuna dichiarazione in merito a ciò che stava accadendo nei primi giorni della crisi reputazionale (che ha investito non solo la influencer ma anche l’agenzia, sempre citata nei post pubblicati sulla vicenda), quasi come se far finta di nulla potesse essere il giusto atteggiamento per calmare le acque e risolvere la situazione. E non è una dinamica legata solo a questo episodio: molto spesso le agenzie di management che “guidano” i comportamenti e le decisioni degli influencer non sono minimamente preparate su come gestire gli scandali e gli scenari di crisi. È importante iniziare a riflettere sul fatto che le modalità di gestione delle crisi reputazionali, che scoppiano sempre più frequentemente e repentinamente sul web, possono fare la differenza per tutte le persone coinvolte, allo scopo di mettere sotto controllo la furia di messaggi estremamente critici e negativi, come quelli pubblicati nel caso “Sara-gate”.

ICONIZE: trash e bugie fanno perdere credibilità

Tutto inventato per fare hype: Iconize, al secolo Marco Ferrero, era stato ripreso da giornali e TV nazionali dopo aver raccontato di essere stato vittima di un aggressione omofoba. Ferrero aveva postato un video dove mostrava un occhio nero dovuto, secondo quanto riferiva, ad un pugno ricevuto per strada da un gruppo di tre ragazzi. «Aggredito perché gay»: così denunciava Ferrero sul suo canale Instagram: ma all’interno della Casa del GF qualcuno raccontò una versione differente dell’accaduto. È stata la modella Dayane Mello a contribuire a far chiarezza, raccontando a Tommaso Zorzi – altro influencer, conduttore televisivo ed ex fidanzato di Ferrero – che Iconize avrebbe detto all’amica Soleil Stasi di essersi colpito da solo e di aver inventato la storia dell’aggressione. «Le accuse che mi hanno fatto sono davvero gravi. Hanno insinuato che mi sia tirato un pugno da solo per inscenare una rissa, un attacco da parte di omofobi per avere visibilità. Io rispondo dicendo che solamente un deficiente, un decerebrato possa fare una cosa del genere (…)», fu la prima risposta online di Iconize. Decerebrato o no, le scuse (tardive) e l’ammissione di colpa poi arrivò di li a poco, dopo l’esplosione del caso nel “salotto” TV di Barbara D’Urso, che aveva ospitato l’influencer dopo la presunta aggressione omofoba: vari collegi di Iconize hanno confermato i dubbi, riferendo di messaggi privati su Whatsapp dello stesso influencer che ammetteva la “truffa”, e che sarebbe stato tutto falso, inventato, appunto, per fare hype sui Social, con la D’Urso arrabbiatissima per essere stata strumentalizzata e Iconize che cercò di cavarsela con un video auto-ironico sul web, dichiarando di essere vittima di un periodo “particolarmente buio” per se stesso. Al di la della generale approssimazione della vicenda e del sapore di trash che lascia in bocca, con battibecchi, scontri, smentite e accuse degne del mercato del pesce, ecco un’ennesima dimostrazione di quanto i Social siano un arma a doppio taglio, se maneggiati con poca cura e scarsa professionalità.

LOGAN PAUL: la spettacolarizzazione come strumento (improprio) per fare hype

Logan Paul, famoso per la sua presenza sui Social e per la creazione di contenuti spettacolari, ha visitato quella che viene definita la Foresta dei Suicidi in Giappone, insieme a un gruppo di amici. Durante la sua esplorazione ha incontrato un cadavere appeso a un albero: invece di segnalare l’accaduto alle autorità e rispettare la privacy della vittima, ha deciso di girare un video mostrando il corpo senza vita, all’evidente scopo di generare attenzione sul suo profilo.

La reazione del pubblico è stata immediata, e – purtroppo per l’influencer – furiosa. Logan Paul è stato giustamente condannato per la sua mancanza di sensibilità e rispetto verso la vittima e la sua famiglia, e molti l’hanno accusato (comprensibilmente) di essere teso solo a ottenere visualizzazioni e attenzione, sfruttando una tragedia per aumentare la propria popolarità online.

Dopo la tempesta di critiche, Logan Paul si è scusato, sostenendo di aver girato il video con l’intento di sensibilizzare sul problema del suicidio (sic). Ipotesi alquanto bizzarra, dato che è entrato nella foresta vestito da Pokemon (!): difficile pensare che la sua intenzione fosse stata quella di sensibilizzare su una tematica così delicata , complessa e profonda ridacchiando in gruppo vestiti come se fosse carnevale. Questa scusa maldestra, carente dei più elementari requisiti di autenticità, ha aumentato ulteriormente l’attenzione dei follower sul suo profilo, in chiave evidentemente critica.

La questione dei suicidi in Giappone è una problematica seria e complessa: secondo l’OMS, circa 11 persone ogni 100.000 si tolgono la vita ogni anno nel paese, con oltre 20.000 casi segnalati solo nella Foresta dei Suicidi. La tragedia richiede rispetto, comprensione e azioni mirate alla sensibilizzazione e alla prevenzione, e la fama di un Influencer non dovrebbe essere usata maldestramente per sfruttare tematiche come quella del suicidio a scopo di lucro o attenzione. Regole che appartengono ai fondamentali del reputation management, ma evidentemente ancora ignorate e oscure per molti influencer.

Perchè perdere valore (e denaro) a causa della scarsa professionalità?

Gli influencer sono una imprescindibile realtà, nel mondo del digitale, come ben illustrato nell’ultimo volume pubblicato dal Prof. Luca Poma e dal suo team, edito da Lupetti. Lungi demonizzare un’intera categoria, anzi; sono numerosi i personaggi pubblici che invece sono in grado di attivare e alimentare circoli virtuosi dal punto di vista sociale, culturale ed educativo (un esempio tra tutti, l’eccezionale profilo Instagram di Luca Venturelli, ragazzo autistico che si è dato come missione quella di sensibilizzare altri cittadini sulla sua condizione).

Tuttavia, è fondamentale avere sempre chiaro in mente che il potere decretato dalla visibilità può essere uno strumento tanto utile quanto anche un’arma con cui far del male a se stessi e alle persone che seguono l’influencer stesso. La reputazione non è qualcosa di statico: una volta acquisita, può essere rapidamente distrutta, se non coltivata e protetta costantemente. Un’influenza positiva e duratura sul pubblico può essere raggiunta solo attraverso la credibilità, la coerenza e l’autenticità, specie quando il personaggio pubblico sceglie di esprimersi su tematiche importanti per la vita e il benessere della comunità. Il grande pubblico desidera seguire persone che dimostrano competenza e che possono offrire contenuti di valore, non maschere che semplificano o annacquano gli argomenti con atteggiamenti e affermazioni ipocrite, opportunistiche, vuote, inutilmente polemiche, e che fanno del glamor un valore fine a se stesso.

È incredibile notare quanto lavoro ancora ci sia da fare per professionalizzare l’approccio dei protagonisti di un mercato miliardario come quello degli influencer, e di quanto spazio di miglioramento vi sia anche per le stesse agenzie che si occupano professionalmente di questo settore, come dimostra la recente (e comprensibile) shit-storm seguita alle rivelazioni circa l’esistenza di una chat pesantemente sessista e tossica creata all’interno dell’agenzia leader in Italia in strategie digitali, WAS – We Are Social: evidentemente, la capacità di surfare brillantemente sul web non determina, di per se, l’attitudine di saper gestire efficacemente le crisi reputazionali.

La speranza è, soprattutto, che le agenzie di management abdichino alla dinamica dilettantesca del “se mi capiterà, gestiremo…” e si pongano in ascolto di queste nuove sensibilità, decidendo di far tesoro di competenze afferenti la previsione e gestione del rischio che sono da tempo date per scontate in qualunque strategia di brand-management, ma evidentemente sono ancora colpevolmente ignorate da chi il redditizio mercato dell’influenza online lo governa realmente.