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Nasce l'enciclopedia della Csr

Attiva e tutta da inventare con il contributo degli utenti la piattaforma in stile wikipedia per le imprese che fanno responsabilità sociale d’impresa
Una nuova piattaforma a costo zero, tutta da sviluppare, per conoscere i momenti e gli appuntamenti più significativi degli ultimi 10 anni a livello di sostenibilità e comunicazione sociale nel mondo imprenditoriale italiano. Il suo futuro è in mano agli utenti, privati o aziende, che intendano dare il loro controbuto alla formazione di WikiCsr, nelle aspirazioni del gruppo che le ha dato vita (Koinetica) una Wikipedia del responsabilità sociale d’impresa, la cosiddetta Csr. Già previste nel sistema, le possibilità di aggiungere notizie di interesse collettivo e di inviare commenti, riflessioni, articoli e racconti di esperienze che siano di (buon esempio) per gli altri. Wikicsr vorrebbe diventare un punto di incontro privilegiato per tutti coloro che attraversano questo mondo: da un lato, le imprese, possono condividere i loro comportamenti virtuosi, dall’altro gli esperti, che possono cogliere trend in evoluzione e farli diventare oggetti di studio, e infine, proprio i giovani che per la prima volta si affacciano alla finestra di questa realtà. Un altro modo per “fare Rete” nei canali che contano.




CSR e sostenibilità: la Moda italiana si fa green

RSI e modelli replicabili per le PMI italiane: come seguire percorsi etici e sostenibili in termini di buone pratiche e di impegno concreto.
Alla Conferenza Internazionale sullo Sviluppo Sostenibile 2012 (RIO+20), organizzata in Brasile dalle Nazioni Unite, hanno partecipato anche aziende italiane, per testimoniare il proprio impegno in tema di Responsabilità Sociale d’Impresa in chiave green.
Per l’Italia c’era anche Gucci, la cui testimonianza all’intervento Changing the world through fashionnell’ambito del RIO+20 Corporate Sustainability Forum ha esplorato l’apporto che il comparto Moda e abbigliamentopuò fornire allo sviluppo sostenibile.
 

L’esempio fornito da Gucci è importante, perché dona lustro alla folta schiera di aziende italiane che sono passate dalle parole ai fatti, diversamente da molte altre che si sono fatte in quattro per evidenziare il proprio impegno con iniziative promozionali ma senza concorrere alla formazione di una vera e propria cultura aziendale dedicata all’etica della sostenibilità e al reale impegno nei confronti dell’ambiente.
Le politiche di RSI intraprese da Gucci fin dal 2004 si fondano sul “valore sostenibile”: rispetto dei diritti dei lavoratori, promozione delle diversità e capacità professionali, tutela dell’ambiente e della biodiversità, coinvolgimento di fornitori e stakeholders.

  • Nel 2004 l’azienda ottiene la certificazione in materia di Responsabilità Sociale d’Impresa (SA 8000) che coinvolge la sede centrale, i punti vendita e l’intera filiera produttiva.
  • Nel 2009 sigla un accordo con Confindustria Firenze, CNA e parti sociali per promuovere la filiera quale patrimonio di conoscenze unico e di valore riconosciuto, in una logica di sostenibilità economica e sociale.
  • Nel 2010 ottiene la certificazione ambientale ISO 14001, aderisce ad iniziative green in tutto il mondo e avvia un programma di attività eco-friendly per la riduzione dell’impatto ambientale ad opera della propria produzione (packaging riciclabile al 100%, ecc.) .
  • Nel 2011 Gucci firma un accordo con i sindacati per agevolare politiche di Welfare all’interno dell’azienda e favorisce la creazione di una “rete d’impresa” volta a rafforzare la competitività del polo fiorentino della pelletteria.
  • Nel 2012 lancia sul mercato i primi prodotti eco-friendly (occhiali eco-sostenibili, sandali biodegradabili…) e presenta un nuovo packaging riciclabile al 100% e ingombro limitato per limitare costi di trasporto ed emissioni di CO2.

Ed ora? La sfida futura va in direzione di un maggior impegno nella tracciabilità e nell’ulteriore ricerca di materiali innovativi, ha spiegato Rossella Ravagli, Gucci CSR & Sustainability Manager.
Dunque, non “green washing” (attenzione superficiale alle tematiche green solo per rifare il look alla reputazione aziendale) ma di un vero e proprio investimento, che ha comportato costi di certificazione e la sottoscrizione di protocolli per la valorizzazione delle attività lavorative di filiera.
Un esempio da imitare per tutte le aziende italiane: seguire percorsi etici e sostenibili, sia in termini di buone pratiche sia di impegno concreto.




Sostenibilita, Csr. La trasparenza nella comunicazione finanziaria, la norvegese Statoil al top

In tema di comunicazione finanziaria la compagnia petrolifera norvegese Statoil è l’azienda più trasparente ma, in generale, le misure adottate dalle grandi aziende quotate sono ancora insufficienti per contrastare una nuova possibile crisi economica. A fare il punto sulla situazione ci pensa il nuovo rapporto di Transparency International (TI), l’associazione non governativa e no profit, che ha analizzato la trasparenza nella comunicazione finanziaria e la divulgazione di misure anti-corruzione delle 105 più grandi società quotate che insieme valgono 11 trilioni di dollari. Dal rapporto emerge che le imprese hanno migliorato la loro comunicazione sui programmi anticorruzione, passando dal 47% del 2009 al 68%. Tuttavia, il punteggio medio per la trasparenza è ancora basso e solo poche aziende comunicano quanto contribuiscono alle economie dei paesi in cui operano. La trasparenza di queste operazioni non solo riduce le possibilità di un uso improprio di denaro pubblico, ma mostra anche come le aziende contribuiscono allo sviluppo delle società in cui operano. Delle 105 aziende intervistate nel rapporto: 50 non comunica i ricavi e le vendite in ogni paese in cui opera; 85 non divulga le imposte sul reddito in tutti i paesi e 39 non divulga sempre i dati finanziari (tasse, i ricavi, le vendite, pre-imposte sul reddito, gli investimenti di capitale, contributi per la comunità). Se tale comunicazione non avviene è più difficile monitorare il contributo delle imprese e un record in negativo arriva dai paesi in crisi della zona euro. Delle 105 aziende intervistate 65 operano in Spagna, ma solo tre rivelano pubblicamente le imposte sul reddito pagate al paese. In Grecia, invece, nessuna delle 43 aziende intervistate e in Italia solo una su 62. Il rapporto attribuisce alle aziende un punteggio che va da 0 a 10 (10 è più trasparente e 0 è meno trasparente) e che tiene conto della divulgazione di vari tipi di informazioni aziendali. La compagnia petrolifera norvegese Statoil è l’azienda più trasparente con un punteggio medio di 8.3. Seguono le aziende di estrazione mineraria Rio Tinto e Bhp Billiton con un punteggio di 7,2. Le aziende meno trasparenti, invece, sono Honda Motor (1.9), Bank of Communications di Shangai (1.7) e Bank of China (1.1). Tra le aziende italiane troviamo Enel con un punteggio di 6.2 e Eni con 5.9.




Crescono i manager della CSR, la “coscienza” delle imprese

I manuali di management li considerano la “coscienza” delle aziende, quei professionisti che hanno coniato parole come stakeholder, convinti che un business per essere sano debba restituire qualcosa non solo ai propri azionisti ma anche al suo territorio e alla sua comunità, e disposti a sfidare le esigenze di bilancio in nome della sostenibilità ambientale e della responsabilità sociale d’impresa. Sono i csr manager, i dirigenti della corporate social responsibility, una generazione ancora giovane per il nostro panorama industriale se è vero che secondo uno studio della Cattolica solo il 40,1% delle aziende italiane quotate ne ha uno al suo interno, mentre quasi il 60% ne è tuttora sprovvisto.
E mentre all’estero sono spesso considerati dei guru, uomini capaci di dare un volto umano e quindi “sostenibile” a qualsiasi business e quindi conquistarsi la fiducia e il rispetto dei consumatori, in Italia, complice il tessuto produttivo fatto di piccole e medie imprese, il loro ruolo sta crescendo lentamente e rimane legato in maniera esclusiva alle aziende di grandi dimensioni. «Si tratta di un lavoro a perimetro variabile – spiega Fulvio Rossi, csr manager di Terna e presidente del Csr Manager Network, l’associazione che riunisce i professionisti del settore – perché i suoi protagonisti sono chiamati a trattare tematiche spesso differenti, che cambiano anche da azienda ad azienda. Da un lato hanno un compito di ispirazione, quindi devono predisporre piani e obiettivi per rendere le imprese più sostenibili a livello ambientale e più sane nel rispetto dei principi della responsabilità sociale; dall’altro gli vengono richiesti impegni precisi e molto tecnici come la preparazione e la redazione del bilancio sociale, uno strumento sempre più diffuso tra le grandi aziende».
«Purtroppo – continua Rossi – è ancora molto difficile individuare quale sia il valore effettivo in termini di ritorno economico delle attività ispirate alla corporate social responsibility; è certo che un legame tra le attività csr e la creazione di valore esiste anche quando il manager interviene su caratteristiche all’apparenza intangibili, come la reputazione, le competenze, la previsione dei rischi». Nonostante il peso sempre maggiore riconosciuto a questi asset intangibili, le aziende richiedono ai csr manager prettamente soluzioni pratiche e prodotti utili a migliorare la loro immagine sul mercato. È il caso dei rapporti di sostenibilità che ormai vengono pubblicati dal 70% dei gruppi quotati alla Borsa di Milano.
«In Italia – commenta Carlo Caporale, senior partner della società di recruitment Robert Half – la richiesta di questi profili professionali è in crescita, anche se la domanda sul mercato arriva quasi esclusivamente dalle grandissime aziende, soprattutto le quotate in Borsa. Questo conferma che, almeno per i csr manager, il nostro Paese è ancora decisamente indietro rispetto a Francia e Germania, ma soprattutto a Inghilterra e Stati Uniti dove il grado di interesse nei confronti di queste figure è molto più elevato. La conseguenza è duplice: da una parte i dirigenti esperti di responsabilità sociale sono una merce rara, quindi hanno buon mercato; dall’altra però la domanda delle loro prestazioni è bassa, e quindi anche i posti disponibili sono ridotti». Questa arretratezza trova conferma anche a livello organizzativo. In alcune aziende il csr manager risponde alla direzione finanziaria, in altre a quella legale, in altre ancora direttamente all’amministratore delegato. «Anche questo elemento – continua Caporale – conferma che non si tratta di un profilo standardizzato, tanto nella considerazione gerarchica, quanto nel percorso formativo che viene seguito e che spesso differisce da professionista a professionista».
«Dalle nostre indagini su consumatori e manager – spiega Marcella Mallen, presidente del Centro di formazione manager del terziario – emerge con forza la richiesta di sostenibilità, che vuol dire attenzione all’ambiente, ma anche e soprattutto all’intorno sociale in azienda e fuori. Questo è da alcuni anni un must che entra con forza nei nostri percorsi formativi. Non solo e non tanto quindi corsi per le funzioni ad hoc (green o energy manager o CSR manager), ma soprattutto un filo conduttore che lega molti percorsi formativi e che permea gli aspetti strategici e operativi. Seguendo questa strada, gli aspetti del csr diventano direttrici strategiche dell’azienda per guidare cultura aziendale, comportamenti, innovazione e per diventare solo poi contenuti della comunicazione che in primo luogo deve informare e formare i partner e i clienti e condividere con loro questa mission». «Perché – conclude Mallen – per diventare vantaggi competitivi queste dimensioni del fare business devono essere reali e incidere sui processi interni ed esterni. Non mode passeggere e messaggi mediatici che avrebbero vita breve e non inciderebbero sulla promessa dell’offerta aziendale».

 




I tre livelli della Corporate Social Responsibility

Osservando l’evoluzione delle azioni di responsabilità sociale che negli ultimi 5 anni sono state avviate dalle più importante aziende nazionali e multinazionali, è possibile individuare tre livelli o tipologie di iniziative, ognuna con una portata ed una efficacia differente.
Il primo livello di azioni si identifica la solidarietà, dove per solidarietà intendo un ampio spettro di iniziative che hanno una ricaduta sociale o ambientale. Spesso queste iniziative hanno un buon impatto sociale e servono a sostenere realtà sociali/ambientali che agiscono sul territorio in cui è radicata l’azienda. Per essere chiari queste iniziative sono non hanno alcun impatto sul business dell’azienda, sono una dimostrazione dell’interesse dell’azienda di sostenere il territorio su cui agiscono, investendo sullo stakeholder “collettività”. Sono azioni di sponsorizzazione, di sostegno economico, di fornitura di beni (anche prodotti dalla stessa azienda). Si tratta di un livello generalista, dove il concetto di responsabilità, o meglio di azienda responsabile fatica ad essere compreso e identificato (ad esempio la recente iniziativa di Telecom Italia a favore dei terremotati dell’Emilia, prevede di raddoppiare le ore donate dai propri dipendenti); non è infatti forse più sufficiente sponsorizzare o contribuire ad un’azione sociale per essere definita socialmente responsabile.
Il secondo livello di azioni può essere identificato in tutte quelle iniziative in cui i servizi / infrastrutture aziendali utilizzati per generare business vengono messi a disposizione della collettività, ad esempio l‘iniziativa della Sisalper consentire di raccogliere donazioni pro terremoto attraverso le proprie ricevitorie, il più classico sms solidale, o ancora tutti quei casi in cui utilizzo asset aziendali appartenenti al core business per sostenere un’azione sociale (ancora una volta l’iniziativa di Telecom Italia per i terremotati dell’Emilia che ha previsto non solo postazoni wi fi gratuite, ma anche ricariche omaggio da 10€ e sospensione della fatturazione per chi risiede nell’area colpita). I quotidiani nazionali (Corriere della seraLa Stampa, per citarne alcuni) oppure i grandi media (MediasetLa7) spesso mettono a disposizione la loro fora comunicativa per sostenere iniziative che hanno riflessi sulla comunità. Lo sforzo di queste azioni sociali è spesso marginale, ma l’efficacia è elevata. Questo livello di CSR a differenza del precedente è più contestualizzato rispetto alla realtà aziendale che lo eroga. Il management è più coinvolto e cerca di mettere a disposizione ciò che solitamente serve per generare business  favore della collettività.
Il terzo livello di azioni risulta essere quello più interessante ma ancora oggi troppo marginale. Mi riferisco alle azioni in cui si sviluppa il proprio business in forma responsabile, focalizzando la propria attenzione di responsabilità verso l’esterno e verso l’interno. Essere pienamente responsabile dal punto di vista sociale, significa essere organizzati per contribuire ad uno sviluppo armonico e coerente della propria struttura e del proprio business. Poco importa se un’azienda eroga milioni di euro in CSR del primo livello e poi al proprio interno attua campagne di inviluppo dei propri dipendenti, oppure poco importa se si creano le migliori condizioni di benessere organizzativo ma si producono al contempo un servizio o un prodotto altamente impattante sulla salute dei clienti. Il terzo livello prevede un perfetto allineamento tra ciò che accade dentro l’azienda e ciò che deve accadere fuori. Il rispetto per i propri clienti deve passare attraverso il rispetto dei propri dipendenti e contestualmente per il rispetto di tutti gli stakeholders, il tutto contemporaneamente. La contemporaneità delle azioni rappresenta infatti l’elemento distintivo rispetto ai due precedenti livelli. La contemporaneità diventa quindi lo strumento per poter valutare il reale posizionamento nell’ambito della responsabilità sociale assunta dall’azienda. Ecco quindi che i parametri per comprendere se un’azienda si stia muovendo in maniera responsabile, non possono certo essere le certificazioni così come sono concepite ora, ma la creazione di community trasversali aperte (costituite da stakholders e management) in cui poter leggere l’azienda al di là della qualità del prodotto o del servizio erogato.