1

Intervista a Silvio Magliano, Consigliere Comunale del Comune di Torino e Vice Presidente del Consiglio Comunale

Cos’è un “Disability Manager” e come mai questa figura istituita presso il Comune di Torino?
Il Disability Manager ha la qualifica di “responsabile in materia di disabilità”…
E’ una figura tecnica, da individuare all’interno dei dipendenti già in organico al Comune di Torino e opportunamente formata, che avrà il dovere di coordinare tutte le attività dell’Istituzione pubblica in materia di disabilità, verificando che ogni provvedimento sia adeguato per le necessità delle persone con esigenze particolari, occupandosi anche della formazione e della sensibilizzazione del personale. È fondamentale, come già accade in altre città, da New York ad Alessandria, che sia riconosciuta la necessità di una figura responsabile del rispetto dei diritti di cittadinanza per tutti, senza alibi e rimpalli di competenze, come troppo spesso accade nel settore pubblico: il Disability Manager non deve essere un garante delle persone con disabilità, ma un funzionario pubblico incaricato di far sì che tutti gli Uffici del Comune, nella loro attività, garantiscano i diritti e rispettino le esigenze, in particolare di autonomia e indipendenza, delle persone con disabilità, in tutti gli ambiti e in tutte le competenze della pubblica amministrazione, per evitare di dover disfare dopo ciò che non si è fatto con la dovuta attenzione subito. Sono molto contento che, dopo soltanto un anno di mandato, sia stato possibile istituire una funzione richiesta dalle Associazioni da almeno cinque anni e auspico che anche nelle aziende partecipate dal Comune di Torino sia possibile introdurre una figura di questo genere. L’attenzione che la Città è in grado di dare a coloro che vivono una condizione di difficoltà non è soltanto un’opportunità dal punto di vista umano, ma un’azione doverosa dal punto di vista amministrativo. Rispondere ai bisogni delle persone nel migliore modo possibile è il compito primario del Comune: la nostra città è sempre stata all’avanguardia nei servizi di Welfare, ma è ancora carente sotto alcuni punti di vista, anche cruciali, come certi edifici pubblici o numerosi esercizi commerciali.
Quali sono esattamente le criticità che questa figura dovrebbe andare a risolvere?
In materia di servizi alle persone con disabilità, di erogazione di prestazioni inclusive, di emanazione di regolamenti e disposizioni non è possibile pretendere da tutti gli uffici comunali la conoscenza delle specifiche esigenze delle persone in difficoltà, elemento però imprescindibile per evitare di disfare ciò che non si è fatto in modo adeguato. E’ doloroso, ma frequente, purtroppo, constatare come il puro rispetto delle norme non sia sufficiente a garantire l’accessibilità in autonomia e indipendenza alle persone con disabilità, se disgiunto da una specifica competenza. Il ruolo del Disability Manager è, quindi, quello di verificare il lavoro della macchina comunale, suggerendo e facendo applicare gli accorgimenti necessari.
Avrà solo il potere di dare “consigli” alla Pubblica Amministrazione o potrà contare su un concreto potere di indirizzo?
La mozione approvata prevede che il Disability Manager sia un dirigente del Comune di Torino, con tutte le prerogative del ruolo. Non si tratta quindi di un ruolo puramente consultivo.
Con quali criteri verrà selezionata la figura?
I criteri di selezione spettano alla Giunta, in quanto la mozione ha potere di indirizzo e deve trovare riscontro entro 180 giorni, ma con modalità che sono esclusiva prerogativa dell’Amministrazione Comunale. Auspico che sia una persona che conosce i meccanismi della struttura comunale, che abbia esperienza e sensibilità e che venga opportunamente formata: esiste, per esempio, un corso di perfezionamento per Disability Manager realizzato dall’Università Cattolica di Milano.
Siete a conoscenza di esperienze simili anche nel settore privato/aziendale, e sarebbero auspicabili?
Il Disability Manager è stato già introdotto a Parma, città che ha promosso il Libro Bianco dell’Accessibilità e della Mobilità Urbana, testo realizzato da tecnici e da rappresentanti delle Associazioni, nel quale la figura del Disability Manager è stata definita compiutamente. A Parma sono seguite Perugia, Alessandria e Pescara. Per quanto riguarda le aziende private, GTT ha creato un responsabile dei servizi per i clienti con disabilità che, pur non avendo la qualifica di Disability Manager, sostanzialmente ne incarna le funzioni.




Crisi. La responsabilità sociale come antidoto: i manager ci credono

Migliora anche la relazione tra Aziende e ONG. I dati del “CSR Italian Summit 2012”
L’adozione di politiche di Responsabilità sociale e di attenzione allo sviluppo sostenibile è un “antidoto” per superare la crisi e rilanciare la competitività delle imprese: lo pensa il 79% dei top manager intervistati nell’ambito della survey “Il sostenibile peso della RSI” (in allegato), presentata a Milano nel corso del “CSR Italian Summit 2012”, organizzato da Business International e AMREF Italia.
Un rapporto che rivela una situazione fatta di luci ed ombre. Secondo quanto emerge dalla survey, i manager percepiscono la gravità dell’attuale contesto economico-finanziario anche come una nuova opportunità per ripensare le priorità e le modalità dello sviluppo economico e sociale.  La risposta incentrata sull’adozione di politiche di CSR come principale fattore di innovazione è seguita, con un ampio margine, dall’innovazione di prodotto (49%) e  dagli investimenti in tecnologie (44%).
Tuttavia l’impatto della recessione sulle politiche sociali emerge con chiarezza analizzando le scelte di investimento di chi è già socialmente responsabile: solo il 47% dichiara di mantenere costanti i livelli di investimento effettuati, mentre spicca il dato complessivo (43%) relativo alle volontà di ridefinire i progetti intrapresi, diminuire gli investimenti e ridurre la collaborazione con partner specializzati.
Sembra comunque chiara la consapevolezza che il dimostrare di essere un “corporate citizen”, responsabile nei confronti di consumatori, dipendenti e della comunità locale può contribuire considerevolmente a riconquistare, con la cultura della buona condotta, la fiducia della società, minata dalla considerazione, in ampi strati dell’opinione pubblica, che il “business is business” sia in parte causa dell’attuale situazione di crisi.
Dalla ricerca si evince un miglioramento nella considerazione della partnership tra aziende e ONG per la realizzazione di cause sociali. Le aziende cercano visibilità e affidabilità e si rivolgono a organizzazioni che dimostrano un certo livello di managerializzazione e di continuità, con un ambito operativo ben definito e una rendicontazione chiara dei risultati: è anche una questione di linguaggio comune.
Questo elemento risulta evidente nella domanda relativa ai criteri per la scelta del partner: il 41% del campione dichiara di averlo selezionato sulla base della mission e degli elementi qualificanti la sua attività. Il dato rileva un’inversione di tendenza rispetto allo scorso anno, quando la ricerca rilevò che la selezione della ONG una volta su due avveniva attraverso un meccanismo di conoscenza diretta e personale.
Nel complesso, anche se su questo fronte l’Italia registra un ritardo rispetto all’estero, denotando un certo grado di scetticismo e diffidenza da parte delle aziende, il non semplice dialogo tra organizzazioni non governative e imprese è sempre più diffuso.




European Hotel Managers Association e il progetto Corporate Social Responsibility

La cultura della sostenibilità è tutta da costruire, in ogni settore economico. Nell’hotellerie ci pensa l’Ehma – European Hotel Managers Association –  con un progetto di Corporate Social Responsibility (CSR) pensato in collaborazione con l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli.
Di questo si è parlato al meeting tenutosi presso il Pullman Timi Ama Sardegna di Villasimius: i direttori dei migliori 4 e 5 stelle della penisola si sono incontrati per affrontare i temi di maggiore attualità del settore e definire i programmi futuri dell’associazione. Punto focale il nuovo progetto che ruota operativamente attorno a un sito Internet con il quale poter valutare le proprie performance CSR, compararle con i migliori standard internazionali e trovare validi consigli per le proprie politiche in materia.L’approccio sostenibile è noto perché tutti ne parlano, ma non è ancora entrato in modo familiare in un sistema di offerta che, magari a causa delle piccole e medie dimensioni, a volte fatica a stare al passo con l’innovazione: oggi le imprese adottano volentieri misure che consentono di tagliare i costi nel breve termine, ma sono poco aperte all’investimento – per esempio in pannelli fotovoltaici o nell’architettura bioclimatica – da recuperare nel medio o lungo periodo.La nuova piattaforma Ehma www.ehma-italia.it si inserisce pienamente nello sforzo formativo atto a far comprendere a tutti gli operatori quanto la nozione di lusso abbia oggi assunto sempre più il volto di una vacanza spesa in luoghi sicuri per la salute e il benessere tout-court.«L’eco-sostenibilità degli hotel aderenti al progetto diventerà dunque un vero e proprio plus, un fattore di vantaggio competitivo, da comunicare attraverso una mirata operazione di marketing», racconta il docente dell’istituto partenopeo Ettore Regina che, insieme alla sua collega Francesca Graziuso e all’It manager Massimo Bucci, ha curato la realizzazione del software.Ogni albergo aderente al progetto disporrà di una sua pagina personale e di un documento pdf riepilogativo mensile, che andrà ad aggiungersi al suo profilo generale. Tali informazioni saranno visionabili da tutti gli hotel facenti parte del sistema e verranno convogliate nella creazione di un report annuale. Quest’ultimo, analizzato e giudicato da una commissione Ehma, porterà all’individuazione della struttura ricettiva maggiormente sostenibile dell’anno, che riceverà il premio appositamente concesso dalla Presidenza della Repubblica Italiana alla European Hotel Managers Association.




Corporate Fundraising e CSR: un destino da separati in casa

Almeno questo è quello che emergerebbe dall’analisi promossa da TSIC London sullo sviluppo della CSR nel corso degli ultimi 60 anni e sul ruolo dell’impresa nella società.

Questo post muove i suoi passi dalle riflessioni scaturite da un mio post precedente sulla responsabilità sociale d’impresa che, seppur non in modo esplicito, faceva riferimento alle tesi di Michael Porter e Mark Kramer, al loro concetto di “valore condiviso” e, in modo particolare, all’idea di corporate social innovation che fa dell’impresa un promotore di innovazione sociale grazie all’expertise maturata e agli asset aziendali che mette a disposizione della società in cui opera.
Senza ripercorrere i passi della ricerca, a cui naturalmente rimando, l’aspetto che ora mi interessa valutare, approfondire e che vi propongo, è il rapporto che intercorre tra Corporate e Charity e, in modo particolare, qual è il ruolo di quest’ultima e che quest’ultima ricopre nell’immaginario dell’impresa e nei suoi propositi di responsabilità sociale. Detto più semplicemente: una nonprofit è considerata protagonista e funzionale al cambiamento sociale in un’ottica di secondo welfare o è uno degli strumenti utili in un panorama ben più ampio?
La risposta la si legge a chiare lettere nella ricerca: oltre il 90% dei senior corporate leaders crede che si possa ottenere di più e meglio attraverso il loro intervento piuttosto che erogando (e quindi passando attraverso, ndr) una charity.
Questo dato deve farci riflettere. Attentamente. Solo meno del 10% degli intervistati vede come prioritario l’intervento del Terzo Settore quale interlocutore privilegiato nel dialogo sociale. Come può essere intepretato questo dato? Facciamo delle ipotesi:
poca credibilità del nonprofit in genere?    percezione di poca professionalità?    diffidenza sintomatica alla delega da parte dell’azienda?    dubbi sul corretto o effettivo uso delle risorse erogate?    cosa ancora?
Qualsiasi considerazione si voglia fare, rimane il fatto che solo un’azienda su 10 potenziali delega al privato sociale il compito di intervenire in modo impegnato, “e per suo conto” ci tengo a dire, sulle dinamiche di welfare.
Insomma, a quanto pare il corporate fundraising è ancora lontano dall’esprimersi in tutte le sue potenzialità. Noi nonprofit abbiamo ancora molto da lavorare e se vogliamo diventare co-protagonisti di un social change al fianco delle imprese, sta forse a noi dimostrare l’abilità di essere interlocutori credibili, capaci e competenti. E non semplici destinatari di erogazioni ed azioni.
Fai la differenza:
Trova l’azienda che abbia qualcosa in comune con te.        Dimostra che il tuo apporto può fare la differenza portando maggior valore aggiunto ad azienda, società, azionista. Un’impresa ha come obiettivo il profitto: è questo a cui tende ed è un aspetto che non va dimenticato.        La bontà della causa non è quindi sufficiente a garantirsi l’attenzione e la partnership di un’impresa: pianifica non dimenticando mai i concetti di efficacia ed efficienza.        Chiedi loro se vi è l’interesse al coinvolgimento diretto o comunque tieni sempre viva la comunicazione.        Anche se non in modo esplicito, la domanda che l’impresa si pone è questa: perché passare attraverso una onp se posso farlo direttamente? Dimostra loro il maggior vantaggio derivante dal coinvolgimento di un ente nonprofit.
Nel complesso, il Terzo Settore ha bisogno di promuovere il suo valore. Il nonprofit ha nel suo dna la volontà di fare tutti gli sforzi possibili per favorire il cambiamento sociale. Il mondo delle imprese, al contrario, ha come obiettivo la massimizzazione del profitto e guarda, in primis, a ciò che è meglio per l’azienda. E’ giusto che sia così e appare evidente che il nonprofit parta, in questo senso, da una posizione di vantaggio. Ciononostante, il rapporto rivela una certa insoddisfazione da parte del mondo delle imprese nell’agire con il nonprofit. Un sentimento che non va ignorato: partership tra profit e nonprofit non solo sono efficaci ma anche fortemente auspicate in un’ottica di cambiamento sociale e di innovazione.




Csr, questa sconosciuta? No, ma serve fare maggiore chiarezza

Così il nuovo presidente del Csr manager network. A fare il punto all’Adnkronos è il nuovo presidente del network Fulvio Rossi, Corporate Social Responsibility manager di Terna.
Per le aziende, soprattutto per quelle grandi, la responsabilita’ sociale d’impresa non e’ piu’ un mistero. Nonostante gli enormi progressi, pero’, la csr (corporate social responsability) assume ancora significati troppo diversi, privilegiando alcuni aspetti piuttosto che altri, a seconda delle policy aziendali. In questo scenario il compito del csr manger network, l’associazione che riunisce i professionisti della responsabilita’ sociale d’impresa, promossa da Altis (Alta Scuola Impresa e Societa’ dell’Universita’ Cattolica del Sacro Cuore di Milano) e Isvi (Istituto per i valori d’impresa) e’ di fare chiarezza e far comprendere la stretta correlazione che c’e’ tra la figura del csr manager e la creazione di valore.
A fare il punto all’Adnkronos e’ il nuovo presidente del network Fulvio Rossi, Corporate Social Responsibility manager di Terna. Fulvio Rossi succede a Caterina Torcia di Vodafone Italia e sara’ affiancato nel suo lavoro da un Comitato di Gestione rinnovato e quasi interamente al femminile in cui sono entrati a far parte: Davide Dal Maso (partner Avanzi), Susanna Galli (Csr manager Novamont), Stefania Lallai (communication & Cr manager Tnt Express Italy), Manuela Macchi (head of corporate social responsibility and communication Holcim Italia), Marina Migliorato (responsabile Csr Enel) e Angela Tanno (ufficio responsabilita’ sociale d’impresa Abi). Sono membri del Comitato di Gestione anche il direttore di Isvi, Stefania Bertolini, e il direttore di Altis, Mario Molteni.
La professione del csr manager, spiega Rossi, ”e’ ancora in un fase di formazione” ma i progressi degli ultimi anni sono indiscussi e ”le richieste del mercato vanno in questa direzione tanto che si assiste ad un aumento dei corsi universitari e master che insegnano nozioni di csr e tecniche del mestiere”. Si tratta di ”un segnale importante” anche perche’ spesso la responsabilita’ sociale d’impresa ”praticata soprattutto nelle grandi imprese, assume ancora significati diversi a seconda della policy aziendali. In questo scenario il compito del csr maneger network e’ di fare chiarezza e far comprendere l’importanza di questa nuova figura professionale”. Per Rossi ”investire su questo profilo puo’ avere dei ritorni anche economici”.
Il Csr manager network ogni anno svolge un’attivita’ di ricerca, education e divulgazione attraverso workshop tematici a porte chiuse, convegni aperti al pubblico e una ricerca annuale. Tra i progetti piu’ rilevanti in corso l’iniziativa con Istat per la definizione di indicatori per la misurazione delle politica di sostenibilita’ delle imprese allineati con la statistica ufficiale, la realizzazione del primo censimento sulla professione del csr manager e i suoi percorsi di carriera, lo sviluppo di partnership e scambio di know how e best practice a livello nazionale e internazionale.”
Sono onorato di essere stato scelto per rappresentare i professionisti che si riconoscono nel Csr manager network” commenta Rossi che aggiunge: “Il nostro e’ un mestiere a perimetro variabile nelle diverse realta’ aziendali, ma comunque connotato dall’obiettivo di creare valore attraverso l’attenzione agli stakeholder e agli aspetti ambientali e sociali. E’ anche un mestiere in cui crediamo, ragione per cui sono lieto di poter contribuire a sviluppare i due filoni di attivita’ principali della nostra associazione: condividere le esperienze per continuare a migliorare e far conoscere all’esterno la serieta’ del nostro approccio”.