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La “fede” in versione 2.0

AVAAZ è un’organizzazione no-profit, aparititica, non confessionale e indipendente, come ve ne sono tante che si occupano di campagne per il rispetto dei diritti umani. Ma Avaaz – termine che in lingua persiana, hindi e hurdu significa “il suono che rompe il silenzio” – ha una caratteristica che l’ha resa unica, in ragione di quanto ha aperto una nuova strada che l’ha differenziata anche dalla più strutturata Amnesty International: aggrega consensi su base transnazionale ed esclusivamente su internet.
Quando abbiamo lanciato Avaaz 5 anni fa – ha dichiarato un membro del team dell’organizzazione – ci dicevano che era impossibile costruire una comunità mondiale basata su valori condivisi oltre i confini nazionali, perché siamo tutti troppo diversi tra noi. Ma abbiamo imparato che i legami che ci uniscono nonostante età, nazionalità, razze e religioni diverse, sono più forti di tutto quello che può dividerci. E settimana dopo settimana ci uniamo per cambiare il mondo in cui viviamo, e a volte vinciamo”.
Oggi più di 15 milioni di membri in tutto il mondo lavorano ogni settimana affinchè le opinioni e i valori dei cittadini di ogni parte del mondo abbiano un impatto sulle decisioni globali dei governi e delle multinazionali. I membri attivi di Avaaz vivono in ogni nazione del mondo, mentre la squadra operativa del team di coordinamento è distribuita in 19 paesi in 6 continenti diversi, e opera in 14 lingue. Ovviamente Avaaz è presente su Facebook e su Twitter, con oltre 700.000 tra fans e followers.
Sul sito www.avaaz.org , che è la principale piattaforma di lavoro dell’organizzazione, si dichiara che lo staff di Avaaz scrive le e-mail alla comunità nello stesso modo in cui un assistente scriverebbe le cartelline informative a un Presidente o a un Primo ministro: c’è solo un momento per convogliare tutta l’informazione di cui il lettore ha bisogno per decidere se impegnarsi in una campagna o meno, e la sopravvivenza della campagna stessa dipende da quella decisione. Per valorizzare quel momento di attenzione, è dovere dello staff trovare il modo migliore in cui un paio di minuti – moltiplicati per un grande numero di persone – possa fare una differenza genuina su qualcosa di importante.
Ma non è lo staff di Avaaz a decidere l’agenda, a convincere i membri su ciò che c’è da fare, anzi, è l’opposto: lo staff ascolta i membri che suggeriscono le azioni che si possono intraprendere per incidere nel mondo. Non è un caso, quindi, che le migliori campagne siano state proprio suggerite dai membri di Avaaz. La leadership è una parte critica del servizio ai membri: nella vita di un problema o di una causa, sorge talvolta un momento in cui va presa una decisione, e improvvisamente un appello pubblico può fare la differenza, ed è in quell’esatto momento che Avaaz interviene.
L’organizzazione è interamente finanziata dai membri, nessun importante gruppo economico e nessun governo può insistere perché Avaaz sposti le sue priorità sulla base di un’agenda esterna: Avaaz dichiara di non accettare finanziamenti da governi o aziende. Tuttavia, è bene dare spazio anche alle voci critiche verso Avaaz, provenienti da diverse fonti della sinistra estrema che –invero con toni spessi di complottisti- accusano l’organizzazione di promuovere istanze spesse volte “contigue” agli interessi occidentali, comprovate – a loro dire – sia dai rapporti tra Avaaz e l’analoga organizzazione “MoveOn”, vicina al Partito Democratico USA del Presidente Obama e sostenuta anche dal magnate ungherese George Soros, che dai rapporti esistenti tra Ricken Patel, uno dei fondatori di Avaaz, e il patron della multinazionale informatica “Microsoft” Bill Gates. Gli stessi critici di Avaaz però difendono gli interessi cinesi, definendo il Dalai Lama un “separatista feudale”, e all’inizio dei disordini in Siria si sono schierati a favore del regime, definendo i massacri di civili delle “sicure falsità” ed elogiando il lavoro di Assad come “molto avanzato sotto il profilo dei diritti sociali a favore dei lavoratori”.
Più preoccupanti – se confermate – le tecniche a volte border-line utilizzate da alcuni attivisti di Avaaz per promuovere attacchi ai siti di note aziende e multinazionali, se è vero che alcuni relatori pubblici accusano l’organizzazione di peccare di scarsa autenticità utilizzando profili Twitter “fake” per viralizzare le proprie azioni di protesta.
In ogni caso, le petizioni di Avaaz hanno fatto la differenza in più di un’occasione, dal sostegno agli scioperi della fame anti-corruzione in India al blocco di leggi anticostituzionali in diversi paesi Africani, da iniziative contro la tratta delle bambine a fini sessuali, al contributo dato al blocco della costruzione di una mega diga in Amazzonia. Avaaz ha anche avviato alcuni progetti off-line in linea con le proprie policy: ad esempio, durante la primavera araba ha finanziato con le donazioni di quasi 30.000 Avaaziani una fornitura in Siria, Yemen e Libia di telefoni di ultima generazione, modem internet satellitari e apparecchi per la comunicazione, permettendo così ad attivisti per i diritti umani di entrare in connessione con i principiali media del mondo e creando l’opportunità di rilanciare notizie con servizi e testimonianze per la CNN, BBC, Al Jazeera e molte altre televisioni e radio occidentali.
Questo per quanto riguarda la storia e le modalità di funzionamento dell’organizzazione. Ma nulla di tutto ciò che ho letto in 20 anni di professione renda più l’idea di cosa sia il web 2.0 che non questo messaggio, apparso in queste ore sul sito di Avaaz e rilanciato istantaneamente su tutte le email degli aderenti:
“Cari amici, la settimana scorsa Ria, un’iscritta di Avaaz nel Regno Unito, ci ha spedito queste parole:
‘Ho 65 anni, sono malata terminale di cancro e mi rimane poco da vivere. Per colpa della mia malattia posso fare molto poco. Mi spezza il cuore vedere il livello di violenza a cui siamo arrivati e lo stato in cui versa il mondo oggi. Attraverso la vostra organizzazione perfino io posso fare la differenza e provare a migliorare il mondo in cui viviamo prima di lasciarlo. Questa è un’azione positiva e pacifica che mi dà un grande conforto. Non sono più impotente e inerme: posso votare, e ora ho il potere di cambiare le cose! Grazie per avermi dato questa opportunità preziosa in un tempo come il nostro. La pace e la democrazia in Siria sarebbero per me un ultimo regalo fantastico, ma comunque, vi ho inviato questo messaggio solo per dirvi grazie per dare a così tante persone di cuore una voce che ora è ascoltata in tutto il mondo. 15.000.000! Che voce con cui essere ascoltati. Grazie a tutti voi’. Noi di Avaaz abbiamo letto questo messaggio durante una chiamata in cui era presente tutto il team mondial: eravamo così scossi che abbiamo raccolto le nostre foto con messaggi di speranza e affetto da mandare a Ria per esprimerle la nostra gratitudine. E poi abbiamo capito che Ria meritava più del ringraziamento che le avrebbero potuto dare i membri del team. Quindi dedichiamole due minuti del nostro tempo per ringraziarla per le sue parole e condividiamo i nostri messaggi di speranza: Lei è sintonizzata in diretta sulla pagina dalla sua casa in Inghilterra proprio ora mentre le nostre parole e foto scorrono: http://www.avaaz.org/it/ria_hope/?buBGOab&v=16655
Attualmente sul sito di Avaaz sono già oltre duemila le pagine di post con foto, messaggi, videoclip e “ultimi saluti” per questa donna che sta morendo di tumore, e continuano ad aggiungersi a ritmo continuo al link che vedete sopra, da tutto il mondo.
Come un’originale comunità paleo-cristiana in versione 2.0, Avaaz elegge i propri Vescovi democraticamente, acclamando a forza di click le cause che decide di sostenere, e si propaga viralizzando fluidamente se stessa ai quattro angoli del pianeta.
La potenza di internet e la forza delle community on-line si rivela una volta di più semplicemente straordinaria: chi non comprende e fa suo questo aspetto del nostro vivere contemporaneo, a mio avviso non ha alcuna speranza di successo nel futuro della nostra professione.




Svezia , la democrazia via Twitter finisce ostaggio della bionda Sonja

Polemica per i messaggi sugli ebrei dell’account “Nazionale”
La Svezia questa settimana è lei: Sonja Abrahamsson, 27 anni, due figli, single. “Una mamma poco colta – così si definisce – che però non si droga e non si prostituisce”. Una Blogger che “scrive, interviene ogni tanto alla radio” e non fa progetti : “Pensare al futuro chiaramente non è la mia specialità”. Una svedese qualunque, un ambasciatrice speciale: il governo di Stoccolma (lente del turismo) l’ha scelta per rappresentare nove milioni di svedesi. Via Twitter: l’idea sarebbe costruire l’immagine (la reputazione?) di un paese attraverso il social network più hot del momento. Roba seria: “nell’epoca della comunicazione di massa la prosperità di una nazione dipende largamente dal modo in cui è considerata all’estero”. Ecco dunque che la Svezia si vanta “ di essere il primo paese al mondo ad avere affidato l’account ufficiale di Twitter ai propri cittadini”. Il progetto si chiama “ Curators of Sweden” e la sua lingua è l’inglese. Ogni settimana, uno svedese “comune” (proposto dagli internauti e scelto da una giuria di tre persone) si prende il piacere e la responsabilità di scrivere dalla postazione @Sweden diventando “il reggitore unico del profilo Twitter più democratico del mondo”. Ogni settimana, un curatore diverso. Finora si sono alternati in trenta. Gente di ogni tipo (quasi tutti giovani). Bibliotecari soddisfatti, camioniste lesbiche, allevatori di pecore, pubblicitari, avvocatesse mussulmane. Il più giovane 18 anni, il più maturo 60. Il primo (il progetto è partito lo scorso dicembre), Jack Werner, si è procurato migliaia di seguaci e una menzione del New York Times per il suo nomignolo (“Masturbating Swede”) ottenuto avendo ammesso con onestà la sua attività preferita (oltre a bere caffè e stare con li amici). L’ultima è Sonja la lappone, che viene dal paesino di Latikberg (“vuol dire montagna dei lamponi” precisa lei) dove “tutti sono parenti e possiedono un trattore”. Sonja (come gli altri “curatori”) oltre al trattore e alle renne (“da noi trovi pane e carne di renna in ogni negozio”) conosce bene internet: cura un blog, “scrive cose” e la settimana scorsa guarda caso ha scritto sul sito Nyheter24 un articolo sull’importanza di “potersi esprimere pubblicamente su argomenti delicati” perché altrimenti “ il rischio è urlare cose sgradevoli in un bosco dove massimo ti risponde il latrato di un cane lontano”. Sonia questa settimana si esprime per il proprio Paese. In mezzo a tweet banalmente simpatici sui figli che dormono e sulla carne di renna, ha buttato in Rete alcune considerazioni sugli ebrei. “Al mio paese non cci sono ebrei” immagino che si tratti di una religione. Ma perché i nazisti parlavano in termini di razza?”. “Una volta ho chiesto a un collega chi fosse un ebreo. Lui tra l’altro era mezzo ebrei. Mi ha risposto “ehm, gli ebrei sono… gente colta?”. Poi il riferimento storico: “Nella Germania nazista agli ebrei cucivano persino stelle sulle maniche”. E ancora: “Non si puoi riconoscere un ebrei a meno di non vederne il pene, e anche in questo caso non si può essere sicuri…”. Risposte di fuoco tra i 28 mila seguaci di @Sweden. Chi l’ha chiamata sarcasticamente “mio Fuhrer”. Chi l’ha inviata a stare zitta: “Noi ebrei siamo persone normali, non capisci quanto sei offensiva?”. Qualcuno (come @lisaschamess) si è mostrato più comprensivo (“Da ebrea non mi sento offesa per le tue domande”). Dall’America il presentatore Stephen Colbert si è proposto il “mistero svedese di Twitter” per sostituire ka bionda lappone e prendere il controllo dei cinguettii nazionali. Lei Sonia si è subito scusata con un paio di messaggio che suonavano sinceri “Non volevo offendere nessuno. Semplicemente non capisco perché certa gente odia tanto gli ebrei”. Patrick Kampmann, direttore dell’agenzia che ha sviluppato il progetto per conto del governo, non commenta. Quanto pesano i passi falsi (o ingenui)  di Sonja per l’immagine del Paese? Via Twitter il pubblicitario Jeff Jenkins fa pollice verso: “Come affondare un band in un colpo solo”. Nell’ “era della comunicazione di massa” meglio affidarsi al vecchio strumento dei testimonial, tipo Ibra o gli Abba?




Consultazione pubblica sui principi fondamentali di Internet

E’ in corso una consultazione pubblica sulla internet governance. In Italia il processo è seguito dal MIUR (Ministero Pubblica Istruzione).
Puoi scaricare il documento aggiornato a settembre 2012 con la posizione italiana sul tema, e a questo link: http://discussionepubblica.ideascale.com/, partecipare attivamente alla consultazione.




Rp Lab – Vendere realtà o fiction?

Un ambito delicato, quello sanitario. Una strategia di comunicazione poco accorta e la crisi è quasi inevitabile. Le Rp servono a fornire soluzioni ai problemi delle imprese o ad eluderli?
Allerta fuffa. Ha suscitato clamore la discutibile strategia di Relazioni pubbliche dell’agenzia americana Gymr,specializzata nel campo sanitario. Incaricata dall’Associazione Psichiatrica Americana (APA) di rispondere alla pioggia di repliche sul controversoDSM-5, la versione più recente del Manuale delle Patologie Mentali che costituisce il riferimento istituzionale per l’intero mondo clinico americano.
Gymr ha trovato una situazione già compromessa dalla strategia conflittuale seguita da un responsabile Relazioni pubbliche ingaggiato dal Dipartimento della Difesa che aveva bollato pubblicamente come “persone pericolose” i giornalisti che indagavano sulle gravi lacune delDSM-5. A quel punto la contro-strategia della Gymr è stata quella di seguire un approccio morbido e imbastire un sito web fondato però su contenuti ingannevoli. Invece di rispondere alle domande della comunità scientifica e dei giornalisti, il sito in questione ripete cose già dette oppure espone affermazioni infondate.
L’autorevolezza dell’APA, insieme alla condizione di milioni di pazienti, delle loro famiglie e delle strutture mediche, è incrinata da questa tattica di contenimento dei danni basata sull’uso non scientifico di informazioni scientifiche. E’ un caso singolo, che però sfiora un nervo sensibile: quant’è elastico il concetto di verità, nel campo delle Relazioni pubbliche, soprattutto su Internet, quando non c’è un incontro diretto e documenti stampati?
Un recente sondaggio di una società di Rp americana, la Globenewswire,ha rivelato che oltre l’80% dei responsabili pr di aziende usa Internet e i social media per creare contatti di qualità e intavolare progetti di comunicazione a medio-lungo periodo – e non per cercare il “pitch”, il colpo ad effetto, l’operazione di maquillage momentaneo.
Appunto, immagine o sostanza. Questo è il problema, ancora oggi, soprattutto per le Relazioni pubbliche, in una congiuntura dove la “fiction” estemporanea sembra una soluzione così facile e così allettante rispetto a problemi molto più complicati, persino da comunicare. Subentra anche una questione deontologica: l’uomo delle Rp è una sorta di Don Draper o comunque un imbonitore che con trovate “pubblicitarie” devia l’attenzione dai reali problemi? E’ anche una domanda da rivolgere ai clienti: cercano soluzioni ai problemi oppure diversivi per eludere i problemi? La verità inizia sempre con le domande più difficili.




Business sostenibile, opportunità da 6,2 trilioni di dollari

Perrini (CReSV): «Ne beneficeranno soprattutto i first mover». Occorre però un piano industriale per un’economia ecologica
«In fondo, per litigare con il re bisogna usare il suo linguaggio, indipendentemente dal fatto che le premesse del discorso siano ragionevoli», scrive l’antropologo David Graeber nel suo ultimo saggio, del quale uno stralcio è ripreso oggi da la Repubblica. Domandarsi dunque quanto vale la sostenibilità per un’impresa, pragmaticamente, non è una domanda peregrina. Dovrebbe essere ormai sottointeso che un radicale cambio di paradigma socio-economico (quel che davvero occorre per parlare sul serio di sostenibilità) non possa prescindere anche da un’ecologia di linguaggio e di pensiero che non riconduca ogni aspetto della vita ad un riduzionismo economicista. Precisato questo, fare i conti col mondo reale significa anche ragionare di “vil denaro” (in particolar modo in tempo di crisi), che all’interno di un rapporto responsabile rimane un mezzo e non un fine, e “vile” non è più.
Proprio sulla responsabilità si incentra “Dal Dire al Fare” – Il salone della Responsabilità sociale d’impresa, che torna per la sua ottava edizione all’Università Bocconi di Milano, con un fitto programma che si conclude oggi. Francesco Perrini, direttore del CReSV (Centro ricerche su sostenibilità e valore), al proposito ha avuto modo di affermare che «Diventare socially responsible è da un lato una meta ambiziosa che impone l’utilizzo di molte risorse ed energie, ma in un’ottica di lungo periodo, permette di creare valore sostenibile, offrendo quindi maggiori opportunità alle aziende per diventare più competitive ed efficienti nel loro operato nel rispetto delle future generazioni e per tentare di uscire da questa crisi del capitalismo finanziario».
È stato proprio l’intervento di Perrini – intitolato “Verso il valore sostenibile: traiettorie di diffusione” – a fare da apripista alla prima sessione di convegni del salone (che ospita oltre novanta organizzazioni), concentrati quest’anno sul tema dell’innovazione, in un contesto “dove cambiano i prodotti, i consumi, il mondo del lavoro, le relazioni”.
«Il ritorno economico della sostenibilità viene misurato in maniera innovativa e quindi non solo come rendimento o profitto generato del denaro investito – sottolinea il direttore CReSV –  ma come un investimento ad utilità pluriennale che abbassa il rischio d’impresa, ne aumenta la reputazione, apre nuovi mercati, crea valore di lungo periodo assicurando la sopravvivenza dell’impresa che si rinnova e resta sul mercato. La vera domanda che tutti si fanno è: come facciamo a capire se la Csr (corporate social responsabilità) crea o distrugge valore? La risposta dipende dalla prospettiva, se adottiamo la prospettiva del valore allargato (valore aggiunto creato per gli stakeholder) invece che del profitto o valore dell’azionista. La superiorità delle aziende sostenibili rispetto a quelle non, e la loro capacità di soddisfare meglio lo spettro allargato di portatori di interesse della società, garantisce una maggiore sostenibilità di lungo termine». Una teoria avvalorata proprio dallo studio condotto dal CReSV – che è attivo sul tema della sostenibilità come leva per la creazione di valore – e presentato a “Dal Dire al Fare”. Condotto su un campione di 102 aziende europee attive in variegati settori economici, tale studio evidenzia che le aziende “sostenibili” – termine che poi andrebbe verificato davvero nella sua rispondenza a criteri unici e riconosciuti di reale sostenibilità ambientale e sociale –  hanno (o avrebbero) il 70% di possibilità in meno di subire un fallimento.
«La sostenibilità è un fattore strategico ma anche opportunità di business: tali opportunità legate alla sfida dello sviluppo sostenibile sono stimate in 6,2 trilioni di dollari, di cui beneficeranno, in primo luogo, i first mover», queste le conclusioni di Perrini, che di per sé dovrebbero suonare insieme come un augurio ma anche un campanello d’allarme per l’economia del nostro sistema-Paese.
Rimanere al palo nel riorientare i nostri processi industriali in un’ottica di economia ecologica (incentrata dunque sulla sostenibilità ambientale e sociale, con particolare attenzione ai flussi di materia ed energia consumati ed espulsi) vorrebbe dire arrivare tra i second o third mover, perdendo il treno di un nuovo e sostenibile canale di business, per arrancare ancora una volta come fanalino di coda ad altri Paesi, più accorti al cambiamento – ineludibile – in atto. Tornare a creare lavoro e costruire al contempo lo scheletro di un’economia reale davvero sostenibile (al netto del greenwashing e di tutti quelli che usano la parolagreen o quella bio per “vendere” di tutto e di più) impone il coraggio e la tenacia di individuare una strategia industriale, e spetta al settore pubblico collaborare con le imprese perché questa possa realizzarsi, pena rimanere indietro e fare l’amara fine di Don Abbondio: «in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiar in compagnia di molti vasi di ferro».