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NONVIOLENZA E BUSINESS: COME COMUNICARE LA NECESSITA’ DI UN COMPORTAMENTO DI TIPO COOPERATIVO IN AZIENDA

Luca Poma intervista Federico Fioretto(1), esperto di Nonviolenza applicata alla vita aziendale
Cos’è la nonviolenza oggi, nel nostro mondo, secondo la tua visione?
Un modo di vedere vita e lavoro, e anche una metodologia concretamente applicabile, che pone al primo posto la necessità di promuovere azioni per la risoluzione dei conflitti quotidiani nei quali tutti ci troviamo in qualche modo coinvolti. Un conflitto riduce in un certo senso il nostro potere su ciò che ci circonda, il nostro grado d’influenza, quanto del nostro potenziale mettiamo a frutto. La Nonviolenza quindi è un modo di pensare e di agire basato si su principi “spirituali”, ma che si traduce in un’etica estremamente pragmatica, comprensibile e praticabile da chiunque senza alcuno sforzo, anzi con una certa facilità. Tutt’altro che una visione relegata nel passato della storia, come alcuni possono pensare, la nonviolenza oggi è di estrema attualità e di pressante necessità, purché si sappia adattarne il contenuto etico al quotidiano in azienda senza prese di posizione ideologiche.
Perché ritieni che questo paradigma sia importante nel mondo degli affari e del lavoro?
Per una ragione molto semplice: le imprese, le organizzazioni produttive e di servizio sono composte da persone. Se l’obiettivo è quello di far rendere al massimo queste persone, il modo migliore e più efficiente di raggiungere quest’obiettivo è quello di permettere che gli individui esprimano il proprio potenziale appieno(2). Può forse sembrare banale, ma non lo è: chiunque lavora oggi a contatto con le persone in qualsiasi ambiente lavorativo e presta ascolto con onestà intellettuale al racconto del loro vissuto, deve ammettere che il livello di scontento e di stress è generalmente piuttosto elevato(3), e questo fa sì che il valore aggiunto della loro prestazione lavorativa non sia ottimale. L’approccio “spietato” al management dei decenni scorsi, quello che vedeva nelle persone solo dei soggetti da spremere fino all’osso, ha dimostrato tutti i suoi limiti con la crisi che ha colpito il mondo intero e non accenna sostanzialmente a ridimensionarsi. La violenza strutturale insita in un sistema di questo tipo può apparire buona per i miopi operatori della finanza che sbavano su profitti di brevissimo periodo, ma non costruisce valore nel tempo. Ho conosciuto aziende dove con la vecchia proprietà – quella del “padrone” che partecipava alle feste di comunione dei figli dei propri dipendenti – gli operai stavano svegli la notte per inventarsi modifiche che miglioravano il funzionamento delle macchine, magari con mezzi di fortuna e coniugando alla massima potenza passione e creatività. Dopo il passaggio a una proprietà multinazionale quando un macchinario si ferma, c’è disinteresse, non si fa altro che chiamare la ditta che ha in appalto la manutenzione. Questo accade perché non sono coinvolti nella vita e nelle strategie aziendali, non si sentono valorizzati né rispettati e non hanno più voglia di tirare fuori il meglio.  Quanto costa questo all’azienda in termini di mancata redditività? Un’enormità. E, come dimostrano studi approfonditi fatti negli Stati Uniti, non è solo un eventuale aumento di stipendio che li motiva(4).
Privilegiare comportamenti cooperativi – nonviolenti per definizione – potrebbe essere una valida soluzione?
Si, perché l’Uomo è una specie animale sociale, questo fa sì che abbiamo una predisposizione naturale a privilegiare comportamenti che apportano beneficio al gruppo piuttosto che solo a noi stessi come singoli individui. Per fare un esempio senza perderci in tecnicismi, ricordo la bellissima scena del film “A beautiful mind” nella quale con la metafora della conquista delle ragazze viene spiegata la base della Teoria dei Giochi che John Nash svilupperà e che lo porterà al Nobel per l’economia: l’essere umano vince quando persegue un obiettivo di gruppo, altrimenti si condanna alla sconfitta. E ci sono determinati comportamenti che sono inaccettabili perché minano la possibilità per la persona di avere un posto degno nel gruppo(5). Il concetto di dignità è vivissimo nell’essere umano, più di quanto pensiamo: una delle regole più semplici e più trascurate dal management, è che chi viene valorizzato al meglio darà tutto se stesso per il bene del gruppo cui sente profondamente di appartenere, mentre per contro chi si sente penalizzato diverrà – in modo più o meno conscio – un “sabotatore” del gruppo stesso, dando voce concreta alla sua voglia di ribellione. Se poi saboti attivamente, o semplicemente “si risparmi” facendo il minimo indispensabile e non promuovendo quindi sviluppo e benessere per il gruppo, questo dipende da caso a caso e da contesto a contesto.
Come è possibile tradurre nel concreto di una realtà aziendale questi concetti?
Bisogna ridefinire il concetto di “leadership efficace” del quale si parla tanto ma che è assai poco compreso.
Diciamo che il capo – o il vertice collettivo – di un’organizzazione, secondo il tipo di leadership esercitato(6), detiene un “potere apparente” e un “potere reale”. Il potere apparente è quello che consente di “piegare” le persone al proprio volere in funzione delle proprie deleghe. E’ costituito da un insieme di elementi di forza coercitiva dovuti principalmente alla forza del mandato ricevuto ma soprattutto alla possibilità di soddisfare i bisogni materiali dalle persone sottoposte alla sua autorità, dunque è basato su un meccanismo di “bastone e carota”: il metodo Marchionne, per capirci. Questo potere è in grado di produrre risultati mediocri in termini sia di qualità della produzione sia di capacità d’innovazione e dunque, in ultima analisi, di competitività dell’organizzazione. Il potere reale, e dunque veramente efficace, è quello che viene dalla forza del ruolo di modello di valori vissuti e condivisi testimoniato in prima persona dal leader(7), dalla capacità di radunare dietro e di fianco a sé i cuori delle persone che si comandano, dall’intelligenza di saper di coinvolgere i propri collaboratori in una missione comune, lungimirante e ben definita, della quale sia compreso da tutti il potenziale di creare benefici diffusi e non solo riservati ad alcuni individui. In una situazione di questo tipo ognuno sa di poter trovare una gratificazione personale secondo i propri limiti e le proprie aspirazioni contribuendo nel contempo al bene della collettività, il che è umanamente essenziale. Questo tipo di leadership – anche questo è dimostrato ampiamente dai più recenti studi sulla competitività delle aziende che applicano serie politiche di sostenibilità e responsabilità sociale – produce performance più significative nel lungo periodo e dunque maggiori profitti per tutti(8).
Questo tipo di leadership dipende da qualche dote innata o può anche essere acquisita?
Appartiene alla natura umana, ma certamente può essere appresa, anche perché no con l’aiuto di un buon consulente specializzato in queste specifiche tematiche. Certamente ognuno potrà raggiungere il massimo della propria capacità di leadership: non possiamo parametrarci a standard eguali per tutti. Non tutti siamo Gandhi o Adriano Olivetti, per restare nel campo imprenditoriale, ma ognuno può essere se stesso al 100% del proprio potenziale, e questo è già tantissimo. Si possono raggiungere risultati veramente straordinari con un rapporto costo efficacia impressionante, poiché il contributo che persone coinvolte, motivate e gratificate possono portare al successo di un’organizzazione è davvero oltre ogni capacità d’immaginazione.
 
Note:

  1. Federico Fioretto è un consulente e formatore specializzato nello sviluppo di progetti di sostenibilità, con particolare focus sulla risoluzione dei conflitti nell’ambiente di lavoro. La sua passione è creare per le aziende strumenti di marketing e nuove linee di business che diano risposta alle pressanti domande sociali del vivere contemporaneo, creando benessere diffuso e significative economie di sistema (informazioni tratte da www.federicofioretto.eu )
  2. E’ anche uno dei parametri adottati dal modello EFQM (European Foundation for Quality Management) per l’eccellenza sostenibile, adottato da più di 30.000 aziende nel mondo per raggiungere l’eccellenza nella gestione dei propri affari. EFQM Model 2010, Brussels, EFQM Publications.
  3. L’80% degli europei in età attiva si attendono un aumento dello stress sul lavoro nei prossimi 5 anni e il 52% che l’aumento sarà “marcato” (Fonte: Studio IPSOS Mori per conto Agenzia Europea per la Salute, Sole 24 Ore 28/3/2012).
  4. T. Teretz, 22 Keys to Creating a Meaningful Workplace, 2000, Avon, MS, Adams Media.
  5. Jones D. O., Goldsmith T. H., Law and behavioral biology, in Columbia Law Review, Vol. 105. Dic. 2005, New York, Columbia University.
  6. Page D., Finding meaning through servant leadership in the workplace, documento presentato al Servant Leadership Symposium at the International Conference on Searching for Meaning in the New Millennium, July 13-16, 2000, Vancouver, BC.
  7. In base al modello EFQM è un criterio di eccellenza dell’impresa. EFQM 2010, cit. alla nota 2.
  8. Eccles R. G., Ioannou I., Serafeim G., The Impact of a Corporate Culture of Sustainability on Corporate Behavior and Performance, 2010, Harvard Business School, Cambridge, MS.

 




TESI DI LAUREA: Aspetti evolutivi della misurazione e comunicazione delle performances d'impresa: l'integrated reporting. Analisi di alcuni casi aziendali.

Università commerciale “Luigi Bocconi”
Facoltà di Economia – Corso di Laurea magistrale in Amministrazione, Finanza e Controllo
Anno Accademico 2011/2012

Aspetti evolutivi della misurazione e comunicazione delle performances d’impresa: l’integrated reporting. Analisi di alcuni casi aziendali.

Tesi di Laurea specialistica Alessandra Magni – Relatore Prof. Lucrezia Songini

A questo link, il testo integrale della Tesi (134 pagine), qui di seguito, il testo dell’Introduzione della tesi:


INTRODUZIONE

Il tema della Rendicontazione Integrata d‟impresa in questi ultimi anni sta diventando sempre più di grande attualità; tuttavia, come anche osservato in occasione del salone dedicato alla CSR – “Dal Dire al Fare” – svoltosi presso l‟Università Bocconi il 30 e il 31 Maggio 2012 «tanti ne parlano, ma pochi lo conoscono». A oggi non esistono ancora delle Linee Guida definitive in materia: le uniche disponibili – quelle dell‟IRC e dell‟IIRC – sono ancora in fase di revisione e rielaborazione; in assenza di chiare e univoche indicazioni dominano confusione e scetticismo, con la conseguenza che poche aziende decidono d‟intraprendere questa strada (al 2011solo il 4% delle G250, le 250 più grandi società al mondo).
L‟obiettivo della presente trattazione è stato approfondire la conoscenza dell‟argomento, evidenziando le origini del tema, gli aspetti controversi, le problematiche e i benefici d‟implementazione. Si è inoltre cercato di dimostrare che
la Rendicontazione Integrata rappresenta in primo luogo un‟innovazione di processo – perché comporta cambiamenti organizzativi e culturali – e in secondo luogo un‟innovazione di prodotto. Da qui l‟esigenza di distinguere fra Integrated Reporting e Integrated Report, due espressioni spesso usate indistintamente ma che vedremo avere due significati profondamente differenti.
Prima di affrontare nel dettaglio le peculiarità della nuova frontiera della
rendicontazione d‟impresa, si è deciso di ripercorrere gli step fondamentali che
hanno caratterizzato i percorsi di rendicontazione delle aziende in questi ultimi
decenni.
Nel primo capitolo, intitolato “Voluntary e mandatory disclosure delle performance di sostenibilità”, si sono messi in luce i principali cambiamenti conseguenti alla
diffusione del concetto di “accountability”: sostanzialmente l‟ampliamento delle
categorie di soggetti cui l‟impresa si deve rivolgere e l‟arricchimento dei contenuti
della comunicazione aziendale, ora chiamata a essere chiara ed esplicita anche in
merito alle tematiche di sostenibilità. Da qui l‟esigenza di ricorrere alla “voluntary
CSR disclosure”.
Nel secondo capitolo, intitolato “Oltre il bilancio d’esercizio: strumenti di comunicazione volontaria delle performance d’impresa”, si sono sintetizzate le
caratteristiche dei modelli e degli strumenti di rendicontazione ambientale (par. 2.2.), sociale (par. 2.3.) e di sostenibilità (par. 2.4.) che negli anni si sono progressivamente affiancati al tradizionale bilancio d‟esercizio, ormai inadeguato a
esaurire i crescenti fabbisogni informativi delle molteplici categorie di stakeholders,
essendo troppo polarizzato sulle valutazioni quantitativo/monetarie.
Con il terzo capitolo, “Il Reporting Integrato: la nuova frontiera della rendicontazione
d’impresa”, si entra nel merito della trattazione; da esso emerge che la vera innovazione nella reportistica del XXI secolo, non risiede esclusivamente nella
rappresentazione retrospettiva e incrociata dei risultati finanziari e non finanziari
(Integrated Report), ma consiste soprattutto nell‟integrazione degli approcci
manageriali, che può realizzarsi solo in seguito a un radicale cambiamento culturale
e organizzativo (Integrated Reporting).
Infine, il capitolo quattro“Criticità d’implementazione del One Report: analisi di
alcuni casi aziendali” – è interamente dedicato allo studio di tre realtà italiane – Guna, Sorgenia e Banca Fideuram – accomunate dal loro attuale impegno e interesse sui temi della Rendicontazione Integrata. Attraverso delle interviste effettuate ad alcuni esponenti aziendali coinvolti a vario titolo nei temi della reportistica d‟impresa, si è studiato il loro percorso di rendicontazione, esaminando le motivazioni che le hanno portate all‟adozione del One Report; si è poi condotta un‟analisi volta a individuare le tipologie di cambiamenti organizzativi e culturali che si sono dovuti affrontare; infine, si sono analizzati gli sforzi e i costi sostenuti per adeguarsi agli approcci della Rendicontazione Integrata, verificando in quale misura questi abbiano procurato i benefici attesi




L'European CSR Award Scheme al progetto "Medicina interculturale" in Paraguay

GUNA Spa, l’azienda farmaceutica leader in Italia nel settore delle medicine naturali, per la quale da alcuni anni con il mio staff seguo con passione le strategie di comunicazione, è stata premiata a Bruxelles come “best in class” italiana, e inclusa tra le prime 60 aziende europee per le politiche di responsabilità Sociale di Impresa: leggi l’articolo




Il perfetto bilancio sociale? Lo Us Army

PARADOSSO: IL PENTAGONO PROMOSSO PER I SUOI REPORT ESG
Da quattro anni, il Dipartimento della Difesa statunitense pubblica il rapporto di sostenibilità dello Us Army. Un documento formalmente impeccabile, redatto secondo gli standard del Gri, e che raggiunge il livello ragguardevole di “B”, perché fornisce informazioni su almeno 20 degli indicatori richiesti dal Gri. «In particolare – si legge nel report – degli 87 indicatori previsti dal Gri, l’esercito ne rendiconta per intero 37 e parzialmente altri 25, un miglioramento rispetto al report 2010 dove erano rendicontati interamente 33 indicatori e parzialmente altri 21».
Anche lo Us Army non vuole essere da meno nello sforzo collettivo di tutelare risorse pubbliche, non sprecare energia, terra e acqua potabile, ricorrere a fonti rinnovabili, tutelare le specie in via di sparizione, ridurre i componenti tossici e quant’altro si possa fare per contribuire alla sostenibilità del Pianeta. «Army green is Army strong» è il finale dell’introduzione firmata dal sottosegretario all’Esercito Joseph Westphal.
Di sicuro, la trasparenza non manca. Per cominciare, al centro della seconda pagina è ben in evidenza il costo del report: 229mila dollari. Poi sono dettagliati i vari programmi per aumentare l’efficienza energetica ed esemplificati gli sforzi per ridurre al minimo i materiali rischiosi anche da parte dei fornitori, ridurre l’utilizzo di acqua e di carburante durante le esercitazioni anche al fine di tutelare il territorio, tutelare al massimo la sua risorsa più preziosa, cioè il capitale umano, e preoccuparsi che servizi e infrastrutture siano gestiti all’insegna della sostenibilità e delle energie rinnovabili.
Un documento che, però, può sembrare un paradosso: l’attività di un esercito produce ben altri effetti negativi che non quelli di consumare acqua, inquinare producendo Co2 o fare uso di materiali nocivi.
«Mi rendo conto che il documento possa apparire bizzarro – ammette Davide Dal Maso segretario generale del Forum per la  Finanza Sostenibile e membro consiglio direttivo Csr Manager Network -. Il ruolo di un esercito è una questione controversa e l’operazione può sembrare opportunistica o addirittura cinica. Ma bisogna pur dire, in generale, che quanto maggiore è il numero di organizzazioni che sentano di dar conto delle proprie performance ambientali sociali, meglio è. Soprattutto se la rendicontazione è allineata a standard che limitano o circoscrivono la possibilità di raccontare ciò che si vuole. Il report è conforme a linee Gri, con livello B, un livello medio-alto. Può disturbare il senso etico e in parte condivido il disagio a livello personale, ma ci sono molte imprese che operano in settori controversi e che comunque si posizionino sul terreno della responsabilità sociale: per esempio l’industria degli armamenti e della difesa. Alcuni criticano anche il settore farmaceutico. Ma è una valutazione di ordine morale che non può che essere lasciata a livello individuale. Anche l’oil & gas è per forza di cose non sostenibile, come l’auto. Ma queste organizzazioni fanno un’attività legale e non possiamo che prenderne atto e sperare che nella loro attività si comportino in modo quanto più responsabile possibile. Da un punto di vista tecnico è un fatto che va registrato con favore».
«Il fatto è peculiare, ma è un bell’atto di public disclosure il fatto che un esercito ritenga di avere obblighi in sostenibilità – sostiene Aldo Bonati, capo del dipartimento di ricerca di Ecpi, istituto che svolge attività di ricerca, di assegnazione di rating e costruzione di indici di sostenibilità -. Che pubblicamente l’esercito americano dica di avere responsabilità in termini di sostenibilità è un fatto positivo: meglio pubblicare il report che non pubblicare niente come fanno negli altri Paesi».
Per quanto riguardo il principio, dunque, gli esperti sono d’accordo sul fatto che chiunque senta il dovere di pubblicare un report di sostenibilità è da apprezzare. Ma per quanto riguarda i contenuti? «Le informazioni presenti sono numerose, coprono uno spettro ampio. Dal punto di vista della qualità del prodotto ci siamo», dice Dal Maso.
Tuttavia, nella parte sui social indicators si trovano numerosi omissis (“Not reported”), che però in diversi casi (e di questo va dato atto) rinviano ad altre fonti governative e comunque denotano uno sforzo di chiarezza. «L’esercito – si legge nel report – non dà il resoconto su molti degli indicatori del Gri in tema di lavoro, diritti umani, società». Come era da attendersi, è più completa la parte sull’ambiente rispetto a quella sociale.
«Alcuni aspetti chiave non sono trattati in modo abbastanza esplicito – dice Bonati -. E’ estensiva la parte relativa all’ambiente, ma le parti più rilevanti per lo Us army sono i diritti umani (penso al trattamento dei prigionieri nei campi di prigionia) e le armi meno convenzionali come le bombe a grappolo, le mine anti-uomo, armi nucleari e armi biologiche. Per i diritti umani ci sono, comunque, regole internazionali che mi sembra siano deviate e ci sono rimandi generici sui training fatti ai militari in tema di diritti umani. Laddove si parla di human capital trovo bello che si parli dei veterani, un tema sempre più importante, ma nell’ultima guerra durata dieci anni molti militari erano giovani e provenienti da classi meno abbienti: è importante gestire un loro rientro nella vita comunitaria. Di loro si parla poco. Anche nel caso delle morti accidentali si citano gli incidenti in motocicletta o guidando la propria auto, ma non si parla dei suicidi, che non sono classificati. E il suicidio è un indicatore dell’efficienza maggiore o minore del sistema per gestire un sano rientro a casa».




Csr, un valore per viaggiatori e tour operator

BANK SARASIN: TRA LE PROMOSSE ANCHE L’ITALIANA AUTOGRILL
La corporate social responsibility diventa un fattore critico di successo anche per le società del settore turismo. Lo dimostra, se mai ci fosse bisogno di un’ulteriore conferma, l’ultimo studio firmato Bank Sarasin sulla sostenibilità delle aziende comprese nel macrocomparto viaggi e tempo libero. Il tutto parte da una tendenza inarrestabile. Ormai una quota vicino al 50% dei viaggiatori dichiara di voler prendere la “sostenibilità” dell’offerta e della meta come variabile rilevante con cui decidere che prenotazioni fare.
In questo contesto è naturale osservare che programmi comprensibili di approccio sostenibile da parte di catene di hotel e tour operator “illuminati” vengono attualmente sempre più perseguiti tramite il progetto internazionale di azione di politiche ambientali e di sviluppo conosciuto come “Agenda 21”. I tour operator che si indirizzano verso un’attività guidata dal rispetto dei temi della sostenibilità, ne beneficiano in almeno due modi. Infatti, non solo registrano un tasso di crescita maggiore e fidelizzano di più la clientela rispetto ai concorrenti meno attenti alla Csr, ma anche osservano un minor consumo di risorse sperimentando un maggior risparmio di costi. Tutti benefici che a loro volta si manifestano con un altro grande vantaggio: un maggior interesse da parte investitori nel puntare in Borsa sulle società del settore turismo più sostenibili. Alcuni nomi? Bank Sarasin segnala, tra le più interessanti come investimento tenuto conto delle variabili della sostenibilità, aziende come Kuoni, Accor e Whitbread. Ma c’è anche un’azienda italiana tra le promosse nella matrice della sostenibilità: Autogrill.
Gli analisti della banca svizzera sottolineano che l’attenzione alla sostenibilità rappresenta una grande opportunità per tutto il settore viaggi dopo anni di difficoltà pressato da paura di epidemia Sars, attacchi terroristici e tsunami. Nonostante queste problematiche le dimensione economiche del comparto nel suo complesso sono oramai impressionanti. Si calcola che nel 2012 sono stati registrati per la prima volta nella storia oltre un miliardo di viaggi internazionali. Senza dimenticare i circa quattro miliardi di spostamenti legati al turismo nazionale. Un trend globale destinato a crescere. La World Tourism Organization (UnWto) stima un aumento del volume di viaggi di almeno il 3,3% medio annuo da qui al 2030, con un rallentamento dell’espansione del tasso annuo dal 3,8% attuale al 2,5% del 2030. Con questi numeri il turismo spicca per essere uno dei settori economici con i più alti tassi di crescita. Già oggi genera almeno il 9% del Pil mondiale.
Peccato che l’industria del turismo ha anche un lato oscuro, un’anima ben poco “etica”. Basti pensare al consumo di risorse che genera, alle massicce emissioni nocive di gas a causa soprattutto degli spostamenti, alla distruzione di ambienti naturali per lasciar spazio a nuovi hotel, villaggi turistici, residence, porti e affini, e alle condizioni precarie di lavoro per gli occupati nel settore. Per capirne le dimensioni, prendiamo ad esempio il problema delle emissioni di gas: se il turismo fosse uno Stato, sarebbe al quinto posto nel mondo come più grande produttore di inquinamento di questa origine. Che è poi una sorta di autogol. Infatti questo tipo di emissioni ha un ruolo importante nel causare importanti cambiamenti climatici come la distruzione dei ghiacciai e la parallela scomparsa di spiagge, e come la diminuizione di precipitazioni nevose che danneggia il turismo invernale. Di tutto l’inquinamento da gas nocivo riconducibile al settore viaggi, ben il 39% è generato dalla CO2 emessa dai voli degli aerei, seguito con il 32% dal traffico sui ruote. Dunque in gran parte è generato dagli spostamenti, più che dal soggiorno. Un altro aspetto delicato a livello di impatto ambientale è quello del consumo dell’acqua.
In questo contesto è comprensibile che la crescente attenzione dei consumatori ai temi dell’impatto ambientale della loro azione porta gli stessi a essere sempre più sensibili alle offerte più attente ai temi della sostenibilità, selezionando mezzi di trasporto green, itinerari ecologici, destinazione e tipologia di sistemazione durante il soggiorno. E le risposte del mercato non stanno mancando. Ad esempio gli hotel che fanno del rispetto dell’ambiente il loro bigiletto da visita stanno aumentando la attenzione a contenere i consumi di risorse non rinnovabili o a elevato impatto ambientale.
I turisti sostenibili stanno imparando a riconoscere e ormai addirittura a esigere i titoli di riconoscimento di sostenibilità ambientale dei vari pacchetti viaggi e delle strutture di ricezione. Insomma, non si guarda più solo a quante stelle ha un hotel, ma se esibisce una rating di sostenibilità ufficiale. Uno di questo è il cosiddetto “ecological footprint”, letteralmente “un’orma di piede ecologica”, che rappresenta una sorta di strumento, un tool già diffuso per eseguire uno screening di sostenibiltà del pacchetto vacanza offerto. Utile a poter dare un bel calcio alle offerte poco “etiche” in termini ambientali.