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Le cause legali tra Blake Lively e Justin Baldoni, spiegate

Le cause legali tra Blake Lively e Justin Baldoni, spiegate

Martedì Justin Baldoni, regista, produttore e protagonista maschile del film It Ends With Us, ha fatto causa al New York Times per un’inchiesta su una presunta campagna di diffamazione che avrebbe messo in atto contro l’attrice Blake Lively, a sua volta produttrice e protagonista del film. Delle controversie tra i due attori si era cominciato a parlare ad agosto, durante la promozione del film negli Stati Uniti, perché i due non erano mai comparsi insieme. Sui giornali di gossip erano circolate voci sul fatto che Baldoni avesse avuto comportamenti poco appropriati sul set e poco dopo l’attore aveva assunto Melissa Nathan, nota esperta nella gestione di crisi reputazionali e pubbliche relazioni.

Dopo mesi di silenzio sulla questione da entrambe le parti, il 21 dicembre Lively ha presentato un reclamo formale – che da martedì è diventata una causa legale – contro Baldoni, in cui lo accusa di molestie sessuali e di aver organizzato una campagna con altre persone per rovinare la sua reputazione. L’articolo del New York Times è uscito lo stesso giorno, perché tre giornalisti hanno avuto accesso alle migliaia di messaggi e mail raccolte da Lively che sosterrebbero la sua versione. La storia è stata molto ripresa in questi giorni sui media internazionali, oltre che per la fama dei suoi protagonisti anche perché racconta molto bene come possano essere usati i social network per manipolare l’attenzione dell’opinione pubblica.

It Ends With Us di Colleen Hoover è stato uno dei romanzi rosa di maggior successo degli ultimi anni, e da quando è uscito nel 2016 ha venduto milioni di copie in tutto il mondo. Racconta l’innamoramento tra Lily (Lively), una giovane fioraia, e Ryle (Baldoni), un uomo più grande con una brillante carriera, che prende una piega drammatica quando emerge il tema della violenza domestica. Baldoni aveva acquisito i diritti per fare il film nel 2019 – quindi prima dell’enorme successo del libro, iniziato nel 2020 – con la sua società di produzione Wayfarer Studios. Nel 2023 era stato annunciato che il film avrebbe avuto come attrice protagonista Blake Lively, famosa (molto più di lui) tra le altre cose per essere stata la protagonista della serie Gossip Girl. Anche il film come il libro è stato un grosso successo commerciale, con 350 milioni di dollari di incassi.

La denuncia di Lively coinvolge, oltre a Baldoni, anche la Wayfarer e il suo altro fondatore, il miliardario Steve Sarowitz, il coproduttore del film Jamey Heath, Melissa Nathan, e altri due esperti di pubbliche relazioni: Jed Wallace e Jennifer Abel.

Jamey Heath e Justin Baldoni nel 2021 (Arnold Turner/Getty Images for Wayfarer Studios)

Secondo la ricostruzione del New York Times Lively formalizzò per la prima volta le proprie lamentele – le stesse contenute nella sua causa legale – a Baldoni e Heath in una lettera a novembre del 2023, quando le riprese del film ricominciarono dopo una pausa dovuta agli scioperi di Hollywood, e poi in una riunione a gennaio. Tra le varie cose criticò il fatto che Baldoni l’avesse baciata in modo improvvisato durante le riprese, che le avesse parlato della propria vita sessuale, che Heath le avesse mostrato una foto della moglie nuda e che entrambi fossero entrati senza permesso nella roulotte dove si stava preparando mentre era svestita e mentre allattava. Dopo quella riunione le furono garantite maggiori tutele, e fu assunto un intimacy coordinator, ossia un professionista che dovrebbe garantire che gli attori siano a loro agio mentre girano scene di sesso. In primavera Lively aveva detto che i comportamenti di Baldoni e Heath erano migliorati.

@nytimes

As the movie “It Ends With Us” became a box office success, online criticism of Blake Lively skyrocketed. A New York Times review of private messages and documents shows what happened after she accused Justin Baldoni, her co-star and the director, and Jamey Heath, the lead producer, of misconduct on set. Megan Twohey, our investigative reporter, explains the inner workings of an alleged Hollywood smear campaign that followed. Read the full investigation at the link in our bio. Video by Megan Twohey, Gabriel Blanco, Laura Salaberry, Rebecca Suner and Claire Hogan / The New York Times #BlakeLively #JustinBaldoni #ItEndsWithUs #IEWU #ItEndsWithUsMovie #Hollywood

♬ original sound – The New York Times

Sempre secondo la ricostruzione del New York Times, a maggio Baldoni si accorse che Reynolds, il marito di Lively e attore famosissimo per il personaggio di Deadpool nei film della Marvel, aveva smesso di seguirlo su Instagram. Intanto Lively aveva chiesto alla Wayfarer e alla Sony, la società di distribuzione del film, di non comparire in nessuna occasione accanto a Baldoni, e lo stesso aveva fatto l’autrice dei libri, Coleen Hoover, i cui rapporti con lui e con Heath erano peggiorati quando era venuta a sapere delle lamentele di Lively.

Blake Lively e Ryan Reynolds alla presentazione del film a New York (Cindy Ord/Getty Images)

Temendo che tutte queste cose potessero diventare pubbliche, in agosto Baldoni aveva assunto Nathan, che aveva già assistito tra gli altri Johnny Depp durante il processo contro la ex moglie Amber Heard, la cui reputazione uscì fortemente compromessa. Tra i messaggi citati nella causa di Lively c’è uno scambio in cui un collaboratore di Baldoni parla di «seppellire» Lively (riferendosi alla sua reputazione) e Nathan gli risponde: «sai che possiamo seppellire chiunque». Baldoni, Abel e Nathan si scambiarono allora diversi messaggi in cui parlarono esplicitamente di mettere in atto il loro piano per creare un’immagine negativa di Lively. Fu assunto Jed Wallace, definito dal New York Times una figura «enigmatica» e proprietario di una società di pubbliche relazioni e «opachi servizi di crisis management», che si sarebbe occupato soprattutto dei social network.

Ad agosto in effetti il racconto mediatico delle controversie tra Lively e Baldoni si spostò molto in fretta dalle presunte molestie di lui (di cui aveva scritto Page Six citando fonti anonime ma che non furono molto riprese dai giornali) alle uscite inappropriate di lei. Fu per esempio molto criticata per il fatto di non essersi espressa sul tema della violenza domestica e per aver usato una propria linea di prodotti come sponsor del film, due cose che il New York Times dice erano state previste e concordate dalla società di distribuzione. Si parlò anche negativamente del fatto che Lively avesse detto di aver coinvolto il marito nella scrittura di alcune scene del film, aggirando di fatto lo sciopero degli sceneggiatori, e online cominciarono a girare spezzoni di sue interviste e dichiarazioni che la misero in cattiva luce.

Il New York Times ha scritto che «è impossibile sapere quanto di questa cattiva pubblicità fu seminato da Nathan, da Wallace e dai loro collaboratori e quanto sia solo stato intercettato e amplificato». Dai messaggi citati dal New York Times comunque loro se ne attribuiscono la responsabilità: in alcuni Baldoni appare più spudorato, in altri sembra farsi qualche scrupolo. Il 16 agosto il Daily Mail pubblicò un articolo intitolato “Blake Lively verrà cancellata?” e Nathan lo commentò così: «è questo il motivo per cui mi avete assunta no? Sono la migliore». Dopo l’uscita dell’articolo del New York Times Lively ha ricevuto dichiarazioni di sostegno e vicinanza da molte celebrità di Hollywood, tra cui Coleen Hoover e Amber Heard.

L’immagine di Baldoni è invece rimasta per mesi piuttosto immacolata, almeno fino alla pubblicazione dell’articolo del New York Times. Recentemente ha vinto un premio dedicato agli uomini che «sostengono le donne, combattono la violenza di genere e promuovono al parità di genere in tutto il mondo». Insieme a Heath, Baldoni ha da anni un podcast, Man Enough, in cui parla con vari ospiti dei danni della mascolinità tossica e della promozione di modelli maschili positivi, argomento su cui ha scritto libri e tenuto conferenze, e su cui ha insistito molto nella fase di promozione del film. Sia Baldoni che Heath, insieme a Sarowitz, sono di religione baha’i, che è nata in Iran nel diciannovesimo secolo e si basa tra le altre cose anche sulla parità di genere.

La casa di produzione Wayfarer ha detto al New York Times di non aver fatto «niente di proattivo o ritorsivo» contro Lively. La sua versione dei fatti è che l’attrice abbia inventato tutto per infamare Baldoni e Heath, e che è stato per questo che loro hanno deciso di assumere una professionista di pubbliche relazioni.




I rischi reputazionali della condivisione di fake news

I rischi reputazionali della condivisione di fake news

Tradotto da Creatoridifuturo.it dal’originale “The Reputation Risks of Sharing Fake News”

Mentre il vetriolo partigiano dilaga nell’ultimo mese prima delle elezioni presidenziali statunitensi, un nuovo studio offre spunti di riflessione sul perché le persone condividano disinformazione politica.

Anche quando un articolo di giornale lusingherebbe il proprio partito politico, le persone tendono ad aspettarsi che condividere informazioni vere sui social media giovi alla propria reputazione personale più della diffusione di articoli fuorvianti, come dimostra la ricerca. Inoltre, quando gli articoli politici vengono condivisi su Twitter (ora X), le informazioni accurate tendono a ottenere maggiore consenso, afferma Jillian J. Jordan, professoressa associata di economia aziendale presso la Harvard Business School.

Anche in questo contesto politicizzato e polarizzato in cui si trova il nostro Paese, le persone apprezzano l’accuratezza.

In definitiva, la ricerca di Jordan mette in dubbio l’idea che motivazioni reputazionali, e in particolare il desiderio di essere visti positivamente dai membri del nostro partito politico, spingano le persone a condividere online informazioni false piuttosto che vere.

“Anche in questo ambiente politicizzato e polarizzato in cui si trova il nostro Paese, le persone apprezzano l’accuratezza”, afferma Jordan. “Ciò significa che ciò che ti fa apparire al meglio è prestare attenzione all’accuratezza delle informazioni che condividi, e non limitarti a condividere qualsiasi cosa che potrebbe avvantaggiare il tuo partito politico se fosse vera”.

I risultati forniscono una lezione fondamentale per le aziende che pubblicizzano e condividono contenuti sui social media per ottenere un seguito: condividere informazioni accurate e di alta qualità probabilmente si rifletterà positivamente sulla tua reputazione.

Lo studio, “Partisans Neither Expect Nor Receive Reputation Rewards for Sharing Falsehoods Over Truth Online”, è stato condotto da Isaias Ghezae, dottorando in psicologia sociale presso l’Università di Harvard, co-diretto da Jordan e co-autore di Izzy Gainsburg, direttore associato del Polarization and Social Change Lab presso l’Università di Stanford; Robb Willer, professore di sociologia presso l’Università di Stanford; Mohsen Mosleh, professore associato presso l’Università di Oxford; Gordon Pennycook, professore associato presso la Cornell University; e David Rand, professore di management alla MIT Sloan School of Management.

Contestare una proposta preoccupante

Jordan studia come individui e organizzazioni gestiscono la propria reputazione. In questa ricerca si è chiesta se il desiderio di apparire bene agli occhi degli altri possa motivare le persone a condividere indiscriminatamente sui social media notizie favorevoli al proprio partito politico, indipendentemente dal fatto che siano vere o addirittura false.

La teoria è che il modo migliore per segnalare la propria lealtà al proprio partito politico sia dimostrare di essere disposti ad assumere posizioni stravaganti che lo marchino come sostenitore.

Il team di ricerca è stato ispirato a porsi questa domanda in parte perché studiosi di campi come la filosofia e la psicologia evoluzionistica hanno avanzato una proposta preoccupante: che le persone potrebbero condividere disinformazione politicizzata per dimostrare la propria fedeltà al proprio partito politico.

“La teoria è che il modo migliore per segnalare la propria lealtà al proprio partito politico è dimostrare di essere disposti ad assumere posizioni stravaganti che ti marchieranno come sostenitore”, spiega Jordan.

La logica di ciò che gli accademici chiamano “segnalazione costosa” potrebbe creare un incentivo perverso alla diffusione di fake news, si sono chiesti Jordan e i suoi colleghi? “Eravamo interessati a testare l’idea che le motivazioni legate alla reputazione incoraggino le persone a essere poco attente alle informazioni che condividono”, spiega.

Questi interrogativi hanno portato Jordan e i suoi coautori a elaborare un’indagine in due parti, in cui hanno prima condotto una serie di sondaggi e poi analizzato le reazioni ai post di Twitter.

Condivideresti questo titolo?

Sia nel 2021 che nel 2022, Jordan e colleghi hanno intervistato più di 3.000 partecipanti per valutare le loro reazioni a 588 titoli. L’elenco includeva titoli falsi come “Donna ispanica afferma di aver avuto un figlio illegittimo da Trump” e titoli veri come “Biden potrebbe mantenere alcune politiche di Trump sul commercio”.

I ricercatori hanno chiesto ai partecipanti quali ritenevano sarebbero state le conseguenze per la loro reputazione all’interno delle proprie cerchie sociali se avessero condiviso questi titoli. I partecipanti hanno anche valutato l’accuratezza dei titoli e quanto un titolo avrebbe fatto apparire il loro partito politico come positivo se fosse stato vero.

I partecipanti allo studio si aspettavano di migliorare la propria reputazione condividendo informazioni:

  • Considerato accurato. I partecipanti si aspettavano che condividere titoli veri li facesse apparire migliori rispetto a condividere titoli falsi o fuorvianti.
  • Favorevole al loro partito politico preferito. I partecipanti si aspettavano che condividere titoli favorevoli al loro partito politico preferito li facesse apparire migliori rispetto a condividere informazioni politicamente meno favorevoli.
  • Questo è sia accurato che positivo. Fondamentalmente, afferma Jordan, i partecipanti si aspettavano i maggiori benefici reputazionali dalla condivisione di titoli veri e politicamente favorevoli. “Il fatto che un’affermazione sia politicamente favorevole non significa che sia meno importante che sia vera, in termini di valore reputazionale atteso dalla sua condivisione”, afferma Jordan.

Approfondiamo Twitter

In seguito, i ricercatori hanno esaminato le reazioni degli utenti a 26.000 post di Twitter tra il 2016 e il 2022 che condividevano gli stessi titoli presentati nei sondaggi. Il team ha utilizzato il rapporto tra “Mi piace” e “Retweet” ricevuti da un post come indice dell’approvazione ottenuta. Più un post veniva ritwittato, più appariva nei feed degli utenti, offrendo loro l’opportunità di mettere “Mi piace”. Rapporti più elevati tra “Mi piace” e “Retweet” suggeriscono che gli utenti hanno colto questa opportunità per mettere “Mi piace” al post più spesso, il che suggerisce una maggiore approvazione.

Il team di ricerca ha scoperto che:

  • Le informazioni accurate suscitano maggiore approvazione rispetto a quelle inaccurate. “I titoli oggettivamente accurati tendevano a ricevere più approvazione rispetto ai titoli falsi”, spiega Jordan.
  • Anche i titoli politicamente favorevoli condivisi su Twitter tendono a suscitare maggiore approvazione se sono accurati. “Il modello secondo cui i titoli accurati ricevono più consensi regge e non si indebolisce nel caso di notizie politicamente favorevoli”, afferma Jordan.

La verità conta

Jordan afferma che i risultati hanno implicazioni per gli utenti dei social media, comprese le aziende:

La verità ha un valore sociale maggiore rispetto alle notizie fuorvianti. I risultati possono essere considerati rassicuranti, soprattutto in un anno elettorale controverso, afferma Jordan. “Si teme che quando gli utenti delle piattaforme dei social media sono motivati ​​a mostrare la propria virtù, ciò li porti a comportarsi male”, afferma. Eppure i suoi risultati suggeriscono che le persone si aspettano maggiori ricompense sociali per aver diffuso la verità.

I nostri risultati suggeriscono che condividere informazioni che vengono etichettate come inaccurate rischia di far apparire gli utenti peggiori rispetto alla condivisione di informazioni accurate.

Come le piattaforme dei social media possono contribuire a sradicare la disinformazione. Lo studio fornisce alcune indicazioni su come le piattaforme dei social media possano scoraggiare la condivisione di informazioni fuorvianti. Jordan indica la funzione “Note della community” di X, dove gli utenti possono aggiungere contesto o spiegare perché un post potrebbe essere fuorviante. Tali funzionalità, a suo avviso, possono contribuire in modo costruttivo ad amplificare i costi reputazionali della condivisione di disinformazione. “I nostri risultati suggeriscono che condividere informazioni contrassegnate come inaccurate rischia di far fare una brutta figura agli utenti rispetto alla condivisione di informazioni accurate”, afferma Jordan.




BIOON: COSA È SUCCESSO DOPO LA SENTENZA DI PRIMO GRADO?

BIOON: COSA È SUCCESSO DOPO LA SENTENZA DI PRIMO GRADO?

In febbraio sono state pubblicate le motivazioni della sentenza sul crack BioOn, l’unicorno regina delle bioplastiche distrutta dal panic-selleing generato da un video pubblicato online che accusava la start-up tecnologica “verde” di inconsistenza sul fronte brevettuale, di insussistenza della tecnologia produttiva, etc, tesi accolta acriticamente dal PM Martorelli nelle sue requisitorie (“BioOn vendeva barattoli con dentro l’aria di Napoli”) ma in realtà non confortate dalla sentenza di I Grado del Tribunale di Bologna, che ha invece condannato i vertici dell’azienda non già per questioni afferenti l’aspetto tecnologico bensì per false comunicazioni sociali.

Per chi si fosse perso le puntate precedenti, qui il nostro godibilissimo documentario dal titolo BioOn: Unfair Game, e qui la puntata che la trasmissione d’inchiesta Report (RAI 3) ha dedicato al caso (gustosissimi gli ultimi minuti, non perdeteveli!).

Di seguito, uno schema riepilogativo delle accuse e della successiva sentenza:

CAPO 1: MANIPOLAZIONE DEL MERCATO

  • prescrizione per i fatti fino al 24/07/2019
  • condannati per il fatto commesso il 30/09/2019 (emissione di un comunicato stampa al mercato, approvato da Borsa Italiana, ma considerato fuorviante)

CAPO 2: BANCAROTTA IMPROPRIA, reato riqualificato in FALSE COMUNICAZIONI SOCIALI per i soli anni 2015 e 2016

  • condannati

CAPO 3: TENTATO RICORSO ABUSIVO AL CREDITO

  • assolti perché il fatto non costituisce reato

CAPO 4: BANCAROTTA FRAUDOLENTA PER DISTRAZIONE

  • assolti perché il fatto non sussiste

I vertici societari sono quindi stati condannati a 5 anni e 2 mesi di reclusione, più all’inabilitazione per 5 anni all’esercizio dell’impresa. La pena accessoria dell’inabilitazione è sospesa per tutti i gradi di giudizio, fino a condanna definitiva, quindi l’ex Presidente Marco Astorri è per ora un cittadino fisicamente libero, e libero anche – se riterrà – di fare impresa.

In ogni caso, ciò che – in estrema sintesi – il Tribunale, quanto meno in primo grado, ha contestato ai vertici di BioOn nelle oltre 500 pagine di motivazioni alla sentenza, sono le false comunicazioni sociali: l’azienda avrebbe comunicato al mercato con eccessiva enfasi i risultati raggiunti (o gli obiettivi ancora da raggiungere) “dopando” così la percezione degli investitori e facendo salire oltre misura il titolo azionario.

L’Avv. Tommaso Guerini, che coordina il team di difesa di Marco Astorri, ha commentato gli esiti del primo grado come segue: “Come ci aspettavamo, è una sentenza ampia e complessa, che andrà attentamente studiata nei prossimi giorni e che non si presta a letture semplicistiche. Ad ogni modo emerge chiaramente che non è la qualità tecnologica di Bio-On la ragione di condanna: è evidente che il tribunale ha considerato esistente la tecnologia e che oggetto di contestazione è esclusivamente il criterio di contabilizzazione in bilancio dei ricavi dal trasferimento a terzi mediante licenza della tecnologia stessa. È questione estremamente tecnica e le valutazioni del Tribunale, invero diverse dal parere di tutti i consulenti tecnici sentiti nel processo, saranno nuovamente discusse in appello. La storia non è finita qui”, ha concluso Guerini.

Il team legale ha quindi annunciato di essere impegnato a predisporre gli atti per il ricorso in appello: lo scontro sui resti di BioOn, la regina del green che avrebbe voluto salvare il mondo dall’inquinamento da microplastiche, pare quindi destinato a proseguire.

Dopo la pubblicazione delle motivazioni, è intervenuto anche Marco Astorri, che per l’intera durata del processo di primo grado ha mantenuto un basso profilo, a suo dire per rispetto al lavoro dei magistrati: “Ho totale fiducia nel mio team legale e nella Magistratura, e sono certo che in appello potremo dimostrare l’assoluta correttezza del nostro operato. La verità è che l’Italia non è un paese ospitale per le start-up, ma sono certo che, anche grazie al nostro caso, la legislazione e la giurisprudenza italiane si allineeranno agli standard internazionali, contribuendo a rendere il nostro Paese competitivo e attrattivo per gli investimenti innovativi esteri”, ha concluso Astorri.

Il punto di vista di Astorri – che pare intenzionato a proseguire nella sua battaglia e anzi a intensificare le attività di comunicazione e sensibilizzazione sul caso BioOn come emblematico dell’inefficienza del nostro sistema Paese nel ospitare investimenti in tecnologia innovativa e in sostenibilità – è chiaro: qualunque start-up potrebbe essere messa sul banco degli imputati e fatta fallire a causa delle iniziative di un Tribunale in quanto “sopravvalutata” rispetto agli asset materiali, ovvero valutata solo per essi e non per il potenziale di sviluppo futuro (a titolo di esempio, Satispay macina 50 milioni di perdite all’anno eppure vale più di un miliardo, perché allora i suoi vertici non vengono inquisiti, potrebbe chiedersi qualcuno, aderendo alla narrativa del Tribunale di Bologna? E questo vale beninteso per qualunque start-up FinTech, lo stesso colosso Meta fattura “solo” 50 miliardi di dollari all’anno, ma vale oltre 1.500 miliardi in borsa).

In ogni caso, sono diverse le domande scottanti sul dossier BioOn che purtroppo – ad oggi, quanto meno – restano senza risposta. Non in ordine di importanza:

  1. perché i vertici di BioOn sono stati accusati di aver emesso comunicati stampa troppo enfatici e – se così fosse, vedremo gli esiti degli ulteriori gradi di giudizio – Borsa Italiana e Nomad non sono stati indagati con BioOn, dal momento che quei comunicati li hanno approvati loro, tutti, nessuno escluso, fornendo anche di volta in volta indicazioni correttive?
  2. Perché lo sciatto video di denuncia che causò il panico in Borsa facendo crollare il titolo BioOn non è stato attenzionato dalla Magistratura, e perchè le denunce per diffamazione e turbativa del mercato sporte a riguardo dagli azionisti di BioOn sono state (qualche osservatore ha scritto “troppo frettolosamente”) archiviate?
  3. Perché Consob, contrariamente alla consuetudine, non ha sollecitamente sospeso il titolo BioOn quando esso era sotto attacco, permettendo che quasi 800 milioni di euro di capitalizzazione di cittadini investitori venisse bruciata in un solo giorno?
  4. Com’è possibile che la Procura di Bologna e il PM Martorelli abbiano deciso – di fatto – di dare credito alla tesi di Gabriel Grego, speculatore basato alle Isole Cayman e autore del video diffamatorio su BioOn, e persona senza alcuna preparazione nel settore bio e green, che si è pronunciato convintamente sulla (a suo dire inesistente) qualità dei brevetti BioOn facendosi forte del parere di un proprio perito, che è solo insegnante delle scuole medie superiori senza alcuna preparazione scientifica, e ignorando per contro il parere di luminari e scienziati di fama internazionale come il Prof. Paolo Galli, che definì la tecnologia di BioOn “rivoluzionaria”?
  5. Com’è possibile che sia stato dato credito, nelle accuse mosse nel video contro BioOn, al parere del Dott. Maurizio Salom, commercialista strettamente connesso a Novamont, principale concorrente di BioOn?
  6. Perché – nonostante Marco Astorri e Guy Cicognani avessero prontamente versato nelle casse dell’azienda oltre 8 milioni di euro – quando BioOn andò in crisi a seguito del crollo in borsa non venne mai convocata un’Assemblea degli Azionisti, come previsto peraltro dalle normative vigenti, per verificare la disponibilità degli azionisti stessi a sostenere l’azienda o a ricomprare le azioni in circolazione, assicurando la business continuity del progetto delle plastiche biodegradabili made in Italy?
  7. Perché la Consob – stante il diffuso interesse pubblico sul dossier BioOn – non ha permesso di accedere alla lista dei soggetti che hanno speculato sul crollo dell’azienda, mantenendola secretata per tutta la durata del processo, e ancor oggi?
  8. Perchè la Procura – e poi il Giudice nella sua sentenza – ha di fatto ignorato i pareri e le perizie di professionisti e accademici di chiara fama, come il Dott. Andrea Perini, commercialista e Professore di diritto penale all’Università di Torino, o l’Avv. Paolo Gualtieri, Ordinario di Economia degli intermediari finanziari all’Università Cattolica di Milano, prendendo invece per buono il parere del dott. Michele Casò, che è stato nominato dal Tribunale consulente del curatore fallimentare di BioOn ma che – sorprendentemente – era anche Presidente del Collegio sindacale di Novamont, principale concorrente di BioOn?
  9. Perché la Presidenza del Consiglio dei Ministri dopo aver dichiarato BioOn “azienda di interesse nazionale” non è intervenuta con gli strumenti istituzionalmente a propria disposizione per salvaguardarla e proteggerla da un attacco etero-indotto dall’estero?

Il processo ora continuerà in II grado, e probabilmente in Cassazione, ma ciò che è certo è che il capitolo finale di questo giallo finanziario – che ha privato l’Italia di un patrimonio di tecnologia innovativa in grado di contribuire alla concorrenzialità del nostro sistema Paese sui mercati internazionali – è lungi dall’essere già stato scritto.




Gruppo Italcer: ok UE per l’impianto brevettato che elimina la C02 

Gruppo Italcer: ok UE per l’impianto brevettato che elimina la C02

Italcer, società benefit hub del design nella ceramica Made in Italy guidata dal CEO Graziano Verdi e partecipata dai fondi Mindful Capital Partners, Miura Partners e Capital Dynamics, ha ottenuto l’ok dagli esperti esaminatori del programma LIFE Subprogramme Climate Action della Commissione Europea [1], strumento finanziatore di progetti ambientali e di azione per il clima, per l’impianto brevettato che eliminerà la CO2 dal processo produttivo della ceramica. Per la prima volta, non solo un impianto industriale elimina le emissioni di CO2 che si creano nella produzione, ma trasforma gli agenti inquinanti di scarto in materie prime per altri usi in vari settori industriali: dalla farmaceutica, alla cosmetica, contribuendo a ridurre l’impatto ambientale. Grazie all’innovazione introdotta da Italcer, questo processo diventa complementare alla produzione ceramica.

Si stima che il primo impianto pilota che Italcer realizzerà a Sassuolo (Modena) una volta deliberato il finanziamento da circa 6 milioni di euro, non solo azzererà tutte le emissioni prodotte ad oggi, pari a circa 5.500 tonnellate di CO2 all’anno in aggiunta ad altri fumi e gas, ma consentirà un ulteriore risparmio per l’ambiente di 3.700 tonnellate di CO2 per anno. Un risultato straordinario per Italcer e in generale per l’ambiente, in quanto il particolare design del sistema ne consente l’applicazione in molte industrie che oggi utilizzano combustibili fossili, da quella alimentare all’automotive, rendendo la tecnologia brevettata scalabile e di grande impatto.

L’impianto che ha superato favorevolmente il giudizio della Commissione Europea è infatti in grado di eliminare la CO2 e gli altri inquinanti atmosferici dai processi produttivi, convertendoli in prodotti a valore aggiunto utilizzabili come materie prime seconde purissime per altri usi (come carbonato di calcio precipitato, nitrato di calcio e solfato e solfito di calcio). Il calcolo considera l’intero ciclo produttivo, includendo le emissioni associate alla sola fabbricazione dei prodotti nobili, rispetto ai metodi tradizionali per produrli.

Questo innovativo processo, che ha già ottenuto il brevetto per l’invenzione industriale ed è frutto di investimenti in ricerca e sviluppo realizzati dall’azienda pari a circa 2 milioni di euro negli ultimi anni, adotta infatti soluzioni di “Industria 4.0” che consentono un controllo costante ed automatizzato della produzione, con un impatto ambientale positivo.

Graziano Verdi, Amministratore Delegato di Italcer Group spiega: “Siamo entusiasti di annunciare che il nostro Gruppo ha ricevuto il plauso dalla Comunità Europea per questa importante innovazione. Questo riconoscimento sottolinea il nostro impegno per la sostenibilità. La policy ambientale del Gruppo Italcer si fonda su una strategia che punta ad una decarbonizzazione realistica dei processi produttivi. Siamo da tempo impegnati anche nel promuovere lo sviluppo dell’economia circolare, cercando di riutilizzare le materie di scarto dei processi trasformandole in materie prime per altri usi industriali. Contiamo di investire altri 50 milioni di euro in cinque anni per creare un impianto su scala industriale che stimiamo genererà 80 milioni di ricavi aggiuntivi nei prossimi sette anni grazie proprio dall’applicazione di questo brevetto considerando sia la vendita di materie prime seconde che risparmi di tasse sulla CO2”.

Tale innovazione ha ottenuto l’ok degli esperti esaminatori del programma LIFE Subprogramme Climate Action che hanno attribuito al progetto 69 punti, ben al di sopra della soglia di 55 punti richiesta. L’impianto, inoltre, si distingue per un bassissimo impatto energetico perché sfrutta reazioni esotermiche che avvengono in modo spontaneo, riducendo il fabbisogno e migliorando l’efficienza complessiva.

Il Gruppo Italcer, che stima di chiudere il 2025 con un fatturato di circa 380 milioni di euro, è da sempre impegnato nella sfida della decarbonizzazione del processo produttivo. Ha investito nello sviluppo di questa rivoluzionaria tecnologia per il trattamento delle emissioni, perseguendo gli ambiziosi obiettivi di sostenibilità grazie al supporto del Prof. Isidoro Giorgio Lesci. Nel 2024 il Gruppo Italcer ha inoltre lanciato in Spagna il primo forno 100% elettrico, che consente di risparmiare 1.500 tonnellate di C02 all’anno. Sempre nel 2024, Italcer è stata inoltre premiata al Sustainability Award, classificandosi al primo posto tra le aziende italiane per il suo impegno ambientale.

(Rubiera (Re), 28 febbraio 2025)


[1] Il programma LIFE è uno strumento di finanziamento dell’Unione Europea dedicato a progetti ambientali e di azione per il clima. Il suo obiettivo è contribuire all’implementazione e allo sviluppo della politica e legislazione ambientale dell’UE, cofinanziando progetti con un significativo valore aggiunto europeo.




Crash Reputation: difendere la reputazione nella dimensione dell’infosfera

Crash Reputation: difendere la reputazione nella dimensione dell’infosfera

Nella bella cornice della Fondazione dell’Avvocatura Torinese Fulvio Croce ho avuto il piacere di partecipare come relatore alla presentazione del libro scritto dal professor Luca Poma e da un team di suoi collaboratori, tra cui la brillante Giorgia Grandoni.

Il titolo – CRASH REPUTATION – edizioni Engage – da subito l’idea del tema affrontato e comunica proprio la sensazione fisica degli effetti di una crisi reputazionale che, come una valanga, può piombare addosso ad una persona, ad una impresa ma anche su una comunità o ente locale.

Il libro affronta l’ipotesi del cosiddetto “danno reputazionale” cioè quello che si viene a subire quando la nostra immagine sociale improvvisamente e massivamente viene messa in discussione, aggredita con una comunicazione digitale moltiplicata dalle piattaforme social che ne vada ad appannare la percezione da parte della comunità e dei soggetti con cui si è in relazione. L’immagine sociale è la caratteristica saliente di un soggetto, nel senso che in ogni epoca la reputazione della persona è stata posta in relazione alla sua capacità di avere autorevolezza e dare fiducia nelle sue relazioni. Nel mio intervento – riallacciandomi alla bella introduzione al libro del prof. Alberto Pirni della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa – ho voluto mettere in evidenza l’aspetto su cui si basa il concetto di buona reputazione: il tratto che la persona esprime con le “virtù umane”, cioè le caratteristiche comportamentali che esprime, che vive abitualmente e che come tali sono percepite dall’ambiente sociale in cui ci si muove ed in cui sviluppa i suoi rapporti. Nella storia e anche nella letteratura viene spesso messo in evidenza come la buona reputazione diventi un elemento di valorizzazione di una persona o di una realtà sociale: già nella Bibbia si racconta di come il suocero Ietro consiglia a Mosè di ridurre il suo impegno individuando un gruppo di “uomini integri che temono Dio e che odiano la venalità” – due caratteristiche apprezzate nel contesto sociale – che potessero aiutarlo nella gestione nelle tante questioni che Israele doveva affrontare nel suo percorso verso la “terra promessa”.

La buona reputazione è quindi da sempre un valore positivo riconosciuto e ricercato, da tutelare come nel caso di un brand che viene percepito come ICONA di una qualità: Dior o Hermès sono icone del lusso, Ferrari è icona di potenza e velocità, Bosch è icona di affidabilità ed efficienza tecnologica…. Gli esempi potrebbero essere tanti ma importante è mettere a fuoco questa idea: un brand, un marchio può diventare icona di una qualità (bontà, eleganza, modernità, qualità, ecc.), valore che  può essere messo in discussione improvvisamente: una influencer diffonde una falsa campagna di beneficenza per promuovere un prodotto; una casa dolciaria usa un ingrediente nocivo (o ritenuto tale); una società lancia una campagna pubblicitaria che offende una categoria di  persone o un intero Paese; una industria produce auto falsando i dati sull’impatto ambientale; un’altra mantiene linee produttive rischiose e provoca una disastro con vittime.

La caratteristica principale del “danno reputazionale” è quella di andare ad incidere in tempi rapidissimi e con effetti devastanti su una qualità costruita in anni di serio lavoro e costante attenzione, con un effetto negativo dilatato dalla pervasività della infosfera che caratterizza la nostra epoca, in cui ciò che è riportato su un giornale locale può essere ripreso dal New York Times e da milioni di blog.

Nella nostra esperienza di giuristi siamo abituati a confrontarci con i casi di diffamazione a mezzo stampa, ma è chiara la diversità rispetto all’ipotesi del “danno reputazionale” anche se l’esperienza e la giurisprudenza sviluppatasi intorno ai casi di diffamazione possono essere molto utili, in base al principio dell’analogia per la soluzione di casi di “danno reputazionale”. Sappiamo che il danno da diffamazione ai fini del risarcimento non può considerarsi in re ipsa ma deve essere provato e documentato nel corso dell’eventuale causa, ma se pensiamo che il danno non patrimoniale da diffamazione è stato inserito solo da qualche anno nelle previsione delle Tabelle milanesi (che fissano i criteri consolidati di risarcimento), però con quantificazioni talmente riduttive da risultare del tutto inadeguate quando il danno può arrivare a provocare il tracollo di un titolo in borsa.  Il valore dell’immagine di un brand in alcuni casi è infatti un asset molto più significativo di tutti i beni materiali valorizzati nel bilancio di un’azienda; quindi, l’avvocato investito di un caso di “danno reputazionale” per ottenere un’adeguata tutela del proprio cliente che subisce una aggressione mediatica, dovrà attrezzarsi per andare a definire/quantificare la voce di danno in modo percepibile dal magistrato.

Il libro del Prof. Poma disamina una serie di casi che hanno coinvolto importanti brands e vicende rimanendo nella memoria collettiva: Costa Concordia, Dolce & Gabbana, Dieselgate, Ponte Morandi, Nike, Armani e Dior, Seymandi-Segre, il “pandoro-gate” di Ferragni e tanti altri.

La lettura è piacevole, mettendo in evidenza aspetti a volte trascurati dai media, soprattutto dando pratiche istruzioni per avere l’approccio corretto con cui affrontare e gestire un caso di “danno reputazionale”: la regola aurea è pensare che una situazione di simile emergenza può capitare ad ogni realtà, soprattutto se ha grandi interazioni con il mondo dei consumatori, quindi va previsto ed organizzato un team di specialisti che alla bisogna ed in tempi ristretti possa intervenire a tutela dell’immagine della società, in particolare organizzando un unico centro di comunicazione verso i media e tutti gli stakeholders coinvolti. Sarà fondamentale affidarsi a professionisti esperti di casi simile ed in grado di agire velocemente ed efficacemente, in una cornice di verità e trasparenza poiché è fondamentale far percepire l’autenticità di quanto si sta facendo.

Il web e il mondo dei social sembrano infatti non aver la capacità di distinguere una condotta dolosa da un mero incidente che può capitare in qualsiasi contesto, con i leoni da tastiera sempre pronti a mettere la vittima di turno sulla graticola digitale: in situazioni simili l’obiettivo deve essere recuperare la fiducia e limitare – se non evitare – danni all’immagine, scegliendo l’approccio, i toni e gli argomenti.

In definitiva il libro del prof. Poma è davvero da consigliare, perché dà gli strumenti per muoverci in maniera più consapevole – anche come professionisti – nella dimensione della infosfera, cioè la globalità del mondo dell’informazione in cui siamo immersi e che dobbiamo evitare di subire passivamente.