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Recensione onesta di CRASH REPUTATION

Talk e presentazione del volume "CRASH REPUTATION" - Engage

“Crash Reputation: 50+1 casi di crisi reputazionali” di Luca Poma e Giorgia Grandoni analizza in profondità gli errori che hanno compromesso l’immagine di aziende e influencer, da Armani a DAZN. Il libro non si limita alla teoria, ma offre 50 case history reali, esplorando scandali e crisi di comunicazione. Imprenditori, manager e professionisti troveranno strumenti pratici per prevenire e gestire efficacemente le crisi reputazionali, imparando a riconoscere i segnali d’allarme, comunicare strategicamente e trasformare le difficoltà in opportunità. Con l’esperienza del Prof. Poma e la competenza della dott.ssa Grandoni, questo manuale fornisce una guida completa per proteggere il valore intangibile della propria reputazione, includendo 3 ore di video extra sul marketing e la comunicazione.

Recensione CRASH REPUTATION

“Crash Reputation: 50 + 1 casi di crisi reputazionali” è un libro che mi ha davvero colpito per la sua completezza e praticità. Sinceramente, mi aspettavo una trattazione teorica e astratta sul tema della gestione della crisi reputazionale, invece ho trovato un vero e proprio manuale operativo, ricco di esempi concreti e casi studio che spaziano da colossi come Armani e Nike a influencer e piattaforme come DAZN. Questo approccio pratico, basato su esperienze reali, rende la lettura scorrevole e coinvolgente, e soprattutto, estremamente utile.

Gli autori, Luca Poma e Giorgia Grandoni, dimostrano una profonda conoscenza del settore e una capacità di analisi impeccabile. Non si limitano a descrivere gli eventi, ma approfondiscono le cause, le conseguenze e soprattutto, le strategie di gestione adottate (o non adottate) dalle aziende e dai personaggi coinvolti. Ogni caso studio è una lezione preziosa, un’occasione per imparare dagli errori altrui e per evitare di commettere gli stessi passi falsi.

Apprezzo particolarmente la struttura del libro: la suddivisione in capitoli tematici, la chiarezza espositiva e l’organizzazione delle informazioni rendono la lettura facile e intuitiva, anche per chi non ha una formazione specifica in comunicazione o management. Non si tratta di un testo pesante e noioso, ma di una guida agile e di facile consultazione, perfetta per una lettura mirata o per approfondimenti specifici. La presenza dei video contenuti extra è un valore aggiunto notevole, che arricchisce ulteriormente l’esperienza di apprendimento.

Quello che ho trovato particolarmente interessante è la capacità degli autori di evidenziare come una crisi reputazionale, pur essendo un evento negativo, possa trasformarsi in un’opportunità di crescita. Il libro non si limita a presentare soluzioni per “tamponare” il danno, ma offre strumenti e strategie per affrontare la crisi in modo proattivo, trasformandola in un’occasione per migliorare la comunicazione, rafforzare la fiducia del pubblico e, in definitiva, consolidare la propria reputazione.

“Crash Reputation” non è solo un libro per professionisti del settore; è una lettura consigliata a chiunque, imprenditore, manager, influencer o semplice appassionato di comunicazione, che desideri comprendere l’importanza della gestione della reputazione e imparare a proteggere il proprio valore, sia esso aziendale o personale. La consapevolezza dei rischi, la capacità di prevedere e gestire le crisi, sono competenze fondamentali in un mondo sempre più connesso e permeato dalla comunicazione digitale. Questo libro fornisce gli strumenti per acquisire queste competenze in modo efficace e accessibile. In definitiva, lo consiglio vivamente come un investimento importante per la propria crescita professionale e personale.

Informazioni

  • Dimensioni: 15.39 x 1.37 x 21.59 cm
  • Lingua: Italian
  • Lunghezza di stampa: 236
  • Data di pubblicazione: 2024



Crash reputation: cinquanta case study tra reputation management e crisis communication

Talk e presentazione del volume "CRASH REPUTATION" - Engage

Dal naufragio della Costa Concordia al crollo del Ponte Morandi, dal Diselgate a Cambridge Analytica, dalle dichiarazioni di Guido Barilla all’epic fail di Dolce & Gabbana a Shangai, fino ad arrivare al “Pandorogate” dei Ferragnez. Sono solo alcune tra le “crisi reputazionali” più famose degli ultimi decenni, in cui si intrecciano strategie più o meno riuscite di reputation management e crisis communication, errori ed orrori della comunicazione di impresa. 

Sono i temi di Crash reputation. 50 + 1 casi di crisi reputazionali: da Armani a DAZN, da Nike a Ryanair, gli errori che hanno pregiudicato il valore di aziende e influencer (Engage editore, 18 euro), scritto da Luca Poma – esperto di crisis management, socio FERPI e professore di Reputation management presso la LUMSA di Roma – insieme alla collega Giorgia Grandoni e ad Alessio Garzina

Rispetto ai due precedenti volumi di taglio teorico – Crisis Management (scritto con Giampietro Vecchiato nel 2012) e Il Reputation Management spiegato semplice (con Giorgia Grandoni nel 2021), quest’ultimo lavoro si concentra esclusivamente sui “casi aziendali”. Di ogni crisis, infatti, viene innanzitutto offerta una breve ma efficace “sintesi dell’accaduto”, viene analizzata la strategia di “gestione della crisi” e viene, infine, valutata nelle schede “cosa non è andato bene” e, per contro, “cosa si sarebbe potuto fare meglio”, questo per ogni azione di gestione della reputazione e di comunicazione di crisi.

Apprendiamo così che “tempestività, trasparenza, personalizzazione e collegamento diretto, nonché team building” sono state le carte vincenti del caso “Eni-Report”, mentre “mancanza di trasparenza e di comunicazione efficace, assenza di previsione del rischio e incoerenza e superficialità” sono gli errori che hanno portato maison come Armani e Dior a ricevere pesanti accuse di per un presunto sfruttamento del lavoro e caporalato.

Un volume agile e da leggere tutto d’un fiato per avere un panorama completo delle strategie di comunicazione e relazione, ma anche da consultare in caso di gestione di crisi reputazionali per non cadere negli errori del passato ed intraprendere azioni virtuose. Consigliato a studenti di relazioni pubbliche e professionisti del settore.


Crash reputation. 50 + 1 casi di crisi reputazionali: da Armani a DAZN, da Nike a Ryanair, gli errori che hanno pregiudicato il valore di aziende e influencer 

di Luca Poma, Giorgia Grandoni, Alessio Garzina

Engage editore

18 euro




Crash Reputation: il dietro le quinte dei casi più famosi

Crash Reputation: il dietro le quinte dei casi più famosi

Uscito a ottobre 2024, pubblicato da Engage Editore e scritto a sei mani da Luca Poma, Giorgia Grandoni e Alessio GarzinaCrash Reputation, che abbiamo avuto modo di leggere e recensire in questo articolo, è un libro che racconta il dietro le quinte di 50 casi famosi in cui la reputazione di aziende e personaggi di fama mondiale ha subìto un grave danno, o è comunque stata messa a rischio e solo grazie ad una sapiente gestione della crisi stessa, il disastro reputazionale è stato evitato, mitigato, risolto. Stiamo parlando di casi come quello della Costa Concordia, della Thyssenkrupp e di molti altri ugualmente conosciuti e con esiti talvolta molto differenti. Scopo del libro è spiegare come queste crisi reputazionali siano accadute, da dove siano scaturite, e le azioni sia giuste che sbagliate messe in campo per gestirle, oltre ai conseguenti risultati, positivi o negativi.

Crash Reputation: cosa c’è dietro a una crisi di reputazione

Il libro si divide in due parti ben distinte. La prima è di natura più analitica e affronta il tema della reputazione come concetto. Una lettura di tipo tecnico-universitario che vuole mettere in luce quali siano i concetti legati alla reputazione e come fa quest’ultima ad essere messa in crisi da azioni e reazioni sbagliate o comunque avventate degli addetti ai lavori. Grazie alla collaborazione di Alberto Pirni, autore di uno scritto interno al libro, si affronta la reputazione come un costrutto fatto da “autenticità, rispetto, riconoscenza, responsabilità, onore, affidabilità”. Se ci si pensa, è abbastanza immediato comprendere come tutte queste caratteristiche siano ormai inevitabilmente legate alla vita di chiunque voglia fare qualcosa in pubblico. Un’azienda che non persegua l’affidabilità ad esempio, anche (ma ovviamente non solo) dal punto di vista comunicativo, avrebbe certamente vita breve nel mondo attuale.

Gli autori affrontano quindi il concetto di reputazione, fondamentale in ogni campo, per chiarirne la struttura e far capire come questa possa crollare da un momento all’altro (Crash Reputation, appunto) per errori (anche banali), distrazioni e addirittura disinteresse. Eppure, le crisi reputazionali “appassionano il pubblico”. Ovvero, quando qualcosa va male, o sta per farlo, l’interesse pubblico su quella determinata vicenda aumenta a dismisura. Ciò tra l’altro, a causa dell’eco mediatico, contribuisce spesso a peggiorare le cose. Può però anche accadere l’esatto contrario se la crisi è gestita bene. Ma se “il corretto allineamento tra identità ed immagine” viene tradito, poi per riprendersi o addirittura guadagnarci bisogna saperci fare.

Crash Reputation, per spiegare le proprie tesi, utilizza anche elementi di crisis management e crisis communication, ovvero introduce concetti appartenenti ad una sfera molto tecnica che da una parte riguardano la gestione di una crisi in atto ed il modo di prevenirla, mentre dall’altra affronta il tema di come si dovrebbe comunicare prima e durante una crisi per far capire al pubblico ciò che si sta facendo per evitarla in un caso e risolverla nel caso sia già esplosa. Quando una crisi scoppia, se la gestione della stessa non va a buon fine, allora questa aumenta di intensità e la cosa può portare a conseguenze catastrofiche ed irrimediabili. D’altra parte, anche comunicare male può essere causa di una crisi aziendale. E tanto più se si continua a farlo durante la crisi stessa.

Nel volume, dal taglio piuttosto tecnico ma comunque decisamente piacevole da leggere, è spiegato poi cosa è e cosa non è una crisi. Ad esempio può essere utile sapere a chi è titolare di azienda che un’emergenza non è una crisi, rientra invece nella normale gestione di impresa. Una crisi da cui deriva un crash reputazionale, può invece essere strisciante (cioè esiste ma è latente da molto tempo, perché non gestita) o improvvisa. Può anche accadere che un’impresa, di qualsiasi tipo risulti vittima della crisi stessa (cioè non è stata scatenata da lei, ma subisce comunque un danno più o meno grande). Oppure può essere accidentale, o ancora prevedibile. La seconda parte del libro è invece dedicata all’analisi di cinquanta tra i casi più noti in cui un’azienda o un personaggio pubblico noto è andato incontro ad una crisi. Alcune volte la cosa è finita abbastanza male, in altre invece, alcune realtà, mettendo in campo le contromisure giuste, ci hanno addirittura guadagnato.

Ma esattamente cosa possiamo dedurre dall’analisi di questi cinquanta casi? Leggendoli tutti e schematizzandoli anche solo mentalmente, si capisce subito che alcuni tratti sono comuni a tutte le crisi, pur con specificità uniche ogni volta. Dalla Costa Concordia al ponte Morandi di Genova e alla pandemia, quando le persone non hanno capito, si sono opposte o hanno parzialmente e magari temporaneamente tolto la fiducia ai protagonisti dei vari casi, le motivazioni sono più o meno state sempre le stesse, vediamo quali sono:

Comunicazione sbagliata: le crisi sono esplose e quasi sempre si sono anche trascinate per diverso tempo a causa di una comunicazione sbagliata. Chi doveva spiegare insomma, non lo ha fatto, o lo ha fatto male. Questo ha causato equivoci, incomprensioni, sfiducia e anche in un certo senso rifiuto all’ascolto anche a crisi inoltrata. Ciò ha fatto sì che quest’ultima si prolungasse oltre modo. L’effetto collaterale sembra essere quello di creare due mondi completamente separati: uno in cui c’è chi è dentro la crisi reputazionale che cerca, a volte inutilmente o quasi di rialzarsi e l’altro in cui chi dovrebbe ascoltare per voler capire cosa è accaduto e perché, ignora tali spiegazioni perché ritenute tardive. Oltre un certo limite di tempo insomma, le cose diventano molto più complicate da gestire.

Assenza di tempestività: la comunicazione sbagliata fa infatti spesso il paio con l’assenza di tempestività nel reagire. Farlo male, o troppo tardi, può, anzi, quasi sicuramente è, foriero di cattive notizie. In questo senso è accaduto in diversi casi analizzati dal libro, che l’assenza di tempestività si sia generata anche da comportamenti sbagliati. Ovvero i responsabili si sono mossi bene, ma troppo tardi e questo perché all’inizio si sono mossi male. Ma che significa esattamente? Secondo gli autori, in diversi casi esaminati ci sono stati comportamenti errati, come ad esempio sottovalutare alcuni rischi, o negare le proprie responsabilità sperando che la tempesta passasse, o in altri casi ancora dichiarazioni arroganti di personaggi coinvolti, che non hanno fatto altro che allontanare i consumatori, o comunque l’opinione pubblica in generale. Ciò ovviamente ha acuito e prolungato la crisi reputazionale, che solo grazie al tempo, all’investimento di molti soldi e a cambi netti di strategia, è rientrata, a volte del tutto, a volte no.

Mancanza di un team per gestire le crisi. In alcuni casi specifici, di comportamenti come quelli sopra descritti non ve n’è traccia, però sussistono dei meri errori tecnici molto importanti. Uno di questi è sicuramente la mancanza di un team preparato a gestire le crisi reputazionali. Persone con competenze in tal senso possono certamente prevedere il verificarsi di tali crisi orientando le azioni dell’impresa, ma quando queste persone non ci sono, possono prendere piede errori anche banali che però conducono, o possono condurre, a conseguenze catastrofiche. Il consiglio sembra quindi essere quello di prepararsi prima, assumendo un team giusto che sia in grado di prevenire e anche nel qual caso si verifichino, gestire le crisi di reputazione in maniera sapiente, al punto di riuscire anche a guadagnarci in visibilità e, appunto, in reputazione. Non tutti i mali vengono per nuocere insomma, se li si sa affrontare nella maniera giusta.

Crash Reputation: a chi è dedicato?

Chi dovrebbe leggere Crash Reputation? Chi potrebbe trarre vantaggio dalla lettura di questo volume? Diciamo subito che il libro è scritto molto bene, in maniera scorrevole e di facile comprensione. Solo a tratti è presente qualche termine tecnico che da parte dei non addetti ai lavori potrebbe richiedere un approfondimento, ma a parte questo è sicuramente un libro alla portata di tutti. Quindi per chi segue molto l’attualità e vuole saperne di più su casi noti praticamente a tutti, Crash Reputation è certamente un’ottima lettura, in grado di istruire sul perché certe dinamiche si siano verificate e sul come si sarebbe dovuto agire per non farle accadere. Aiuta quindi ad avere un’opinione molto più informata.

E’ però anche un libro molto utile ai comunicatori di professione (giornalisti compresi), visto che uno dei suoi tratti distintivi è appunto l’analisi della comunicazione, perlopiù aziendale ma non solo. Crash Reputation è anche e senza alcun dubbio un libro per gli imprenditori, ovvero per chi ha un’impresa e vuole evitare certi errori che potrebbero certamente essergli fatali, a meno che sia un vero e proprio colosso. E’ un libro da cui si può imparare molto in tal senso insomma. Da ultimo ma non per questo meno importante, anche chi fa marketing dovrebbe dare una seria occhiata a Crash Reputation. In esso sono infatti contenuti concetti molto specifici, in grado di spiegare sia le dinamiche di errori gravissimi, sia come alcune aziende siano riuscite sapientemente a trarre profitto da un’ottima strategia comunicativa e appunto di marketing.

Chi sono gli autori

Crash Reputation è scritto da tre autori. Luca Poma è professore di Reputation Management all’università Lumsa di Roma ed all’Università della Repubblica di San Marino, ha pubblicato circa 200 scritti sul tema della reputazione ed è stato anche consigliere del ministro degli esteri sotto i governi Berlusconi IV e Monti. Giorgia Grandoni è una consulente per una start-up che si occupa di Reputation Management (da cui prende il nome) ed è docente in Gestione della reputazione alla Lumsa di Roma. Alessio Garzina è un social media manager che ha collaborato con diversi quotidiani nazionali e si occupa di comunicazione per varie associazioni. Il libro contiene anche un articolo di Alberto Pirni, docente di Filosofia morale alla scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e la prefazione dell’avvocato Nicola Menardo.




Andare oltre l’ESG

Andare oltre l’ESG

SONO STATI ANNI DIFFICILI per l’ESG, l’acronimo con cui si indicano la misurazione e la gestione della performance ambientale, sociale e di governance di un’azienda. Negli Stati Uniti, il termine è diventato un bersaglio per entrambe le parti della scena politica. Per chi si posiziona a sinistra, l’ESG non obbliga a sufficienza le aziende ad affrontare le grandi sfide della società, in particolare quelle relative al cambiamento climatico. Per chi sta dall’altra parte, rappresenta un tentativo insidioso di far adottare alle aziende un’agenda liberal, alterando così i mercati e la libera concorrenza. Da tutte le parti arriva poi la critica al greenwashing, ovvero la pratica, da parte di aziende e investitori, di enfatizzare in modo eccessivo gli sforzi ESG. Questa raffica di critiche ha fatto perdere lustro all’ESG agli occhi di molti dirigenti. Alcuni addirittura praticano il greenhushing, evitano cioè di parlare pubblicamente delle loro iniziative ESG.

Tuttavia, il bisogno di collegare in modo trasparente la performance finanziaria di un’azienda con la sua performance ambientale, sociale e di governance rimane, e anche le sfide sociali che le imprese devono contribuire ad affrontare non sono scomparse, a partire dal cambiamento climatico. È, dunque, il momento di fare il punto sull’ESG e tracciare un percorso per un movimento sulla sostenibilità aziendale. A tal fine, negli ultimi due anni ho fatto la spola tra le fazioni in conflitto impegnate nel dibattito, incontrando liberal e conservatori, critici e sostenitori, a New York, Washington e in Europa, cercando di trovare un terreno comune.

Ci vorranno anni perché il dibattito sull’ESG trovi una soluzione. Alcune sfide, del tutto legittime e complesse (sia da un punto di vista politico che tecnico) non sono nemmeno lontanamente vicine a trovare una soluzione. Ne è un tipico esempio la questione se utilizzare la materialità singola o quella doppia per valutare le performance ESG. La materialità singola (chiamata anche materialità finanziaria) tenta di quantificare le questioni ESG importanti per la creazione di valore per gli azionisti, cioè quelle questioni che rappresentano dei rischi per un’azienda. Questa è la visione dominante dell’ESG oggi in uso. La materialità doppia tenta di misurare anche l’impatto di un’azienda, in altre parole le esternalità positive e negative che crea e che rendono il mondo un posto migliore o peggiore, ma che non influenzano direttamente la performance finanziaria aziendale. L’impatto, però, è estremamente difficile da quantificare e non esiste un accordo, in sede politica, sul fatto se sia più o meno appropriato pretendere che i manager forniscano tali informazioni a investitori e altri stakeholder chiave. In generale, i Paesi europei e i liberal statunitensi spingono per regole che impongano la materialità doppia, convinti che le sfide di misurazione siano un ostacolo superabile. I conservatori statunitensi e molti dirigenti aziendali preferiscono la materialità singola, sostenendo che la materialità doppia non sarebbe né fattibile né giustificata. Insomma, è un bel pasticcio.

Al centro del dibattito ESG c’è la questione fondamentale del ruolo dell’impresa nella società: cosa significa essere un’azienda responsabile? Mettendo da parte tutta la retorica fiorente sul tema, è questa la sfida che si trovano oggi ad affrontare i leader aziendali. Devono essere chiari su come le loro aziende creano valore per gli azionisti e su come le loro iniziative ESG contribuiscono a farlo. Devono essere altrettanto chiari su cosa le loro aziende, anche volendo, non possono fare con l’ESG per rendere il mondo un posto migliore e cosa appartiene alla sfera delle politiche pubbliche. Troppe aziende, investitori e politici confondono i due ambiti.

Le aziende possono e devono fare pressione affinché i Governi introducano regole efficaci in tema di ESG, ma non è su questo che si concentra l’articolo. Quello che invece farò è offrire tre strategie che i leader aziendali possono utilizzare per gestire le pressioni contrastanti che animano il dibattito ESG. La base per tutte e tre le strategie è il riconoscimento della differenza tra ESG tradizionale e impatto (in altre parole, la differenza tra materialità singola e doppia). Queste strategie consentiranno ai leader di passare da posizioni reattive alla capacità di orientare attivamente le discussioni che si sviluppano all’interno della scena politica.

SIATE CHIARI SUL VOSTRO SCOPO

Ogni azienda deve definire il proprio scopo con precisione. Troppe mission, vision e valori sono enunciati in modo talmente ampio che potrebbero valere per qualsiasi organizzazione. Chiarezza dello scopo significa anche che sono chiare le questioni ESG essenziali che influenzano direttamente la creazione di valore, senza che ciò includa gli impatti positivi e negativi più ampi che un’azienda ha sul mondo esterno. I sostenitori del capitalismo degli stakeholder e della materialità doppia non amano questo approccio, perché sostengono che, col tempo, gli interessi degli stakeholder e quelli degli azionisti convergono. Questo, semplicemente, non è vero. Non tutto ciò che conta per gli stakeholder riguarda il valore per gli azionisti. I compromessi sono inevitabili.

Colin Mayer, mio collega all’Università di Oxford, sostiene che lo scopo di un’azienda è quello di produrre soluzioni redditizie ai problemi delle persone e del pianeta e di ridurre al minimo il profitto che crea problemi. Lo scopo di Exxon Mobil è soddisfare le esigenze energetiche del mondo in modo redditizio. Questo oggi comporta la fornitura di energia sia inquinante sia rinnovabile. Il CEO dell’azienda, Darren Woods, ritiene che, nell’arco di una decina d’anni, il suo business a basse emissioni di carbonio (come la cattura e lo stoccaggio del carbonio e l’idrogeno) potrebbe essere più grande del suo storico business di petrolio e gas, ma non gli dispiace affatto soddisfare le esigenze energetiche di oggi con il business tradizionale dei combustibili fossili.

Alcune aziende utilizzano i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (OSS) delle Nazioni Unite per definire il proprio scopo, collegando esplicitamente il proprio lavoro alla lista dei bisogni insoddisfatti dell’umanità steso dall’ONU. Ad esempio, Nike sottolinea i suoi contributi agli obiettivi 3 (buona salute), 5 (parità di genere), 8 (buona occupazione e crescita economica), 12 (utilizzo responsabile delle risorse) e 13 (lotta contro il cambiamento climatico). Anche Schneider Electric collega il proprio lavoro agli OSS e produce rapporti trimestrali sui progressi compiuti.

Oltre a identificare i bisogni insoddisfatti dei clienti, le aziende devono articolare i fattori ESG che rappresentano rischi materiali per la creazione di valore per gli azionisti. Gestire i fattori di rischio specifici per settore può impedire al mondo di diventare un posto peggiore di quello che è, ma non lo rende necessariamente un posto migliore. Un’azienda può realizzare performance insoddisfacenti sul piano ESG pur avendo un impatto positivo. La bassa valutazione ESG di Tesla è un caso emblematico. Secondo l’agenzia di rating S&P Global, Tesla ha un punteggio ESG totale di 40 (su un massimo possibile di 100). Ottiene 53 sull’ambiente (laddove il massimo del settore è 81), 29 sull’impatto sociale (il massimo del settore è 84) e 40 sulla governance (il massimo del settore è 69). Sebbene i suoi veicoli elettrici abbiano un impatto ambientale positivo, Tesla ha avuto con la sua forza lavoro continui problemi che ne hanno influenzato il valore azionario. L’idea di fondo (sbagliata) di chi critica l’ESG da destra è che la materialità singola sia il riflesso di un’agenda politica liberal. Non c’è niente di così ambizioso, si tratta semplicemente di occuparsi dei temi legati alla sostenibilità che hanno un impatto sulla creazione di valore.

Quasi tutte le aziende producono esternalità negative, anche quelle ben posizionate sui temi ESG e con un impatto positivo sul mondo. È importante essere sinceri a tale proposito. Queste esternalità negative sono ciò su cui si concentra chi critica l’ESG da sinistra, secondo cui le aziende non farebbero abbastanza per affrontarle. Le esternalità negative, però, sono inevitabili e non influenzano necessariamente le valutazioni ESG. Owens Corning ha un punteggio ESG assegnatogli da S&P Global di 85 e ottiene il punteggio più alto su ogni elemento ESG consentito dal suo settore. È impegnata a creare un’economia circolare e allinea le proprie attività agli OSS. Allo stesso tempo, le fonti d’energia non rinnovabili (carbone incluso) rappresentano poco più della metà del suo consumo energetico, i suoi prodotti dipendono fortemente dall’acqua e generano un alto grado di stress idrico per le comunità locali, senza contare che smaltisce considerevoli quantità di rifiuti pericolosi nelle discariche. L’azienda ha l’obiettivo di migliorare tutti questi problemi fino ad arrivare a zero rifiuti in discarica entro il 2030. Nel futuro immediato, tuttavia, queste attività non rappresentano rischi reali per le sue performance finanziarie, quindi non hanno una grande influenza sul suo rating ESG.

Per essere un’azienda responsabile, una società deve avere dei piani per ridurre le proprie esternalità negative: ogni azienda sa quali sono. Le ONG, i giornalisti e altri gruppi di controllo sono diventati molto abili nell’interpellare le aziende su un’ampia gamma di questioni ambientali e sociali. La sfida, per le aziende, è come gestire gli impatti negativi che genera, anche quelli che non sono rilevanti dal punto di vista ESG, senza danneggiare la creazione di valore per gli azionisti. In molti casi, le aziende possono fissare degli obiettivi. Un esempio classico è quello di ridurre le emissioni di carbonio in accordo con il consiglio di amministrazione. Fissare obiettivi può stimolare l’innovazione e rappresentare una fonte di vantaggio competitivo.

Uno degli esempi più significativi di esternalità negativa è quello delle sigarette. Philip Morris International o PMI (di cui sono consulente retribuito) si è posta l’obiettivo di ottenere, entro il 2030, due terzi dei ricavi netti da prodotti “senza fumo”. A tal fine, ha sviluppato un prodotto a base di tabacco riscaldato che è meno dannoso del fumo di sigaretta (anche se non del tutto innocuo) e più redditizio del tradizionale business delle sigarette. L’azienda sta vivendo un’incredibile trasformazione aziendale, proprio sulla scia di questo suo ambizioso obiettivo.

Alla fine, però, è la regolamentazione il modo principale con cui le esternalità negative vengono mitigate. Nuove leggi possono di punto in bianco renderle rilevanti da un punto di vista finanziario. È attraverso la regolamentazione che i Governi stabiliscono le condizioni per la creazione di valore per gli azionisti, rendendo le aziende responsabili degli impatti negativi che producono. Una tassa sul carbonio, che sostengo, ne è un buon esempio. Le aziende, specialmente negli Stati Uniti, sono generalmente considerate contrarie a qualsiasi nuova legge e regolamentazione, ma opporsi a tutte le regolamentazioni per partito preso è un errore. È giusto che le aziende si lamentino perché la società civile chiede loro troppo, ma la conseguenza è che devono essere chiare su ciò che il Governo dovrebbe fare per affrontare le esternalità negative. Sarebbero le prime a trarne beneficio se dessero degli input sulle normative piuttosto che semplicemente opporvisi.

Incoraggiare questo tipo di regolamentazione è in gran parte l’approccio che Owens Corning ha adottato per affrontare le proprie esternalità negative. Nel suo rapporto di sostenibilità del 2023, l’azienda scrive: «Con i sistemi e le politiche che abbiamo in atto, siamo nella condizione di soddisfare i vari requisiti […] in tutto il mondo. Questi sistemi e politiche ci preparano anche per il futuro, dal momento che gli organi di governo di tutto il mondo stabiliscono regolamentazioni sempre più stringenti per far fronte agli impatti negativi del cambiamento climatico». Allo stesso modo, in una dichiarazione d’intenti firmata da ogni membro del board, PMI osserva che «con il giusto incoraggiamento normativo e il supporto della società civile, le vendite di sigarette potranno terminare nel giro di 10-15 anni in molti Paesi.»

In sostanza, per essere un’azienda responsabile occorre avere uno scopo chiaro, e ciò richiede una profonda comprensione di ciò che l’azienda può e non può fare per affrontare le sfide sociali e ambientali e fornire allo stesso tempo rendimenti a lungo termine per i suoi azionisti.

SIATE TRASPARENTI NEI VOSTRI BILANCI DI SOSTENIBILITÀ

Gli standard di rendicontazione pongono le basi per la trasparenza ESG. Tredici anni dopo aver co-fondato il Sustainability Accounting Standards Board (SASB) con Jean Rogers, devo purtroppo dire che non siamo ancora arrivati a un insieme universalmente riconosciuto di standard, ma ci siamo quasi. Gli standard di rendicontazione finanziaria richiedono alle aziende di riportare le performance finanziarie sia positive sia negative, quelli di rendicontazione di sostenibilità faranno lo stesso. Permetteranno alle aziende di essere più trasparenti nel riportare sia le performance ESG sia quelle d’impatto. Se le aziende stanno rendendo il mondo un posto migliore mentre fanno guadagnare gli azionisti, saranno in grado di spiegare come lo fanno. Se stanno peggiorando il mondo, risulterà evidente. Se stanno migliorando il mondo a scapito degli azionisti (e probabilmente di alcuni stakeholder), sarà altrettanto chiaro. Una rendicontazione limpida che utilizzi standard condivisi è l’unico modo per evitare il greenwashing e non nascondersi dietro il greenhushing.

Attualmente, esistono diversi modelli di riferimento che plasmano gli standard a livello globale. L’International Sustainability Standards Board (ISSB), sviluppato dalla IFRS (International Financial Reporting Standards) Foundation, si concentra sulla materialità finanziaria. In Europa, il Sustainability Reporting Board (SRB) ha sviluppato 12 standard che richiedono alle aziende di relazionare su questioni ESG finanziariamente rilevanti e su quelle che producono un impatto sociale più ampio. Negli Stati Uniti, la SEC ha diramato una regola sulla trasparenza climatica ma, dopo aver affrontato cause legali da parte di gruppi che volevano di più dalla norma e da quelli che non la volevano affatto, l’ha sospesa. Infine, la Global Reporting Initiative (GRI), che risale alla fine degli anni ‘90, si concentra principalmente sugli impatti esterni di un’azienda, rivolgendosi agli stakeholder interessati dagli effetti sociali complessivi prodotti dalle azioni aziendali. È in corso un dibattito per armonizzare questi standard in modo da facilitare il carico di rendicontazione per le aziende e raggiungere uno standard globale uniforme. Nel frattempo, le aziende in Europa devono ovviamente conformarsi agli standard SRB. Le aziende che utilizzano gli standard GRI dovrebbero continuare a farlo. E tutte le aziende dovrebbero lavorare per implementare gli standard ISSB.

SIATE COSTRUTTIVI NEL COINVOLGERE AZIONISTI E STAKEHOLDER

Le proposte degli azionisti, sia pro che anti-ESG, sono ormai al centro della guerra culturale che si sta combattendo negli Stati Uniti. Le proposte legate all’ESG sono salite da 273 nel 2022 a 337 nel 2023. Principalmente, sono state presentate alle assemblee generali annuali di aziende che hanno un grande impatto sul clima (come Chevron ed ExxonMobil) o che sono strettamente legate a questioni sociali di alto profilo (come i diritti dei lavoratori in Amazon e l’uguaglianza razziale in Walmart). Tuttavia, il supporto degli investitori a tali proposte è diminuito: nello stesso periodo, si è passati da un 30% a un 20%, in media. Contestualmente, le proposte anti-ESG, per lo più centrate sulle azioni DEI (diversità, equità e inclusione), sono aumentate: dalle 30 del 2021 alle 79 del 2023. Ottengono, però, un supporto molto inferiore da parte degli investitori, attestandosi intorno al 3%.

La qualità delle proposte ESG degli azionisti varia e alcune sono focalizzate più su opinioni politiche (basate sui valori) che su benefici economici o finanziari (basate sul valore). Le proposte pro-ESG tendono ad ammantarsi di concetti che richiamano la creazione di valore per gli azionisti, ma gli argomenti che portano sono spesso vaghi e non supportati da prove, come “il rischio climatico è un rischio finanziario” e “la diversità migliora la performance”. Ironia della sorte, mentre i critici di destra imputano al’ESG di voler promuovere un’agenda politica liberal, la maggior parte delle proposte anti-ESG sostenute dai conservatori è palesemente di natura politica (dato che usa dichiarazioni del tipo “affrontare il cambiamento climatico mina l’industria dei combustibili fossili in America” e “i programmi DEI discriminano gli uomini bianchi”). Affermano che l’ESG è dannoso per i valori azionari, ma non portano alcun argomento reale che dimostri perché la loro visione alternativa sarebbe migliore.

Anche se le proposte ESG degli azionisti sono aumentate, ben poche aziende le accolgono. Ciononostante, il fenomeno mostra bene le pressioni che tutte le aziende si trovano ad affrontare. Il cambiamento climatico (nel mirino dei progressisti) e la DEI (nel mirino dei conservatori) sono i due argomenti che generano la pressione maggiore sulle aziende. La sinistra, tipicamente rappresentata da ONG e investitori socialmente responsabili, vuole che le aziende si assumano maggiori responsabilità nell’affrontare le questioni ambientali, sociali e di governance. La destra, tipicamente rappresentata da politici e associazioni di categoria conservatrici, accusa le aziende di intromettersi nelle questioni di politica pubblica a scapito della creazione di valore per gli azionisti. Spinte contrastanti sono connaturate a un mondo di visioni ideologiche contrapposte. Non spariranno mai.

Il modo migliore per un’azienda di affrontare queste pressioni è attraverso una rendicontazione trasparente e un coinvolgimento costruttivo, anche di gruppi estremamente ostili. Ignorarli non li farà sparire. Denigrarli porterà a una risposta emotiva, non razionale. I leader aziendali e i loro CdA dovrebbero ascoltare ciò che i critici hanno da dire. Dovrebbero quindi spiegare quali questioni legate alla sostenibilità non sono importanti per la creazione di valore, riconoscendo che alcune di esse potrebbero diventare rilevanti in futuro qualora la legge dovesse cambiare. Le aziende dovrebbero spiegare cosa possono e cosa non possono fare riguardo alle loro esternalità negative e identificare le aree in cui è necessario introdurre qualche forma di regolamentazione. Alcuni di quelli che si aspettano che un’azienda “faccia di più” ascolteranno, altri no. Alcuni ascolteranno e saranno d’accordo in privato, ma manterranno una posizione diversa in pubblico, perché questo fa parte della loro strategia complessiva per esercitare pressione sul settore privato e su quello pubblico.

Ecco perché è così importante, per un’azienda, essere proattiva nel coinvolgere azionisti, ONG, politici e associazioni di categoria. Deve essere chiara sul fatto che le questioni legate alla sostenibilità sono vitali per la creazione di valore e spiegare come questo funzioni in termini finanziari. Deve dare forma alla propria narrativa invece che giocare in difesa contro quelle create da altri. Prendiamo Unilever, che ha affrontato delle critiche per la sua attenzione alla sostenibilità. Sotto la guida del nuovo CEO, Hein Schumacher, ha sviluppato un “piano d’azione per la crescita” che, secondo una lettera pubblica dello stesso Schumacher e del CSO Rebecca Marmot, fa sì che l’azienda si concentri sul fare meno cose meglio e con maggiore impatto. La lettera dice che questo approccio si applica anche alla sua agenda di sostenibilità. L’azienda ora si concentra principalmente su quattro grandi priorità di sostenibilità: clima, natura, plastica e mezzi di sussistenza. «Questi sono gli ambiti di maggior rilevanza per il nostro business, quindi abbiamo implementato piani dettagliati, con scadenze precise, per garantirne il raggiungimento, allo stesso modo in cui siamo determinati a raggiungere i nostri obiettivi finanziari.»

NON SI PUÒ NEGARE che i leader aziendali debbano affrontare alcune questioni difficili riguardo a cosa significhi essere un’azienda responsabile. Queste questioni devono essere risolte con metodo e imparzialità. In altre parole, all’opposto di come la guerra culturale in atto tratta le questioni ESG. Per questo motivo, sospetto (e spero) che l’acronimo ESG alla fine scomparirà completamente. Piuttosto che parlare di ESG, i dirigenti aziendali devono essere chiari e trasparenti su quanto le loro siano aziende responsabili che stanno gestendo le esigenze di azionisti e stakeholder, e su quali esternalità negative non possono migliorare senza che intervengano dei cambiamenti nel contesto normativo. Spetterà quindi al resto di noi, la comunità intera, avviare una conversazione costruttiva su come creare al meglio una società equa e sostenibile per le generazioni future. Vista attraverso questa lente, superare le guerre culturali sull’ESG è, in realtà, la parte più facile.

ROBERT G. ECCLES è visiting professor di Pratiche manageriali alla Saïd Business School dell’Università di Oxford e presidente fondatore del Sustainability Accounting Standards Board.




RICICLARE PLASTICA PER IL PIANETA E COSTRUIRE VALORE PER L’IMPRESA: È POSSIBILE?

RICICLARE PLASTICA PER IL PIANETA E COSTRUIRE VALORE PER L’IMPRESA: È POSSIBILE?

FIMIC muove i primi passi nel 1963, grazie a nonno Giuseppe, nato in una famiglia di contadini: all’ennesima tempesta con conseguente distruzione del raccolto, stufo di non avere il controllo del proprio destino, decise di aprire una officina meccanica. Ora è un’azienda in forte espansione, che ha superato i 20 milioni di fatturato, e che vuole dimostrare che è possibile prendersi cura del Pianeta e anche costruire valore economico-finanziario come impresa.

FIMIC dove, cosa e quando: genesi, missione e visione dell’azienda

Nonno Giuseppe all’inizio realizzava un po’ di tutto: scale, cancelli, lampioni, anche i chiodi se li faceva da solo, finché a 17 anni, entrò in azienda mio padre Antonio. Dopo alcuni tentativi che non diedero i risultati sperati, notarono che nella nostra zona c’erano moltissime aziende produttrici di componenti di plastica o specializzati nel riciclo, così entrarono in quel mondo, grazie alla costruzione della loro prima ghigliottina per il taglio di bobine di plastica da recupero, e poi di un cambiafiltro autopulente, uno dei primi a quell’epoca. Questo è stato il primo step della FIMIC di oggi, conosciuta anche per questo macchinario innovativo che permette il riciclo di materiali plastici contaminati post consumo, portandoli a nuova vita.

A un certo punto della storia di FIMIC, Erica Canaia: perché ha deciso di prendere le redini dell’impresa, e cos’è cambiato con lei sul ponte di comando?

Nel 2011 entrai in azienda a sorpresa: avevo studiato giurisprudenza e l’idea iniziale era una carriera un po’ diversa. Poi, a fine studi, mi sono resa conto che volevo restare in famiglia, proseguire ciò che aveva iniziato il nonno. Non sapevo quale sarebbe stata la mia figura manageriale, c’erano solo due dipendenti al lavoro in quel momento, oltre a mia madre e mio padre. Così sono partita dalla base e ho semplicemente cercato quale fosse il mio posto: ho iniziato sistemando i documenti che trovavo in disordine, ho fatto pulizia in magazzino di ciò che era obsoleto; ho organizzato la logistica dei ricambi, realizzato un nuovo sito internet, imparato a gestire la parte amministrativa e contabile. Dopo 6 mesi di lavoro, scoprii il mio vero amore: le vendite. Partecipai alla prima fiera, creai una rete vendite estera che non esisteva, organizzai fiere, e man mano feci conoscere il nome FIMIC in tutto il mondo. Al tempo vendevamo solo in Italia, poco in Spagna e Francia. C’era molto lavoro da fare! Questa espansione ha creato ovviamente la necessità di assumere nuovo personale: mentre io giravo per vendere, in azienda c’era la necessità di produrre e fatturare. Tuttavia, raggiunto il numero di 10 persone da gestire e coordinare, sono andata in tilt; confesso che non ero in grado, non avevo le competenze per la gestione delle persone. Così ho ricominciato a studiare, a imparare, e non ho più smesso. Una delle prime attività che ho realizzato quando ho iniziato a strutturare me stessa come imprenditrice – e di conseguenza l’azienda – è stata una introspezione sulla vision e mission aziendale: 10 anni fa era molto diversa da ora, perché anche la mission e la vision evolvono e crescono. Ora siamo più di 50 persone in azienda e siamo conosciuti in tutto il mondo con la nostra tecnologia e la nostra innovazione, ma restiamo quell’azienda familiare a cui piacciono le parole “fiducia” e “libertà”: un gruppo di persone che vive la propria vita in modo completo con la liberà di essere ciò che sono, e la fiducia reciproca a sostegno – e a protezione – di un mondo migliore, al quale cerchiamo di dare il nostro contributo attraverso la produzione di macchinari per il riciclo della plastica.

Il tema del ricambio generazione le sta particolarmente a cuore, ed è anche al centro di una sua intensa campagna di sensibilizzazione e di dialogo con le nuove generazioni: perché?

Il mio stesso cambio generazionale è stato intenso, quanto in qualsiasi altra azienda del territorio. Siamo italiani, siamo passionali, siamo legati alla famiglia e siamo fieri di ciò che abbiamo costruito. Quando ho iniziato a studiare per migliorarmi come imprenditrice ho scoperto immediatamente, ad esempio, la difficoltà della comunicazione, e quanto poco viene studiata in generale. Ci sono tantissime sfaccettature a riguardo, e ogni anno trovo qualche spunto nuovo di studio e approfondimento. Sono convinta che oltre ad una differente tipologia di comunicazione che varia a seconda della cultura e sulla propria personalità, ci sia anche un differente approccio comunicativo anche in base all’età. Le generazioni che hanno creato le nostre aziende hanno una modalità comunicativa diversa dalla nostra, come le generazioni più giovani si differenziano dalla mia. In famiglia ho tutte le tipologie comunicative possibili: mia suocera non parla e mantiene tutte le emozioni dentro sé; mio marito è molto simile a sua madre sta ancora lavorando molto per migliorarsi e parlare più apertamente delle proprie emozioni; mio suocero parla senza filtro alcuno, quello che gli viene in mente lo butta fuori; mia madre non ha nessuna diplomazia comunicativa e va dritta al punto, al suo obiettivo, senza pensare ai risvolti emotivi della controparte; mio padre è talmente delicato e ha paura di disturbare o offendere qualcuno che dice solo le cose davvero importanti; mio figlio, infine, ciò che decide fa, e quindi ti dice ciò che vuole senza mezzi termini… e ha solo 4 anni! Con una famiglia con così tanti stili comunicativi ed età differenti, sono sopravvissuta solo imparando ad adattarmi alla comunicazione dell’altro. E in azienda è lo stesso. Parlo spesso con amici che non riescono a gestire un cambio generazionale pacifico, e quando chiedo loro come comunicano in famiglia, in poco tempo realizzano che semplicemente non comunicano, e così ci sono tante aziende che vengono vendute a fondi di investimento o che implodono, solo per mancanza di comunicazione. Dal canto mio, cerco di condividere ciò che ho capito con gli altri, per evitare la sofferenza familiare ed aziendale che ne comporta, che crea seri problemi anche ai collaboratori che restano bloccati da queste dinamiche familiari. Quindi, spero che anche questa intervista possa aiutare e sostenere qualche azienda, e magari contribuire così, con una piccola cosa, a realizzare un mondo migliore.

La sostenibilità secondo Fimic

È un tema molto sentito da FIMIC, è parte della nostra missione aziendale, dal momento che contribuiamo al riciclo della plastica. Abbiamo creato il progetto AreyouR ormai 10 anni fa, abbiamo più di 90mila followers in tutta Europa su Facebook: è un progetto diretto a realizzare consapevolezza sul riciclo e ad evitare la demonizzazione della plastica tout-court, assolutamente inutile e deleteria per l’ambiente. La plastica non ha le gambe! Per noi però sostenibilità riguarda anche le nostre persone. Sosteniamo la maternità con il progetto Mater novissima (nei primi 3 anni di vita della madre paghiamo l’asilo nido al suo bambino, e ai padri diamo 25 ore libere di permessi retribuiti in azienda come tempo dedicato alla paternità e al sostegno della famiglia). Oltre a questo progetto, nel quale credo moltissimo, sosteniamo e realizziamo la formazione del personale sia per le soft che per le hard skills: abbiamo corsi di lingua straniera, coaching, assistenza psicologica, corsi dedicati per l’inserimento delle nuove risorse, corsi di mindfulness, corsi di intelligenza emotiva e molti altri. La crescita delle competenze dei nostri dipendenti è per noi strettamente legata alla crescita aziendale e alla nostra mission familiare: vogliamo delle persone serene in azienda, felici di venire al lavoro.

La tutela della reputazione secondo Fimic (e secondo lei)

In passato ho sofferto molto – nel nostro settore – per l’imitazione dei nostri macchinari, e non solo. Ci hanno copiato video aziendali, pubblicità, gadgets, i modelli delle offerte… Purtroppo la giustizia dal punto di vista legale è lunga e tende a prediligere il principio di libera concorrenza. Dimostrare che copiare è sleale è talmente complesso e comporta una spesa non solo economica, ma soprattutto di energie e tempo, che dopo molti anni di duro lavoro sto abbandonando le attività legali e spostando tutte le risorse in ricerca e sviluppo. Non posso controllare l’invidia e la slealtà degli altri, ma posso innovare e stare sempre un passo avanti rispetto agli altri, questo si. La concorrenza quindi è una spinta a migliorarsi ed è molto utile. In tutto questo, la reputazione ha certamente un ruolo centrale.

Lei è donna, giovane, CEO di un’azienda metalmeccanica: sfata molti stereotipi. Come vive la sua condizione professionale, e come la sua professione impatta sulla sua sfera personale?

È una sfida giornaliera che ho imparato ad accettare. Me la prendevo molto in passato, ma è stato molto utile affrontare stereotipi di genere, di età e pure di competenze, perché mi ha dato la spinta per dimostrare ciò che potevo fare, imparare sempre di più e fare meglio. Mi è successo anche di recente, la mia giovane età ha creato un bias agli occhi di un gruppo di persone che non mi ha trovato all’altezza di un compito a cui tenevo molto. Quando poi avrò 60 anni, forse sarò troppo vecchia per altri. Come dicevo, ci rido su, e semplicemente proseguo per la mia strada. Non posso piacere a tutti, questo è ovvio, ma sono molto grata del mio gruppo di persone, quelli con cui lavoro insieme, e con cui ho un rapporto amichevole, di fiducia e rispetto. Loro sanno che possono sempre contare su di me. Devo dire che non ho mai fatto una divisione netta fra sfera professionale e personale: ho un solo telefono e un solo computer. Dentro ci sta personale e professionale, e sono come sono sia in famiglia che sul lavoro. A lavoro sanno tutto di me, e in famiglia sanno tutto del lavoro, perché trovo che i segreti uccidano le relazioni. Comunque è stato difficile all’inizio esser donna giovane in un ambiente maschile, certo, ma è stato anche divertente e sfidante. Ad esempio mi scambiavano per la hostess durante le fiere, e mi chiedevano di parlare con un tecnico. Chiedevo 10 minuti del loro tempo per dimostrargli che potevo rispondere anche senza il tecnico: si mettevano a ridere, ma nessuno mi ha mai detto di no. E dopo 10 minuti nessuno mi chiedeva più del tecnico… Come ho detto, l’importante è come vedi tutto ciò che ti accade: come un problema, una sfortuna o una difficoltà, oppure come una opportunità da cogliere. Io ho sempre preferito pensare che fosse il secondo caso.

Che significato dà lei ai termini “autenticità” e “coerenza”?

Non sopporto la falsità e non sopporto l’incoerenza: minano la fiducia, il mio valore personale principale. Preferisco sentirmi dire in faccia cosa ho sbagliato, per potermi migliorare a livello personale ed aziendale. E penso che dai miei post di Linkedln si capisca che non sopporto le falsità, visto che cerco di smascherare il greenwashing e le fake news sulla plastica. Non è sempre facile esserlo, perché essere più “politica” (quindi meno sincera) in certi ambiti sarebbe utile, ma a lungo andare, il tempo dimostra sempre che ne vale la pena.

Il suo più grande successo in azienda, e in suo più grave errore…

Il mio più grande successo è anche il mio più grande errore: do sempre molta fiducia alle persone perché, sempre per coerenza, se dichiaro essere il mio valore principale, non potrei non darla al massimo a tutti, e nella maggior parte dei casi è molto ben riposta. Le persone in FIMIC crescono ed evolvono, sia dal punto di vista personale che professionale. Danno il massimo per il bene del gruppo, sono felici di venire a lavoro, si sentono parte di qualcosa di importante e sanno che sono tutti parte di un ingranaggio che si collega ad un altro per un fine comune. Ma non sempre la fiducia è stata riposta correttamente, in alcuni rari casi – in passato – ho sbagliato nella scelta di persone da inserire che hanno approfittato di una mia certa ingenuità emotiva. Succede di sbagliare, ma è parte della vita dell’imprenditore provare e ritentare. E in ogni caso questi errori hanno sempre lasciato spazio all’ingresso di una nuova persona meravigliosa in azienda.

Cosa cambierebbe nel vostro settore industriale?

Mi piacerebbe molto che ci fosse una lobby più forte in grado di misurarsi costruttivamente con l’Unione Europea e le direttive comunitarie, con una voce comune. Comprendo la volontà dell’UE di migliorare l’ambiente, ma al contrario, hanno demonizzato la plastica e imposto delle regole troppo severe sul riciclo e il riuso. Hanno permesso l’importazione di materiale riciclato extra europeo, non certificato ma più economico. Hanno permesso il crollo del costo della plastica vergine e hanno fatto collassare così l’acquisto del materiale riciclato. Comprano tutti materiale plastico vergine, perché costa meno! Siamo in sofferenza da 18 mesi ormai, un altro anno in questa situazione e molte aziende del settore non riusciranno a sopravvivere, causando un danno ambientale ulteriore. Serve un deciso cambio di passo.

FIMIC tra 10 anni… 

Quando ho iniziato in FIMIC avevo 25 anni e avevo creato una lista di sogni da poter raggiungere in 10 anni. C’era un figlio, una azienda strutturata, un elenco di paesi da “conquistare”, e molto altro. 10 anni dopo, l’avevo ultimata per davvero, e mi sono sentita svuotata: come se non potessi fare altro, perché avevo già raggiunto tutto! Questo è il motivo per il quale non faccio più liste così a lungo termine: per non risentirmi nuovamente “già arrivata”. Le faccio allora a 2-3 anni, ed è una lista aperta, dove poter aggiungere, e aggiungere ancora. In questo momento stiamo studiando nuovi prodotti, nuove collaborazioni e magari una acquisizione. Ciò che so per certo, è che voglio che tutti vivano FIMIC come una famiglia, un posto sereno da vivere insieme.