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Adottare un approccio strategico alla sostenibilità

Adottare un approccio strategico alla sostenibilità

Spesso si sente dire che la strategia è l’arte di scegliere cosa non fare. Quando affrontano la sostenibilità, però, molte aziende ignorano la raccomandazione e cercano di affrontare troppi aspetti tutti insieme.

La conseguenza? Iniziative sporadiche che non producono risultati economici né effetti significativi. In casi estremi, le promesse eccessive e disattese possono anche indurre gli stakeholder e gli organi di controllo a pensare che si tratti di greenwashing.

Perché le aziende tendono a mettere troppa carne al fuoco quando affrontano la sostenibilità? E come possono definire la loro strategia per la sostenibilità in modo più focalizzato, come fanno con quella aziendale?

Un’analisi di materialità è (sulla carta) il modo in cui un’azienda seleziona i temi ambientali, sociali e di governance (ESG) per concentrarsi solo su quelli che hanno un impatto rilevante sui risultati finanziari. Queste analisi sono pensate per rispondere alla domanda: «Di quali informazioni sull’azienda hanno bisogno gli investitori e altri portatori di interesse per prendere le loro decisioni?» Le società petrolifere e del gas dovrebbero pubblicare i dati sulle loro emissioni di gas serra, mentre quelle del settore dell’abbigliamento dovrebbero concentrarsi sulle condizioni di lavoro negli stabilimenti tessili, per fare due semplici esempi. Data la varietà di soggetti interessati e di norme in materia di rendicontazione, tuttavia, le attività destinate a divulgare informazioni sulle tematiche rilevanti spesso portano le aziende a monitorare e divulgare un’ampia serie di indicatori. Abbiamo letto rapporti sulla sostenibilità che comprendono indicatori chiave di prestazione praticamente su tutto, dalle iniziative a favore della diversità e dell’inclusione alle emissioni di gas serra, la corruzione, l’inquinamento elettromagnetico e la biodiversità.

Poiché produrre relazioni costa, le aziende cercano di ridurre il numero di tematiche trattate e in molti casi ricorrono alla creazione di una matrice di materialità a due assi: su uno elencano gli interessi rilevanti per l’azienda e sull’altro quelli per gli stakeholder e la società in generale. I leader aziendali concentrano poi la maggior parte dell’attenzione e delle risorse sul quadrante superiore destro della matrice, pur continuando a monitorare quelli che Jilde Garst e i suoi colleghi chiamano tensioned topics, ossia i temi rilevanti da un punto di vista, ma non da altri (nella maggior parte dei casi, i temi rilevanti sotto il profilo sociale, ma privi di giustificazione economica).

Il problema è che questo approccio non aiuta a focalizzare l’attenzione su ciò che conta. Come ha sostenuto Alison Taylor della New York University, le matrici di materialità diventano matrici in cui «tutto è rilevante». In effetti, nel nostro studio abbiamo esaminato 256 rapporti sulla sostenibilità del 2022 che comprendevano matrici di materialità o altre forme di presentazione dei temi ad alta priorità. In quel campione, il numero di tematiche alle quali era attribuita la massima priorità era mediamente pari a 11,8 (con un intervallo che andava da 2 a 43). Sono decisamente troppe. Gli esperti di strategia, basandosi anche sulle conclusioni dei neuroscienziati secondo cui il cervello umano può concentrarsi soltanto su tre o al massimo cinque informazioni alla volta, raccomandano al gruppo dirigente di concentrarsi su non più di sei temi alla volta, altrimenti la loro attenzione e capacità di agire diminuisce.

In quest’articolo descriviamo un quadro di riferimento che i dirigenti possono usare per focalizzarsi su ciò che conta davvero quando formulano la loro strategia per la sostenibilità. Il quadro si basa su quattro lenti, o metodi di indagine, che aiutano le aziende a individuare le tematiche su cui concentrare la loro attenzione strategica. I temi che compaiono in tutte e quattro le lenti sono quelli a cui merita destinare le maggiori risorse e innovazioni per promuovere un progresso reale.

Il quadro di riferimento basato sulle quattro lenti

La nostra premessa fondamentale è che, per mettere bene a fuoco i problemi, un’azienda deve controllare due tensioni. La prima è tra la prospettiva esterna-interna e quella interna-esterna: i leader devono conoscere le principali problematiche sociali e ambientali della nostra epoca e i punti di vista degli enti di regolamentazione, dei clienti, degli investitori, dei dipendenti e dei fornitori. Senza queste conoscenze, operano dentro una bolla. Prestando un’attenzione eccessiva alle pressioni esterne, tuttavia, i dirigenti potrebbero reagire in modo sproporzionato alle esigenze degli stakeholder. È altrettanto importante guardare all’interno, dar prova di leadership e decidere a quali temi ESG l’azienda non darà la priorità, in modo da potersi concentrare su quelli che sono in linea con il suo modello d’impresa e il suo scopo.

La seconda tensione è tra la percezione e la realtà, o il soggettivo e l’oggettivo. Le informazioni basate sui dati e i criteri finanziari sono essenziali, ma il successo di un’azienda spesso dipende dalle percezioni dei portatori d’interesse che in alcuni casi sono male informati. Prendiamo i rifiuti prodotti dalle capsule di caffè, per esempio. L’analisi del ciclo di vita svolta da Andrea Hicks rivela che il caffè in capsule è efficiente: compensa l’impatto in termini di emissioni di CO2 e consumo idrico dovuto all’aumento dei rifiuti di plastica utilizzando dosi precise di caffè, acqua e calore. Un’analisi basata sui dati indicherebbe che un’azienda come la Keurig Dr Pepper (KDP) potrebbe ignorare la questione delle capsule da smaltire e concentrarsi invece sul miglioramento delle pratiche di coltivazione del caffè per ridurre il consumo idrico e mantenere sani i suoli e le foreste. Tuttavia, come fa notare Monique Oxender, direttrice degli affari societari di KDP, il fatto che gli stakeholder considerino i rifiuti generati dalle capsule il tema ambientale primario ha imposto all’azienda di prestargli attenzione. «Finché i rifiuti saranno percepiti come il problema maggiore» dice, «sarà importante affrontare la questione dello smaltimento delle capsule.»

Per gestire queste tensioni e capire quali sono gli aspetti più importanti da affrontare, le aziende devono utilizzare quattro lenti: il valore per l’impresa, l’influenza degli stakeholder, la scienza e la tecnologia e lo scopo. Esaminiamo le quattro lenti per vedere come possono aiutare i dirigenti a ideare una strategia di sostenibilità mirata.

La lente del valore per l’impresa: che cosa incide sui profitti aziendali?

Per la maggior parte delle aziende, un fattore fondamentale per elaborare una strategia di sostenibilità mirata è rispondere alla domanda: «Quali temi riguardanti la sostenibilità hanno un impatto sui nostri profitti?» Questo approccio consente di individuare soluzioni vantaggiose per tutti, che giustificano gli investimenti migliorando il conto economico. Gli investitori, che tendono a sentirsi più a loro agio discutendo la sostenibilità in termini finanziari, sono particolarmente inclini a sostenere questo orientamento. Prendiamo, per esempio, la strategia per la sostenibilità di Walmart nel 2006 che prevedeva “zero sprechi” come obiettivo prioritario. L’azienda è riuscita a ridurre i costi eliminando gli sprechi di combustibile nei camion in attesa, gli sprechi di elettricità nei frigoriferi causati dal calore delle lampade a incandescenza e gli sprechi di imballaggi nei suoi magazzini. Queste riduzioni dei costi l’hanno aiutata a tener fede alla sua proposta di valore fondamentale di offrire ogni giorno prezzi bassi.

La lente del valore per l’impresa può inoltre aiutare un’azienda a creare consenso su una strategia di sostenibilità al di là delle differenze ideologiche, perché i miglioramenti della sostenibilità che fanno anche crescere i profitti raramente suscitano controversie. Questo approccio è anche detto a “materialità singola”, perché cerca di quantificare i temi ESG rilevanti per la creazione di valore per gli azionisti, ossia quelli che comportano rischi per l’azienda. Data la sua natura apolitica e puramente finanziaria, la materialità singola è la prospettiva prevalente nelle considerazioni del SEC (l’ente federale statunitense preposto alla vigilanza delle borse valori) sui dati climatici negli Stati Uniti, nella maggior parte dei quadri di riferimento per la rendicontazione, come quello del SASB (Sustainability Accounting Standards Board, l’organizzazione statunitense che sviluppa standard contabili di sostenibilità), e nell’analisi dei rischi climatici che è ora parte integrante del diritto californiano ed europeo.

Un abile impiego di questa lente richiede la mappatura dei temi ambientali e sociali rispetto ai fattori di creazione, ottenimento e mantenimento del valore per l’impresa, come la struttura dei costi, la propensione a pagare del cliente, il potere di definizione dei prezzi e la valutazione delle attività e passività. In alcuni casi questi nessi sono ovvi, per esempio quando un’azienda deve far fronte a notevoli spese energetiche e obblighi normativi. In altri richiedono un esame di quello che Daniel Aronson, un luminare nel campo della sostenibilità, definisce “valore sommerso”: un valore non immediatamente ovvio e difficile da misurare, ma potenzialmente considerevole. Per esempio, il SASB riconosce che le società farmaceutiche dipendono dai migliori talenti scientifici e quindi elenca assunzione, sviluppo professionale e mantenimento dei dipendenti come un tema ESG rilevante a tutti gli effetti. Per un’azienda, un miglioramento marginale in quest’ambito può valere miliardi.

La lente dell’influenza degli stakeholder: che cosa cercano di dirci le persone?

La lente del valore per l’impresa tende a focalizzare l’attenzione sulle soluzioni vantaggiose per tutti nel breve termine. Se i dirigenti usano soltanto quella lente, però, non acquisiranno la cognizione della situazione necessaria per individuare i problemi che si profilano all’orizzonte. Laurent Bouvier, consigliere di amministrazione di UBS Investment Bank, spiega come la banca utilizza i criteri ESG per valutare gli investimenti potenziali nelle aziende: «Non esaminiamo i “dati non finanziari”, esaminiamo le “informazioni prefinanziarie”». Un valido modo in cui le aziende intelligenti vengono a conoscenza dei problemi emergenti è interpellando fonti esterne, come le ONG, i sociologi, gli studiosi di scienze naturali, i giornalisti, i politici e gli attivisti che si adoperano per sollevare questioni come l’estinzione delle specie, il lavoro forzato e la corruzione, che potrebbero interessare la catena di valore di un’azienda. Questi portatori d’interesse esercitano un forte impatto sull’ambiente operativo delle imprese: contribuiscono a definire le norme, gli standard e i regimi di certificazione facoltativi che possono trasformarsi in legislazione vincolante che impone obblighi alle imprese. Possono inoltre influenzare le preferenze e le decisioni degli stakeholder più prossimi all’azienda: gli investitori attuali e potenziali, i clienti, i dipendenti, i fornitori e i residenti locali.

In sostanza, gli atteggiamenti dei portatori d’interesse incidono sul valore per l’impresa, ma con una puntualizzazione importante: le aziende devono prevedere ciò che gli stakeholder faranno, non solo ciò che diranno. Per esempio, i clienti saranno abbastanza sensibili ai diritti umani e alle condizioni di lavoro nelle fabbriche tessili da boicottare gli abiti a basso prezzo? I dipendenti potenziali daranno all’impronta di carbonio dell’azienda un’importanza tale da rifiutare le offerte di impiego? I sondaggi degli stakeholder possono aiutare a distinguere tra preferenze dichiarate e comportamento reale, ma ci sono metodi di ricerca di mercato ancora migliori, come le domande a classificazione forzata e i test A/B dei messaggi pubblicitari, che producono dati più attendibili.

È importante che gli stakeholder non siano visti come semplici critici che si concentrano sulle cose che un’azienda dovrebbe smettere di fare; le loro campagne, infatti, possono anche ispirare innovazioni. Per esempio, la Eversource, una società di distribuzione di elettricità e gas del New England, era convinta di gestire con efficacia le perdite di gas concentrandosi sulla soppressione delle perdite in ambienti circoscritti, che comportano rischi immediati per la sicurezza. Aveva ritenuto che le perdite elevate all’aperto non fossero un grosso problema finché Mothers Out Front, un gruppo di attiviste per il clima, non ha richiamato l’attenzione sulle notevoli emissioni di metano causate da tali perdite. Invece di opporre resistenza, l’azienda ha avviato un dialogo con le attiviste. La loro collaborazione ha portato a varie innovazioni, tra cui metodi avanzati di misurazione delle perdite di metano, una legge per incentivare la prevenzione delle perdite e nuovi sistemi geotermici per riscaldare e rinfrescare le case senza ricorrere al gas.

La lente della scienza e tecnologia: che cosa dicono i dati sul nostro impatto e il nostro futuro?

Pur essendo una fonte promettente di informazioni, l’ecosistema degli stakeholder può essere caotico e le aziende hanno bisogno di dati che le aiutino a eliminare la confusione. Una volta Nike si è rivolta a un collegio di consulenti per farsi aiutare a stabilire l’ordine di priorità delle richieste di informazioni sulle prestazioni ESG aziendali che riceveva dagli stakeholder, e anche quello delle questioni trattate nelle richieste. L’elenco conteneva 49 corposi questionari che ONG, giornalisti, gruppi di investitori e coalizioni settoriali le avevano chiesto di compilare, fra cui aveva individuato 24 temi di alto profilo. Solo nell’ambito della diversità, equità e inclusione, l’azienda doveva stabilire l’ordine di priorità di 11 sottotemi. Si era messa in moto una specie di forza centrifuga, nel senso che ogni stakeholder promuoveva la propria causa e cercava di attirare l’azienda dalla propria parte. L’effetto non intenzionale era un sovraccarico di tematiche da affrontare.

Inoltre i portatori d’interesse non sempre dispongono di informazioni chiare. Prendiamo gli organismi geneticamente modificati (OGM), per esempio. L’opinione pubblica li ha demonizzati, ma la letteratura scientifica indica che possono svolgere un ruolo importante nel migliorare la resilienza climatica e ridurre l’impiego di pesticidi. L’energia nucleare uccide e fa ammalare un minor numero di persone per kilowatt rispetto a qualsiasi fonte di energia fossile, eppure suscita maggiore preoccupazione. In altri casi, gli stakeholder non fanno ancora sentire la loro voce su temi che sono tuttavia rilevanti per l’azienda. Per esempio, la resilienza climatica è un tema importante per la coltivazione del caffè, in quanto le temperature elevate, gli incendi e le variazioni nei regimi delle precipitazioni rappresentano un rischio per gli agricoltori e per l’approvvigionamento, eppure pochi stakeholder hanno considerato la questione un grosso problema.

Per questo motivo, le aziende devono usare la lente della scienza e tecnologia, servendosi di dati rigorosi e tecniche di modellizzazione per informarsi sulle problematiche. Gli strumenti offerti dalle scienze ambientali, come l’analisi dei rischi climatici fisici (un processo per determinare l’impatto potenziale dei cambiamenti climatici su una comunità o organizzazione), consentono di valutare come le mutevoli condizioni ambientali incideranno sulla catena di valore di un’azienda. L’analisi del ciclo di vita può rivelare se le sue attività superano i limiti ambientali o oltrepassano i confini planetari, ossia le soglie ecologiche che definiscono lo spazio operativo sicuro per l’umanità in ambiti quali il clima, la biodiversità e il consumo di risorse. Gli strumenti offerti dalle scienze sociali consentono di valutare se un’azienda e i suoi fornitori soddisfano i requisiti sociali della cittadinanza aziendale in comunità chiave, come corrispondere ai lavoratori vulnerabili un salario minimo vitale.

Strumenti quali la modellizzazione della curva di apprendimento tecnologico possono inoltre aiutare un’azienda a prevedere come le tecnologie emergenti modificheranno i trade-off fra l’impatto sociale e ambientale e la redditività. Via via che si evolvono, le tecnologie potrebbero offrire alternative più sostenibili che tengono conto di entrambi gli interessi. Per esempio, le fonti di energia rinnovabili e le pratiche agricole a basso impatto ambientale stanno diventando più vantaggiose dal punto di vista economico e potrebbero determinare una riformulazione delle strategie aziendali.

È chiaro che la scienza e gli stakeholder sono ambiti interdipendenti. In molti casi, un’azienda non esaminerà un problema finché un gruppo esterno non lo solleverà. Ma le aziende possono anche usare le informazioni scientifiche per mobilitare i portatori di interesse attorno a temi importanti. Nel settore dell’erba sintetica, per esempio, alcuni produttori di materiali di riempimento naturali hanno sensibilizzato i consumatori riguardo ai rischi associati al granulato di gomma, un materiale contenente sostanze chimiche cancerogene e microplastiche che vanno a finire nei corsi d’acqua. (Jason Jay è consigliere di amministrazione della Brock USA, un’azienda che produce materiale di riempimento a base di legno per campi sportivi e persegue questa strategia.) Quando le aziende devono affrontare le opinioni confuse e spesso discordanti dei portatori di interesse, può essere utile disporre di dati imparziali e oggettivi su cui basare il dibattito. E la lente della scienza e tecnologia fornisce esattamente questo tipo di informazioni.

La lente dello scopo: a che cosa aspiriamo?

Le prime tre lenti mettono a fuoco molte tematiche, ma la quarta aiuta le aziende a individuare i temi ESG che balzano agli occhi e fanno dire “questo è compito nostro”. La lente dello scopo invita a chiedersi perché un’azienda esiste e come vuole operare. Esamina gli impatti che hanno maggiore rilevanza per lo scopo di un’impresa e i valori che si impegna a sostenere.

Per esempio, Costco è fiera di investire nei propri dipendenti e di prendersene buona cura. È il tipo di azienda che, secondo la professoressa del MIT Zeynep Ton, offre «buoni posti di lavoro», cioè si distingue assicurando una lunga carriera, una buona retribuzione e solidi benefici accessori, comprese opportunità di apprendimento e sviluppo professionale. Quando Costco cominciò a pensare alla sostenibilità alla fine degli anni 2000, la prima domanda che si posero i dirigenti era: «Ci stiamo prendendo cura delle persone nella nostra catena di approvvigionamento allo stesso modo in cui ci prendiamo cura dei nostri dipendenti?» Questa domanda stimolò una serie di studi e iniziative di miglioramento focalizzate sui mezzi di sostentamento e sulle condizioni di lavoro nell’intera catena di approvvigionamento, in particolare nella produzione di beni di consumo che si prestano allo sfruttamento, al lavoro forzato e ad altre forme di abuso.

Le aziende che danno priorità ai temi messi in luce dalla lente dello scopo troveranno la determinazione e la pazienza necessarie per riconfigurare i mercati. Novo Nordisk ha rivoluzionato più volte la cura del diabete, Tesla si è posta all’avanguardia nel settore dei veicoli elettrici, Grameen Bank ha fatto da apripista alla microfinanza, Patagonia ha definito l’abbigliamento etico e Stonyfield Farm ha creato la categoria dei latticini biologici. Queste aziende motivate dallo scopo hanno tutte una cosa in comune: si sono rifiutate di accettare le condizioni istituzionali e di mercato esistenti. Hanno influenzato gli stakeholder, educando e ispirando i clienti a pensare e agire in modi nuovi. Hanno condizionato la politica pubblica e le norme industriali per renderle più favorevoli alle aziende e alle società responsabili sotto il profilo etico. Hanno innovato introducendo nuove tecnologie e pratiche di gestione che hanno modificato le equazioni costi/benefici sul mercato. Così facendo, hanno cambiato i mercati e creato uno spazio in cui le loro attività possono prosperare.

Uso delle lenti

Come abbiamo visto, i tipi di dati e i metodi di indagine sono diversi per ciascuna lente, e ognuna metterà a fuoco un particolare insieme di tematiche. Le aziende dovrebbero investire, innovare e creare coalizioni strategiche intorno ai temi che si collocano nel punto di intersezione di tutte e quattro le lenti. Questo le aiuterà a bilanciare le tensioni tra un approccio esterno-interno e uno interno-esterno e tra i metodi di indagine soggettivi o intangibili e oggettivi o quantificabili.

Esaminiamo il modo in cui KDP ha reagito alle preoccupazioni riguardanti le sue capsule di caffè per capire come usare il quadro di riferimento delle quattro lenti.

Influenza degli stakeholder. Le preoccupazioni riguardanti l’impatto ambientale dei rifiuti prodotti dalle capsule di caffè ha indotto alcuni stakeholder a minacciare di proibire l’uso della capsula K-Cup. «La prossimità svolge un ruolo enorme per quanto riguarda la materialità ESG» dice Neha Thatte Mallik, responsabile della gestione del prodotto di KDP. «Le persone danno molta importanza alle cose che possono toccare, sentire, gustare. Toccano le capsule, bevono il caffè e si sentono in colpa quando buttano via l’involucro». I consumatori vogliono anche sapere se quello che bevono proviene da fonti gestite in modo responsabile.

Scienza e tecnologia. L’analisi del ciclo di vita della catena di valore ha rivelato l’efficienza del caffè monodose (in termini di consumo di caffè, acqua ed energia), ma anche la difficoltà di riciclare e compostare l’involucro in modi che riducano le emissioni: una sfida cruciale per l’innovazione nel settore. La lente scientifica ha inoltre messo in luce un problema di continuità operativa: dato che i cambiamenti climatici rendevano il caffè una coltura vulnerabile, i coltivatori cominciavano ad avere difficoltà a guadagnarsi da vivere e alcuni cessavano l’attività.

Scopo. La storia delle origini di Green Mountain Coffee Roasters (che ha acquistato Keurig e poi si è fusa con Dr Pepper Snapple Group) parla di un’azienda profondamente impegnata a investire nel benessere delle comunità di coltivatori di caffè. Nel 1999, per esempio, cominciò a finanziare l’organizzazione no profit Root Capital per sostenere il reddito degli agricoltori e le pratiche di coltivazione sostenibili. Il suo impegno si è trasformato in uno scopo, che trova espressione nel motto di KDP: «Bevi sano. Fai del bene». L’azienda abbina il principio di responsabilità a quello dell’impatto positivo.

Valore per l’impresa. Il successo di Nespresso, con il suo caffè cremoso di fascia alta e un programma di ritiro e riciclo delle capsule, assieme alla diffusione delle macchine espresso semiautomatiche, indicava l’esistenza di opportunità commerciali non sfruttate sul mercato del caffè monodose. Traendo ispirazione dal posizionamento nella fascia di prima qualità dei concorrenti e dalle loro iniziative a favore della sostenibilità, KDP ha iniziato a esaminare modi in cui migliorare le proprie offerte, invece di ritirarsi dalla categoria.

Infine, è importante rilevare che le attività di fusione e acquisizione possono complicare il quadro. Un’azienda potrebbe adottare un orientamento strategico a favore della sostenibilità con la sua gamma di prodotti e poi doverlo rivalutare quando una fusione introduce nel quadro nuovi prodotti e mercati. Snapple, l’azienda nata dalla fusione tra Keurig e Dr Pepper nel 2018, con il suo portafoglio di bevande ha introdotto la catena di valore dei dolcificanti in KDP assieme a tutte le problematiche che comportano in particolare il tema dell’obesità associata al consumo di zucchero.

Se esaminiamo il punto di intersezione delle quattro lenti, vediamo tre priorità strategiche fondamentali per la sostenibilità di KDP: eliminare i rifiuti mantenendo al tempo stesso la comodità del caffè monodose; approvvigionarsi presso fonti gestite in modo responsabile che tengano conto dei problemi ambientali e sociali nella coltivazione del caffè; salute e benessere grazie agli ingredienti delle bevande Dr Pepper. Le quattro lenti mettono quindi a fuoco, a un primo esame approssimativo, tre priorità: un numero decisamente inferiore rispetto ai 21 temi a medio e alto impatto trattati nel rapporto KDP del 2023. Se avessimo stabilito l’ordine di priorità dei temi a livello di categoria di prodotto (sul quale spesso si basa la strategia aziendale), le priorità strategiche per l’attività relativa al caffè si sarebbero potute ridurre alle prime due.

In effetti, questa analisi descrive l’indirizzo reale dello sforzo innovativo di KDP. Nel 2024 l’azienda ha annunciato il lancio delle K-Rounds, cialde prive di plastica costituite da una dose di caffè compresso, protetto da un involucro vegetale in grado di sopportare l’alta pressione dell’acqua per l’estrazione del caffè. «L’innovazione sarà priva di plastica, a base vegetale e compostabile», conferma Mallik, che ha guidato lo sviluppo del prodotto. KDP si augura che la tecnologia diventi il nuovo sistema di preparazione del caffè monodose prevalente sul mercato.

La sostenibilità è un terreno difficile e dinamico in cui muoversi. Le aziende devono fare i conti con mutamenti continui nelle priorità e preoccupazioni degli stakeholder, nel consenso scientifico, nei costi di approvvigionamento e nelle preferenze dei clienti che accrescono il valore per l’impresa. Possono inoltre reinterpretare il loro stesso scopo a seguito di fusioni o cambiamenti nella dirigenza. Di conseguenza, le quattro lenti non forniscono una visione fissa e stabile della strategia di sostenibilità aziendale, ma possono aiutare a mettere a fuoco i temi rilevanti e fare chiarezza in momenti complicati, dando alle aziende la fiducia per perseverare, innovare e porsi all’avanguardia negli ambiti ai quali tengono maggiormente.

  • Jason Jay è professore associato alla Sloan School of Management del MIT e direttore dell’Iniziativa sulla sostenibilità dell’istituto.Kate Isaacs è professoressa associata alla Sloan School of Management del MIT e cofondatrice del Businesses for Inclusive Local Thriving Lab dell’istituto. Hong Linh Nguyen insegna all’Università di Scienze applicate di Francoforte.



Tesi di laurea: LE SOCIETÀ DI LOBBYING IN ITALIA. DALLE RELAZIONI ISTITUZIONALI ALLA GESTIONE DELLA REPUTAZIONE

Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia, Comunicazione
Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale Corso di laurea in Organizzazione e Marketing per la Comunicazione d’Impresa

Anno Accademico 2024/25

Abstract

Partendo dalla cornice teorica elaborata nel corso della precedente tesi sperimentale, la presente ricerca indaga le motivazioni che, negli ultimi anni, hanno spinto numerose società di consulenza specializzate in lobbying e public affairs ad aprire aree dedicate alla gestione della reputazione, del rischio e delle crisi dei propri clienti, nelle forme e modalità più varie.

Nel corso del tempo, tali realtà hanno progressivamente ampliato il proprio raggio d’azione, distaccandosi dall’attività esclusivamente politico-relazionale e intraprendendo un processo di ibridazione con il settore della comunicazione. Quest’evoluzione presenta un paradosso, poiché società pubblicamente vittime di una cattiva reputazione sempre più spesso finiscono per curare la reputazione altrui, seguendo profili di aziende e di singoli professionisti appartenenti al mondo dell’imprenditoria e della politica. L’obiettivo è approfondire le ragioni implicate in tale diversificazione strategica, andando a comprendere in parte quelli che sono i meccanisti interni alle principali società di lobbying italiane. Ciascun capito integra l’analisi teorica con testimonianze di personalità ritenute rappresentative del tema trattato.

Il primo capitolo, legandosi all’evoluzione concettuale del potere e delle risorse che lo nutrono, ripercorre le nozioni teoriche necessarie alla comprensione dell’attività di rappresentanza di interessi, sfruttando le testimonianze degli addetti ai lavori che, nel corso della precedente ricerca, hanno prestato la propria voce.

Il secondo capito illustra gli elementi fondanti il risk, il crisis e il reputation management, chiarendo quelle che sono le tecniche da mettere in atto nel tentativo di prevenire, arginare e recuperare episodi di crisi. Vengono illustrate le strategie proprie della retorica apologetica, classificando le tipologie di scuse esistenti ed esplicitando gli elementi necessari affinché queste siano potenzialmente ben accolte. Sono presentati modelli ideali di discorsi volti al ripristino della credibilità perduta.

Il terzo capitolo ripercorre l’evoluzione e il funzionamento delle società di lobbying italiane. Vengono descritte le ragioni alla base della loro nascita…


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Tesi di laurea: La narrazione che crea valore: il caso “Figli del Mondo” e “Appennino hub”

Tesi di laurea: La narrazione che crea valore: il caso "Figli del Mondo" e "Appennino hub"

Corso di laurea in Comunicazione e Digital Media

Comunicazione d’impresa e gestione della reputazione

Anno accademico 2024/25

Introduzione

La seguente tesi intende analizzare l’associazione Figli del Mondo e l’incubatore di startup Appenninol’hub. Figli del Mondo e Appenninol’hub hanno accolto con grande entusiasmo la scelta di analizzare le loro realtà, dando la possibilità alla sottoscritta di conoscere in profondità i progetti di riferimento attuali.  

L’avvocato Giorgio Tentoni insieme all’avvocato Astorre Mancini hanno presentato alla sottoscritta le realtà Figli del Mondo e Appenninol’hub. Durante il percorso di ricerca la tesista si è interfacciata con figure quali Lino Sbraccia, attuale presidente di Figli del Mondo e Andrea Zanzini, attuale Project leader di Appenninol’hub.

La tesi è suddivisa in tre capitoli: il primo capitolo riporta un estratto del volume di riferimento ‘’Il reputation management spiegato semplice, con un focus sulla misurazione della reputazione’’ e ne consegue la metodologia scelta per analizzare i casi studio e un approfondimento sulla Responsabilità Sociale d’Impresa.

Nel secondo capitolo viene presentata la storia di Figli del Mondo, dalle iniziative estere più rilevanti ai personaggi più influenti e storici della ONG. In seguito, vengono descritte le realtà create da Figli del Mondo e il loro impatto attuale.

Il terzo capitolo analizza la doppia intervista effettuata dalla sottoscritta, che vede Lino Sbraccia e Andrea Zanzini come soggetti principali. Nella seconda parte del capitolo vengono analizzati i competitor di Appenninol’hub, analizzata la mappatura degli stakeholder dell’incubatore e le startup campione che l’acceleratore ha seguito nell’ultimo anno.

Infine vengono tratte le conclusioni, evidenziati i risultati più significativi e dichiarati i limiti dello studio.


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Manipolazione dell’informazione: mai più in Italia!

Informazione manipolata su Bio-on

Ho impiegato vari giorni a trovare energie per replicare all’articolo di Lionello Cadorin apparso sul numero di agosto di Prima Comunicazione, relativo alle vicende che hanno riguardato il collasso di Bio-on, startup e unicorno italiano leader nella ricerca e produzione di bioplastiche: ero così tanto disorientato da una tale quantità di inesattezze manipolative da quasi non trovare la forza di aprire il PC.

Poi ho predisposto questa replica, per amor di verità (come qualcuno sa, seguo da tempo il dossier Bio-on, pur senza avere interessi finanziari in quel business, e la rivista online che dirigo ha anche realizzato un bel documentario che potete guardare gratuitamente qui), prendendo la parola per riequilibrare la narrazione, anche considerato che da ciò che miu risulta la rivista non ha ritenuto opportuno – come le regole deontologiche del buon giornalismo avrebbero suggerito – contattare il founder di Bio-on Marco Astorri prima di pubblicare il loro pezzo.

I fatti: la storia di Bio-On

La storia la conosciamo tutti: Bio-on, arrivata a capitalizzare quasi 1.5 miliardi di euro in Borsa Italiana, venne distrutta nell’estate del 2019 dal panic-selling generato da un video pubblicato online da Gabriel Grego, cittadino italiano con passaporto israeliano e società alle Cayman (Quintessential Capital Management), che accusava l’azienda tecnologica “verde” di inconsistenza sul fronte brevettuale, inefficacia della tecnologia produttiva e opacità contabile. Tesi accolte dal PM Michele Martorelli nelle sue requisitorie, anche con modalità suggestive (“BioOn vendeva barattoli con dentro l’aria di Napoli”) salvo poi scoprire che il presunto cavaliere bianco Grego, “salvatore del mercato”, aveva scommesso al ribasso sul crollo del titolo che aveva criticato, guadagnando milioni di euro dall’operazione, con l’effetto collaterale – sicuramente, spero, non voluto – di danneggiare molti piccoli risparmiatori.

Al processo Grego ha dichiarato:

“Bio-on era non ricordo se la sesta o la settima (…) quindi avevamo già una buona esperienza in questo tipo di attività che sono volte sicuramente a fare un profitto, perché non siamo un’opera pia”.

Quando conobbi Marco Astorri, anche il mio punto di vista era condizionato da articoli critici pubblicati sui mass-media qualche anno prima. Poi, approfondendo il dossier per curiosità intellettuale, qualcosa cominciò a scricchiolare nelle mie certezze. Davvero si era trattato di una bolla, o peggio di una truffa? Realmente Bio-on non produceva nulla, e Grego – denunciandone l’inconsistenza – aveva fatto un favore al mercato, anticipando un crollo che ci sarebbe stato comunque in futuro, magari ancor più fragoroso? Quando gli scenari sono opachi, l’unica soluzione per fare chiarezza è abbandonare le percezioni di parte e ancorarci ai dati di fatto, ai documenti, alle evidenze autorevoli di terze parti.

In realtà la tesi di inconsistenza brevettuale di Bio-on non è stata confermata in nessun modo dalla sentenza del Tribunale di Bologna, che ha invece condannato i vertici dell’azienda non per questioni afferenti gli aspetti tecnologici bensì per false comunicazioni sociali: secondo il Tribunale, Astorri avrebbe iscritto a bilancio utili derivanti da licenze tecnologiche cedute a varie industrie per realizzare la plastica biodegradabile “PHA”, utili che sarebbe stato corretto (secondo una diversa interpretazione delle norme) “spalmare” su più esercizi finanziari. Così facendo, l’AD di Bio-on ha fatto crescere rapidamente l’appetibilità sul mercato della start-up, facendo lievitare il corso del titolo.

Per questo è stato condannato: non per truffa, non per inconsistenza dei brevetti, non per distrazione di fondi, non per inesistenza dello stabilimento, come inizialmente sostenevano i capi di imputazione. In buona sostanza, la gran parte delle accuse mosse da Grego nel suo video, nel quale leggeva da un device un testo precompilato, non hanno trovato nessuna conferma nella sentenza di primo grado.

Cadorin sottolinea in modo artatamente suggestivo come Astorri sia stato condannato, dimenticandosi però di ricordare come la sentenza sia stata immediatamente appellata dal team legale coordinato dal Prof. Tommaso Guerini, con un ricorso nel quale le tesi del giudice di primo grado vengono messe in discussione da capo a piedi, dimostrando come siano le osservazioni e le conclusioni del Tribunale di Bologna a essere state fondate su giudizi ipotetici e inficiate da parzialità. Vedremo gli sviluppi giudiziari.

In ogni caso, l’andamento del titolo Bio-on non venne influenzato dai comunicati stampa di Astorri (peraltro sempre preventivamente approvati da NOMAD e Borsa Italiana): prova ne sia che il prezzo delle azioni nei giorni prima e dopo l’emissione dei vari comunicati ha subito variazioni minime, e in tre quarti dei casi è andato addirittura in ribasso. Evidenze tangibili che Grego, ovviamente, si è ben guardato dall’analizzare, e Cadorin dal commentare.

“Non è un paese per StartUp”

La verità è che nel nostro Paese per quanto riguarda le start-up tecnologiche ci sono regole molto complesse e a volte anche contradditorie: a parità di informazioni contabili, è possibile giungere a conclusioni completamente opposte, come confermato in corso di processo da autorevolissimi esperti, come il Prof. Andrea Perini (UniTo) ma anche il Prof. Marco Maria Mattei (UniBo) e dal Prof. Paolo Gualtieri, che in Italia le regole di interpretazione dei principi contabili per le start-up hanno contribuito a scriverle. Le poche start-up italiane di un certo peso (Satispay continua a perdere decine di milioni di euro ogni anno, eppure vale oltre 1 miliardo di euro, e neppure è ancora stata quotata) continuano a venire valutate per il numero di computer o di presse in magazzino, di macchinari e di liquidità sui conti correnti, mentre il valore di una start-up – specie nei settori green e fintech – dovrebbe essere dato dalle sue prospettive di sviluppo e di redditività a medio-lungo termine, e solo uno speculatore aggressivo come Grego  può far finta di ignorarlo.

Bio-on quindi non valeva nulla? Strano, perché lo stesso curatore fallimentare l’ha valutata – già dopo il fallimento – almeno 94 milioni di euro, di cui quasi 10 milioni solo per i brevetti. E perché se questi brevetti erano “aria di Napoli” la curatela, nominata dallo stesso Tribunale che ha messo sotto inchiesta Astorri, ha proseguito per anni a rinnovare quegli stessi brevetti, vendendo poi l’intera struttura al Gruppo MAIP, solido operatore dell’indotto di Bio-on? Questi sono fatti, non opinioni: evidenti contraddizioni che da sole incrinano la narrazione malevola di Grego.

Guardando oltre le apparenze…

A ben guardare, c’è un “non detto” in tutta la vicenda Bio-on, che però possiamo intuire grazie allo stesso Grego: l’unico suo consulente del quale conosciamo nome e cognome è Maurizio Salom, che Grego sceglie tra 70.000 commercialisti in Italia e che incidentalmente è membro del Collegio Sindacale di Novamont (!) e – secondo le verifiche della Guardia di Finanza – collaboratore a vario titolo della stessa azienda. Si, Novamont, principale concorrente di Bio-on, all’epoca e anche successivamente in forti difficoltà finanziarie, ora gruppo ENI, e recentemente multata dall’Antitrust per oltre 30 milioni di euro per abuso di posizione dominante. È evidente che Novamont non potesse guardare di buon occhio un prodotto, la plastica PHA biodegradabile al 100% che Bio-on aveva in licenza esclusiva, molto più innovativo dei suoi prodotti, solo compostabili mediante apposito trattamento, e non biodegradabili nel suolo come quelli di Bio-on. Novamont che vediamo anche riaffacciarsi dopo il crollo di Bio-on dal momento che la Procura di Bologna dà l’incarico di consulente tecnico del curatore del fallimento Bio-on al dott. Michele Casò, sorprendentemente Presidente del Collegio sindacale della stessa Novamont. Certo, sarà un “caso”, ma quanto meno si apre un tema di opportunità.

Altro dato che Grego omette: Bio-on in quel periodo era a poche settimane dalla firma di un aumento di capitale di oltre 100 milioni, coordinato da UBS, come è stato confermato da un ex dirigente della Banca: un’iniezione di capitale fresco – che sarebbe stato annunciato pubblicamente proprio il giorno dell’attacco di Grego – tale da mettere ulteriormente al sicuro i conti dell’azienda, e al quale ovviamente era correlato anche un concreto piano industriale di accelerazione ed espansione della Società.

Chi è davvero Gabriel Grego?

Cadorin definisce Grego “persona competente”: nulla da dire a titolo personale, ma la competenza si misura per incarichi, per titoli e soprattutto per pubblicazioni scientifiche. Lo stesso Cadorin conferma che Grego “non è un addetto ai lavori e non è nemmeno un giornalista d’inchiesta”. Perché allora una persona senza alcun titolo né competenza specifica avrebbe dovuto prendersi la briga di mettere a punto un’analisi non confortata da alcuna società di revisione? Riteniamo di poter trovare la risposta nelle prime righe di questa replica, ovvero per lucro, esattamente come Grego fece con Dark Trace, la società di cyber-security di Londra finita nel suo mirino nel 2023, contro la quale lo speculatore propose lo stesso identico schema d’attacco: confezionamento di un video critico, diffusione online dello stesso con una magistrale strategia di hype, creazione di panic-selling, crollo del titolo, e correlata speculazione finanziaria al ribasso. Ma in quel caso gli andò male, perché DarkTrace attivò corrette procedure di crisis communication e prese la parola pubblicamente e a schiena dritta, contestando le accuse farlocche di Grego e parando l’attacco, cosa che Astorri fece l’errore di non fare (“Mi sono fidato degli avvocati di allora, che mi dissero di aver fiducia nella Magistratura e non fare chiasso, ma nel frattempo il titolo Bio-on è crollato e l’azienda è stata fatta fallire”, ha dichiarato Astorri in una approfondita inchiesta di Report su RAI 3, che ha svelato molti inquietanti retroscena della vicenda Bio-On, e che il lettore può trovare online qui).

Nota a margine: tanto aveva ragione Grego ad attaccare Dark Trace che oggi l’azienda ha continuato a crescere ed è tra le best-in-class nella sua categoria, vincitrice del premio Microsoft Partner of the Year Award 2024 nel Regno Unito, e importante partner di Microsoft a livello mondiale. Quando si dice avere fiuto e competenza…

Grego – che Cadorin sostiene “vivere negli Stati Uniti e possedere un fondo di investimento che ha guidato in prima persona sino a poco tempo fa”, ma che invece vive a Milano e che non ha mai guidato un fondo, dal momento che Quintessential, la sua società, non era nel 2019 registrata come fondo di investimenti alla SEC né presso alcuna altra autorità di vigilanza nel mondo –  “si è lasciato alle spalle una scia di società truffaldine chiuse o fallite, amministratori dimessi, rimossi o addirittura reclusi, per non parlare delle cadute in Borsa provocate dai suoi interventi pubblici”. Lodevole, ben venga questo; ma ha anche – Cadorin incidentalmente dimentica di scriverlo – preso delle cantonate marchiane: come con Penumbra e poi anche Aphria, società secondo Grego da chiudere, contro le quali Quintessential aveva messo in opera lo stesso schema aggressivo (comunque legale, a causa delle carenze legislative sul tema del conflitto di interessi) e che hanno sconfessato le accuse e reagito all’attacco, e sono tutt’oggi sul mercato e fanno profitti.

Le “amnesie” di Cadorin

Cadorin riporta acriticamente le parole di Grego, che afferma, riguardo Bio-on, di aver predisposto all’epoca “un vero e proprio report, fatto di una ventina di documenti, presentazioni, opinioni, analisi e pareri di tecnici ed esperti”. Di quali esperti si parli, non è dato sapere: non una sola delle affermazioni nel video di Grego è a firma di un esperto (“uno dei più importanti esperti di plastica al mondo ha confermato i nostri sospetti, ma ha preferito rimanere anonimo…”, dichiara Grego nel suo video). Ci pensa il giornalista Massimo Degli Esposti, già caporedattore di QN e poi economia e finanza del Corsera, nel suo libro L’Unicorno avvelenato, a demolire completamente, dalla prima all’ultima riga, il report su Bio-on di Grego, che Cadorin invece difende senza probabilmente averlo mai letto con attenzione (lo invito a confrontarsi in un incontro pubblico sui contenuti di quel documento).

Anzi, per amor di verità – a parte Maurizio Salom, come abbiamo scritto in palese conflitto di interessi – un “esperto” Grego in effetti lo cita: si tratta di Roberto Filippini Fantoni, che firma un parere pro-veritate su Bio-on, aderendo alle tesi critiche di Grego. E chi è Filippini Fantoni? Un professore universitario? Un ricercatore esperto di plastiche biodegradabili? Uno specialista con all’attivo pubblicazioni su riviste scientifiche indicizzate relative a quel settore? No, nulla di tutto ciò, e ci viene in soccorso lo stesso Fantoni, persona umanamente degnissima, ma che candidamente dichiara a Report, che l’ha scovato per intervistarlo, di essere stato pagato da Grego per scrivere un parere “di una paginetta”, e che in risposta alla domanda “Quindi il suo non era un parere scientifico?”, afferma:

“Ma no, assolutamente. Niente, era una semplice considerazione da parte di uno del settore, senza aver fatto nessuna ricerca. Le plastiche biodegradabili non sono il mio campo (…) Il prodotto poteva magari anche andare bene…”.

Se non fosse vero, parrebbe una barzelletta, ma di quelle con retrogusto amaro.

Aggiungiamo per contro che la tecnologia di Bio-on venne dichiarata “eccezionale e rivoluzionaria” da Paolo Galli, uno dei più noti scienziati internazionali nel settore delle plastiche, sviluppatore del brevetto del polipropilene assieme al Premio Nobel Natta, “hall of fame” della plastica mondiale: ma per Grego, e per la sua “crew”, il parere di uno dei massimi esperti al mondo in quel settore non ha alcun peso, al punto da non venir neppure citato nel pezzo di Cadorin.

E sempre secondo Cadorin non sarebbe neppure vero che Grego avrebbe guadagnato fino a 5 milioni di dollari per sé dalla speculazione contro Bio-on. Peccato che lo abbia confermato Grego stesso in Tribunale sotto giuramento (“Come ordine di grandezza, adesso è passato molto tempo, ma immagino che sarà stato compreso tra 1 e 5 milioni”); ma si sa, la verifica delle fonti per Cadorin è superflua, e poi, insomma, Grego avrà anche avuto delle spese…

Cadorin in buona sostanza cerca di ridicolizzare la tesi del complotto organizzato per affossare Bio-on. Ebbene, il sottoscritto ha tutto tranne che una mentalità complottista, mi limito quindi a porre delle semplici domande: perché Paolo Visioni, membro del CdA di Novamont, nelle intercettazioni della Guardia di Finanza dimostrò grande compiacimento per le “bombe atomiche” (verbatim) sganciate su Bio-On”? È normale che il dott. Tazartes, investitore privato di Novamont fin dai primi anni, e con lui il dott. Salom, abbiano cercato di organizzarsi per comperare loro gli asset di Bio-on, dopo aver sostenuto che i brevetti e gli impianti non erano adeguati? È rituale che Catia Bastioli, AD e fondatrice di Novamont, venga citata per iscritto da Gabriele Grego, interrogato in tribunale, come una delle fonti da lui utilizzate per acquisire informazioni funzionali a far crollare Bio-on?

E ancora: perché Consob non ha sollecitamente sospeso il titolo Bio-on quando esso era sotto attacco, permettendo che quasi 800 milioni di euro di capitalizzazione di cittadini investitori venisse bruciata in un solo giorno? Perché le autorità di controllo non hanno permesso di accedere alla lista completa dei soggetti che hanno speculato sul crollo dell’azienda, mantenendola in larga parte secretata per tutta la durata del processo, e ancor oggi? Perché – nonostante Marco Astorri e Guy Cicognani avessero prontamente versato nelle casse dell’azienda oltre 8 milioni di euro di fondi propri, comportamento non proprio in linea con la narrazione di vertici avidi e che miravano a depredare i piccoli investitori – quando Bio-on andò in crisi a seguito del crollo in borsa non venne mai convocata un’Assemblea degli Azionisti, per verificare la disponibilità loro a sostenere l’azienda o a ricomprare le azioni in circolazione, assicurando la business continuity del progetto?

Di tutti questi quesiti non c’è traccia nel pezzo di Cadorin. Perché, mi stavo chiedendo leggendolo?

Liaisons dangereuses?

Anche qui mi è venuto inconsapevolmente in soccorso Cadorin stesso, citando Giuliana Paoletti, comunicatrice di fiducia di Grego, la quale afferma, riferendosi a Bio-on: “tutto era basato su una comunicazione menzognera. Dietro questa capitalizzazione non solo c’erano solo molte chiacchiere irrealizzabili, ma anche e soprattutto una gestione dei dati che in primo grado il tribunale ha stigmatizzato come del tutto inappropriata. La cosa stupefacente è che anziché ringraziare Grego per aver raccontato una truffa, perlomeno per come stabilito dal tribunale in primo grado, ci sono piccole frange, oltre ai fondatori dell’azienda, che ancora credono che ci sia stato un complotto”. Ebbene, altro che piccole frange…

Si, è lei che ha protetto Grego, con, a suo dire, un certosino lavoro di contatto con le redazioni; violando, nel farlo, 10 punti su 10 del Codice di auto-regolamentazione per la gestione etica della reputazione recentemente redatto e approvato da FERPI – Federazione Relazioni Pubbliche Italiana; ma tant’è, lei di FERPI non è socia, può quindi assistere in libertà chi desidera, senza porsi alcun interrogativo di opportunità riguardo il profilo etico delle strategie di speculazione dei suoi clienti.

Peccato che il duo Cadorin-Paoletti ometta di evidenziare come durante la vita di Bio-on Consob realizzò ben quattro di quelli che in gergo tecnico vengono definiti “art. 115”, ovvero verifiche approfondite di contratti e clienti, oltre che dei bilanci dell’azienda: all’epoca, nessun rilievo venne mosso, e nessuna sanzione di conseguenza venne erogata. Affermare – come essi fanno – che fino all’arrivo di Grego “nessuno ha controllato” è quindi semplicemente falso. Forse le autorità di controllo hanno verificato e non hanno trovato nulla di censurabile… perchè non c’era nulla da trovare? O son tutti incompetenti, e solo Grego disponeva della verità rivelata? Per carità, tutto può essere: vedremo al termine dell’iter giudiziario.

Il processo ora continuerà in II grado, e probabilmente in Cassazione, e immagino che Astorri – a differenza di Grego, che per lungo tempo si è dato irreperibile – sarà sempre li, dove i giornalisti e i giudici l’hanno visto per tutti i 3 anni di durata del primo grado: seduto in aula, a prendere appunti, e a impegnarsi, mettendoci la faccia, per difendere non solo l’onorabilità propria e degli ex dipendenti di Bio-on, ma il senso di un progetto ancora innovativo, a tratti rivoluzionario, quello di un’azienda in grado di lottare contro l’inquinamento da microplastiche e di contribuire alla concorrenzialità del nostro sistema Paese sui mercati internazionali, e che infatti era stata dichiarata “di interesse nazionale” dalla stessa Presidenza del Consiglio dei Ministri, in virtù del fatto di essere riuscita  a creare oggetti in plastica derivanti da batteri, e quindi completamente biodegradabili, come hanno dimostrato test condotti da alcune tra le più autorevoli Università italiane e straniere oltre al CNR (anch’essi colpevolmente – o dolosamente? – ignorati da chi contribuì al fallimento di Bio-on).

Su Grego, pende invece una richiesta danni per svariate centinaia di milioni di euro, in sede civile, per i danni arrecati alla Società per Azioni Bio-on e ai suoi principali azionisti. Insomma, l’unica cosa certa è che il capitolo finale di questo giallo finanziario e industriale pare essere ben lungi dall’essere stato scritto.


Luca Poma è Professore di Reputation management e Scienze della comunicazione all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino. Socio professionista FERPI – Federazione Relazioni Pubbliche Italiana, è autore di 17 volumi ed oltre 200 tra saggi e articoli sul tema del reputation & crisis management 




Raggiungere gli obiettivi DEI senza programmi DEI

Raggiungere gli obiettivi DEI senza programmi DEI

Negli ultimi anni, i programmi DEI (diversità, equità, inclusione) sono stati ridimensionati sia nel settore pubblico che in quello privato e questa tendenza potrebbe continuare. È un periodo difficile per i sostenitori della diversità all’interno della forza lavoro, che vedono il proprio operato messo in discussione.

Ma ci sono notizie incoraggianti. Un numero crescente di evidenze suggerisce che molte innovazioni manageriali progettate per migliorare le performance portano in realtà a una maggiore diversità nella forza lavoro e lo fanno senza provocare le reazioni negative che spesso suscitano i programmi DEI formali. Queste evidenze si sono accumulate negli ultimi sette anni, caratterizzati da una disoccupazione insolitamente bassa. Nel tentativo di ottenere di più da meno lavoratori e di mantenere alto il loro coinvolgimento, dirigenti avveduti di molti settori hanno iniziato a utilizzare strumenti di gestione orientati all’eccellenza che intervengono in diversi momenti del ciclo di carriera: il recruiting (per attrarre i profili migliori fin dall’inizio), la formazione, il mentoring e il supporto al bilanciamento vita-lavoro (per aiutare ogni persona neoassunta a trovare la propria strada e progredire) e la fidelizzazione nei periodi difficili (per garantire che eventuali tagli vengano decisi sulla base della performance, non della funzione o dell’anzianità).

L’idea alla base di una gestione di questo tipo è semplice: se riusciamo a creare un ambiente di lavoro in cui tutti i dipendenti si sentano valorizzati, supportati e motivati a dare il meglio, otterremo maggiore coinvolgimento da parte loro e migliori risultati aziendali. La diversità non sarà l’obiettivo, bensì un risultato naturale.

La nostra ricerca sulla diversità nei luoghi di lavoro, condotta negli Stati Uniti ma rilevante a livello globale, conferma questa intuizione. Abbiamo effettuato analisi statistiche su dati provenienti da circa 800 aziende di vari settori. Molte delle tecniche utilizzate dalle aziende per migliorare le performance hanno dimostrato di promuovere l’inclusione più efficacemente rispetto a corsi di formazione sulla diversità e a procedure di segnalazione: misure DEI molto diffuse ma spesso controproducenti, come abbiamo già evidenziato quasi dieci anni fa, nell’articolo “Perché falliscono i programmi per la diversity” (luglio-agosto 2016). Questo vale non solo per i ruoli operativi, ma anche per qualunque altra posizione, incluse quelle a livello dirigenziale.

Questo sviluppo sorprendente dovrebbe darci speranza. Se più aziende iniziano a utilizzare determinate tecniche di gestione orientate all’eccellenza, possiamo aspettarci un miglioramento nei loro numeri in tema di diversità, anche quando i programmi DEI formali vengono ridimensionati o eliminati. È però importante dire che queste pratiche aiutano ad attrarre, sviluppare e trattenere talenti diversi solo quando vengono applicate a tutti i dipendenti, non solo a quella piccola percentuale etichettata come ad “alto potenziale”.

In questo articolo, attraverseremo le fasi del ciclo di carriera, focalizzandoci su cinque aziende che hanno costruito strumenti HR orientati alla performance, ottenendo l’effetto collaterale (non intenzionale) di aumentare la diversità.

PROGRAMMI DI SEGNALAZIONE DEI CANDIDATI IN ORACLE

Nel 2004, Oracle acquistò PeopleSoft, un’azienda di software aziendali, con l’obiettivo di rivoluzionare la gestione delle risorse umane. L’innovazione principale di PeopleSoft era stata un software per il monitoraggio e la contabilità HR. Il CEO di Oracle, Larry Ellison, voleva usare questa expertise per integrare nuove pratiche manageriali orientate all’eccellenza in strumenti cloud: nacque così il sistema Human Capital Management (HCM). Il sistema era solo una delle componenti della suite gestionale Fusion di Oracle, progettata per migliorare non solo le risorse umane ma anche la pianificazione, le performance aziendali, l’esperienza cliente, la produzione e la catena di fornitura.

Il team di Ellison sperava che HCM Fusion superasse la concorrenza anche grazie alla forza delle segnalazioni interne. Studi accademici dell’epoca avevano mostrato che i candidati segnalati da dipendenti avevano maggiori probabilità di fare un colloquio ed essere assunti, ma anche di accettare l’offerta, di offrire performance migliori, restare più a lungo in azienda e ricevere promozioni. Come riportato in un white paper di Oracle, i migliori recruiter per i nuovi talenti si trovavano già in azienda.

Oracle integrò per la prima volta una funzione di segnalazione dei candidati in una piattaforma HCM all’inizio del 2012. Questa funzione permetteva all’azienda di inviare annunci di lavoro ai propri dipendenti, che potevano candidarsi o usare una funzione di “social sourcing” per segnalare amici. Presto, la funzione venne integrata anche nel prodotto tradizionale, Oracle PeopleSoft. I dipendenti che effettuavano segnalazioni andate a buon fine ricevevano un bonus.

Nel 2011, durante una serie di interviste a dirigenti d’azienda statunitensi sul tema del recruiting, ci capitò spesso di parlare dei programmi di referral. Con nostra sorpresa, emerse un beneficio inaspettato: i programmi sembravano aumentare la diversità. In un ospedale di Boston, una responsabile dello sviluppo del personale ci disse che, secondo la sua esperienza, chiedere ai dipendenti di segnalare amici o familiari portava a nuove “ottime assunzioni” e che la diversità “si realizzava spontaneamente”. Altri responsabili HR raccontarono episodi simili.

Più di recente, la nostra analisi su 800 aziende ha confermato ciò che avevamo appreso in quelle interviste: i programmi di referral aumentano effettivamente la diversità, anche nelle aziende che storicamente si affidano a segnalazioni informali. Questo perché i lavoratori appartenenti a minoranze etniche che occupano ruoli operativi raramente si sentono autorizzati a segnalare amici o familiari, a meno che non venga loro chiesto esplicitamente. Un programma formale di referral fa proprio quell’invito chiaro. Anche aziende con una forza lavoro prevalentemente bianca vedono crescere la diversità, perché quei pochi dipendenti non bianchi si sentono legittimati a proporre amici loro. E ogni segnalazione rappresenta una valutazione a doppio senso: del candidato come lavoratore valido e dell’azienda come posto di lavoro attraente.

I benefici si registrano anche nei ruoli manageriali. Le nostre analisi statistiche avanzate mostrano che, se mantenuti attivi per diversi anni, i programmi di referral aumentano del 5% la percentuale di manager neri, ispanici e asiatici. Inoltre, quando le aziende affiancano ai programmi di referral i gruppi di risorse per i dipendenti (employee-resource groups), che possono promuovere efficacemente i programmi stessi, la percentuale di manager appartenenti a minoranze etniche cresce di almeno un ulteriore 7%.

Oggi, HCM Fusion e Oracle PeopleSoft detengono insieme quasi il 20% del mercato dei sistemi di gestione del capitale umano. Altri hanno seguito l’esempio, come Workday, che nel 2014 ha lanciato uno strumento di reclutamento con un pulsante “offri una referenza” e oggi copre il 26% del mercato.

I sistemi di segnalazione da parte dei dipendenti hanno il potenziale per aprire opportunità in tutta l’organizzazione e molte piattaforme HCM li rendono ampiamente accessibili e facili da usare. Tuttavia, finora, la maggior parte delle aziende non ne ha sfruttato il potenziale. Alcune li usano solo per un numero limitato di ruoli difficili da coprire, come chirurghi pediatrici o ingegneri aerospaziali, e così non riescono a beneficiare delle reti di tutti i dipendenti, vera chiave per migliorare la qualità delle assunzioni e costruire una forza lavoro più rappresentativa.

Anche le aziende che usano sistemi HCM spesso non attivano le opzioni di segnalazione disponibili. Questo significa che non possono contare sui propri dipendenti per “vendere” l’azienda alle loro conoscenze e per pre-valutare i candidati. Di conseguenza, queste aziende non riescono a sfruttare il potere delle reti dei dipendenti per reclutare in modo più ampio, anche all’interno di comunità che raramente vengono contattate e tra potenziali candidati che non stanno attivamente cercando lavoro. Grandi occasioni che vanno del tutto sprecate.

AGGIORNAMENTO DELLE COMPETENZE IN WALMART

Nel 2014, Doug McMillon divenne il nuovo CEO di Walmart. McMillon, che aveva iniziato a lavorare in un magazzino dell’azienda mentre era ancora al liceo, conosceva l’impresa da cima a fondo. All’epoca, Walmart stava perdendo quote di mercato a favore di Costco e Target, che riuscivano entrambi a trattenere meglio i lavoratori di frontline. Costco, ad esempio, aveva ridotto il turnover a un gestibile 17% annuo, mentre Walmart registrava un tasso del 44% complessivo che, in alcuni negozi, arrivava fino al 90%.

Una migliore fidelizzazione si traduceva naturalmente in una migliore esperienza cliente. Un’analisi di Wayne Cascio del 2006 rilevò che, pagando salari più alti e affrontando il problema del turnover, Costco era riuscita a costruire uno staff competente e motivato con una produttività doppia rispetto a quella dei lavoratori di Walmart. Praticamente ogni dipendente di Costco era in grado di aiutare i clienti a trovare ciò che cercavano. Nei negozi Walmart ad alto turnover non era così.

Con Costco e Target che guadagnavano terreno, McMillon era disposto ad aumentare i salari, ma come migliorare anche la qualità del personale? Riflettendo sulla sua lunga esperienza in azienda, decise che la risposta stava nella formazione. Nel 2016, aprì la Walmart Academy, che oggi conta oltre 200 sedi in tutto il Paese e offre un programma di formazione part-time della durata di sei mesi, incentrato su competenze pratiche.

L’Academy rappresentava un’innovazione radicale nel settore del retail. I collaboratori non imparavano soltanto le procedure di cassa. Attraverso esercitazioni pratiche, apprendevano il modello di business del retail, il lavoro di squadra, il merchandising e la comunicazione. In sostanza, frequentavano un corso base di management.

L’aspetto più innovativo del programma era un modulo sui percorsi di carriera. In esso, ogni partecipante sceglieva un obiettivo professionale (ad esempio, supervisore o responsabile elettronica) e imparava come raggiungerlo. Il messaggio per i dipendenti era chiaro: Walmart poteva essere più di un’occasione per entrare nel mercato del lavoro. L’Academy portava avanti l’impegno di lunga data di Walmart sulle promozioni interne (il 70% degli store manager aveva iniziato come commesso) e come incentivo aggiuntivo offriva ai diplomati un aumento di un dollaro l’ora e la possibilità di iscriversi a un corso da assistente manager.

Nel 2020, l’Academy aveva formato la metà degli 1,6 milioni di lavoratori statunitensi dell’azienda. Walmart monitorava 10 metriche per valutare fidelizzazione, produttività e coinvolgimento e confermò che l’Academy stava producendo risultati. Le metriche rivelarono anche che la formazione offerta dall’Academy aumentava la diversità tra i dipendenti, i manager e anche i dirigenti.

Nel 2016, ad esempio, le persone di colore rappresentavano il 42% della forza lavoro di Walmart. I centri di formazione dell’azienda furono lanciati nel 2017 e alla fine di quell’anno le promozioni di persone di colore che passarono da un lavoro operativo a ruoli più manageriali erano aumentate del 5%. Negli otto anni successivi, la percentuale di persone di colore in posizioni manageriali salì dal 31% al 43%.

L’Academy ebbe un impatto positivo anche sulle donne presenti in Walmart. Negli anni 2010, uomini che non riuscivano più a trovare lavoro nel settore manifatturiero statunitense cominciarono a cercare impiego nel retail. Di conseguenza, tra il 2016 e il 2024 la percentuale complessiva di donne nella forza lavoro di Walmart scese dal 56% al 52%. Tuttavia, nello stesso periodo, le donne manager mantennero le loro posizioni e il numero di dirigenti aumentò in modo significativo, dal 32% al 39% (vedi il box “L’evoluzione della forza lavoro in Walmart”).

La nostra ricerca mostra che l’esperienza di Walmart non è unica: tra le 800 aziende che abbiamo studiato, la formazione professionale ha aumentato la diversità nei ruoli manageriali. Offrire esperienze di job rotation per preparare i dipendenti a ricoprire ruoli diversi, ad esempio, ha aumentato dal 3% al 5% la percentuale di donne bianche, uomini e donne nere e uomini e donne asiatici nei ruoli manageriali.

Walmart ha cercato di diffondere i benefici della formazione sulle competenze attraverso la sua rete più ampia, compresa la Walmart Foundation e varie partnership di ricerca. Nel 2022, ha lanciato la One Global Walmart Academy, disponibile per tutti i suoi 2,3 milioni di dipendenti nel mondo, diventando un modello per il potenziamento delle competenze dei lavoratori.

Lo scorso novembre, sotto la pressione di attivisti politici e influencer presenti sui social media, Walmart (come molte altre organizzazioni) ha promesso pubblicamente di ridurre le iniziative DEI e di porre fine ai canali preferenziali per fornitori di proprietà di donne e minoranze. Tuttavia, l’azienda non ha menzionato il suo programma di formazione di enorme successo per i lavoratori di frontline, oltre il 50% dei quali ora sono persone di colore. Con questo programma, Walmart potrebbe aver trovato il modo per aumentare la diversità della forza lavoro e migliorare i risultati economici in un mondo in cui i programmi DEI espliciti sono sotto attacco: un approccio che altre aziende potrebbero voler emulare.

PROGRAMMI DI MENTORING IN IBM

All’inizio degli anni 2000, IBM si trovava ad affrontare una serie di sfide, tra cui una concorrenza feroce sul prezzo nel settore dei personal computer. Due anni dopo aver assunto la carica di CEO nel 2003, Sam Palmisano vendette il ramo PC dell’azienda a Lenovo ed espanse le attività nel cloud computing e nell’intelligenza artificiale. Palmisano investì anche nella gestione dei talenti attraverso la condivisione delle conoscenze e il mentoring individuale, una pratica storicamente incoraggiata in IBM. La sua innovazione radicale in quest’ambito fu la creazione di una piattaforma con una suite di strumenti per trasferire rapidamente conoscenze e competenze essenziali su innovazioni come il cloud computing e l’IA ai 356.000 dipendenti IBM in tutto il mondo. Fra le risorse disponibili sulla piattaforma c’erano guide, storie di successo, podcast, “caffè virtuali” di speed mentoring, caffè di mentoring per studenti di università storicamente frequentate da persone afroamericane e un’app di chat in tempo reale chiamata “Dear Mentor”. IBM creò anche programmi di mentoring internazionali e tra sedi diverse per ottenere i benefici della rotazione del personale (una tradizione IBM) senza causare disagi alla vita privata dei dipendenti. Palmisano incaricò i manager di inserire il mentoring nelle valutazioni delle performance e reclutò figure che lo potessero promuovere.

Ginni Rometty, che ne prese il posto, condivideva l’impegno sul mentoring e l’importanza dello scambio di conoscenze. Quando nel 2018 iniziò a pubblicare i dati sulla diversità in IBM, emerse che l’azienda era avanti rispetto alla maggior parte del settore per quanto riguardava la presenza di donne nei ruoli tech, manageriali e dirigenziali: un altro esempio di come un management orientato all’eccellenza favorisca la diversità. Nei cinque anni successivi, IBM vide crescere costantemente la percentuale di donne in tutte e tre le tipologie di ruolo, anche quando durante la pandemia il settore nel suo complesso perdeva quote femminili (si veda il box “L’evoluzione della forza lavoro in IBM”).

IBM risultò anche leader nel settore per diversità razziale ed etnica nel 2018 e registrò forti aumenti nei cinque anni successivi, nonostante i licenziamenti diffusi nel settore dopo il 2020, che hanno interrotto o invertito i progressi fatti in molte aziende.

La nostra ricerca dimostra che quando esistono programmi formali di mentoring accessibili a tutto il personale, questi aumentano la rappresentanza di donne e persone di colore nei ruoli manageriali, in tutti i settori. Nei settori altamente specializzati, come l’informatica, l’elettronica e la chimica, i programmi di mentoring aumentano la quota di manager donne bianche, nere, ispaniche e asiatiche, così come quella di uomini neri e asiatici, di almeno il 15% nell’arco di più anni. In effetti, in questi settori, il mentoring è in assoluto lo strumento più efficace per promuovere la diversità.

FLESSIBILITÀ E STABILITÀ NEGLI ORARI DI LAVORO DI GAP

La crescita dello shopping online nei primi anni 2000, accelerata un decennio dopo dalla diffusione degli smartphone, ha rappresentato una sfida per il noto retailer specializzato Gap. Come per Walmart, i dirigenti ritenevano che la sopravvivenza della catena dipendesse dall’esperienza del cliente e, in ultima analisi, dalla qualità del personale di vendita. La crisi finanziaria del 2008 aveva, però, spinto Gap a ridurre le spese, assumere meno collaboratori a tempo pieno e consentire ai manager di modificare i turni dei dipendenti all’ultimo minuto. Queste azioni avevano aumentato l’ansia tra il personale e ridotto il coinvolgimento.

Nel 2014, San Francisco (dove ha sede Gap) approvò le Formula Retail Employee Rights Ordinances, che obbligavano le aziende a garantire ai dipendenti una certa prevedibilità negli orari. Seattle, New York City e lo stato dell’Oregon seguirono a ruota con leggi simili. Questa tendenza spinse Joan Williams, professoressa presso il College of the Law dell’Università della California a San Francisco, a proporre un esperimento ai dirigenti di Gap: implementare alcune innovazioni nella programmazione dei turni ritenute vincenti per migliorare soddisfazione, retention e performance dei dipendenti, e valutarne poi i costi.

L’azienda accettò e lanciò una sperimentazione di 35 settimane in 28 negozi a Chicago e San Francisco. Le modifiche introdotte furono quattro: 1) un’app mobile chiamata Shift Messenger, per permettere lo scambio immediato dei turni senza l’approvazione di un supervisore; 2) un “impegno di massima” a garantire ai collaboratori stabili almeno 20 ore di lavoro a settimana; 3) orari settimanali stabili per questi collaboratori, quando possibile; 4) orari di inizio e fine turno standardizzati.

I dipendenti si dissero molto più soddisfatti dopo i cambiamenti introdotti e i supervisori non manifestarono alcuna lamentela. I benefici, però, andarono oltre la semplice soddisfazione. Williams e il suo team scoprirono che anche l’efficienza era aumentata: le vendite nei negozi crebbero del 7% e la produttività del lavoro del 5%, generando 2,9 milioni di dollari di profitti aggiuntivi nel corso della sperimentazione, ben cento volte il costo delle innovazioni. L’aumento delle vendite fu attribuito a un miglior servizio offerto ai clienti: i dati dimostravano che i collaboratori erano meno stressati e più coinvolti, quindi più disponibili. Questo portava i clienti a effettuare più acquisti e a spendere di più. Con un maggiore coinvolgimento arrivarono anche più feedback e suggerimenti da parte dei dipendenti. Alcuni segnalarono, per esempio, che il 40% delle volte gli articoli richiesti dai clienti risultavano esauriti, così l’azienda sviluppò un’app per il riassortimento tempestivo.

Da allora, Gap ha esteso queste innovazioni a tutti i suoi marchi: Gap, Banana Republic, Old Navy, Intermix e Athleta. Molte altre aziende hanno seguito l’esempio e oggi è opinione diffusa che la prevedibilità degli orari migliori le performance nel retail. La nostra ricerca rivela anche un effetto collaterale poco noto: nel campo della programmazione degli orari, la combinazione di flessibilità e stabilità aiuta tantissimo i datori di lavoro a trattenere e valorizzare persone di colore e donne, aumentando così le loro possibilità di avanzamento verso ruoli manageriali.

Possiamo osservare questo effetto nei dati interni di Gap, che l’azienda ha iniziato a rendere pubblici nel 2011. Analizzandoli, abbiamo riscontrato una crescita costante della percentuale di persone di colore impiegate, con l’eccezione di una temporanea inversione durante la pandemia. Tra gli store manager, la crescita è accelerata sensibilmente dopo il 2018 (periodo pandemico a parte), quando tutte le innovazioni nella programmazione degli orari sono state implementate. Dal 2011 al 2017, la percentuale di store manager appartenenti a minoranze etniche è passata dal 25% al 29%, mentre fra 2017 e 2023 dal 29% al 49% (si veda il box “L’evoluzione della forza lavoro in Gap”).

I dati relativi alle donne in Gap raccontano una storia simile. La percentuale di dipendenti donne è cresciuta gradualmente dal 2011 al 2017, passando dal 73% al 76%, mentre la percentuale di donne tra gli store manager oscillava tra il 68% e il 69%. Dopo l’introduzione delle modifiche agli orari di lavoro, la percentuale di donne alla guida dei negozi è però salita rapidamente, arrivando al 76%.

Questo vuol dire che offrire ai dipendenti orari più prevedibili e flessibili fa sempre aumentare la diversità? Nel nostro articolo “I sorprendenti benefici del sostegno al lavoro/vita privata” (Harvard Business Review, settembre-ottobre 2022), abbiamo analizzato la flessibilità oraria in diversi settori e rilevato che, in effetti, comporta un aumento della presenza di donne bianche, nere, ispaniche e asiatiche nei ruoli manageriali. È notevole, ma la vera sorpresa è che anche uomini neri, ispanici e asiatici ne traggono vantaggio.

Perché? Per il semplice fatto che questi lavoratori vivono spesso in famiglie a doppio reddito con figli e devono conciliare lavoro e cura dei figli. I genitori bianchi negli Stati Uniti oggi possono permettersi più facilmente un aiuto a pagamento, perché in media possiedono una ricchezza superiore di 10 volte rispetto ai loro omologhi neri e ispanici. Donne e uomini neri e ispanici con figli traggono vantaggio dalla prevedibilità e dalla flessibilità degli orari, che consentono loro di tenersi il lavoro, impegnarsi di più (come spesso è richiesto per dimostrare le proprie capacità) e fare carriera invece di doversi spostare verso impieghi meno qualificati ma più flessibili. I dipendenti non bianchi hanno maggior bisogno di questo tipo di supporto, ma è meno probabile che lavorino in contesti che lo offrono. E anche quando ci lavorano, spesso si sentono meno a loro agio nel chiedere aiuto oppure ottengono risposte meno positive quando lo fanno. Quando la flessibilità e la prevedibilità vengono offerte a tutti i dipendenti, le prospettive di carriera per lavoratori neri, ispanici e asiatici migliorano.

LA RETENTION BASATA SUL MERITO IN AMAZON

Jeff Bezos ha costruito una cultura aziendale fortemente orientata alla performance, nota internamente come “darwinismo intenzionale”. Per far primeggiare Amazon in ogni settore in cui entrava (e-commerce, cloud, device) ricompensava generosamente i top performer, ma al contempo chiedeva ai manager di valutare i dipendenti su una curva, dove almeno un 5% di giudizi dovevano essere negativi. I manager ricevevano ogni anno l’obiettivo di favorire “abbandoni che nessuno avrebbe rimpianto”, da raggiungere tramite pressioni o licenziamenti.

Amazon è cresciuta vertiginosamente tra il 2016 e il 2021, passando da 175.000 a 1.120.000 dipendenti. L’impennata è stata particolarmente forte negli ultimi due anni del periodo in questione, trainata dall’impennata dell’e-commerce e dello streaming durante la pandemia. Con il calo dell’emergenza sanitaria, però, il successore scelto da Bezos, Andy Jassy, ha annunciato un’importante riduzione del personale: 27.000 impiegati corporate sono stati licenziati tra il 2022 e il 2023.

I licenziamenti hanno messo a dura prova la cultura della performance di Amazon. Molti esperti si sono chiesti se i tagli basati sulle valutazioni della performance avrebbero avuto gli stessi effetti dei licenziamenti tradizionali, che spesso colpiscono prima i neoassunti e i reparti considerati “non essenziali” come customer service, ufficio legale e DEI. È noto che questo approccio tradizionale porta a un’emorragia di donne e persone di colore. Sarebbe accaduto lo stesso con i licenziamenti collegati alle performance?

Un’analisi condotta nel 2014 da una delle autrici di questo articolo (Alexandra) suggerisce che il risultato è diverso: questo tipo di licenziamento non compromette la diversità nei ruoli manageriali. E, infatti, i tagli di Amazon non hanno comportato delle perdite soprattutto fra le donne o le persone di colore. Mantenere chi ha le performance migliori si è rivelata una strategia efficace per conservare (e persino aumentare) la diversità nei momenti difficili. In parte, ciò si verifica perché licenziare i neoassunti significa perdere il segmento più diversificato della forza lavoro, cioè i neolaureati.

Inoltre, tagliare i ruoli “non essenziali” comporta spesso l’eliminazione di molte donne e persone di colore, che al momento dell’assunzione vengono facilmente assegnate a tali ruoli.

Amazon ha iniziato a pubblicare dati sulla propria forza lavoro nel 2016, quando il personale ha cominciato a crescere rapidamente. Con l’aumento del personale è cresciuta anche la diversità: un risultato naturale, ma è significativo che la percentuale di manager, personale qualificato e dipendenti appartenenti a minoranze sia continuata a salire anche durante i licenziamenti del 2022 e 2023.

Anche la presenza femminile nei ruoli manageriali e professionali ha continuato a crescere.

Tali risultati dimostrano che i licenziamenti non devono per forza penalizzare i gruppi sottorappresentati. Ora abbiamo prove concrete del fatto che, puntando sulla performance, le aziende possono conservare i propri migliori talenti di tutti i gruppi demografici anche nei momenti difficili. Licenziare per funzione o seguendo il criterio “ultimo arrivato, primo a uscire” significa inevitabilmente tagliare alcuni ottimi talenti e ridurre la diversità aziendale. Le aziende possono anche ridurre il rischio di licenziamenti futuri formando i dipendenti in modo trasversale, affinché siano pronti per ricoprire nuovi ruoli.

L’approccio performance first sta guadagnando adepti. Nel 2025, per esempio, Meta ha chiesto ai propri manager di tagliare il 5% dei dipendenti con le performance peggiori: una mossa chiaramente ispirata al modello Amazon. Questo approccio può sembrare spietato ai dipendenti, tanto che alcuni validi collaboratori decidono di andarsene comunque, ma se un’azienda deve ridurre il personale nei momenti duri, non deve per forza sacrificare i migliori né compromettere la diversità.

Oracle, Walmart, IBM, Gap e Amazon hanno culture e modelli di business molto diversi, ma condividono l’impegno verso l’eccellenza, che le ha spinte a sperimentare innovazioni nella gestione della performance. I loro stessi dati e le analisi condotte su 800 aziende confermano che queste innovazioni favoriscono anche la diversità. A pensarci bene, non è così sorprendente.

Attivando programmi di segnalazione formali, le aziende sfruttano le reti di tutto il personale.

Offrendo percorsi di formazione e mentoring aperti a tutti, estendono i vantaggi del training informale anche a chi ne è solitamente escluso. Garantendo orari prevedibili e flessibili, sostengono i dipendenti neri, ispanici e asiatici che non hanno le risorse per gestire orari rigidi.

E quando licenziano a partire dalla performance, conservano i migliori talenti, evitando di colpire i neoassunti e i ruoli “non essenziali”, in cui lavorano spesso donne e persone di colore. Per anni, esperti di diversity e risorse umane hanno invitato le aziende a cambiare i propri sistemi di gestione per offrire opportunità a tutti. Le soluzioni descritte in questo articolo fanno proprio questo, anche se non era l’intenzione originaria dei loro ideatori. In tempi turbolenti per la DEI, le innovazioni orientate alla performance che aiutano i dipendenti a dare il meglio di sé possono rappresentare la speranza più concreta per il sogno dell’uguaglianza.

FRANK DOBBIN è professore di Scienze sociali nel dipartimento di Sociologia dell’Università di Harvard. ALEXANDRA KALEV è professoressa e dirige il dipartimento di Sociologia e Antropologia presso l’Università di Tel Aviv. Insieme sono autori di Getting to Diversity: What Works and What Doesn’t (Belknap Press, 2022).