Un articolo del sito di giornalismo investigativo Follow the Money (FTM.eu), a firma di Yara Van Heugten, pare aver creato forte disagio in casa Patagonia.
Il noto marchio di abbigliamento, che ha fatto della sostenibilità ambientale e sociale il proprio principale driver di sviluppo, ha saputo costruire negli anni un’immagine molto diversa da marchi del mondo fast-fashion come H&M, Asos e Primark (sulle cui evidenti criticità avevo scritto qui).
FTM ha aggiunto la parola “apparentemente”, sostenendo e scrivendo che l’abbigliamento prodotto da Patagonia sia in realtà prodotto esattamente nelle stesse fabbriche in Paesi in via di sviluppo e nelle stesse deplorevoli condizioni per i lavoratori. In buona sostanza, secondo la tesi dei giornalisti, non vi sarebbe differenza – in termini di sostenibilità e di controllo della filiera – tra un capo Patagonia e un capo marchiato Zara (l’azienda spagnola non è certo un campione ESG).
Vero è che il codice di condotta di Patagonia stabilisce che i lavoratori non possano lavorare più di 60 ore a settimana: ma, si sa, i codici di condotta sono spesso scritti per far contenti cittadini, ambientalisti e soprattutto fondi di investimento, più che per essere realmente applicati. FTM sostiene quindi di aver visitato un fornitore di Patagonia in Sri Lanka e di aver parlato con lavoratori e dirigenti sindacali, che hanno affermato che il carico di lavoro nelle fabbriche è elevato e che i lavoratori vengono vessati dai dirigenti.
E ancora: Patagonia punterebbe a pagare a tutti coloro che lavorano sui loro vestiti un “salario dignitoso” entro il 2025. Attualmente, però, questo accade solo nel 40% delle sue fabbriche. Un fornitore di Patagonia nello Sri Lanka – peraltro recentemente approvato – ha dichiarato di pagare ai suoi dipendenti solo un quarto del salario minimo.
Patagonia avrebbe affermato di non avere alcuna autorità su quanto vengono pagati i lavoratori tessili, in quanto il marchio non è in alcun modo e forma datore di lavoro diretto di questi lavoratori. E siamo al punto: roboanti dichiarazioni di principio ad uso rendicontazione integrata e marketing, e – in realtà – scarsi controlli reali sulla filiera di fornitura (perlomeno questa è la tesi di FTM).
La Van Heugten racconta nel suo articolo che quando Yvon Chouinard – fondatore di Patagonia – ha iniziato a creare attrezzature da arrampicata nel cortile dei suoi genitori a Burbank, in California, ha usato l’acciaio, e ben presto si guadagnò la reputazione di fabbricare la migliore attrezzatura da arrampicata in America. Ma l’acciaio – unico materiale usato all’epoca – danneggiava le rocce, man mano distruggendole: Chouinard allora– non senza dubbi e titubanze per il rischio di modificare un’abitudine consolidata tra gli scalatori – decise di passare all’alluminio. La strategia di comunicazione fu molto aggressiva, per una piccola azienda quale era all’epoca, e nel contempo schietta e coraggiosa: il dilemma morale era secondo il fondatore una ragione sufficiente per attuare il cambiamento, prendendosi cura in modo più adeguato dell’ecosistema. Fu un successo planetario: nel giro di appena un anno, il 40% della comunità alpinistica statunitense smise di usare l’acciaio.
Chouinard ha applicato questa esperienza quando ha fondato il marchio outdoor Patagonia, nel 1973: voleva realizzare solo abbigliamento di alta qualità che durasse nel tempo e limitare il più possibile l’impatto sull’ambiente. Nel 1996, il marchio è passato al cotone organico al 100%, solo per sostituirlo sempre più con materiali riciclati. Ma la responsabilità che Chouinard attribuiva all’azienda si estendeva ulteriormente.
Nel 2002 ha deciso di donare ogni anno l’uno per cento delle vendite alle organizzazioni ambientaliste. Nel 2011, Patagonia ha pubblicato un annuncio a tutta pagina sul New York Times invitando i consumatori a “non comprare questa giacca” per attirare l’attenzione sulla natura problematica del consumo eccessivo nell’industria dell’abbigliamento.
Inoltre, l’abbigliamento doveva essere fabbricato in modo equo: nel 2012, i vertici dell’azienda hanno reso il pagamento di un salario dignitoso a tutti coloro che producono capi Patagonia “una priorità”. Nel 2020, Patagonia ha lanciato una campagna che incoraggia i consumatori a chiedere di più ai marchi di abbigliamento: “domanda organico, richiedi prodotti del commercio equo e solidale”, così Patagonia ha esortati i clienti, già acquisiti e potenziali.
Nel 2022, l’allora 84enne Chouinard ha suscitato stupore in tutto il mondo, quando ha donato il 98% delle sue azioni a una ONG, Holdfast Collective, che è “impegnata nella lotta contro la crisi ambientale e nella protezione della natura”. Da li in avanti, i profitti dell’azienda non sarebbero più andati a lui o ai suoi figli, ma a favore della lotta per il clima. “La Terra è ora il nostro unico azionista”, ha detto Chouinard, ripreso da giornali come The New York Times, The Washington Post e The Guardian.
In ogni caso, il fatturato dell’azienda – la sua sede europea è ad Amsterdam, e la direzione operativa è affidata a un Trust della famiglia Chouinard – è cresciuto di oltre il 50% quell’anno, fino a raggiungere circa 1,5 miliardi di dollari, e queste strategie hanno fatto guadagnare a Patagonia l’immagine di leader sostenibile per eccellenza. Ad aprile, Time Magazine ha nominato Chouinard una delle 100 persone più influenti al mondo: “Patagonia è un’azienda che le persone guardano con soggezione”, ha scritto la rivista.
L’esatto contrario di Patagonia è un’azienda come Primark, riferisce la Van Heugten: la catena di vendita al dettaglio irlandese è nota per la vendita di abiti di tendenza di bassa qualità a prezzi egualmente bassi, e il suo modello di fatturato è basato sulla massa, ovvero volumi elevati con bassi. Primark crea continuamente nuove collezioni di capi progettati per essere indossati solo poche volte, dopodiché si rompono. L’azienda utilizza pubblicità, svendite e influencer per sollecitare i consumatori a continuare ad acquistare il più possibile, in una specie di bulimia consumistica che di sostenibile ha ben poco.
I media riferiscono regolarmente sulle vicende collegate all’azienda: “Fornitore Primark accusato di aver rinchiuso gli operai durante le proteste in Myanmar”, si leggeva in un titolo del Guardian nel 2021, e nello stesso anno la ONG The Clean Clothes Campaign scriveva: “Primark usa la pandemia per esercitare ulteriore pressione sugli operai nei paesi manifatturieri”. Patagonia e Primark paiono quindi due esatti opposti, secondo l’inchiesta di FTM: eppure hanno qualcosa in comune, dal momento che alcuni dei loro capi sarebbero prodotti, sorprendentemente, nelle stesse fabbriche.
Una di queste di chiama Regal Image e si trova in Sri Lanka, nella Free Trade Zone di Katunayake, a meno di due chilometri dall’aeroporto internazionale. La zona industriale è sorvegliata 24 ore su 24, 7 giorni su 7, dalla polizia dello Sri Lanka, e l’accesso è possibile solo con un pass speciale. Asics, Dechatlon, Primark e Patagonia: basta spostarsi di banco in banco, cambia il brand, ma non le condizioni di lavoro.
“Finora, non abbiamo notato alcuna differenza tra lavorare con Patagonia e lavorare con Primark o Decathlon”, afferma Kevin Fernando, il responsabile della fabbrica, che tinge, e ricama loghi e stampe sui tessuti. Regal Image è stata recentemente approvata come fornitore di Patagonia, un processo che ha richiesto ben nove mesi di analisi. Fernando mostra i disegni per la collezione estiva 2024: il tessuto azzurro presenta la scritta “Patagonia” in lettere rosa e un arcobaleno è stampato su tessuto arancione.
Sul sito web di Patagonia esiste uno statement su questi aspetti, ma appare davvero debolissimo, se consideriamo che è stato scritto da un’azienda che ha fatto della sostenibilità un mantra: “Come la maggior parte delle aziende di abbigliamento, non produciamo i nostri prodotti, né possediamo nessuna delle fabbriche che lo fanno. Progettiamo, testiamo, commercializziamo e vendiamo abbigliamento Patagonia. Queste sono le nostre aree di forza. Paghiamo altre aziende […] per produrre tessuti e fare il taglio e il cucito vero e proprio”
Patagonia promette di collaborare solo con fabbriche che la pensano allo stesso modo e che condividono la loro “filosofia”, e ha trovato sessantuno fabbriche adatte: due negli Stati Uniti, una in Portogallo e le restanti in dodici diversi paesi a basso salario (la maggior parte dei prodotti è realizzata in Vietnam e Sri Lanka).
Un giorno le persone realizzano abbigliamento per la Patagonia e il giorno dopo realizzano articoli per marchi come GAP, Levi Strauss, Calvin Klein, Hugo Boss, Tommy Hilfiger, Nike, Amer Sports, Asics, la catena di grandi magazzini statunitensi Target, il supermercato Aldi e le icone del fast fashion ASOS, Boohoo, H&M e Zara.
L’idoneità alla produzione di prodotti Patagonia richiede che un fornitore soddisfi un elenco di criteri di sostenibilità, definito in un codice di condotta per i fornitori: ad esempio, il lavoro minorile, il lavoro forzato o le molestie fisiche, sessuali o verbali non sono consentiti. Tutte le leggi nazionali, ovviamente, devono essere rispettate. I fornitori devono garantire il diritto dei lavoratori alla libertà di associazione, non possono costringerli a fare straordinari, devono garantire condizioni di lavoro sane, e settimane lavorative superiori a 60 ore o più di sei giorni consecutivi non sono accettabili.
Patagonia controlla se una fabbrica è conforme a questi standard attraverso visite di revisori indipendenti almeno una volta all’anno, afferma il marchio dopo essere stato interrogato da Follow the Money. I controlli vengono effettuati anche dalla Fair Labor Association (FLA) e FairTrade: due ONG che garantiscono il processo di produzione e l’abbigliamento di Patagonia con un’etichetta che ne conferma la sostenibilità. Una parte di tali audit è pubblica: dal 2016, la FLA ha pubblicato le valutazioni di sette stabilimenti Patagonia, di cui tre in Vietnam, tre in Sri Lanka e uno in Cina, anche se durante tali ispezioni i revisori hanno rilevato dozzine di violazioni, di gravità molto variabile.
Ad esempio, quasi 2.000 dipendenti di una fabbrica in Vietnam sono stati pagati per gli straordinari meno di quanto avrebbero dovuto ricevere e l’età dei dipendenti non è stata registrata (quindi non si può escludere il lavoro minorile). Un altro controllo ha scoperto che i candidati dovevano fornire la loro data mestruale, e le dipendenti hanno riferito agli intervistatori che non potevano rimanere incinte nei primi sei mesi del loro impiego. Altre violazioni riguardavano questioni come lavorare senza dispositivi di protezione, uscite di emergenza bloccate o mancanza di politiche in materia di molestie o discriminazioni, hanno riferito i giornalisti di FTM.
Un problema è presente comunque in ogni rapporto: i lavoratori tessili nelle fabbriche che producono abiti per Patagonia lavorano molto più a lungo di quanto consentito dalla legge, fino a 17 ore al giorno e più di 80 ore alla settimana, ben oltre quanto consentito dal codice di condotta di Patagonia.
“Lunghe ore di lavoro con pause insufficienti spesso portano a problemi di salute”, ha scritto di recente la Clean Clothes Campaign su questo problema, e ”chi protesta viene semplicemente licenziato”. A ciò si aggiunge che i lavoratori tessili – anche nelle fabbriche che lavorano per Patagonia, secondo FTM – usano droghe per lavorare più velocemente e anche per combattere la fame; per non parlare delle condizioni a volte pietose degli “appartamenti” nei quali vivono ammassati, o del fatto che durante i turni non possono bere acqua – nonostante il caldo soffocante – perché non possono perdere tempo ad andare in bagno, pena le urla dei capi turno, i quali temono di non poter rispettare le date di consegna dei capi ordinati dai brand occidentali (in larga parte, ben certificati come “ESG complain”…).
Patagonia ha in prima battuta abbozzato una replica, debole come lo statement sul sito web, affermando che queste affermazioni per loro sono “nuove e serie”, ma ha affermato che “senza prove non può commentare”.
Thulsi Narayanasamy – direttrice dell’advocacy presso il Worker Rights Consortium, un’organizzazione indipendente senza scopo di lucro che monitora e indaga sulle condizioni di lavoro nell’industria dell’abbigliamento e del tessile – è frustrata dall’approccio di Patagonia alla sostenibilità: “Patagonia spende milioni in iniziative ecologiche, ma perché invece non possono pagare le persone che fanno i loro vestiti come si deve…?”, si chiede. Tutto è subappaltato all’estero, con controlli forse non del tutto efficaci. “Penso che dovremmo chiederci: perché i marchi di abbigliamento non hanno le loro fabbriche?”, chiede la Narayanasamy. E si da anche la risposta: ‘I marchi non vogliono essere responsabili delle persone che producono i loro vestiti, e tutti i marchi ne traggono vantaggio, inclusa Patagonia”, conclude l’inchiesta di FTM.
A seguito delle critiche delle quali è stata investita, Patagonia pare aver avviato degli approfondimenti, e ha poi pubblicato una replica più dettagliata, che vi riportiamo:
“I nostri auditor hanno condotto rigorose indagini sul posto nel corso degli ultimi mesi e non hanno trovato nessuna evidenza che possa confermare le dichiarazioni contenute nei recenti articoli apparsi sui mass-media. Nello specifico, presso Regal Image e Shadowline non è emersa nessuna evidenza, e non sono stati riportati dai lavoratori casi di uso di droghe per aumentare le produttività, eccessivo ricorso agli straordinari (oltre le 60 ore), straordinari non pagati, repressione antisindacale, molestie verbali. Inoltre, nella nostra esperienza in Sri Lanka, non abbiamo mai avuto problemi che non potessero essere risolti direttamente con i nostri partner di produzione. Sette dei nostri partner in Sri Lanka sono certificati Fair Trade USA, il che significa che Patagonia paga un premio destinato direttamente ai lavoratori di queste fabbriche. Patagonia si assume proattivamente anche una responsabilità per i diritti, la salute e la sicurezza dei lavoratori che realizzano i prodotti del marchio nelle fabbriche, negli stabilimenti e nelle aziende agricole e ha istituito diversi programmi di monitoraggio accreditati per garantire il loro benessere. Monitoriamo regolarmente i nostri partner della filiera produttiva, direttamente e attraverso organizzazioni come Fair Trade, Better Work ILO e Fair Labor Association. Se riscontriamo problemi, collaboriamo con i nostri partner per implementare soluzioni efficaci e durature, come nel caso del nostro impegno per eliminare le tasse per i lavoratori migranti. Da sempre accogliamo con favore ogni tipo di valutazione e osservazione, in ogni aspetto della nostra attività, e siamo i primi critici di noi stessi quando si tratta di migliorare la nostra azienda e di contribuire a far progredire l’intero settore in cui operiamo. Lo facciamo perché sappiamo che ridimensionare il nostro impatto può portare ai migliori risultati possibili per i lavoratori di tutta l’industria dell’abbigliamento. Regal Image e Shadowline non sono partner per la produzione di prodotti finiti per Patagonia. Regal Image è stato esaminato ed è un partner approvato per gli articoli che richiedono un preciso procedimento di stampa, ma non ha ancora contribuito alla realizzazione di nessun prodotto Patagonia venduto (solo alla realizzazione di una quantità limitata di campioni)”.
Al netto del passaggio finale, dal sapore vagamente giustificativo (“non hanno ancora prodotto vestiti per noi, hanno solo approntato dei campioni”) fondamentalmente Patagonia nega convintamente l’esistenza di irregolarità: chi avrà ragione? L’azienda o i giornalisti d’inchiesta? E come combaciano le risultanze critiche degli stessi report di audit commissionati dall’azienda, sopra citati, con il gesto di respingere al mittente qualunque accusa, come tentato da Patagonia?
Interessante il commento della Dott. sa Giorgia Grandoni, ricercatrice del centro studi della start-up innovativa Reputation Management e specialista in materia:
“Occorre sviluppare sistemi di controllo per i fornitori di servizi esterni realmente incisivi, anche a costo di ridurre la dipendenza dagli obiettivi di volumi commerciali fuori controllo e margini reddituali esorbitanti che caratterizzano il comparto del fashion, ha sottolineato l’esperta. “Le aziende esistono per fare utili, dobbiamo riconoscerlo senza ipocrisie, ma è anche vero che questo genere di comportamenti alla fine – paradossalmente – danneggia proprio il business e la sua profittabilità. Se venissero fatti realmente rispettare standard etici adeguati a tutta la lunga filiera dell’abbigliamento, probabilmente – conclude Grandoni – non si verificherebbero le distorsioni denunciate per il mercato del fast-fashion e non solo, come dimostra il caso Patagonia. Distorsioni che possono a posteriori impattare molto negativamente sulla reputazione delle imprese, la quale, come sappiamo, è l’asset immateriale più importante e di maggior valore per qualunque azienda”.
Una situazione che richiede l’attenzione responsabile di tutti, cittadini e clienti per primi, ormai sempre più sensibili nell’orientare le proprie decisioni di acquisto su aziende realmente sostenibili. Con buona pace, ormai ci siamo abituati, dei roboanti e ridondanti rating ESG che decorano i siti web delle più importanti aziende del mondo.