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La lezione di marketing di Angry Birds

Avete mai giocato ad Angry Birds? Vi sembrerà una storia incredibile, un’eccezione, un colpo di fortuna: non è niente di tutto questo. Angry Birds è l’esempio di come funziona l’economia e la prova di come le più elementari regole del marketing, soprattutto nel mercato dei beni immateriali, abbiano subito un’evoluzione profondissima.
È un gioco gratuito disponibile per smartphone, tablet e anche per Pc, è un rompicapo e si basa su un meccanismo molto semplice: il giocatore deve uccidere maiali lanciando uccelli con una fionda. Ogni uccello ha caratteristiche e potenzialità diverse e ogni livello presenta elementi di complessità progressivamente crescenti.
È bastata questa idea per trasformare Angry Birds nel gioco più scaricato della storia: 700 milioni di download entro la fine del 2011 e l’obiettivo di superare la soglia del miliardo entro il 2012.
Angry Birds è stato sviluppato da Rovio, una società finlandese che un anno fa contava 20 dipendenti e oggi, sulla scia del clamoroso successo del gioco, dà lavoro a 250 persone.
Un miliardo di download a costo zero? Perché lo fanno? Come si guadagnano da vivere? Qual è il modello di business che ha portato i programmatori a mantenere il gioco gratuito anche dopo un successo straordinario?
L’intervista di Cristiana Raffa (Sole24Ore) a Ville Heijari, vicepresidente del settore Media Franchise di Rovio è illuminante.
Angry Birds svela il grande, ancora incompreso e per certi versi spaventoso passaggio culturale del mondo contemporaneo dello scambio di beni e servizi: giorno dopo giorno assistiamo allo svuotamento del concetto di prodotto (e soprattutto alla sparizione del margine relativo alla sua vendita) e il relativo slittamento verso il concetto di servizio.
La musica è il mercato dove questa trasformazione è già avvenuta e non è stata ancora digerita del tutto né dalle etichette discografiche né dai musicisti. Vendere un brano su iTunes genera un margine infinitamente inferiore rispetto alla vendita dei biglietti di un concerto, al merchandising, alla cessione dei diritti, all’indotto generato dal ‘brand-musicista’.
Rovio ha accettato la sfida e ha trasformato Angry Birds in un servizio, nel suo servizio di punta. E ha deciso di offrirlo liberamente a tutti, coprendo i costi con le inserzioni pubblicitarie (banner non particolarmente invasivi), e cedendo il 30% alle piattaforme che ospitavano il gioco, come l’Apple Store.
La regola fondamentale su cui si basa il successo di Angry Birds è oramai una vera e propria regola generale di (web-)marketing: il successo di un prodotto/servizio online dipende dalla capacità di ridurre al massimo le barriere al suo accesso, in particolare quelle relative al costo e alle difficoltà tecniche di fruizione.
Questa regola rende drammatica la differenza tra l’offerta di un prodotto a zero centesimi e l’offerta a un solo centesimo. Stabilire anche il prezzo più basso possibile crea la barriera del costo, dunque la necessità di dover eseguire una procedura, utilizzare la propria carta di credito, perdere tempo.
I giochi gratuiti su smartphone, inoltre, sono percepiti dal cliente come commodity: essendo utilizzati come passatempo leggero e non richiedendo alcun impegno cognitivo ed economico per essere scaricati, sono ‘tutti uguali’ in partenza. Un gioco, soprattutto se è sconosciuto (come lo era Angry Birds al suo esordio), vale l’altro.
Per queste ragioni se Rovio avesse offerto Angry Birds in cambio di una cifra anche infinitesimale, il gioco sarebbe stato percepito come meno interessante di un qualsiasi alternativa gratuita, a prescindere dalla sua qualità relativa.
La scelta di Rovio, dunque, è non solo giusta ma quasi inevitabile: bisogna distribuire il prodotto/servizio di punta gratuitamente allo scopo di attirare il maggior numero di clienti in potenza possibili, di farli affezionare al gioco, ai personaggi, ai nuovi sviluppi del software o a nuovi giochi, magari a pagamento.
A quel punto scatta la seconda parte del piano: Rovio oggi ha 700 milioni di clienti potenziali (chissà quanti sarebbero se il gioco fosse costato un centesimo: certamente molti meno), che non hanno ancora speso nulla e che sono maggiormente disponibili a valutare altre offerte economiche da parte degli sviluppatori di Angry Birds rispetto al momento in cui l’applicazione è stata scaricata.
E così Angry Birds, apparentemente un semplice gioco in cui colpire maiali con degli uccelli, diventa il cavallo di Troia della complessa strategia commerciale di Rovio: un’estesa offerta di mercandising, una speciale applicazione per Facebook che offre agli utenti la possibilità di acquistare speciali funzionalità e condividerle con gli amici, forse anche un film nei prossimi anni.
L’economia online, oggi, ci dice sempre la stessa cosa: se cerchi il profitto subito, sei destinato a soccombere sotto i colpi dell’enorme mole di contenuti gratuiti di qualità. Bisogna essere lungimiranti e non avidi. E bisogna divertirsi e far divertire i nostri interlocutori, che oramai sono molto più che semplici clienti: sono fan, testimonial, recensori. Non serve la pubblicità, basta convincere loro per avere successo.
Queste regole valgono con tutto ciò che è digitale: il giornalismo, le arti, i servizi.Chiunque pretende soldi per tutto ciò che produce, dice e fa è fuori dalla storia o forse deve scegliersi un’altra professione.




Sostenibilita, Csr. Bilancio di sostenibilità, arriva il servizio 'review' per migliorare il documento

Il bilancio di sostenibilità è ormai diventato uno strumento diffuso in moltissime aziende nel mondo. Si tratta di un documento, che si affianca a quello economico, che illustra l’approccio, gli impegni e i risultati ottenuti dall’azienda in ambito economico, sociale e ambientale, definendo al contempo gli obiettivi per i mesi a venire. Per migliorare questo percorso per arrivare all’obiettivo di un report integrato, il Csr manager network, l’associazione di riferimento per i professionisti della responsabilità sociale d’impresa in Italia promossa da Altis (Alta scuola impresa e società dell’università Cattolica di Milano) e Isvi (Istituto per i valori d’impresa) offre un servizio di reporting review. Gli associati al Network possono sottoporre il loro report a un apposito gruppo di lavoro volontario allo scopo di migliorare il documento grazie ai suggerimenti ricevuti. Al network possono aderire: manager responsabili delle politiche di sostenibilità; società di professionisti, consulenti o certificatori; rappresentanti della pubblica amministrazione; professionisti dei fondi etici e delle agenzie di rating etico; organizzazioni non profit. Possono far parte anche piccole imprese rappresentate da singoli imprenditori e fondazioni d’impresa. Condizioni privilegiate sono previste per studenti di corsi di laurea specialistici/Mba, laureati e giovani professionisti e per tutti sono previste anche quote di iscrizione semestrale. Oltre al reporting review, l’Associazione offre molteplici vantaggi. Accanto ai benefici propri di confronto e appartenenza alla comunita’ professionale, chi aderisce può prendere parte o co-promuovere eventi pubblici in cui valorizzare le proprie best practice; ha l’opportunità di beneficiare di un supporto per l’implementazione di politiche di sostenibilità particolarmente complesse; può approfondire in anticipo nuovi standard o modelli di sostenibilità condividendo esperienze, traguardi e criticità in una logica di apprendimento continuo Per i soci sono inoltre organizzati workshop periodici riservati di aggiornamento, all’incirca 4-6 ogni anno. Il primo di questi appuntamenti, a marzo, sarà dedicato al tema della comunicazione e valorizzazione delle proprie politiche di sostenibilità a partire dai dati del bilancio, mentre a maggio il tema sarà il coinvolgimento della Csr nel piano strategico d’impresa. Nel corso degli anni, il Csr manager network ha visto crescere il numero degli iscritti, ad oggi pari a un centinaio di professionisti. Tra i soci che hanno aderito in questi ultimi mesi i rappresentanti di alcune grandi aziende e di società di consulenza nella sostenibilità e nelle risorse umane tra cui Mondadori, Pirelli, Sap, Sea-Aeroporti di Milano, Solvay, G-Restart, Altran e Ecoways.




MA (NON) FATECI RIDERE!

Aaron Perlut, professionista delle RP da 18 anni e partner dell’agenzia digitale Elasticity di Saint Louis, pubblica su Forbes un articolo in cui si invitano gli addetti alle relazioni pubbliche a fare ricorso all’umorismo per creare un maggiore attaccamento del pubblico al brand di riferimento.
L’autore afferma che gli show nazionali che trattano di attualità in maniera satirica sono per molti americani il solo modo di venire a conoscenza delle notizie.
Due report (uno dell’Indiana University, l’altro di Rasmussen Reports) dimostrerebbero anzi che il 32% dell’audience fra i 30 e i 39 anni sostituirebbe all’informazione di tipo tradizionale (quale quella dei telegiornali) l’informazione di tipo comico/satirico di programmi quali “Weekend Update” di SNL, “The Daily Show” di Jon Stewart e il “Colbert Report”.
Milioni di persone si tengono aggiornate attraverso le fonti di informazioni tradizionali, in cui le notizie comunicate dalle aziende entrano in concorrenza con quelle su politici, celebrità e uomini d’affari. Per arrivare al cuore del target di riferimento, l’azienda dovrebbe invece cercare delle forme di comunicazione alternative ai circuiti dominanti. L’autoironia e la satira possono essere potenti strumenti di comunicazione, se utilizzate in maniera efficace.
Perlut, che è anche Presidente del Consiglio d’Amministrazione dell’American Mustache Institute, ha recentemente lavorato per la Quicken, società controllata dalla Intuit, pubblicando un report sul dato che gli Americani con i baffi si trovano in una condizione di crisi finanziaria perché spendono i soldi per le donne, i pantaloni di pelle e lo sbiancamento dentale. Ne è risultata per l’azienda una visibilità maggiore di quanto abbia mai ricevuto e un aumento di consumatori attratti grazie all’umorismo.
Perlut crede che oggi, comunque, l’uso della parodia nell’attività di public relations per far parlare di aziende e brand sia abbastanza diffuso. Si tratta, tuttavia, di un risultato raggiunto lentamente, nel tempo; mentre l’uso dello humor nel messaggio pubblicitario ha una lunga storia con personaggi quali il Re decrepito di Burger King e il “Vero uomo di Genio” della Bud Light.
“Erroneamente, la maggior parte degli addetti alle RP sono convinti che il mondo viva e muoia sulle pagine di media come The Wall Street Journal e propendono per l’uso di vocaboli tecnici quale “strategico”, “orientato ai risultati”, “sinergie””: parole che hanno poco significato per un target composto di non addetti ai lavori.
Le aziende gestite da questo tipo di RP finiscono per perdere l’occasione di conquistarsi la simpatia del vecchio e nuovo pubblico.
I consumatori, attualmente, vogliono comunicare con i brand nei social forum online: qui ricercano ‘voci’ autentiche e autocritiche, che non si prendano troppo sul serio.
Lo staff RP di Hormel Bacon ha creato il World Bacon Games, un evento online regionale e nazionale dove i partecipanti potevano vincere medaglie di bacon: una strategia di attrazione del pubblico molto più efficace – sostiene Perlut – del contattare giornalisti enogastronomici per scrivere recensioni brillanti sui propri prodotti.
L’iniziativa, infatti, ha avuto ottimi risultati tanto che secondo le statistiche nel periodo della campagna la parola ‘bacon’ era più ricercata sul web della keyword ‘Obama’.
La valutazione sull’includere o meno una comunicazione di tipo ‘satirico’ nell’attività di RP va comunque ponderata con attenzione affinché lo humour non danneggi il brand. Tuttavia dovrebbe almeno essere presa in considerazione, in quanto costituisce una buona opportunità per entrare in contatto e catturare il proprio target di riferimento.




Comunicazione: abilità esclusiva di relatori pubblici e comunicatori?

Uno degli assiomi della comunicazione afferma che “è impossibile non comunicare”. La comunicazione, sia negli aspetti informativi che negli aspetti relazionali, ha un ruolo fondamentale nella vita di qualsiasi persona, organizzazione o attività professionale. Cosa la renderebbe allora abilità “esclusiva” di pr e comunicatori? Da comunicatori che quotidianamente hanno il “diritto-dovere” di dimostrare la propria professionalità abbiamo voluto rifletterci sopra.
La comunicazione è un continente vastissimo e non esiste un paradigma universale che integri in una visione unitaria le varie discipline che la caratterizzano: dalla psicologia alla sociologia; dalla linguistica all’antropologia; dalla filosofia  all’economia (compreso il marketing e la scienza del management). Probabilmente ricondurre a sintesi e unità un argomento così vasto e trasversale non è neppure possibile. L’importanza di questo strumento nella vita quotidiana delle persone è sottolineata da alcuni dati sulle abitudini comunicative e sugli effetti da “cattiva comunicazione”sulle persone e sulle organizzazioni.
Per quanto riguarda i singoli, un’indagine svolta nel 2000 dal Ministero dell’Istruzione USA ha rivelato che l’80% delle persone con serie difficoltà a comunicare ha molti fallimenti in campo lavorativo. I datori di lavoro, intervistati nella stessa ricerca, hanno affermato che in un candidato all’assunzione l’abilità di comunicare e di relazionarsi con gli altri viene al primo posto rispetto alle competenze tecniche specifiche (che, affermano, possono essere apprese lavorando). Altre ricerche confermano che oltre l’80% dei licenziamenti non riconducibili a riduzione di personale sono dovuti a “problemi relazionali”. La capacità di creare “buoni rapporti” è presente nel 75% delle persone che fanno carriera e hanno successo e solo nel 25% dei dirigenti che perdono il posto di lavoro.
In riferimento invece agli effetti sulle organizzazioni la comunicazione è uno strumento che genera e sostiene relazioni, sviluppa fiducia e conoscenza, produce credibilità strategica e reddituale, contribuisce alla costruzione e alla diffusione della conoscenza. In altre parole la comunicazione concorre alla creazione e alla diffusione di valore per i clienti, per i business partner, per i dipendenti, per la comunità e per tutti gli stakeholders (della filiera economica e non). Questi fattori hanno una forte componente intangibile e il loro reale valore dipende da come vengono percepiti dai diversi pubblici. Il passaggio da un determinato livello di valore intrinseco ad un valore percepito superiore è dunque il frutto combinato di un “saper fare”, di un “far sapere” e di una consapevole e costante capacità di comunicare. Laddove questi processi si rivelano carenti, ilvalore percepito può essere inferiore al valore intrinseco e si verifica quindi una distruzione di valore potenziale. In sintesi, il successo e la credibilità delle persone e delle organizzazioni sono strettamente legati alle competenze – il saper fare – ma è sugli skills relazionali e comunicativi che si gioca la differenza.
Ma perché, se la comunicazione è così importante per le persone e per le organizzazioni (pubbliche e private, profit e non profit), nessuno – scuola, istituzione, famiglia – ci insegna a comunicare con efficacia? Come disciplina viene insegnata in alcune facoltà universitarie (lettere e filosofia, psicologia, sociologia, economia) e in alcuni corsi laurea (comunicazione e relazioni pubbliche in particolare), generalmente in modo teorico e astratto, spesso poco utile nella vita quotidiana.
Eppure, per formulare chiaramente i messaggi, per evitare ambiguità ed incomprensioni per capire e farci capire correttamente comunicando con efficacia abbiamo bisogno di:

  • skills relazionali per vivere all’interno delle organizzazioni e della comunità (decision making, empatia, problem solving, ecc);
  • competenze manageriali per governare le organizzazioni (lavorare per obiettivi, gestire i conflitti negoziare, motivare, coinvolgere, ecc.);
  • competenze personali di tipo trasversale (parlare in pubblico, presentare, esprimersi, ascoltare, ecc.).

Da alcuni anni, diversi studiosi e ricercatori, di provenienza accademica, manageriale e professionale stanno cercando di mettere a fuoco le caratteristiche e le abilità relazionali e comunicative, identificabili e misurabili, che ogni manager/professionista dovrebbe possedere per svolgere al meglio la propria attività.
Si tratta quindi di una serie di fattori più o meno innati, ma che comunque possono essere appresi, rafforzati, studiati in modo da generare un’accentuata sensibilità che di per sé fa da traino ad una competenza relazionale più efficace. Il fatto che siano questioni, aspetti, capacità che tutti sperimentiamo diventa spesso di ostacolo al riconoscimento del discrimine tra una comunicazione efficace ed una semplicemente sufficiente, o all’individuazione di un esigenza di miglioramento. Trovarsi per natura a comunicare non significa che siamo sempre in grado di dominare pienamente i messaggi che emettiamo e gli effetti che generano su chi li riceve, il quale li interpreta necessariamente all’interno del suo frame, del suo vissuto e delle sue abilità relazionali.
In un contesto comunicativo così variabile ed incerto, quindi, per costruire un forte capitale relazionale, per ottenere la fiducia dei propri pubblici, per garantirsi un allineamento tra identità e immagine percepita, per saper intrattenere relazioni reciprocamente positive con tutti i pubblici/stakeholders, per comunicare con efficacia il proprio valore intrinseco, lo sviluppo di tali competenze non può più essere lasciato alla casualità, alla buona volontà del singolo. Sta nel livello di consapevolezza relazionale di ogni singola persona il segreto della qualità dei suoi rapporti personali ed umani e dei suoi risultati professionali. In tal senso è compito di noi comunicatori far crescere e diffondere la cultura della comunicazione e della relazione, al di là dei luoghi comuni e del pressapochismo che ostacolano il riconoscimento delle nostre professionalità, così variegate e “sfuggenti” quanto lo sono le discipline della comunicazione.




CSR e management aziendale: l’organigramma per stakeholder

Per un’organizzazione non solo gli stakeholder rivestono un ruolo fondamentale ma anche gli “stakeholder degli stakeholder”. In quest’ottica è possibile creare un organigramma all’interno del quale inserire tutte le funzioni aziendali in ragione dei tipi di stakeholder con i quali maggiormente dialogano. Luca Poma propone un ulteriore passo avanti nella contaminazione tra saperi.
In particolare negli ultimi cinque anni, con il mio team abbiamo investito una parte non trascurabile del nostro tempo tentando di dare un contributo per certi versi originale alla ricerca sul tema della Comunicazione di Crisi ma soprattutto della Responsabilità Sociale d’Impresa (1), settore quest’ultimo troppo spesso erroneamente classificato come semplice branca delle RP e della comunicazione o peggio ancora del marketing.
Il risultato di queste ricerche e sperimentazioni è stato rendicontato in una ventina di articoli e saggi, pubblicati in anteprima su questa stessa piattaforma internet, e che intendo quanto prima sottoporre a una revisione sistematica affinchè possano costituire la base di una pubblicazione editoriale più organica. Ovviamente abbiamo innanzitutto applicato le nostre idee al lavoro di tutti i giorni, grazie alla disponibilità ed allo spirito d’innovazione proprio di alcune aziende nostre Clienti. In estrema sintesi, i risultati sono stati i seguenti:

  • definitiva fuoriuscita della CSR dalla sua dimensione di “charity” e filantropica;
  • l’inserimento degli “stakeholder degli stakeholder” tra i nostri pubblici d’interesse, con una riflessione articolata sugli effetti creati dalle azioni del consulente sull’impresa e – a sua volta – dell’impresa verso tutti i suoi pubblici, ed ancora, di essi verso i loro pubblici, con una graduale estensione del concetto di “sostenibilità” del business ad una rete sociale molto più ampia di quella abitualmente fino ad oggi considerata;
  • il tentativo di applicazione del concetto di “rete neurale” – e dei relativi meccanismi di funzionamento – alla mappa degli stakeholder, come diretta conseguenza della riflessione di cui al punto precedente;
  • la “smaterializzazione” dell’azienda dalla mappa degli stakeholder: l’azienda diventa una “texture” di fondo che visivamente “include” tutti i suoi pubblici d’interesse, in un ideale – e, per quanto sostenibile, anche reale – sovrapposizione d’interessi;
  • l’inserimento della mappa su un grafico cartesiano a quadranti, con un indice numerico appositamente elaborato, certi come siamo della necessità di passare da un metodo di costruzione empirico ed approssimativo della mappa stessa ad un metodo il più possibile scientifico e verificabile (2). Il grafico cartesiano a quadranti misura il grado di “influenza” o meno dell’azienda verso ogni pubblico, e di ogni pubblico – e di gruppi di pubblici – verso l’azienda stessa. Questa fase ha incluso la predisposizione di una quindicina di checklist articolate, funzionali alla determinazione dell’esatta posizione di ogni stakeholder sulla mappa, nonché della sua rilevanza per l’azienda e dello stato di potenziale crisi nei rapporti con le organizzazioni rappresentate sul grafico;
  • l’avvio di un più stretto processo di stakeholder engagement, con la pubblicazione on-line del bilancio sociale già nella sua prima bozza, così da permettere ad ogni stakeholder di contribuire alla definizione della versione definitiva dello stesso;
  • la successiva strutturazione di un “cruscotto di indicatori” online, con la creazione del primo “bilancio sociale in tempo reale”: un salto in avanti in direzione di una totale disintermediazione tra l’azienda e i suoi pubblici, i quali possono consultare in diretta 365 giorni all’anno l’andamento di ogni indice di riferimento del bilancio sociale, dando contestualmente indicazioni migliorative e preziosi contributi alla definizione delle strategie aziendali;
  • ultimo ma non ultimo, l’inserimento automatico del Crisis Management in ogni mandato afferente alla CSR, dal momento che la gestione della crisi potenziale non può prescindere dalle strategie di valorizzazione del dialogo con gli stakeholder e viceversa.

Ora, nell’ambito di un mandato di lungo periodo, un’azienda Cliente ha manifestato l’esigenza di avviare un percorso di ridefinizione dei processi di Governance interna: l’impresa è quasi una “garage company”, nata nel magazzino sotto casa dall’intraprendenza di due coniugi, ed è cresciuta a dismisura negli ultimi 30 anni, sia per dipendenti che per fatturato, con il risultato che il “sogno” che sta alla base della mission aziendale sempre più difficilmente riesce a venir efficacemente trasferito dai fondatori e recepito adeguatamente dai quadri e dai collaboratori. Abbiamo coinvolto per assolvere a questo compito impegnativo Alberto Goffy, amico e libero professionista specializzato in riorganizzazioni aziendali, successivamente coadiuvato anche da Federico Fioretto per la parte relativa alla miglior definizione delle griglie valoriali dell’impresa. Goffy ha elaborato un efficace organigramma a 8 divisioni, di tipo circolare, che permette di seguire passo per passo lo sviluppo di un nuovo prodotto, dalla sua ideazione all’industrializzazione all’acquisto da parte del Cliente finale. Ma ancora non eravamo soddisfatti: la CSR figurava ancora come una “funzione” essa stessa, ancorché importante e in staff alla Presidenza, e questo non rifletteva per nulla la nostra visione di quella che abbiamo ribattezzato “Human Social Responsibility”, che eleva la CSR a dimensione strategica ponendola come afferente al DNA stesso dell’azienda e permeandola quindi per intero.
Con Luca Yuri Toselli – il mio più importante collaboratore, da alcuni definito il mio “cervello di back-up” – nel corso di una recente trasferta in centro America (le idee migliori come al solito emergono fuori contesto…) abbiamo allora immaginato un “organigramma per stakeholder”, all’interno del quale inserire tutte le funzioni aziendali in ragione dei tipi di stakeholder con i quali maggiormente dialogano: solo così – riflettevamo – sarà possibile comunicare realmente, all’intero come all’esterno, l’essenza di una “stakeholder company”, educando inoltre il capitale umano a mettere al centro della propria attenzione i pubblici d’interesse dell’azienda – senza la piena soddisfazione dei quali non esiste impresa – e non solo i prodotti e i servizi da essa erogati. Processo questo vieppiù essenziale dal momento che da molti manager la CSR viene ancora vissuta come “qualcosa di bello e socialmente utile che l’azienda fa collateralmente e marginalmente rispetto al proprio core-business”, confondendo sistematicamente e in modo vieppiù obsoleto una strategia di stakeholder engagement con qualcosa di “caritatevole”.
Pur tuttavia, l’organigramma “per prodotto” originariamente immaginato da Goffy presentava indubbiamente i suoi pregi. Con Stefano Ferranti, che si occupa a 360° di strategie web, abbiamo quindi ideato una “tag-cloud” (3) di stakeholder. Abbiamo poi identificato per ogni dipendente dell’azienda gli stakeholder di suo specifico riferimento, con i quali quotidianamente si relaziona, riportandoli accanto al suo nome sull’organigramma “per prodotto”. La tag-cloud ha preso quindi forma, con i nomi degli stakeholder più spesso ricorrenti che assumevano man mano maggior rilievo. Consultando l’organigramma per prodotto e cliccando su un qualunque stakeholder evidenziato di fianco a un dipendente, o cliccando lo stesso stakeholder sulla tag-cloud, l’organigramma per prodotto si converte immediatamente sotto gli occhi del fruitore in un organigramma per stakeholder, ridistribuendo automaticamente tutti i dipendenti all’interno di una certa categoria di stakeholder, e viceversa, grazie a un programma informatico che collega e incrocia i due data-base – quello dell’organigramma per prodotto e quello dell’organigramma per stakeholder.
Sarà tra l’altro interessante verificare in azienda quale delle due versioni verrà quotidianamente più consultata, con i dipendenti che diventeranno essi stessi inconsapevoli “termometri” della penetrazione reale del concetto di stakholder company nella loro vita lavorativa di tutti i giorni.
Un altro piccolo passo verso l’integrazione di saperi, incrociando il management e la riorganizzazione aziendale con la responsabilità sociale d’impresa, svincolata da un ambito squisitamente filantropico.

 
(1)   le basi teoriche di quanto espongo in questo ed in altri precedenti articoli sono contenute nel saggio “Nuovi strumenti per la CSR: dalla tradizionale mappa degli stakeholder alla rete neurale complessa”, pubblicato nel 2008 su questa stessa rivista on-line
(2)   il metodo alla base della strutturazione di questa nuova mappa è stato oggetto della tesi di Master della SDA Bocconi “Gestione dell’impresa sociale, non-profit e cooperativa” (dicembre 2010) a firma della tesista Dott. sa Francesca Delpiano, che ha anche fattivamente contribuito – in staff con Luca Yuri Toselli – al perfezionamento del metodo stesso, e con l’occasione ringrazio entrambi
(3)   la “nuvola”, che racchiude – diversi per grandezza con riguardo all’importanza percepita – i nomi di una certa categoria di elementi, e li collega uno per uno a un contenuto ipertestuale