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Costa Crociere/ "Sparisce" un dossier di approfondimento. Ed è guerra tra comunicatori

Mentre le indagini proseguono in attesa delle prime udienze in Tribunale, Affari Italiani intervista Luca Poma, giornalista ed esperto in comunicazione e gestione delle crisi, facendo il punto sulle responsabilità di Costa Crociere. Intanto “sparisce” un dettagliato paper di approfondimento, che punta il dito anche sulle responsabilità dei consulenti della compagnia di navigazione.
Poma, cosa ha sbagliato la compagnia di navigazione?
“Come ho scritto in un mio articolo di approfondimento si è trattato di un evento di carattere eccezionale, e tutti – durante e dopo quella notte – hanno dato il massimo. Bisognerebbe però interrogarsi su cosa è stato fatto – o non fatto – prima. C’era un piano di Crisis management adeguato? Venivano fatte simulazioni periodiche serie e complete tra il personale della compagnia? C’erano strumenti per intercettare i ‘segnali deboli’ prima che la crisi scoppiasse? Se così fosse, il Comandante e lo staff sarebbero stati perfettamente formati, non ci sarebbe stata un’ora circa di ritardo nel dare l’allarme, e probabilmente anche l’impatto in termini di vittime sarebbe stato minore”.
Nel dettaglio?
“Non c’è stato un coordinamento efficace tra terra e mare; non esisteva un sito web adatto a dare informazioni al pubblico, e quello istituzionale della compagnia è collassato dopo poco tempo; il Presidente non si è visto sul luogo del disastro o la Sua presenza è passata del tutto inosservata, mancando così di manifestare efficacemente la sua vicinanza alle vittime; la pratica degli ‘inchini’ sottocosta era altroché nota alla compagnia, tanto che un precedente inchino a Procida era stato anche pubblicizzato sul loro spazio web; poi c’è ancora incapacità da dare soluzioni immediate per scongiurare il possibile disastro ecologico in un ecosistema delicato come quello dell’arcipelago Toscano, e molto altro. Ma sopratutto, è saltato all’occhio il ben poco dignitoso scarico di responsabilità tra Compagnia e Comandante”.
Colpa dell’uno o dell’altra?
“Di entrambi, esattamente in concorso. La figura del Comandante non è in alcun modo scindibile da quella della compagnia, in quanto esso è il massimo rappresentante della compagnia stessa in mare, è selezionato da loro, nella fattispecie lavorava per loro da quasi sette anni, è la compagnia che ne doveva verificare periodicamente l’attitudine al Comando. Il tentativo della Costa di scaricare tutte le responsabilità – che pure esistono – esclusivamente su Schettino, è semplicemente ridicolo. Le lacune del Comandante sono le lacune della Compagnia”.
I morti potevano quindi essere evitati?
“Rispondo con le autorevoli parole del Procuratore Generale Deidda: “Scialuppe che non scendono, personale che non sa cosa fare, scarsa preparazione a gestire l’emergenza, ordini maldestri come quello di tornare nelle cabine. La confusione che c’è stata rivela un’incredibile trascuratezza”. Devo evidenziare che parlare a mente fredda, dall’esterno e a posteriori è più facile, ma in ogni caso la mia opinione è che l’impatto negativo della tragedia poteva essere se non evitato, perlomeno ridotto significativamente”.
Da esperto del settore, Lei pensa che le responsabilità per il disastro siano estensibili in Tribunale anche ai consulenti della compagnia di navigazione?”
Questo dovrà appurarlo la Magistratura. Quello che è certo è che una Compagnia di navigazione non può arrivare a un appuntamento ‘fatale’ come il naufragio di una propria nave – che è il ‘core’ del proprio business – non perfettamente preparata.
Che poi sia responsabilità dei consulenti oppure una sottostima del rischio da parte dell’imprenditore – cosa molto comune in Italia – oppure entrambe, dovrà essere oggetto di indagine da parte degli inquirenti.
Il suo paper di approfondimento sul caso Costa era atteso a inizi settimana sul sito Ferpi, ma alla fine non è stato pubblicato, e anche Dagospia ha scritto di “guerra tra comunicatori”. Cosa succede dietro le quinte del Vostro ambiente?
“Il motivo del mancato rispetto di un precedente accordo di pubblicazione dovrebbe chiederlo alla Ferpi stessa. Ho sentito dire da Ferpi che “si è parlato troppo di questa vicenda”, il che è assai singolare detto da un associazione di “comunicatori”. Forse ci sono nomi di professionisti che per quieto vivere “non possono e non devono essere criticati”. Io però ho fatto analisi tecniche, e penso che il fatto che qualcosa non abbia funzionato sia sotto gli occhi di tutti. E prima che consulente sono giornalista: mi hanno scritto che “per il mio bene era salutare non pubblicare il paper”, ma io non ho mai accettato omertà corporative e non inizierò certo adesso. Piuttosto ognuno si assuma le proprie responsabilità, e che l’occasione sia propizia per riflettere tutti quanti per evitare che simili tragedie si ripetano in futuro.”
Luca Poma è giornalista, consulente in Responsabilità sociale d’impresa ed esperto in gestione delle crisi, autore di “Crisis Management: come comunicare le Crisi”, Edizioni Il Sole 24 Ore. La Sua newsletter – ad iscrizione gratuita – è www.creatoridifuturo.it
 




Peggio di Vale nessuno

Alla multinazionale brasiliana del ferro il Public Eye 2012
La brasiliana Vale ne ha combinate così tante da essersi meritata il premio del pubblico come peggiore multinazionale al mondo. Il riconoscimento meno ambito dalle aziende, il Public Eye Award 2012, è stato consegnato venerdì scorso durante il World Economic Forum di Davos, in Svizzera. Si tratta di un attestato internazionale che mette alla berlina le imprese più disastrate quanto a sostenibilità ambientale e sociale. L’evento è organizzato dalla Dichiarazione di Berna e da Greenpeace Svizzera.
La società mineraria ha battuto l’agguerrita concorrenza di altre cinque multinazionali, forse anche più note al grande pubblico: la giapponese Tepco (proprietaria dell’impianto nucleare di Fukushima), la coreana Samsung, la britannica Barclays (vincitrice del premio della giuria a causa delle speculazioni sul cibo), la svizzera Syngenta e l’americana Freeport McMoRan.
A candidare la Vale per il Public Eye Award 2012 ci ha pensato l’International network of people affected by Vale tramite la rete brasiliana Justiça nos Trilhos e in collaborazione con le organizzazioni non governative internazionali Amazon Watch e International Rivers.
La multinazionale è la seconda compagnia del Brasile, la seconda impresa mineraria al mondo, il maggior produttore al mondo di ferro ed è presente in 38 Paesi. «La corporation – si legge nel sito del premio – ha una storia lunga 60 anni macchiata da continui abusi ai diritti umani, condizioni di lavoro inumane e sfruttamento della natura senza regole».
Nella selezione delle sei finaliste, inoltre, gli organizzatori del premio hanno dato importanza all’entrata della società nel consorzio Norte Energia, responsabile per la costruzione della diga Belo Monte sul fiume Xingu, in Parà (Brasile settentrionale). Quest’opera costringerà circa 40 mila persone ha lasciare la propria casa, colpendo direttamente o indirettamente quattordici comunità indigene, allagando un’area grande come il lago di Costanza e prosciugando 100 chilometri di fiume della Volta Grade do Xingu.
Ma questa, a quanto pare, non è che la punta di un iceberg chiamato “irresponsabilità sociale d’impresa”. O almeno è questo che emerge dal libro “Il prezzo del ferro – Come si arricchisce la più grande multinazionale del ferro e come resistono le vittime a livello mondiale”. In questo testo pubblicato da Emi, infatti, i due autori analizzano il comportamento della multinazionale considerando il rispetto dei diritti umani e dell’ambiente, ognuno secondo le proprie specifiche competenze. Da una parte c’è Francesco Gesualdi, fondatore del Centro Nuovo Modello di Sviluppo e autore, tra l’altro, della famosa “Guida al consumo critico”. Dall’altra c’è Dario Bossi, missionario comboniano che vive da anni in Brasile, dove coordina la campagna “Sui binari di giustizia”.
Dal libro emergono le tappe che hanno portato la multinazionale alla deriva etica. Fondata nel 1909 per iniziativa di un imprenditore degli Stati Uniti, nel 1942 l’impresa passò allo Stato brasiliano, che la ribattezzò Companhia Vale do Rio Doce (Cvdr). E nel 1995 venne messa in vendita con un’operazione che sollevò molte critiche (secondo l’allora direttore operativo, Fabio Barbosa, il valore reale della società era di 40 miliardi di dollari, mentre venne ceduta per un miliardo e mezzo).
In pochi anni la Cvdr, oltre ad avere cambiato il nome in Vale, «ha aumentato di quattro volte il suo capitale ed è diventata una potente multinazionale» e «oggi è un colosso con 145.000 dipendenti e un fatturato, al 2008, di 39 miliardi di dollari, superiore al prodotto interno lordo di un Paese come il Kenya». La società, si legge ancora nel testo, «possiede miniere di carbone in Australia e Mozambico, miniere di nichel in Canada e Indonesia, industrie metallurgiche in Nord America ed Europa». Anche se il caposaldo dell’attività resta l’estrazione di ferro in Brasile.
Limitando il discorso al Paese sudamericano e al settore siderurgico – Vale ha guadagnato molto godendo anche di incentivi per il settore agricolo – gli autori arrivano alla conclusione che «ha prevalso la logica del guadagno» e «il risultato è stato l’arricchimento di pochi alle spalle della natura, dei lavoratori, della collettività». Nel dettaglio, il maggiore sviluppo industriale si è avuto in un corridoio di 150 km, tra Marabà e Açailândia, dove si trovano una quindicina di stabilimenti, tutti per produzione di ghisa e causa di forte inquinamento: scorie di carbone, fenoli, anidride carbonica, polveri sottili. E nella sola città di Açailândia, le cinque imprese presenti, cioè la Vale do Pindaré, Viena, Siderùrgica, Guda Nordeste, Fergumar e Simasa, «gestiscono in tutto quattordici altiforni» e «nessuno di essi è dotato di filtri, le polveri di carbone si disperdono per l’aria, ricadono sul quartiere circostante depositandosi ovunque». Con conseguenze che è facile immaginare: «Inevitabile il propagarsi della malattie: allergie, asma, bronchiti, emicranie, tumori».
E il danno ambientale non si limita all’inquinamento. Per produrre una tonnellata di ghisa, infatti, serve circa una tonnellata di carbone, che a sua volta richiede molto legno per essere prodotto. E così è stato scelto di coltivare l’eucalipto, una pianta che cresce facilmente, in tempi brevi e che è in grado quindi di assicurare carbone a basso prezzo. Peccato, però, che queste «piantagioni uccidono la biodiversità, fanno sparire migliaia di specie animali e vegetali». E intanto «la foresta amazzonica continua ad essere distrutta al ritmo di 22.000 chilometri quadrati all’anno».
Tralasciando su molti altri particolari, gli autori mettono in evidenza che «le peggiori forme di lavoro si trovano nelle carbonaie, luoghi deputati alla trasformazione del legno in carbone». Fra Marabà e Açailândia se ne contano a migliaia e in particolare le numerose carbonaie organizzate come ditte individuali «si avvalgono della mano d’opera dei più disperati», «sporchi, denutriti, ammalati, sono tenuti addirittura in schiavitù: senza orario, senza riposo, senza un tetto degno di questo nome, senza salario, senza la libertà di allontanarsi». Tanto che negli anni passati gli ispettori del lavoro brasiliani hanno fatto emergere almeno 300 casi di schiavitù in questo settore.
Ma che cosa c’entra la Vale in tutto questo? Innanzi tutto, «nel 2004 Vale è stata al centro di uno scandalo perché intratteneva rapporti commerciali con imprese indagate per l’utilizzo di lavoratori in schiavitù», la Simasa e Margusa. «La notizia del ritrovamento di schiavi nelle carbonaie fece il giro del mondo, la reputazione delle imprese siderurgiche ne uscì ammaccata». E così i colossi più grandi decisero di costruirsi le proprie carbonaie. «Anche Vale optò per questa soluzione, nel 2005 allestì propri forni nei pressi di Açailândia per rifornire i propri stabilimenti di ghisa sotto il nome di Ferro Guso Carajàs». Ma questa scelta continua a produrre danni: «La carbonaia industriale si trova a ridosso del quartiere California, più di duemila persone sono costrette a respirare il fumo che esce dai 70 forni allestiti da Vale», «molti lamentano difficoltà respiratorie, sinusiti, congiuntiviti». E le promesse pare siano rimaste carta straccia: «Nel 2006 l’impresa aveva promesso di installare dei filtri ai camini e di ridurre l’attività carbonifera, ma non l’ha mai fatto». Ancora una volta, è la conclusione, «il denaro ha avuto la meglio sulle persone».
I danni procurati da Vale, inoltre, sono legati alla ferrovia: per trasportare il ferro dalle miniere del Carajas al porto di Sao Luis, «ogni giorno centinaia di vagoni, convogli interminabili, corrono su e giù per la strada ferrata». E visto che i binari corrono liberi, senza alcuna protezione, «gli incidenti si contano a centinaia» e «Vale non spende per la sicurezza», anche se ogni anno lungo la ferrovia corrono 100 milioni di tonnellate di ferro, una media di 300.000 tonnellate al giorno.
In conclusione, per dirlo con i numeri riportati dal libro, «nel 2008 l’attività produttiva di Vale ha lasciato sul terreno 657 milioni di tonnellate di residui minerari e metallurgici che pongono i suoli e i corsi d’acqua a rischio di contaminazione». Inoltre, «nello stesso anno, Vale ha prodotto 487.000 tonnellate di anidride carbonica, ha consumato 335 milioni di metri cubi di acqua e ha rilasciato 1.562 metri cubi di residui chimici quali alcol, carbonati e altri inquinanti».
Infine, il libro analizza la controversa presenza della Vale in Canada (attraverso la Inco), Perù (la filiale si chiama Miski Mayo s.a.), Nuova Caledonia (Goro Nickel), Indonesia (Inco). In ognuno di questi Paesi sono segnalati problemi con i lavoratori (basti ricordare gli scioperi durati diversi mesi in Canada tra il 2010 e il 2011), con le comunità locali e con le associazioni di difesa dell’ambiente, molto critiche nei confronti delle sue azioni.




I nuovi orizzonti della “ sostenibilità 2.0”

La maggior parte delle grandi aziende utilizzano i social network per diffondere le proprie iniziative in materia di responsabilità sociale (CSR, dall’inglese Corporate Social Responsibility). È il concetto di sostenibilità 2.0, che consiste appunto nell’integrare le strategie di CSR con l’uso evoluto dei social media.
Il fenomeno è in forte espansione: uno studio realizzato a fine 2010 da Zumer Interactive su 50 grandi aziende americane (multinazionali del calibro di Citigroup, Cisco Systems, Chevron, McDonald’s, Coca-Cola, Pepsi e simili) ha evidenziato che il 62% delle imprese considerate discute su Twitter di temi sociali e ambientali, il 22% su Facebook, il 66% ha un blog aziendale sulla CSR e il 42% ha condiviso sui maggiori social network il proprio rapporto di sostenibilità.
L’interesse da parte delle imprese è evidente, poiché essere percepiti come leader in un’ottica di sostenibilità paga in termini di immagine e di rafforzamento del brand. Inoltre, rispetto al budget aziendale complessivamente investito da una grande impresa in attività di CSR, l’investimento in “sostenibilita 2.0” è minimo: in media circa 100.000 dollari l’anno, secondo Zumer. Il che lascia presumere che nei prossimi anni si registrerà un vero e proprio boom delle attività, con investimenti che sono previsti aumentare – solo negli USA – dai 250 milioni di dollari del 2010 a 1 miliardo entro il 2015.
D’altra parte, è anche interessante osservare che in questo caso l’interazione tra imprese e social media sembra funzionare più che per altri settori. Infatti, una volta innescato il meccanismo, le imprese si sentono in qualche modo obbligate a recepire le indicazioni che vengono dal basso, con il risultato che le attività di “sostenibilità 2.0” diventano esse stesse un motore di promozione della sostenibilità.
La ciliegina sulla torta – da un punto di vista strettamente commerciale – è che in tema di sostenibilità il feedback con i cittadini non si risolve in un generico “mi piace, non mi piace”, ma quasi sempre stimola il dibattito e le proposte, presentando spesso l’opportunità di nuovi mercati per prodotti e servizi trascurati dalle imprese e invece spinti dai cittadini.




Google fa lobbying, Apple paga avvocati: non è innovazione

Parte dei soldi guadagnati dalle aziende informatiche vengono investiti in attività di lobbying e in cause legali. Ecco quanti soldi hanno speso nel 2011 Google, Microsoft, Facebook e altri, e quali leggi hanno cercato di promuovere o bocciare. Google è la più spendacciona, mentre Apple ha il braccino corto – poi però si svuota le tasche in tribunale.
Come spendono i loro soldi le maggiori aziende di tecnologia? Una fetta più o meno sostanziosa dei guadagni viene destinata all’attività di lobbying, che negli Stati Uniti è legalmente riconosciuta, serve per influenzare le decisioni politiche e ha una contabilità trasparente pubblicata trimestralmente dal Senato nella banca dati “Lobbying disclosure act”.
Google è salita alla ribalta delle cronache perché nel 2011 ha investo l’88 percento in più rispetto al 2010 (9,68 milioni di dollari), superando l’ex detentrice del record, ossia Microsoft, che si è fermata 7,34 milioni di dollari, con un incremento del 6 percento.
La cifra più consistente è stata versata da Big G nell’ultimo trimestre dello scorso anno: 3,76 milioni di dollari, contro 1,88 milioni di dollari di Microsoft, 450 mila dollari di Apple e 440 mila di Facebook. La parte più interessante di questo corposo capitolo politico-finanziario non riguarda le cifre, quanto le motivazioni per le quali sono state stanziate.
Solo nel quarto trimestre del 2011 Google ha stanziato 150.000 dollari per spingere le leggi a favore della regolamentazione delle connessioni a banda larga, il resto è stato investito per il cloud computing, la libertà di espressione, la riservatezza dei dati personali e la censura.
Nel caso di Big G è inevitabile chiedersi se la cifra mostruosa destinata al lobbying lo scorso anno non sia in qualche modo legata all’aumento delle indagini che riguardano le sue strategie aziendali. Ricordiamo infatti che a settembre la sottocommissione antitrust della Commissione Giustizia del Senato ha tenuto alcune udienze per valutare l’opportunità di avviare una indagine ufficiale sull’abuso di posizione dominante di Google.
L’azienda di Mountain View è inoltre in attesa dell’approvazione per concludere l’acquisizione di Motorola Mobility per 12,5 miliardi di dollari. Purtroppo i dati pubblici non entrano così nel dettaglio da chiarire questo punto. Oltre agli investimenti trattati finora, ad agosto Google ha speso anche 550 milioni di dollari per liquidare il problema degli annunci di farmaci illegali in violazione delle leggi federali.
Per quanto riguarda gli altri, Microsoft ha investito 130.000 dollari per temi relativi “a riforme sull’immigrazione di lavoratori qualificati negli Stati Uniti”, ma non si è dimenticata di spingere l’aggiornamento dell’equipaggiamento informatico nella pubblica amministrazione e le leggi per la tutela del copyright. Senza dubbio la voce censura e copyright sottointende nella maggior parte dei casi anche investimenti a favore dell’insabbiamento della proposta di legge SOPA in discussione nei giorni scorsi. Google e Facebook, per esempio, si sono schiarate nella fazione contraria attivando anche mobilitazioni online.
Apple, invece, ha preparato il terreno per l’annuncio che ha fatto qualche giorno fa sponsorizzando fondi destinati a tecnologie educative. Oltre ai modesti investimenti in lobbying (rispetto ai concorrenti), tuttavia Apple sta spendendo una montagna di quattrini gli avvocati: stando a unaindiscrezione quella che Steve Jobs aveva definito una “guerra termonucleare” contro Android sta costando più di ogni ragionevole supposizione. 

La prima battaglia legale contro HTC sarebbe costata 100 milioni di dollari. Meglio non sapere il conto onnicomprensivo degli avvocati, considerato che sono in corso decine di cause in altrettanti Paesi. Ne valeva la pena, o quei soldi sarebbero stati meglio investiti in attività diverse?




Stanco della mia vita l'ho VENDUTA

Ha messo tutto su eBay. La sua casa, il suo lavoro, i suoi hobby. Ha incassato 300mila euro. E ha deciso di realizzare 100 sogni in 100 settimane. Oggi la sua storia finisce in un libro. E presto sarà la trama di un film
Ian Usher vieva a Perth, in Australia e faceva una bella vita. Lavorava in una miniera d’oro, guidava un grosso camion. Aveva 45 anni, una macchina, una moto, un po’ di soldi, una bella casa. Un sacco di amici e una moglie adorata. Poi, un giorno, la trova a letto con il suo miglior amico (“ma questo è un dettaglio irrilevante che non mi va di discutere”) e il mondo gli crolla addosso. Dopo la disperazione, Ian trova l’idea di vendere tutta la sua vita su eBay.
Come hai fatto?
“Mi sono trovato da solo nella casa che avevo progettato insieme a mia moglie, circondato da tutti gli oggetti che avevo condiviso. Ne aveva abbastanza della mia vita: non la volevo più. Dovevo sbarazzarmi di tutto e ricominciare. E, per ripartire da zero, ho messo tutto quel che avevo in vendita su eBay”.
Hai venduto tutta la tua vita?
“La mia casa, la mia moto, addirittura la mia posizione lavorativa. Mi sono tenuto qualche vestito e un portafoglio vuoto. Dalla vendita ho incassato 399.300 dollari australiani (circa 29mila euro). Pensavo di ricavare più soldi, ma poi ho capito che quella cifra mi sarebbe bastata per un progetto che iniziava a prendere forma nella mia testa”.
Qual’era?
“Nella vita ho sempre avuto una lista di desideri, sogni da raggiungere, cose da fare. Ho pensato che era arrivato il momento di metterli tutti insieme e realizzarli. Cosi ho fissato 100 obbiettivi e mi sono dato 100 settimane per raggiungerli. Sono partito: il primo era sciare nello Skydome di Dubai. Mi sono divertito un sacco facendo snowboard, ma era davvero impossibili dimenticarsi che all’esterno fossero più di 40° C”.
Quali erano gli altri desideri?
“Vedere il Gran Canyon, guidare sulla Route 66, imparare a suonare l’armonica, immergermi con le balene in Giappone, conoscere Richard Branson di Virgin, parlare spagnolo e francese, vincere 1.000 dollari al poker, visitare la Grande muraglia, cavalcare uno struzzo, fare parapendio nudo e di notte…”
Poi è arrivato l’obbiettivo 25 e la tua vita è cambiata di nuovo…
“Ho sempre sognato di partecipare a una corsa su una slitta trainata da cani in Canada. L’ho fatto nel dicembre del 2008. la temperatura era -25°C, ma è stata un’esperienza imperdibile, il paesaggio era incantevole e diverso da tutto ciò che avevo fatto finora. Li ho incontrato Moe, un’istruttrice di cani, e mi sono innamorato. Sono ripartito, ma mi sono detto: prima o poi torno a prenderla. A gennaio 2009 ero in Nuova Zelanda, a marzo in Gran Bretagna, ad aprile sono tornato da lei”.
Terminate le 100 settimane hai realizzato tutti i tuoi obiettivi?
“Ne ho realizzati 93, ma l’ultimo è stato uno dei più importanti. Mentre organizzavo l’asta su eBay, molte persone mi scrivevano e mi raccontavano di eventi assai peggiori di quelli che ho dovuto affrontare io. Volevo aiutare chi, come me, era stato fregato. Così ho creato blindsidednetwork.com, per chi è stato “preso alle spalle” dalla vita”.
Che cosa stai facendo ora?
“Ho scritto un libro, in vendita su Amazon, in cui racconto la mia storia. E mi occupo della sua promozione. Intanto la Walt Disney ha comprato i diritti del libro per farci un film. Oggi la mia vita è fantastica. Vivo a Whitehorse in Canada, con Moe, in mezzo alla natura, non ho bisogno di niente. Sono felice e rifarei tutto quello che ho fatto, senza ripensamenti”.
Cosa consigli a chi è insoddisfatto?
“Decidi cosa vuoi fare della tua vita e cerca in ogni modo di realizzarlo. Nessuno è responsabile della tua infelicità. Ognuno ha il dovere di fare tutto per essere felice”.