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Assalto alla reputazione

Eventi imprevedibili o cause prevedibili ma sottovalutate possono provocare stati di crisi che mettono a dura prova la reputazione delle aziende. Queste stanno affinando le armi per affrontare il campo di battaglia, sia organizzandosi internamente con la creazione di reparti dedicati, sia con l’utilizzo di più chiavi e mezzi per comunicare all’esterno, con il contributo di Barilla, Renault e Unicredit
‘Ci vogliono vent’anni per costruire una reputazione e 5 minuti per distruggerla’. Nessun tentativo di disegnare un quadro apocalittico, ma la frase dell’imprenditore ed economista statunitense Warren Buffett riassume perfettamente il nocciolo del problema. Il legame di fiducia reciproca tra i diversi soggetti economici è diventato oggi un requisito indispensabile per l’economia e per la sopravvivenza delle imprese: per operare nella moderna società industriale un’azienda deve godere di un alto consenso da parte di tutta la comunità. Questa fiducia, costruibile nel tempo solo attraverso comportamenti e comunicazioni coerenti e senza macchie, viene seriamente minacciata quando un’azienda si trova coinvolta in una crisi. La risposta che l’organizzazione saprà dare e comunicare all’interno e all’esterno risulterà fondamentale per preservare il legame di fiducia con i suoi interlocutori chiave. Ma se infinito è l’elenco delle cause che possono portare un’azienda in uno stato di crisi e che il web non è sempre l’origine dei guai ma ne aumenta la potenza, è denominatore comune che ‘un’organizzazione in crisi non è un’organizzazione. E’ un insieme di individui in preda al panico, motivati dall’istinto di conservazione’, secondo Eric B. Dezenhall, uno dei massimi esperti americani di crisis management. Ora il concetto di ‘conservazione’ è diventato sinonimo di ‘reputazione’ perché i danni che può provocare una crisi non sono solo economici, ma anche di immagine. “Nell’ultimo decennio grandi aziende, multinazionali, banche d’affari e altre organizzazioni sono cadute vittime della loro intrinseca arroganza, incapaci di strutturare anticorpi efficaci per far fronte a situazioni di crisi”, spiega Luca Poma, consulente in Responsabilità Sociale di Impresa e Comunicazione di Crisi, che ha recentemente scritto insieme a Giampietro Vecchiato, direttore di PR Consulting, il libro ‘Crisis management’, una guida edita dal Sole 24 Ore, che affronta case history che hanno lasciato traccia sia in Europa sia negli Stati Uniti. I responsabili delle imprese faticano ancora a comprendere come tutte le aziende corrano stabilmente il rischio di essere colpite da un boomerang. Esiste, quindi un ‘abc’ di comportamento? “La gestione di una crisi è ‘fluida’ per definizione – prosegue Poma – quindi non imbrigliabile in schemi fissi. Richiede una conoscenza dettagliata dei meccanismi tecnici di gestione, una profonda consapevolezza delle variabili in campo, sia ambientali sia umane, ma anche una buona dose di creatività e capacità di improvvisazione. Come per la strategia militare, è una tecnica, non una scienza”. Se è consentito il paragone, si può immaginare un atleta che si allena seguendo un planning standard, ma a ogni competizione deve misurarsi con forze e variabili differenti. Secondo Poma ci sono almeno tre cose da non fare mai. “Non cadere nella pratica abituale della sottostima della crisi: 9 volte su 10 gli imprenditori la negano, perché non hanno saputo cogliere dei segnali precedenti, anche se deboli; non aggredire il proprio interlocutore, mostrando i muscoli o affidandosi solo agli avvocati, che hanno strumenti obsoleti e scarsa formazione specifica; scaricare la responsabilità”. Di contro, l’impresa ha almeno tre cose da fare assolutamente. “Assumere la responsabilità: è confermato che le aziende che la ammettono sono quelle che più rapidamente recuperano reputazione presso gli utenti-consumatori, che oltre all’ammissione di ‘colpa’ apprezzano la comunicazione trasparente di meccanismi correttivi; fare una continua previsione di possibili scenari critici con vere e proprie simulazioni per delineare eventuali aree vulnerabili: la capacità di superare una crisi è direttamente proporzionale agli scenari elaborati preventivamente, perché è anche l’attitudine che permette ai manager di avere più tonicità per affrontare situazioni difficili. Ci vuole formazione per gestire una crisi ed è necessario stanziare un budget adeguato nei costi di impresa; gestire il post crisi, perché questa non è mai finita quando sembra e rimane sempre una coda strisciante. In Italia sono ancora molte le aziende poco strutturate”. “Ce lo sentiamo dire da più parti ogni giorno e lo vediamo direttamente, ‘la guardia non va mai abbassata’ – spiega Maurizio Beretta, head group identity and communications di UniCredit -. Per un gruppo internazionale significa monitorare senza soluzione di continuità la ‘buona salute’ di tutti i nostri business e della macchina operativa, adottando un robusto processo di ‘Incident management’ al fine di rilevare e gestire tempestivamente ogni evento imprevisto e spegnere sul nascere ogni focolaio di crisi, rispondendo in modo tempestivo ed efficace in caso di aggravamento di tale incidente. La formazione viene finanziata con risorse ad hoc ed effettuata a diversi livelli, a seconda del grado decisionale e del coinvolgimento delle strutture in caso di emergenza. Il catalogo formativo spazia con diverse proposte, dalla formazione specifica per i Business Crisis Manager, a quella per i Top Manager, per il personale che viene attivato durante le emergenze e naturalmente a quella per tutti i colleghi. Le simulazioni e le esercitazioni sono altresì un momento di awareness per l’azienda”.
Ogni macchia su un’azienda rimane scolpita nella pietra
Il crisis mananagement è un processo di medio-lungo periodo che comprende tutte le attività da porre in atto prima, durante e dopo un evento critico, per proteggere l’organizzazione da minacce e per ridurne l’impatto. La comunicazione assume un significato fondamentale, ma per semplificare le cose non dovrebbe essere altro che l’estensione della comunicazione di ogni giorno. “I mercati sono diventati conversazioni e le aziende devono capire che i tempi dei monologhi sono finiti. La parola chiave del XXI secolo deve essere condivisione di sapere”, conclude Poma. Ma è possibile trarre forza da quanto accaduto e migliorare i meccanismi di prevenzione e di gestione di una crisi? “Dovremmo imparare dai cinesi, perché nella loro lingua l’ideogramma che identifica la crisi è formato dalle parole pericolo e opportunità – risponde Francesco Fontana Giusti, responsabile immagine e comunicazione di Renault Italia -. Una situazione di crisi può essere accettata, difesa, rifiutata o contrattaccata, ma alla fine bisogna ricreare un legame di fiducia con il pubblico”. Ecco quindi che anche la comunicazione pubblicitaria si inserisce nella strategia di risposta e di gestione di una crisi. Per esempio, il settore banche-finanza negli ultimi anni non ha goduto di alta reputazione tra l’opinione pubblica che l’ha più volte attaccato, considerandolo il vero responsabile della crisi globale in cui ci troviamo. A inizio 2012 Unicredit ha lanciato la campagna ‘Aumento di capitale’ su più mezzi, ma soprattutto con uno spot tv. “Il risultato finale è stato ottimo: la percentuale di sottoscrizione è stata altissima, 99,8% (7,48 miliardi di euro su e 7,5 miliardi di euro totali). Questo livello è superiore a quello raggiunto nell’ultimo aumento del 2010 e in linea con altre operazioni di successo di alcune tra le principali banche europee. Grazie anche alla campagna pubblicitaria siamo riusciti a suscitare un notevole interesse del pubblico retail nella sottoscrizione dell’operazione”, spiega Beretta. Anche Barilla ha risposto a una pubblicità comparativa di Plasmon, che considerava ingannevole la comunicazione sulla linea Piccolini e sui biscotti Mulino Bianco, a suon di pagine pubblicitarie sui principali quotidiani nazionali con la campagna ‘Le mamme sanno quello che fanno’. “L’operazione di Plasmon ha messo in dubbio il nome della nostra azienda, nonostante sia stata accertata la sicurezza dei nostri prodotti – spiega Luca Virginio, Group Communication and External Relation Director dell’azienda di Parma -. Dal momento in cui il competitor ha agito fuori da standard e comportamenti etici, la nostra macchina anticrisi ha dovuto mettersi in funzione per salvaguardare l’immagine dell’azienda e la reputazione dei prodotti, per rassicurare i consumatori e i retailer. Abbiamo avuto modo di misurare gli effetti di questa campagna denigratoria sulla percezione del consumatore rispetto alle nostre marche: non così significativi, ma comunque ce ne sono stati. Anche un danno piccolo per noi assume una dimensione grande, perché la reputazione non ha prezzo. E anche se con il tempo che ci vorrà vinceremo la causa contro Plasmon, un risarcimento danni, per quanto ingente, non è quantificabile, rispetto a quello che si è perso o rischiato. In un mondo connesso e digitale ogni sospetto rimane scolpito nella pietra”. “Le nuove tecnologie – aggiunge Beretta – sono spesso usate per un passaparola incontrollato e non sempre positivo, ma rappresentano anche un’opportunità: quella di raggiungere gli interlocutori tempestivamente, rispondendo in tempo reale alle loro esigenze e curiosità”. Il lungo e difficile percorso verso la reputazione passa quindi attraverso un’integrazione dei media, dal momento che la classica campagna atl di questi tempi non basta più, e di una relazione che deve essere quotidiana.




Rio Mare agli Expo Days con eventi ludici per i bambini e un progetto di CSR portato in 8.000 classi

Rio Mare, l’azienda di prodotti ittici, è l’unico brand presente alla prima edizione degli Expo Days, la manifestazione di sensibilizzazione ai temi dell’Expo organizzata dal Comune di Milano e dalla società Expo 2015. Vi partecipa con alcuni eventi  didattici per i bambini, parte di un progetto quadriennale avviato nel 2012 con Expo per promuovere l’educazione alimentare e che ha già toccato 3.000 scuole e 8.000 classi.
Nel corso degli Expo Days, il 5 e 6 maggio presso la Rotonda della Besana di Milano, Rio Mare riproporrà due eventi ludici sul tema del mangiar sano: lo spettacolo teatrale Il sogno ghiotto di Zio Bruno con Rio e Marina, realizzato appositamente dalla compagnia Dual Band, formata da giovani cantanti/attori provenienti dal Coro delle voci bianche del Teatro alla Scala, e Giocacomemangi, una sorta di caccia al tesoro realizzata in collaborazione con il MUBA, il Museo dei Bambini di Milano, che guida i piccoli alla scoperta dei principi della corretta alimentazione e dei piatti più salutari.
Partito a febbraio 2012, il progetto di Rio Mare, dal titolo Best Food Generation, la tribù dell’Expo, proseguirà nei prossimi quattro anni, culminando nel 2015 con nuove iniziative. Il progetto rientra nelle attività di corporate social responsibility dell’azienda, rafforzate negli ultimi anni sia sul versante della sostenibilità ambientale – con la partecipazione alla costituzione della ISFF International Seafood Sustainability Foundation, insieme a associazioni ambientaliste come il WWF – sia sul versante sociale dell’educazione alimentare.




Marketing sociale per le imprese immobiliari

Per Responsabilità Sociale d’Impresa (o Corporate Social Responsibility, CSR) si intende – secondo Wikipedia – l’integrazione di preoccupazioni di natura etica all’interno della visione strategica d’impresa: è una manifestazione della volontà delle grandi, piccole e medie imprese di gestire efficacemente le problematiche d’impatto sociale ed etico al loro interno e nelle zone di attività.
L’Unione Europea definiva la Responsabilità Sociale d’Impresa come una azione volontaria, ovvero come: integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate.
Si tratta di un concetto innovativo e molto discusso, la cui più nota interpretazione risale al 1984 e fu fornita da Robert Edward Freeman nel suo saggio “Strategic Management: a Stakeholder Approach”, Pitman, London 1984. Il fenomeno dei limiti etici all’economia è comunque un fenomeno dalle radici lontane, basti pensare che già nel 1928 il “Pioneer Fund” di Boston si riproponeva investimenti eticamente connotati. L’accademia italiana comunque trattò il tema già nel 1968 nel saggio “Strutture integrate nel sistema distributivo italiano”, in cui l’economista italiano Giancarlo Pallavicini affermava che l’attività d’impresa, pur mirando al profitto, avrebbe dovuto tenere esplicitamente presenti una serie di istanze interne ed esterne all’impresa, anche di natura socio-economica, per la misurazione delle quali venne proposto il “metodo della scomposizione dei parametri”.
Per attuare una vera politica di “CSR” un’azienda deve distinguersi nel compimento di azioni benefiche nei confronti della società e soprattutto stimolare tali comportamenti “virtuosi” presso il proprio pubblico di consumatori.
Come? Portando avanti iniziative “green” e di tutela dell’ambiente, dialogando con istituzioni nazionali ed anche locali, contribuendo alla risoluzione di problematiche sociali, migliorando le condizioni di vita e lavoro dei propri dipendenti, scegliendo meglio i propri fornitori.
Secondo Saatchi & Saatchi, la nota agenzia PR, le regole per intraprendere azioni di “corporate social responsibility” sono essenzialmente 3:
make it real (fai qualcosa di reale, di materialmente concreto)
make it visible (fallo sapere)
be an agent of change (sii un “motore” del cambiamento, convince anche i tuoi clienti)
Ecco il marketing sociale, ossia la promozione di iniziative “a fin di bene” che possano connotare in modo migliore e luminoso l’attività della nostra azienda. Si parla anche di “cause related marketing”.
Non c’è nulla di male nel fare del bene. Più intrigante – e oggetto di dibattiti – la circostanza di pubblicizzare tali azioni a scopo di “riposizionamento”. Ricordiamo che la British Petroleum (BP) ha recentemente rivisto il proprio acronimo in “Beyond Petroleum”, al fine di dimostrare maggiore sensibilità ad un futuro più verde. Si parla spesso di “green washing”, ossia di aziende che – grazie alla connessione con inziative ecologiche – ricondizionano la percezione intorno al proprio Brand.
Iniziative “social corporate” sono sviluppate anche in ambito immobiliare. Ho personalmente lavorato per una grande azienda immobiliare in franchising che aveva sviluppato una partnership con un ente votato alle adozioni a distanza. E aveva fatto cose egregie al tempo.
Sono davvero diverse le iniziative “in corso”, sulle quali, come detto, non voglio esprimere nessun commento o giudizio di merito (o demerito). Saranno gli eventuali commenti a parlare per me, e a quel punto potrò (potremo) intervenire nel flusso della discussione.
Voglio citare l’iniziativa MilleSoli del Gruppo Tecnocasa, che sembra piuttosto seria e ben organizzata. C’è addirittura un mini-sito ricco di informazioni e dati.
E’ questo il modo di giusto di affrontare azioni simili in ambito immobiliare. Fornendo contenuti. Garantendo trasparenza. E affidabilità. Il tema è davvero “delicato”, per le numerose ragioni che abbiamo elencato. Per il fatto, non banale, che stiamo parlando di persone. Esseri umani. Che, a prescindere da ogni dotta disquisizione, avranno comunque un beneficio…!




DALLA CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY ALLA CORPORATE SOCIAL INNOVATION, PASSANDO PER LA CREAZIONE DI VALORE CONDIVISO

In una fase di crisi, o forse di transizione tra modelli economici, ci siamo chiesti quale sarà il ruolo della sostenibilità d’impresa (o Corporate Social Responsibility – CSR) nel cambiamento di contesto in atto. A poco più di un mese da Rio+20 abbiamo ipotizzato tre possibili scenari per lo sviluppo della CSR nel nostro Paese. Il primo: la gestione del valore reputazionale. L’impresa si configura sempre più come un’organizzazione aperta all’ecosistema in cui opera, quasi liquida, parafrasando Bauman. Il ruolo degli stakeholder, gli strumenti a loro disposizione e le istanze soggette ad attenzione sono in via di moltiplicazione. Oggi, la maggior parte della brand reputation si gioca su social media e passaparola. Il Reputation Institute Italia afferma, nello studio RepTrak Pulse 2012, che nella scelta finale d’acquisto da parte del consumatore il prodotto conta solo per il 40%: la quota rimanente è determinata dalla positiva percezione di fattori come l’etica d’impresa, la sostenibilità, la trasparenza, la capacità di raggiungere e mantenere risultati nel lungo termine. Diventa dunque fondamentale per le imprese investire in disclosure, ovvero in apertura agli stakeholder, mediante un percorso di miglioramento continuo neiprocessi di reporting di sostenibilità e mediante la diversificazione degli strumenti utilizzati. In tal senso, l’analisi della materialità, ovvero l’identificazione dei temi rilevanti al fine della comunicazione con i portatori d’interesse, diventa fondamentale. E’ un dovere dell’impresa in osmosi sul territorio ascoltare i propri stakeholder per restituire loro, mediante un sistema di reporting trasparente o mediante report tematici approfonditi, le performance relative ai temi chiave. Le imprese che oggi interpretano la sostenibilità come pura filantropia hanno l’opportunità di ripensare la CSR in un’ottica di risk management, collocando all’interno di tale quadro le azioni più efficaci per la prevenzione e il controllo del rischio, anche mediante audit interni strutturati secondo l’approccio dei più recenti orientamenti internazionali, come ad esempio la ISO 26000:2010 che fornisce una guida volontaria per implementare e promuovere un comportamento socialmente responsabile all’interno di qualsiasi tipo di organizzazione e nella sua sfera di influenza.
La CSR dunque non sta morendo, ma è più in forma che mai. Ecco il secondo scenario futuro: la pienaintegrazione delle pratiche di sostenibilità nel business. Detto, fatto. Nei primi mesi del 2011, Michael Porter formula la teoria del Valore Condiviso (Creating Shared Value – CSV), esprimendo un pensiero non del tutto innovativo, ma finalmente sistematico. Le aziende debbono attivarsi per riconciliare business e società: creare valore economico in modalità tali da generare contemporaneamente valore per la società, rispondendo a un tempo alle necessità stesse dell’azienda e alle esigenze di tipo sociale. Un nuovo punto di vista che concerne la valorizzazione del know how dell’impresa e la riconfigurazione delle relazioni lungo la catena del valore. CSV come futuro della CSR? In linea teorica, probabilmente sì, anche se ad oggi le imprese che hanno sottoscritto tale approccio sono ancora poche. In Italia, tra i pionieri figura Snam che, con l’aiuto di Avanzi. Sostenibilità per Azioni, ha recentemente pubblicato, in allegato al Bilancio di Sostenibilità 2011, il documento «Verso il Valore Condiviso», nel quale viene rappresentato un nuovo approccio alla sostenibilità incentrato sulla valorizzazione del legame tra impresa e territorio. Creare valore condiviso significa agire sui processi core per massimizzare le esternalità positive. E quelle negative? Come anticipato, un sistema strutturato di gestione del rischio reputazionale permette di minimizzare, gestire e compensare le esternalità negative inevitabili per un’azienda su un territorio. Eccola la CSR 2.0.: creare valore per il territorio e per l’impresa, minimizzando gli impatti. Integrare la CSR nel business significa quindi implementare una strategia d’impresa che ricomprenda temi di sostenibilità sin dalla predisposizione dei piani industriali/piani di sviluppo delle imprese, affinchè la responsabilità sociale non diventi un accessorio importante, ma un fondamentale della strategia. Non a caso, anche le ultime tendenze della rendicontazione si muovono in questa direzione grazie al lavoro dell’International Integrated Reporting Council – IIRC che a breve emanerà la prima bozza delle linee guida internazionale per il reporting integrato. Tale processo, per essere efficace, può essere affiancato da un nuovo impegno nel ripensamento della cultura d’impresa per la sostenibilità, poiché, come afferma il Premio Nobel Michael Spence valori e istruzione sono i requisiti chiave del nuovo modello di sviluppo.
Ancora in questo ambito, sarà possibile identificare opportunità provenienti non solo dall’integrazione della CSR nell’impresa, ma anche  dall’integrazione della CSR tra le imprese. Favorire una CSR territoriale, di polo o di distretto, ottimizzando economie di scala, aiuterà le aziende, e in particolare le PMI ubicate in un preciso ambito territoriale accomunate da una peculiare vocazione produttiva o collocate lungo una specifica catena di fornitura, a rafforzare le proprie pratiche di sostenibilità, in ordine alle richieste del mercato, sfruttando le opportunità concesse dalla sinergia e da un approccio reticolare.
Infine, il terzo scenario: la CSR diventerà una forza di trasformazione in grado di portare una nuova visione non solo dell’economia, ma della società nel suo complesso. Scenario ambizioso, rappresentabile in estrema sintesi secondo una piccola magia ortografica. Da CSR a CSI. Ovvero, dalla corporate social responsibility alla corporate social innovation. L’impresa come attore, promotore e volano di innovazione sociale. Grandi aziende profit e istituzioni pubbliche possono trasformarsi in moltiplicatori di sviluppo di nuove progettualità (che a loro volta possono massimizzare il valore generato trasformandosi in nuove imprese) che rispondano a una domanda di sostenibilità, facendo leva su asset tangibili e intangibili in fase di riorganizzazione e ottimizzazione, o mediante percorsi di open innovation. L’impresa metta a disposizione expertise ed asset aziendali sottoutilizzati per dare vita a start up ad alto valore ambientale e sociale, innovative nei prodotti, nei processi e nella forma (dall’impresa sociale, alle Benefit Corporations, passando per sistemi low profit). L’azienda sostenibile dovrà essere in grado di reinterpretare il proprio ruolo attraverso prodotti, servizi, e spin off innovativi che operino in una delle fasi della catena del valore o realizzino attività sinergiche con le proprie, ponendosi al contempo come acceleratore della competitività del sistema economico, facilitatore dell’impatto occupazionale, promotore del miglioramento delle condizioni ambientali e della coesione sociale del territorio. Questi spin off sarebbero in grado di analizzare la domanda di bisogni emergenti e organizzarsi per fornire loro risposte efficaci e innovative,  facendo  quello che le imprese strutturate talvolta faticano a fare attraverso il core business, perché irrigidite da processi interni stringenti o perché preoccupate dalle performance economiche di breve periodo.  Un cambio di prospettiva: l’obiettivo principale dell’azione economica è la creazione di valore sociale condiviso, per generare un impatto positivo sull’ambiente e sulla società in cui viviamo. L’equilibrio economico-finanziario è uno strumento. Una provocazione che annuncia quale potrà essere il figlio migliore di questa crisi: un nuovo modo di fare impresa, un nuovo modo di concepire il business. Slow profit.




Senza i colori non si fa la storia

Lo studioso francese Pastoureau: l’ultima frontiera del marketing è azzeccare la tinta giusta.
Ecco un uomo che ne ha davvero viste di tutti i colori. Grande storico (il celebre saggio «Medioevo simbolico») e araldista, certo: ma Michel Pastoureau, classe 1947, è soprattutto il maggior esperto al mondo dei colori, della loro storia e dei loro significati. Tanto che oggi esce in Italia «I colori dei nostri ricordi» (Ponte alle Grazie), l’autobiografia che racconta tutti i colori della vita, la sua. Dunque Pastoureau è la persona giusta per decrittare la giungla cromatica della politica italiana, improvvisamente coloratissima dopo decenni di grigio diccì.
Professore, Milano passa alla sinistra e i vincitori festeggiano inalberando bandiere arancioni.
«Perché il rosso è troppo connotato, troppo a gauche. E rinvia a una storia passata. L’arancione lo ricorda, ma non è così forte: è un colore moderato. Ed è anche allegro, tonico, dinamico, caloroso: il rosso senza la sua drammaticità. E poi c’è un’altra ragione, più sottile».
Quale?
«Beh, in Occidente è il colore dei mezzi di soccorso, della tuta dei pompieri, del giubbotto di salvataggio. Dunque, il suo messaggio è: siamo in emergenza, ma gli arancioni vi salveranno». Gli antiberlusconiani più anti sono, invece, il popolo viola. «Colore che personalmente detesto. Non credo che nella scelta ci sia un messaggio preciso: i grandi colori sono quasi tutti politicamente “presi”, restano le seconde scelte. E il viola è così forte da gridare la collera di chi lo porta».
Perché gli antimondialisti violenti sono i black bloc? Il nero non è di destra?
«Sì, ma in questo caso il riferimento è al colore degli anarchici di fine Ottocento, che scelsero appunto il nero per distinguersi dal rosso socialista con l’idea di superare a sinistra la sinistra. Solo che poi, anche nei colori, l’estrema sinistra finisce per sfociare nell’estrema destra».
I Verdi, invece, sono verdi…
«Un geniale colpo di marketing. Oggi non si può pronunciare la parola “verde” senza pensare appunto ai Verdi. Non è così scontato: il verde, nel Medioevo e nel Rinascimento, aveva una cattiva reputazione, perché si sapeva fabbricarlo ma non fissarlo. Quindi finì per rappresentare tutto quel che è instabile, ingannevole: la giovinezza, l’amore, la fortuna e anche la menzogna e il tradimento. Oltre ovviamente al denaro, associazione poi ribadita dal dollaro come “biglietto verde”. Colore dell’Islam, era per l’europeo medievale anche quello del diavolo. Nessuno l’avrebbe associato alla Natura: per simboleggiarla, si faceva piuttosto riferimento ai quattro elementi che si credeva la componessero, terra, aria, acqua e fuoco. Solo dal XVIII secolo si comincia a pensare al verde come colore della vegetazione, quindi della Natura».
Il rosa è femminista?
«Solo perché è un colore che gli uomini portano poco. Ma all’inizio del XX secolo le prime suffragette avevano scelto, piuttosto, il viola».
Lei è appassionatissimo di calcio. Che significa il rossonero dei campioni d’Italia?
«Nulla di politico. I giocatori non lo sanno, i tifosi nemmeno, ma gli araldisti sì: sia il rossonero che il nerazzurro sono documentati fin dal XV secolo come colori di due quartieri di Milano. Ed evidentemente a fine Ottocento il ricordo era ancora vivo».
E la Juventus, allora?
«No, qui è diverso: il bianco e il nero sono i colori scelti dai movimenti dei giovani del XIX secolo. Juventus, giovinezza: il bianconero viene da lì».
Confessi: qual è il suo colore preferito?
«Da sempre, il verde. Mi piace il verde scuro. E mi piace la parola “vert”, che in francese vuol dire anche vigoroso, in gamba».
Però in italiano «essere al verde» significa non avere soldi…
«Ma in Francia uno squattrinato “est au rouge”, è al rosso».