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Corporate Fundraising e CSR: un destino da separati in casa

Almeno questo è quello che emergerebbe dall’analisi promossa da TSIC London sullo sviluppo della CSR nel corso degli ultimi 60 anni e sul ruolo dell’impresa nella società.

Questo post muove i suoi passi dalle riflessioni scaturite da un mio post precedente sulla responsabilità sociale d’impresa che, seppur non in modo esplicito, faceva riferimento alle tesi di Michael Porter e Mark Kramer, al loro concetto di “valore condiviso” e, in modo particolare, all’idea di corporate social innovation che fa dell’impresa un promotore di innovazione sociale grazie all’expertise maturata e agli asset aziendali che mette a disposizione della società in cui opera.
Senza ripercorrere i passi della ricerca, a cui naturalmente rimando, l’aspetto che ora mi interessa valutare, approfondire e che vi propongo, è il rapporto che intercorre tra Corporate e Charity e, in modo particolare, qual è il ruolo di quest’ultima e che quest’ultima ricopre nell’immaginario dell’impresa e nei suoi propositi di responsabilità sociale. Detto più semplicemente: una nonprofit è considerata protagonista e funzionale al cambiamento sociale in un’ottica di secondo welfare o è uno degli strumenti utili in un panorama ben più ampio?
La risposta la si legge a chiare lettere nella ricerca: oltre il 90% dei senior corporate leaders crede che si possa ottenere di più e meglio attraverso il loro intervento piuttosto che erogando (e quindi passando attraverso, ndr) una charity.
Questo dato deve farci riflettere. Attentamente. Solo meno del 10% degli intervistati vede come prioritario l’intervento del Terzo Settore quale interlocutore privilegiato nel dialogo sociale. Come può essere intepretato questo dato? Facciamo delle ipotesi:
poca credibilità del nonprofit in genere?    percezione di poca professionalità?    diffidenza sintomatica alla delega da parte dell’azienda?    dubbi sul corretto o effettivo uso delle risorse erogate?    cosa ancora?
Qualsiasi considerazione si voglia fare, rimane il fatto che solo un’azienda su 10 potenziali delega al privato sociale il compito di intervenire in modo impegnato, “e per suo conto” ci tengo a dire, sulle dinamiche di welfare.
Insomma, a quanto pare il corporate fundraising è ancora lontano dall’esprimersi in tutte le sue potenzialità. Noi nonprofit abbiamo ancora molto da lavorare e se vogliamo diventare co-protagonisti di un social change al fianco delle imprese, sta forse a noi dimostrare l’abilità di essere interlocutori credibili, capaci e competenti. E non semplici destinatari di erogazioni ed azioni.
Fai la differenza:
Trova l’azienda che abbia qualcosa in comune con te.        Dimostra che il tuo apporto può fare la differenza portando maggior valore aggiunto ad azienda, società, azionista. Un’impresa ha come obiettivo il profitto: è questo a cui tende ed è un aspetto che non va dimenticato.        La bontà della causa non è quindi sufficiente a garantirsi l’attenzione e la partnership di un’impresa: pianifica non dimenticando mai i concetti di efficacia ed efficienza.        Chiedi loro se vi è l’interesse al coinvolgimento diretto o comunque tieni sempre viva la comunicazione.        Anche se non in modo esplicito, la domanda che l’impresa si pone è questa: perché passare attraverso una onp se posso farlo direttamente? Dimostra loro il maggior vantaggio derivante dal coinvolgimento di un ente nonprofit.
Nel complesso, il Terzo Settore ha bisogno di promuovere il suo valore. Il nonprofit ha nel suo dna la volontà di fare tutti gli sforzi possibili per favorire il cambiamento sociale. Il mondo delle imprese, al contrario, ha come obiettivo la massimizzazione del profitto e guarda, in primis, a ciò che è meglio per l’azienda. E’ giusto che sia così e appare evidente che il nonprofit parta, in questo senso, da una posizione di vantaggio. Ciononostante, il rapporto rivela una certa insoddisfazione da parte del mondo delle imprese nell’agire con il nonprofit. Un sentimento che non va ignorato: partership tra profit e nonprofit non solo sono efficaci ma anche fortemente auspicate in un’ottica di cambiamento sociale e di innovazione.




Csr, questa sconosciuta? No, ma serve fare maggiore chiarezza

Così il nuovo presidente del Csr manager network. A fare il punto all’Adnkronos è il nuovo presidente del network Fulvio Rossi, Corporate Social Responsibility manager di Terna.
Per le aziende, soprattutto per quelle grandi, la responsabilita’ sociale d’impresa non e’ piu’ un mistero. Nonostante gli enormi progressi, pero’, la csr (corporate social responsability) assume ancora significati troppo diversi, privilegiando alcuni aspetti piuttosto che altri, a seconda delle policy aziendali. In questo scenario il compito del csr manger network, l’associazione che riunisce i professionisti della responsabilita’ sociale d’impresa, promossa da Altis (Alta Scuola Impresa e Societa’ dell’Universita’ Cattolica del Sacro Cuore di Milano) e Isvi (Istituto per i valori d’impresa) e’ di fare chiarezza e far comprendere la stretta correlazione che c’e’ tra la figura del csr manager e la creazione di valore.
A fare il punto all’Adnkronos e’ il nuovo presidente del network Fulvio Rossi, Corporate Social Responsibility manager di Terna. Fulvio Rossi succede a Caterina Torcia di Vodafone Italia e sara’ affiancato nel suo lavoro da un Comitato di Gestione rinnovato e quasi interamente al femminile in cui sono entrati a far parte: Davide Dal Maso (partner Avanzi), Susanna Galli (Csr manager Novamont), Stefania Lallai (communication & Cr manager Tnt Express Italy), Manuela Macchi (head of corporate social responsibility and communication Holcim Italia), Marina Migliorato (responsabile Csr Enel) e Angela Tanno (ufficio responsabilita’ sociale d’impresa Abi). Sono membri del Comitato di Gestione anche il direttore di Isvi, Stefania Bertolini, e il direttore di Altis, Mario Molteni.
La professione del csr manager, spiega Rossi, ”e’ ancora in un fase di formazione” ma i progressi degli ultimi anni sono indiscussi e ”le richieste del mercato vanno in questa direzione tanto che si assiste ad un aumento dei corsi universitari e master che insegnano nozioni di csr e tecniche del mestiere”. Si tratta di ”un segnale importante” anche perche’ spesso la responsabilita’ sociale d’impresa ”praticata soprattutto nelle grandi imprese, assume ancora significati diversi a seconda della policy aziendali. In questo scenario il compito del csr maneger network e’ di fare chiarezza e far comprendere l’importanza di questa nuova figura professionale”. Per Rossi ”investire su questo profilo puo’ avere dei ritorni anche economici”.
Il Csr manager network ogni anno svolge un’attivita’ di ricerca, education e divulgazione attraverso workshop tematici a porte chiuse, convegni aperti al pubblico e una ricerca annuale. Tra i progetti piu’ rilevanti in corso l’iniziativa con Istat per la definizione di indicatori per la misurazione delle politica di sostenibilita’ delle imprese allineati con la statistica ufficiale, la realizzazione del primo censimento sulla professione del csr manager e i suoi percorsi di carriera, lo sviluppo di partnership e scambio di know how e best practice a livello nazionale e internazionale.”
Sono onorato di essere stato scelto per rappresentare i professionisti che si riconoscono nel Csr manager network” commenta Rossi che aggiunge: “Il nostro e’ un mestiere a perimetro variabile nelle diverse realta’ aziendali, ma comunque connotato dall’obiettivo di creare valore attraverso l’attenzione agli stakeholder e agli aspetti ambientali e sociali. E’ anche un mestiere in cui crediamo, ragione per cui sono lieto di poter contribuire a sviluppare i due filoni di attivita’ principali della nostra associazione: condividere le esperienze per continuare a migliorare e far conoscere all’esterno la serieta’ del nostro approccio”.




L’Unione Europea delle Lobby

Bruxelles, non solo sede del Parlamento Europeo ma anche città simbolo dell’attività di lobbyng. Tutti corrono a mettere la firma sul Registro e…Appena pochi giorni dopo la proposta d legge, presentata da un gruppo di europarlamentari del Pdl, per annullare gli effetti della riforma Bersani sulla liberazione parziale della vendita di medicinali, l’Associazione delle parafarmacie e l’Organizzazione dei Liberi farmacisti si sono iscritti al “Registro dei rappresentanti di interessi”. Il Registro, istituito a giugno dalla Commissione europea, ha lo scopo di far emergere “le attività svolte al fine di influenzare l’elaborazione delle politiche e il processo decisionale delle istituzioni europee”. Ma la questione non riguarda solo le lobbies farmaceutiche. Perché sette leggi nazionali su 10 sono legate alla Ue e ogni anno vengono negoziati almeno 100 miliardi di euro fra programmi e finanziamenti; e la metà delle norme europee diventano leggi nazionale con punte dell’80% per energia, clima e ambiente. È per questo che negli ultimi anni sono state sempre di più le imprese, associazioni e professionisti che cercano di far valere le loro ragioni nella capitale europea. Quello che per la politica italiana è il bar Ciampini a Roma, nei pressi di Montecitorio, a Bruxelles si chiama place du Luxembourg. È qui che i lobbisti si danno appuntamento con eurocrati e deputati, affollano locali della stupenda piazza a ridosso delle istituzioni Ue. Il 23 giugno 2008. È diventato operativo online il registro pubblico delle lobby, voluto dal commissario agli Affari amministrativi, audit e lotta antifrode, Siim Kallas. Gli iscritti devono fornire anche indicazioni sui soldi gestiti e attenersi a un codice di condotta. Chi opera scorrettamente verrà sanzionato. Chi opera scorrettamente verrà sanzionato. In caso di violazioni gravi è infatti prevista la sospensione o la radiazione dal registro. Il commissario Kallas conta sull’adesione dei lobbisti di mestiere, interessati per primi a un riconoscimento che ne certifichi la serietà. Convinto che la <<moral sausion>> farà il resto. Su 667 iscritti al 31 dicembre 2008, oltre 50 rappresentano interessi italiani o sono nostri connazionali, senza contare l’infinito numero di rappresentanti degli enti locali ed amministrativi. Ma chi sono questi italiani ufficialmente accreditati a Bruxelles? Dal Registro spiccano i nomi di Gianpaolo Russo, Edson; Roberto Zangrandi, Enel; Alberto Mazzola, Ferrovie tanto per citare alcuni nomi. Ma a questi si aggiungono rappresentanti di settori molti interessi alle decisioni di Bruxelles come: Roberto Longo, Aper (produttori di energia rinnovabili); Giuseppe Ambrosi, Assolatte e Claudio Benedetti, di Federchimica. Molte sono anche le prestigiose assenze. Manca all’appello Confindustria, le centrali cooperative e gli agricoltori. Nutrito è il numero delle Ong e delle istituzioni culturali come: l’Università Jean Monner, rappresentata da Alessandro Carluccio, il Cesi (Centro Einstein di Studi Internazionali), con Roberto Palea. Numerosi sono anche i liberi professionisti come Leonardo Piccinetti, Dario Caccamisi o Marco Filippini. Altri invece sono lobbysti veri e propri come Hal 9000 con Mattia Crosetto, Kew Consulting rappresentata da Andrea Mangone e Marcello Missaglia e associati. Le donne sono rappresentate da Paola De Cesati, del Consorzio cooperative sociali; Loredana Sasso, Efnr, che raccoglie i collegi degli infermieri d’Europa e Paola Lancellotti, dell’Emec, che rappresenta gli interessi delle industrie di equipaggiamento marittimo a Bruxelles. I numeri delle “lobby made in UE” sono sempre più imponenti. Stando all’indagine preliminare svolta 3 anni fa, alcune Ong ricevano finanziamenti dalla Commissione ma si descrivano come <<gruppo di lobby>> presso la stessa. Sono anche emersi grossi conflitti di interessi tra chi fa consulenza ad alcune aziende e poi, in una seconda veste, redige rapporti d’indirizzo tecnico per le istituzioni Ue sugli stessi temi. Negli anni 70 Bruxelles ospitava poco più di 400 organizzazioni. Oggi la Commissione europea calcola che siano attivi circa 15 mila lobbisti e 2.600gruppi di interesse hanno una sede permanente nella capitale europea, con un giro d’affari fra i 60 e i 90 milioni di euro all’anno. A questi si aggiungono circa 5 mila lobbisti al Parlamento europeo (che, dal 1996, ha un suo registro), 170 uffici diplomatici di tutti i paesi del mondo, 200 rappresentanze regionali e una cinquantina di centri studi. Cifra comunque inferiore rispetto al paese principe del lobbying, Stati Uniti. Nel 2005, i lobbisti registrati a Washington erano 34.750. ma il rapporto a Bruxelles è quasi di 1 a 1, se si calcola che gli eurodeputati sono 732 e i funzionari della Commissione circa 22 mila. Mentre nella capitale Usa l’amministrazione ne conta almeno 270 mila. Oltre all’Italia, se si vuole incentivare i propri interessi, bisogna guardare sempre di più a Bruxelles. Confrontarsi con un contesto europeo, dove il numero dei deputati italiani è eseguo, con un’alta dispersione nelle commissioni parlamentari, un’altra percentuale di ricambio e una forte frammentazione delle forte rappresentate. Al lobbista sono richiesti competenze e assets strategici capaci di incidere e guidare orientamenti e decisioni. Il “lobbista” europeo si trova a dover decifrare il contesto complicato, lontano dall’Italia e con una cultura diversa del sistema; a dimostrare capacità di ricercare fonti affidabili di informazioni, di creare consenso, di dialogare con i policy maker e di accedere ai media, definendo azioni di lobby che interpretino le istanze degli interessi italiani che rappresentano in Europa.




La Stampa viaggia su internet

Hp lancia, con una campagna milionaria, una nuova generazione di stampanti connesse al web che permettono di ricevere anche le ultime notizieUn bebè su un girello sfreccia, sorridendo felice, in mezzo al traffico fino a raggiungere una casa: è qui, che i suoi genitori volevano inviare la foto, appena scattata, del pargolo. Lo spot, intitolato “Happy Baby”, in onda per ora solo negli Stati Uniti, fa parte della campagna internazionale lanciata da Hp per far conoscere le nuove stampanti Hp ePrint, collegate a Internet e in grado di stampare a distanza documenti, testi e immagini. Accompagnato da una simpatica canzoncina degli anni Settanta (“Brand New Key” di Melanie Safka), il video sta spopolando su YouTube, dove è stato visto da più di 600 mila persone in pochi giorni. Hp pensa di mandarlo in onda anche in Italia, dopo Natale. Sarebbe la ciliegina sulla torta di una delle più impegnative campagne pubblicitarie mai lanciate da Hp nel nostro Paese: oltre due milioni di euro di investimento. “La tecnologia ePrint rappresenta una grade rivoluzione per il mondo del printing, è un nuovo linguaggio che consente alla stampante di parlare direttamente con il web, aprendo la strada a nuovi servizi on line”, spiega Bruna Bottesi, general manager di Hp Imaging&Printing Group per l’Italia. “La campagna di comunicazione è commisurata all’importanza di questa rivoluzione”. Annunciate lo scorso luglio, le stampanti Hp ePrint sono state presentate a partire da settembre con annunci sulla stampa, seguiti da una serie di attività di comunicazione a 360 gradi, centrale sull’idea di far sperimentare al consumatore i viaggi della nuova tecnologia. “Far vedere, far toccare, con mano è il mezzo più efficace, perché il consumatore s rende conto immediatamente di quanto sia semplice e al tempo stesso potente questa tecnologia”, spiega Bottesi. “Facciamo dimostrazioni pratiche sull’uso dei prodotti, presso i punti vendita e organizziamo “experience event”, eventi cioè in cui coinvolti cioè in cui coinvolgiamo i consumatori con l’aiuto di personaggi noti. Il primo evento di questo genere l’abbiamo promosso all’inizio di dicembre al Mondadori Multicenter di piazza del Duomo a Milano con la partecipazione di Linus. Ne faremo un altro a gennaio sulle Dolomiti, coinvolgendo alcuni cuochi famosi come Claudio Sadler e Simone Rugiati, in occasione della Chef Cup, una gara di cucina di alto livello che si terrà in Val Badia”. La campagna si declina anche sui media classici, dalla stampa alla radio. Grande importanza viene data in particolare al digitale, come spiega Stefano Comoglio, marketing e pr manager di Hp Imaging&Printing Group: “La parte on line si declina in banner tradizionali e rich media, ma soprattutto su FaceBook, dove abbiamo una nostra pagina, e su YouTube, che ospita il nostro canale video. Inoltre, sempre nell’ottica di far toccare con mano ai clienti, organizziamo mini eventi a Milano e a Roma, in partnership con Virgilio e Yahoo!, facendo illustrare la nostra tecnologia da blogger e altri testimonial. Infine utilizziamo istallazioni digital outdoor in metropolitana, negli aeroporti milanesi e nel circuito Centostazioni”. La tecnologia ePrint offre poi ad Hp l’opportunità di sviluppare nuovi servizi in collaborazione con partner esterni. Il modello è quello delle applicazioni per gli smartphone e le tavolette elettriche. “Abbiamo già siglato numerosi accordi a livello internazionale e nel sito Hp sono già disponibili diverse applicazioni”, dice Bottesi. “In Italia tra i nostri partner ci sono ad esempio il gruppo Rcs e Class Editori. L’8 dicembre è stata lanciata l’applicazione ePrint per il Corriere della Sera, che sarà presto seguita da quella della Gazzetta dello Sport; il 9 dicembre quella di Milano Finanza. L’utente riceve direttamente sulla stampante, senza passare dal pc, una rassegna delle principali notizie della giornata oppure un notiziario in base ai suoi interessi”. La possibilità sono infinite. Una libreria on line, ad esempio, può offrire ai propri utenti la possibilità di stamparsi il primo capitolo di un libro, prima di acquistarlo. “Siamo in trattativa con diversi gruppi, non solo editoriali, ma anche nel campo del food e dei servizi”, afferma Bottesi, “Uno dei nostri partner sta sviluppando un’applicazione di biling per effettuare pagamenti attraverso la stampante. Le tabaccherie, le banche, gli uffici postali potrebbero diventare centri servizi dove stampare biglietti o documenti, anche quando si è in viaggio. Io ad esempio viaggio spesso in treno tra Milano e Roma; troverei molto comodo poter stampare alla stazione di arrivo il testo a cui ho lavorato durante il viaggio”.




A gennaio il Piano italiano sulla Csr

Dal 12 dicembre l’Action Plan italiano sarà online, per la consultazione. E a gennaio l’Italia lo spedirà, prima in Europa, a Bruxelles. La soddisfazione di Danilo FestaUn approccio strategico nei confronti del tema della responsabilità sociale delle imprese. Lo prevede l’Europa, nell’ambito della strategia Europa 2020 e la Commissione aveva invitato gli Stati membri dell’UE a sviluppare entro la fine del 2012 piani nazionali per l’attuazione dei principi guida dell’Onu. L’Italia è pronta. Danilo Festa, direttore generale della Direzione per il Terzo Settore e le Formazioni Sociali presso il ministero del Lavoro, intervistato da Etica News rivela che «a inizio gennaio saremo in grado di presentare a Bruxelles nella versione definitiva» il Piano Nazionale sulla Csr.«Abbiamo fatto qualcosa che prima non esisteva. E saremo tra i primi a consegnarlo in Europa», ha detto con orgoglio. Festa è stato incaricato nel settembre 2011 di realizzare l’Action Plan e dopo questi medi si lavoro dice: «la Csr ha appassionato la mia squadra di lavoro, e anche il Governo».Dal 12 dicembre, anticipa, il documento sarà online sul sito del ministero del Lavoro e su quello dello Sviluppo economico, «in una consultazione in tandem che non si è mai fatta prima». Obiettivo: dare l’opportunità a chiunque di esprimere una valutazione, a partire dal Terzo settore, redigere entro la fine di dicembre con il documento finale e inviarlo a inizio gennaio a Bruxelles. «Occorre capire che la Csr è un modello di competitività. Il consumatore è disposto a spendere di più per una maggiore garanzia di responsabilità sociale», dice Festa.