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La vita da cani di Mr FarmVille

“Qui io posso entrare”. Zynga, la software house di FarmVille, sembra una pensione di lusso per cani. Tra code che scodinzolano Wired incontra il suo boss, Mark Pincus
C’è uno squalo, in California, che si muove tra cagnetti leziosi e un po’ isterici inguainati in tutine che sono uno schiaffo all’attuale rischio di default dell’economia americana. Si chiama Mark Pincus e ha 45 anni. Abbiamo usato la parola “squalo” non per insultarlo, ma perché per muoversi con disinvoltura nei fondali dell’ecommerce bisogna possedere l’istinto (e i denti) di un grande predatore e Pincus senz’altro lo possiede. Altrimenti non avrebbe fondato Zynga, la software house che ha lanciato giochi per social network come FarmVille, MafiaWars e PetVille e nel 2010 ha registrato un traffico di utenti attivi pari a 232 milioni al mese e a 60 milioni al giorno. Se non fosse un predatore, Pincus non continuerebbe a dirigere la sua compagnia con successo, in qualità di CEO. Certo, come predatore è un po’ anomalo, come lo sono tutti gli internet guru della Silicon Valley. Scordatevi i tyconn sul genere Donald Trump o Rupert Murdoch dal taglio di capelli impeccabile come il completo che indossano. Il tipico magnate dell’ecommerce è sotto i cinquanta, raramente mette la cravatta e sembra che non rinnovi il guardaroba dai tempi del campus. Però come tutti i big anche questi eterni ragazzi nascondono delle eccentricità. Quelle di Mark Pincus sono ben descritte, insieme alla storia del suo successo, nell’articolo che Wired di luglio gli ha dedicato. “ Pincus mi ha fatto da guida nel coloratissimo quartier generale della sua azienda nella zona di Potrero Hill a San Francisco”, scrive Ellen McGrit. “ Mi ha mostrato, senza nascondere l’orgoglio, le squadre di grafici e programmatori che gestiscono i 26 giochi online di Zynga. Si parla di titoli pazzescamente popolari come FarmVille, MafiaWars, PetVille. Nessuno batteva ciglio quando il capo gli appariva alle spalle chiedendo di mostrare il proprio lavoro a una perfetta sconosciuta. Ancora meno quando invitava l’impiegato a presentarle il suo cane. Il suo vero cane. Perché a Zynga quasi tutti ne hanno uno”. Gli animali – nello specifico i cani – sono solo una delle tante eccentricità di Pincus (dove viene il nome Zynga? Dal suo bulldog morto, ovviamente). Ad esempio, si era messo a scegliere i nomi dei suoi figli prim’ancora di trovare una donna che li partorisse. Dopo averla trovata, il giorno del suo matrimonio, ha fatto in modo che tutti gli invitati convincessero il suo attuale socio, Curtis Lee, a entrare nella compagnia. Eccentricità a parte, a luglio la compagnia ha depositato alla commissione vigilanza sul mercato azionario la sua IPO, l’offerta pubblica iniziale per la quotazione in borsa. Sulla base di questo documento, gli analisti sono arrivati a una stima della società che oscilla tra i 15/20 miliardi di dollari. Si tratta di una cifra addirittura superiore alla capitalizzazione di quella che è consierata tradizionalmente la società di videogiochi più potente, la Electronic Arts. L’uomo che sul suo blog ha dedicato un lungo post alla morte del suo bulldog femmina è meno naïf di quello che appare.
Altro che bau-bau.




Il ruolo strategico della CSR nella governance

Diciotto anni di studi su 180 aziende hanno dimostrato che le organizzazioni attente alla responsabilità sociale d’impresa hanno performance notevolmente migliori, sia in termini economici che finanziari, rispetto alle aziende che ignorano la CSR. Sono i risultati di una recente ricerca della Harvard Business School. L’analisi di Luca Poma.

Assai curioso che lo studio di straordinario lavoro di Robert Eccles, Professore di Management Practice nell’Unità di Comportamento organizzativo allaHarvard Business School, coadiuvato da George Serafeim, Professore di Business Administration e Management presso la stessa Università, sia passato quasi del tutto inosservato in Italia.

I ricercatori hanno confrontato un campione corrispondente di centottanta aziende, novanta delle quali sono state classificate come imprese “ad alta sostenibilità” – quindi con percorsi e progetti di responsabilità sociale strutturati e attivi – e novanta al contrario come imprese “a bassa sostenibilità”, ovvero senza alcuna particolare sensibilità in tema di CSR.

Obiettivo della ricerca era di esaminare le organizzazioni monitorate sotto il profilo della governance, della cultura e soprattutto delle prestazioni, alla luce dell’elevazione della CSR a dimensione strategica nelle aziende.

I risultati di ben diciotto anni di studi hanno mostrato un risultato precedentemente intuito da molti addetti ai lavori, ma che fino ad oggi mancava di conferma e di affidabile supporto scientifico: le imprese ad alta sostenibilità “sovraperformano” – sia sotto il profilo dei risultati contabili che di quelli di borsa – rispetto a quelle prive di percorsi di CSRcodificati.

La ricerca suggerisce però – com’è giusto e prevedibile, trattandosi di processi che incidono sul DNA stesso delle organizzazioni – che questa “sovra-performance” si verifichi solo nel lungo periodo: i gestori e gli investitori che sperano di ottenere un vantaggio competitivo nel breve periodo hanno quindi scarse probabilità di successo, se pensano di inserire la sostenibilità come keyword nella strategia della propria organizzazione senza però avviare cambiamenti strutturali sull’identità stessa dell’azienda e sul modo che essa ha di raccontarla. Sono le politiche aziendali di alta sostenibilità che devono inevitabilmente riflettere la cultura di fondo dell’organizzazione, e non la cultura dell’organizzazione che dev’essere “piegata” al servizio della CSR al fine di darsi una “mano di verde” per apparire più “green” e più appetibili agli occhi di consumatori e investitori.

Nella ricerca, emergono alcuni concetti chiave:

  • le organizzazioni che adottano volontariamente politiche ambientali e sociali si caratterizzano per una struttura di governance che tiene conto delle prestazioni ambientali e sociali della società, oltre che delle mere performance finanziarie;
  • queste organizzazioni hanno un approccio “a lungo termine” indirizzato verso la massimizzazione dei profitti, e un processo attivo di relazione, gestione e coinvolgimento dei propri stakeholder;
  • le aziende a bassa sostenibilità, invece, corrispondono al modello tradizionale della massimizzazione del profitto a breve termine, nel quale le questioni sociali e ambientali sono prevalentemente considerati come item da esaminarsi e ai quali assolvere solo in ragione di quanto ciò è richiesto dalle leggi e dai regolamenti;
  • le preoccupazioni sociali sulla sostenibilità, sia a livello di impresa che di società nel suo insieme, sono cresciute fin dai primi anni ‘90 in modo rapido ed esponenziale, fino ad essere oggi come oggi un tema dominante;
  • le imprese ad alta sostenibilità esaminate dallo studio prestano maggiore attenzione ai loro rapporti con i propri pubblici attivando processi efficaci di engagement, e misurandone poi il ritorno. Aggiungo io che uno stakeholder engagement realmente efficace è il miglior sistema per l’intercettazione dei segnali deboli di crisi;
  • le imprese ad alta sostenibilità sono più propense a determinare i compensi dei dirigenti in relazione alle performance ambientali, sociali e di reale soddisfazione del Cliente, e ad elaborare sistemi certi per la determinazione delle performance attese e dei relativi incentivi;
  • in queste aziende, normalmente vigono regole più stringenti in tema di trasparenza e condivisione delle informazioni, ed esse sono condivise ed applicate a più ampio spettro. Aprirsi verso il mondo esterno, aggiungo io, è un processo diversamente reversibile, e che richiede l’ingaggio dell’azienda in processi di reale condivisione con tutti gli stakeholder, che portano volente o nolente l’organizzazione a “dover rendere conto” delle proprie scelte anche al di la dell’abituale reportistica annuale (1).

Il dato che però appare più evidente, specie agli occhi degli impreditori e degli investitori, è quello della crescita di valore delle aziende: un dollaro – assunto nella ricerca come unità di misura – investito nel 1990 in azioni in aziende ad alta sostenibilità e con una applicazione strutturata di politiche di CSR, ha reso – in diciotto anni – tra il 25 e il 35% in più rispetto al rendimento delle aziende a bassa sostenibilità. Ovviamente per entrambi i gruppi il valore azionario ha subito contrazioni nelle crisi borsistiche del 2003 e soprattutto 2008, ma il risultato finale è chiaro, e al momento della pubblicazione della ricerca il delta di valore fra le aziende dei due gruppi era ancora in continua ed esponenziale crescita. Fra gli altri fattori considerati come probabile causa di questo over-performing, è indicata sicuramente la capacità di attrarre, fidelizzare e incentivare le migliori forze lavoro disponibili sul mercato delle risorse umane, e non mancano casi di aziende che hanno trasformato l’attenzione verso l’ambiente in un fattore competitivo di eccellenza, trasformando o rifocalizzando la mission dell’azienda stessa su campi innovativi ad alta redditività nel campo delle tecnologie ambientali o eco-compatibili.

A queste riflessioni aggiungiamo che anche l’Unione Europea si è recentemente pronunciata (2) a favore di questo modello di business: strategie e azioni sistemiche di sostenibilità e responsabilità sociale si presentano come essenziali fattori di competitività anche alla luce delle politiche più recenti dell’UE sulle forniture pubbliche, le quali tenderanno sempre più a premiare gli operatori economici in grado di includere questi aspetti nella loro attività e nelle offerte per gli appalti di rilevanza comunitaria, ed entro il 2020 la commissione Europea prevede che il 50% delle forniture pubbliche debba essere conforme a criteri riconosciuti di tutela ambientale e CSR.

Pare ormai evidente che la teoria della CSR e la pratica della sostenibilità d’impresa – ben lungi dall’essere mero strumento delle relazioni pubbliche – stiano acquistando finalmente agli occhi degli utenti finali, degli imprenditori, degli addetti ai lavori del nostro settore ed anche dei decisori istituzionali, una propria dignità di disciplina indipendente, elevabile a dimensione strategica come innovativo modello di business, vero vettore per uno sviluppo armonico e solido delle aziende del XXIsecolo.


(1) Un esempio di reportistica integrata innovativa è il Progetto Web-Cam: http://www.ferpi.it/ferpi/novita/notizie_rp/management/il-progetto-webcam-per-il-bilancio-sociale/notizia_rp/42937/8
(2) Proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio sugli appalti pubblici, COM 896 definitivo 2011/0438 (COD) Bruxelles




INTERNET BILL OF RIGHT: DAL VIRTUALE ALLE PIAZZE E RITORNO

Da quando Fiorello Cortiana, insieme a Stefano Rodotà, al Ministro Brasiliano Gilberto Gil – l’innovatore che ha convertito a Linux tutta la pubblica amministrazione del Suo paese – e molti altri loro amici lanciarono la proposta di una Carta dei Diritti di Internet al World Summit on Information Society dell’ONU (WSIS) che si tenne a Tunisi nel 2005, l’idea di affermare un insieme di diritti condivisi come garanzia costitutiva per Internet face molta strada. Interattività, disintermediazione, condivisione, cooperazione, neutralità, libertà di espressione, pluralismo culturale e trasparenza, non sono delle caratteristiche naturali della rete Internet. Tracciabilità, controllo, profilazione delle identità, chiusura e limitazione agli accessi, comunicazione verticale, estensione del copyright, brevettabilità del software, costituiscono altrettante azioni in campo nella rete, di segno diametralmente opposto. Per questo, è importante che il processo avviato al WSIS e supportato dai governi Italiano e Brasiliano, dal Parlamento Europeo sia poi proseguito negli Internet Governance Forum dell’ONU, che si svolgono annualmente, attraverso il lavoro della Coalizione Dinamica su i Diritti e Principi di Internet che, insieme al Ministro Gilberto Gil, Cortiana e gli altri lanciarono all’IGF di Rio, coalizione dinamica partecipata da Governi, Parlamenti, associazioni, imprese, con la modalità aperta ed inclusiva multistakeholder. Dopo un lungo confronto online e nei gruppi di lavoro all’IGF la Coalizione sui diritti e principi di Internet ha condiviso un documento che definisce dieci diritti e principi fondamentali che devono costituire la base della “governance” di Internet. I principi sono radicati nelle norme internazionali e si fondano sulla consapevolezza che devono essere prese decisioni per garantire che internet funzioni e si evolva in modi che soddisfino il più possibile un ambiente internet basato sui diritti. In questi giorni, questo decalogo aperto di diritti e principi è stato ufficialmente lanciato a Stoccolma, dove la Svezia ospita il secondo incontro internazionale di esperti sui Diritti Umani e Internet. Attraverso collaborazioni e adattamenti, i diversi partecipati della coalizione dinamica hanno prodotto le versioni in varie lingue, dallo Spagnolo al Francese, dal Portoghese all’Italiano, dallo Svedese al Filippino, ed altre lingue si stanno aggiungendo. Ora da Facebook a Twitter a migliaia di siti web, i 10 principi si stanno diffondendo. Un buon viatico per il sesto appuntamento IGF dell’ONU, che si terrà a Nairobi, in Kenia dal 27 al 30 Settembre 2011, e la cui proposta di tema principale è: “Internet come catalizzatore per il cambiamento: accesso, sviluppo, innovazione e libertà”. Se pensiamo alla mobilitazione per la libertà che hanno favorito le piattaforme e la convergenza digitali in Nord Africa e nel Medio Oriente, furono felici e lungimiranti il WSIS a Tunisi, e il seme per un “Internet Bill of Rigths” è cresciuto grazie a quelle persone che riempiono le piazze e i nostri schermi, e i diritti li esigono in rete e fuori… altroché virtualità!
10 DIRITTI E PRINCIPI DI INTERNET
Questo documento definisce dieci diritti e principi fondamentali che devono costituire la base della governance di Internet. I principi sono proposti da una rete aperta di persone e di organizzazioni che lavorano per la difesa dei diritti umani nell’ambiente Internet: la Dynamic Coalition su I Diritti e Principi di Internet. I principi sono radicati nelle norme internazionali sui diritti umani e derivano dalla Carta dei Diritti umani e dei Principi per Internet elaborata dalla coalizione.
Internet offre opportunità senza precedenti per la realizzazione dei diritti umani, e svolge un ruolo sempre più importante nelle nostre vite quotidiane. E’ quindi essenziale che tutti gli attori, pubblici e privati, rispettino e proteggano i diritti umani su Internet. Devono anche essere prese decisioni per garantire che Internet funzioni e si evolva in modi che soddisfino il più possibile i diritti umani. Per contribuire a realizzare questa visione di un ambiente Internet basato sui diritti, i 10 Diritti e Principi sono:
1) Universalità e uguaglianza
Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti, che devono essere rispettati e protetti nella rete Internet.
2) Diritti e Giustizia Sociale
Internet è uno spazio per la promozione, la protezione, il rispetto dei diritti umani e la promozione della giustizia sociale. Ognuno ha il dovere di rispettare i diritti umani di tutti gli altri nella rete Internet.
3) Accessibilità
Tutti hanno pari diritto di accesso e di utilizzo di un Internet sicuro e aperto.
4) Espressione e di associazione
Ogni individuo ha il diritto di cercare, ricevere e comunicare informazioni liberamente su Internet senza censure o altre interferenze. Ognuno ha anche il diritto di libera associazione attraverso Internet, per motivi e fini sociali, politici, culturali o altri.
5) Privacy e protezione dei dati
Ogni individuo ha diritto alla privacy online. Questo include la libertà dalla sorveglianza, il diritto di utilizzare la crittografia, e il diritto di anonimato in Internet. Ogni individuo ha diritto alla protezione dei dati, incluso il controllo sulla raccolta di dati personali, la loro conservazione e trasformazione, la cessione e la divulgazione.
6) Vita, libertà e sicurezza
Il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza devono essere rispettati, protetti e realizzati su Internet. Questi diritti non devono essere violati o utilizzati per violare altri diritti nella rete digitale.
7) Diversità
La diversità culturale e linguistica su Internet deve essere promossa, l’innovazione tecnica e politica dovrebbero essere incoraggiate a facilitare la pluralità di espressione.
8) Uguaglianza
Ciascuno deve avere un accesso universale e aperto ai contenuti di Internet, liberi da priorità discriminatorie, filtraggi o controlli del traffico per ragioni commerciali, politiche o altre ragioni.
9) Norme e regolamento
L’architettura di Internet, i sistemi di comunicazione e i formati dei documenti e dei dati si basano su standard aperti per garantire la completa interoperabilità, l’inclusione e le pari opportunità per tutti.
10) Governance
I diritti umani e la giustizia sociale devono costituire il quadro giuridico e normativo fondamentale su cui Internet funziona ed è governato. Questo deve avvenire in modo trasparente e multilaterale, basato su principi di apertura, di partecipazione inclusiva e di responsabilità.




La CSR conquista i mercati emergenti

L’annuale ricerca Goodpurpose, targata Edelman, rivela uno scenario economico caratterizzato da una profonda dicotomia. Da un lato, il mercato USA in declino, colpito per la prima volta da un calo del numero di consumatori che scelgono marchi impegnati nel sociale, dall’altro, i mercati in crescita, in cui la CSR ottiene ottimi risultati.
A fine aprile è stato pubblicato il quinto studio annuale Goodpurpose® diEdelman, un’analisi globale sul gradimento del pubblico e sull’impatto sui consumatori dei programmi diCorporate Social Responsibility.
Quest’anno l’agenzia di comunicazione, da sempre attenta alle dinamiche sociali in campo economico, ha condotto la sua ricerca su un campione di 8.000 consumatori provenienti da ben 16 mercati diversi (Belgio, Brasile, Cina, Francia, Germania, India, Indonesia, Italia, Giappone, Malesia, Stati Uniti etc.).
A livello globale i dati della ricerca evidenziano come l’*87%* dei consumatori desiderino che il business difenda in egual modo sia i propri interessi economici che quelli sociali, ma solo il 28% di essi creda che esso stia affrontando in modo efficace le problematiche che affliggono la società moderna.
Nonostante ciò la finalità sociale continua ad essere percepita dai consumatori di tutto il mondo che si trovano di fronte a due prodotti di pari costo e pari qualità una leva, un fattore decisivo nel processo d’acquisto – con un aumento del 26 per cento dal 2008. Difatti nel corso degli anni è aumentata l’azione dei consumatori a favore dei marchi che promuovono una buona causa con un aumento del:
+39% del numero di consumatori intervistati che consiglierebbe brand cause-related;
+34% del numero di consumatori intervistati che promuoverebbebrand cause-related;
+9% del numero di consumatori intervistati che cambierebbe il marchio abituale per passare ad un brand cause-related.
L’analisi Goodpurpose si è poi concentrata sullo studio e disamina dei dati relativi al mercato degli Stati Uniti, constatando come il declino economico abbia causato il crollo della percentuale dei consumatori che optano per prodotti che sposano una buona causa, registrando tra il 2010 e il 2012 una caduta in questo settore dal 60% al 53%.
Non si può non prendere atto di questi dati senza citarne un altro molto preoccupante, quello relativo ai consumatori americani colpiti dalla crisi economica, pari all’82% del totale dei consumatori.
La ricerca ha inoltre fatto emergere il paradosso che domina l’odierno panorama economico statunitense: nonostante il crollo dei consumi, il popolo americano crede che la responsabilità di affrontare i problemi sociali ricada di più sulle spalle dei cittadini che su quelle del governo con una percentuale rispettivamente del 35% e del 22%.
“La tensione di questo paradosso mette in luce l’esistenza di significative opportunità per gli specialisti di marketing. Mentre i consumatori al momento hanno meno tempo e soldi da investire sulle tematiche sociali, essi sentono ancora di essere i più responsabili nel campo dell’attività sociale.” Ha affermato Carol Cone, presidente global practice, Business + Social Purpose, di Edelman. “I brand e le imprese possono alleviare il peso dei consumatori rendendo più semplice il loro coinvolgimento nelle questioni sociali e più allineato agli obiettivi/bisogni che devono affrontare oggi: lavoro, fame, educazione e sanità. ” ha concluso Cone.
Il Rapporto tra imprese e finalità sociale invece è in forte crescita nei paesi del Bull Market, o mercati emergenti, – come Cina, Brasile, India, Emirati Arabi, Indonesia e Malesia – e supportano i brand che perseguono scopi sociali, basti pensare che Il 62% dei consumatori delBull Market acquista prodotti cause-related almeno una volta al mese contro il 37% dei consumatori del Bear Market, o mercati in ribasso – come America ed Europa Occidentale.
Ma c’è di più, il Bull Market sta letteralmente mostrando i muscoli nel campo del CSR tramite azioni di rilevanza sociale quali la condivisione, la donazione ed il volontariato:
• Quasi due terzi (il 63%) dei consumatori del Bull Market ha fatto donazioni nell’anno passato contro il 52% dei consumatori del Bear Market.
• Il 44% dei rappresentanti del Bull Market compie attività di volontariato nella propria comunità mentre solo il 23% dei consumatori del Bear Market.
Il Goodpurpose 2012 mette dunque in luce il divario esistente tra paesi dall’economia emergente e paesi la cui economia è in ribasso, la soluzione secondo Edelman potrebbe essere quella di affidarsi a nuovi modelli di marketing.
“La finalità sociale, la ragione di un marchio o un’azienda per andare al di là dei profitti, è ora diffusa in tutto il mondo”, ha dichiarato Cone. “Per promuovere le iniziative di responsabilità sociale e per far si che abbiano il massimo impatto, sia sul piano economico che su quello sociale, le aziende devono essere in linea con le più grandi tendenze socio-economiche del momento ed escogitare soluzioni personalizzate per soddisfare le esigenze mutevoli dei consumatori.”
Clicca qui per scaricare il Goodpurpose 2012 Executive Summary
 




DI CRISI IN CRISI

Viviamo in una società sempre più fragile anche perché “internet non dorme mai”. Secondo una ricerca della società di consulenza Oxford Metrica, venti anni fa la probabilità che un dirigente dovesse affrontare un incidente tale da mettere a rischio il proprio brand era del 20%. Oggi il rischio è salito all’82%.
Praticamente dobbiamo tutti pensare alla prevenzione o almeno capirci qualcosa prima di dover correre ai ripari, in fretta e malamente.
C’è un manuale – pubblicato da poco – che consiglio a tutti, anche a chi non lavora in azienda. Il titolo è Crisis Management. Cioè come comunicare la crisi: strategie e case history per salvaguardare la business continuity e la reputazione. Lo hanno scritto i professionisti Luca Poma e Giampietro Vecchiato ed è pubblicato con il Gruppo Sole 24Ore.
Non è il solito manuale un po’ noioso e accademico, questo libro è scritto bene, con un  piglio giornalistico: l’ho letto in treno e l’ho veramente apprezzato. Devo ammettere che mi avvicino ai manuali di comunicazione un po’ prevenuta: sono spesso scritti in modo verboso e ripetitivo.  Il libro di Luca e Giampietro è completo sul tema: analizza tutti gli aspetti di una crisi, teorici e pratici e soprattutto fa elenchi con ottimi esempi su cosa fare e non fare, e su cosa hanno fatto o non hanno fatto manager e aziende con nomi e cognomi.
Una parte centrale è dedicata alle relazioni media durante le crisi. Sono queste ultime in particolare la chiave della gestione di una crisi. Mi sono piaciuti moltissimo i casi ai quali è dedicata quasi la metà del libro: dalla vicenda degli hamburger venduti nei supermercati E.Leclercal caso della Coca Cola Company in Belgio; da ThissenKrupp ai più recenti WikiLeaks e British Petroleum.
Sul tema – di cui mi sono sempre occupata e appassionata quando lavoravo in azienda – sono stata recentemente invitata insieme a Luca a parlare a Milano a un incontro del Symposium Travel Lab. Ho raccontanto a mia esperienza di crisis in azienda e dati i 15 minuti che avevo a disposizione ho scelto 2 casi che ho qui sintetizzato in 11 slides e in un testo di appoggio.