Come le società di commodities non applicano la teoria degli stakeholder
La teoria della Responsabilità Sociale d’Impresa (CSR) prevede tra le sue modalità di applicazione un approccio “caldo” al mercato e agli stakeholder: la capacità di applicare un modello di business “dal volto umano”, irrobustendo le relazioni con i pubblici dell’azienda così da creare nel tempo valore duraturo per gli azionisti.
C’è un settore però dove la CSR – che sta entrando sempre più insistentemente nei nuovi paradigmi del management strategico – pare trovare più alte barriere all’ingresso: la telefonia. Il contesto competitivo tipico di quel mercato – per certi versi più simile a quello delle commodities che a quello industriale in senso stretto – comporta altissimi investimenti infrastrutturali a fronte di una bassa marginalità di profitto, unita al fatto che una volta superato il break-even in un’area o mercato ogni utente in più è utile a costo zero, o quasi. Il settore della telefonia è quindi il tipico caso di “commoditizzazione” di un azienda: agli occhi dell’utente finale, un operatore vale l’altro, essi vengono scelti quasi esclusivamente sulla base del prezzo e delle offerte speciali di volta in volta disponibili.
Non sono un esperto di marketing, ma mi pare di capire che forse questo è il motivo per il quale gli operatori telefonici promuovono de facto una totale spersonalizzazione del rapporto con gli utenti finali, attraverso un’automatizzazione sempre più spinta del rapporto con il cliente. Caratteristiche queste che sono tipiche dei mercati “a nocciolo vuoto”, come ci ricordano Simon e Zatta nel loro libro “Think!” (1). Il “nocciolo”, in un dato mercato, rappresenta una costellazione competitiva che consente a tutte le aziende inserite in esso di operare con un buon ritorno dell’investimento. Il “nocciolo vuoto” è invece appunto caratterizzato da prodotti visti e trattati come commodities, una competizione basata solo sul prezzo e sui bassi costi marginali contro gli alti costi strutturali del “core”. Questo porta inevitabilmente alla necessità di comprimere il più possibile il lato costi, riducendo l’impatto economico di tutte le attività “labour based”, gestendo ad esempio il rapporto umano tramite call-center subappaltati e delocalizzando quanti più processi sul web. Una totale smaterializzazione del contatto, e clienti percepiti sempre più come un “problema”: più clienti chiamano i call-center, più operatori è necessario assumere, più aumenta il costo per contatto, più si riducono le marginalità, esponendo le società alla mannaia dei “mercati”, con i titoli in borsa sempre sotto l’occhio critico e cinico degli analisti, pronti a ridurre i rating pregiudicando gli investimenti a breve termine e anche i bonus del management, non appena un gestore telefonico perde uno “zero virgola” di quota di mercato.
Già: la “quota di mercato” sembra essere il giudice unico e ultimo di ogni azienda quotata, ma anche la sirena tentatrice di ogni impresa che opera in un mercato maturo e competitivo qual’è appunto quello della telefonia, dell’automotive od anche in certe nicchie del mercato bancario. Visti i margini di redditività relativamente bassi, si ritiene – sbagliando, a nostro avviso – che l’unico metro per comprendere dove stia andando un’azienda sia la sua quota di mercato, che dev’essere sempre crescente. Così eccoci frastornati da comunicazione di basso profilo, campagne pubblicitarie e di marketing martellanti, noiose, ossessive, invadenti ed aggressive da parte dei gestori telefonici, che si azzuffano per metterci in tasca una SIM in più, magari legandola all’omaggio un nuovo telefonino, a una tariffa più conveniente o a una testimonial più svestita di quella della concorrenza. Assistiamo a fenomeni che rasentano la follia e superano i limiti del lecito, come i rivenditori del Veneto di un grande gestore telefonico che intestavano a ogni singolo e ignaro cliente fino a 1.000 SIM pur di rispettare i “budget” e far aumentare la quota di mercato del marchio da loro rivenduto, arrivando ad oltre 2 milioni di SIM “fantasma”, con successivo più che opportuno interessamento della Magistratura. Stessa “volatilità” dell’utenza per i conti bancari on-line: meno spese di sportello, processi automatizzati, home-banking – comodissimo, per carità – ma cosa ci lega a ING/Conto Arancio? Solo la percentuale di retribuzione delle giacenze medie di conto corrente, con il risultato che all’apparire di un player più aggressivo in grado di remunerare meglio immediatamente cambieremo interlocutore.
Questo sistema – che ha come risultato una bassissima fidelizzazione del cliente – è nella pratica la vera e propria negazione del principio “I care” tipico della CSR, ed è nel contempo anche la negazione dei presupposti stessi per la creazione di una comunità di marca stabile e duratura. “Non ci interessa chi tu sia o quali siano le tue esigenze”, sembrano raccontare questi spot che inondano in modo indifferenziato o ben poco “tailored” ogni possibile mass-media. Poi, una volta che sei stato “arruolato” come nuovo cliente, vai sul nostro sito per scegliere la tua tariffa ideale, e non sia mai che tu abbia necessità di supporto telefonico: i maggiori gestori telefonici spiccano per relativa inconsistenza del servizio post-vendita e di assistenza tecnica, con operatori probabilmente dipendenti da call-center esternalizzati. Recentemente ho sperimentato dal vivo questa cattiva esperienza d’acquisto: un disservizio causato dal mio operatore su una mia SIM dati è stata risolta solo utilizzando un servizio di assistenza tecnica a pagamento, senza possibilità alcuna di negoziare una soluzione non onerosa con uno degli operatori del servizio di prima assistenza. La sensazione netta era che non vi fosse alcun interesse a “prendere in carico” il problema, comprendendolo e guidando l’utente verso la soluzione. Ottimo invece lo standard di servizio del secondo livello, peccato che appunto stessi sborsando denaro per poter tornare ad utilizzare un prodotto/servizio per il quale già pagavo un canone, e che quindi era mio diritto utilizzare appieno senza ulteriori oneri.
Personalmente non conosco una sola persona, tra le centinaia con cui interagisco settimanalmente, che sia “entusiasta” del proprio gestore telefonico. Sta diventando anzi uno standard quello di accettare alcuni disservizi per la durata dei 24 mesi dell’opzione contrattuale obbligatoria per poi passare immediatamente per altri 24 mesi al gestore concorrente, sfruttando le agevolazioni garantite a chi migra da una compagnia telefonica all’altra. Il problema vero è che questa situazione irrituale pare non generare alcuna riflessione tra i vertici dei colossi telefonici, per i quali evidentemente l’unica teoria ancora valida e quella della “shareholder value”, ovvero del profitto a breve termine, e per i quali ogni azione di comunicazione, relazioni pubbliche e CSR orientate a valorizzare il rapporto tra il marchio e i suoi utenti è un inutile costo aggiunto in bilancio, evitabile in ragione di quanto non garantisce un ritorno più che immediato. Formare dipendenti in modo adeguato, contare su una struttura che “ci crede”, che è coinvolta, competente, entusiasta e che è capace di lottare per mantenere un rapporto vivo e “caldo” con l’utenza costerebbe in termini di formazione, di relazioni, di creazione di clima aziendale interno positivo… di CSR, appunto: ma i “margini” non lo consentono, e l’unica apparente soluzione è “strapparsi” ogni trimestre qualche utente tra un gestore e l’altro, in un mercato ormai sempre più saturo. Questa non è vera comunicazione, piuttosto è “cannibalizzazione” del mercato.
Quello che questi illuminati manager pare non stiano comprendendo è che il grado di soddisfazione che genera un passaparola positivo e il senso di appartenenza alla brand è un patrimonio inestimabile che nessuna campagna pubblicitaria basata sul prezzo o sulle modelle svestite potrà mai garantire.
Nessuno degli innumerevoli studi di mercato effettuati sulla tipologia di offerte promosse dai gestori ha mai previsto un focus-group al quale porre una semplice domanda: “Preferite che a rispondere al numero di servizio sia sempre lo stesso operatore, che vi conosce e ha già un’idea delle vostre esigenze e dei vostri problemi, o preferite una raccolta punti che ogni due anni di telefonate vi fa vincere un pieno di gasolio o qualche sconto alla Conad?”. I risultati a mio avviso sarebbero illuminanti: conosco centinaia di persone che per quel “plus” sarebbero disposti a pagare anche qualche cent di più nello scatto alla risposta.
Ci provano da sempre, le telefoniche, sia ben chiaro. D’altronde i primi anni 2000 sono stati l’era della “customer relationship management”, quando si credeva che un software che ti riconosce, ti profila e ti traccia proponendoti l’offerta giusta al momento giusto fosse la soluzione ottimale e potesse sostituire efficacemente il calore della comunicazione tra le persone. Oggi pomeriggio – esasperato dal disservizio con il mio gestore di cui ho accennato sopra, ho contattato il call-center del principale concorrente, per farmi “coccolare” e ricevere un’offerta vantaggiosa per spostare da loro le 6 SIM della nostra mini-rete aziendale. L’operatore dall’altra parte della cornetta non è stato soddisfatto quando gli ho riferito il mio numero di cellulare sul quale richiamarmi di li a poche ore per illustrarmi l’offerta: voleva a tutti i costi conoscere tutti e 6 i numeri delle 6 SIM da eventualmente migrare, perché “il software sennò non mi fa partire la pratica e quindi non la possiamo ricontattare”. Risultato: impossibile per me in quel momento diventare un loro cliente, e dire che lo desideravo assai! Il problema però era a monte: io non stavo parlando con un operatore vero, ma con la protesi umana di un software…
I romanzi di fantascienza degli anni ’50 immaginavano un mondo freddo, in cui l’uomo era servo-assistito da macchine. Siamo ora all’alba inoltrata del terzo millennio, nella situazione esattamente opposta: noi siamo le protesi dei software.
Con massima soddisfazione per i dividendi mensili, e buona pace della CSR e della comunicazione tra persone.
(1) “Think!”, di Hermann Simon e Danilo Zatta, Hoepli gruppo Sole 24 Ore, 2010