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Comunicazione scientifica ed etica delle Rp

La divulgazione della scienza, sia a livello di informazione che di comunicazione, è certamente un lavoro complesso. Trasferire a pubblici generalisti studi pubblicati su riviste specializzate senza strumentalizzare la notizia può rivelarsi più difficile di quanto si pensi, al punto che il risultato può essere totalmente distorto dall’originale. Ma qual è il ruolo dei relatori pubblici in questo processo? Etica ed autenticità vengono realmente applicate nel concreto? La riflessione di Luca Poma.
Dieci giorni fa, un bell’articolo del ricercatore Paolo Vineis, nello staff del prestigioso Imperial College di Londra, denunciava la scarsa affidabilità degli organi di stampa nel riprendere e amplificare gli studi pubblicati dalle riviste scientifiche internazionali.
Secondo Vineis, è, ad esempio, assurdo ipotizzare che l’uso anche smodato di biscotti possa causare il cancro, come invece recentemente pubblicato da diversi quotidiani. Il punto non è tanto l’affidabilità della ricerca all’origine, ma piuttosto come essa viene strumentalizzata per costruire una “notizia a tutti costi”, estrapolandone parti fuori contesto e senza preoccuparsi di “dettagli” come la percezione biologica del nesso causale.
La riflessione di Vineis evidenzia un problema che esiste da sempre, e che da sempre è – volutamente? – sottostimato se non ignorato dalla maggior parte dei giornalisti ma anche dai coloro che “mediano” la comunicazione: la complessità del trasferimento delle informazioni dalla stampa specializzata ai mess-media generalisti, informazioni spesso filtrate – non a caso – dai relatori pubblici e dai loro comunicati stampa, impegnati a sostenere questa o quella tesi nell’interesse della mandante di turno.
Un grande classico è quello dell’industria del tabacco, che per decenni ha tenuto a libro paga fior di ricercatori, distorcendo i risultati dei test, pilotando la comunicazione sui giornali e truffando – se non contribuendo ad uccidere – i consumatori di sigarette.
Ma quella del tabacco è solo la punta dell’iceberg: che dire di lavori giustamente sospettati di grave pregiudizio editoriale, ma ampiamente promossi da alcuni uffici stampa e pedissequamente ripresi dai media, che tentano di smentire la cancerogenicità di diversi elementi chimici potenzialmente pericolosi come la diossina?
Vineis, con grande coraggio, arriva a fare i nomi di due tra i più importanti “cartelli” di ricerca impegnati nel “confezionamento” di dossier finanziati da note multinazionali: Environ ed Exponent, precisando anche che alcuni membri di questi team sono italiani.
In vari casi recenti – come quello dello studio sulla presunta non pericolosità dell’acrilamide, un sottoprodotto della frittura delle patate, finanziato guarda caso da Fritolay, noto produttore di patatine fritte e junk-food – il problema del potenziale conflitto d’interessi assume contorni veramente eclatanti.
Queste tematiche chiamano in campo – per noi comunicatori e relatori pubblici – keyword come “autenticità”, “etica”, “manipolazione del reale”.
Pur tuttavia, il confine tra ciò che è lecito e ciò che è opportuno fare se si desidera mantenere un adeguato standard etico nella professione, è a volte assai labile.
E’ lecito che una multinazionale commissioni una ricerca. E’ lecito che – se emerge un risultato anche solo in minima parte favorevole – esso venga stralciato dalle conclusioni della ricerca e debitamente amplificato dalla mandante. E’ lecito che l’ufficio stampa – che non fa che prendere atto del lavoro dei ricercatori, o di parte di esso – dia la massima enfasi possibile alla notizia. Ed è lecito che un giornale generalista – al quale certamente non si può caricare l’onere della verifica di una fonte specialistica – pubblichi le evidenze prodotte dall’ufficio stampa.
Tutto ciò è lecito, ma è appunto anche opportuno? Quali sono i limiti che noi stessi addetti ai lavori potremmo e dovremmo darci nell’espletamento del nostro mandato? L’importante è ottenere articoli a favore della committente, anche a costo di non garantire al lettore finale una visione realmente autentica del messaggio? In un ottica di relazione con i nostri stakeholder, siamo convinti sia profittevole nel medio – lungo termine sacrificare la nostra credibilità di mediatori della comunicazione sull’altare di un mandato professionale?
Sono certo di conoscere le risposte che ognuno di noi darebbe in astratto, se coinvolto in un dibattito su queste tematiche. Non sono però così certo che esse coinciderebbero in toto con le scelte che faremmo nel privato del nostro studio professionale, dinnanzi a una parcella ricca e con pagamento a presentazione fattura.




PR E GIORNALISTI: IL RIMEDIO E' L'UTILITA'

“Dopo aver letto per anni che il comunicato stampa è morto, è stato un sollievo sentir dire che in realtà non lo è affatto, perché i giornalisti hanno bisogno più che mai informazioni da noi (ndr. addetti stampa e relatori pubblici)”. Così Sally Falcow, social media strategist di Expansion Plus, commenta i risultati di un dibattito sui media, le loro trasformazioni e i loro bisogni nel mondo del 2.0, tenutosi in occasione della conferenza del distretto occidentale della Public Relations Society of America a Palm Springs.
In un post su Proactive Report, la Falcow riassume cosa si sono detti i 150 relatori pubblici che hanno preso parte alla conferenza.
Le redazioni, oggi, sono soggette a tremende pressioni, lo dimostra il caso della vendita di Newsweek da parte del Washington Post che il giornalista Kai Ryssdal ha commentato dicendo: “I giornali e le riviste in circolazione da decenni stanno resistendo debolmente. Molti di loro non stanno resistendo affatto”. Porter Bibb, editore e specialista in finanziamento di media e aziende di intrattenimento e tecnologia, afferma inoltre: “Non credo che tra dieci anni troverete edicole negli aeroporti né da nessun altra parte: la stampa èveramente agli sgoccioli”.
“Il successo digitale è diventato oggi una componente fondamentale nella trasformazione dei giornali”, afferma John Sturm, presidente e CEO della Newspapers Association of America. Sono i numeri a confemarlo: secondo una ricerca Nielsen, nel primo quadrimestre del 2009 i siti dei giornali hanno visto un aumento nel traffico di visitatori del 10.5%, nello stesso periodo del 2010 l’incremento è ancora più alto.
Più di un terzo degli utenti internet americani visitano regolarmente i siti di giornali, secondo un’analisi commissionata a Nielsen Online dalla Newspaper Association of America.
E ancora: una ricerca effettuata da comScore sempre per la NAA a febbraio 2010 evidenzia che “I siti dei giornali continuano ad essere la fonte più usata e credibile dai consumatori che cercano contenuti affidabili e veritieri”.
C’è da considerare però che i siti dei giornali devono fare i conti con i siti di news online come per esempio Google e Yahoo!: nel dicembre 2009, Google News ha attratto 100 milioni di visitatori unici assoluti da tutto il mondo, molti più dei 66 della CNN e di tutte le testate online del New York Times, che registrano complessivamente 92 milioni di lettori. In cima alla lista c’è Yahoo news, con i suoi 138 milioni di visitatori da tutto il mondo.
Ma tutto ciò come incide sul lavoro dei relatori pubblici?
Osserva giustamente la Falcow che il formato del comunicato stampa tradizionale come lo conosciamo oggi è il risultato di più di 100 anni di lavoro al servizio dei giornalisti di quotidiani cartacei e quel tipo di comunicato, in un momento in cui il web è divenuto fonte primaria d’informazione e il giornalismo è sempre più 2.0, non è più sufficiente.
Questo non implica che i giornalisti non abbiano più bisogno dei relatori pubblici, ma anzi gli esperti riuniti alla conferenza della PRSA hanno affermato che ne hanno bisogno oggi più che mai.
Quello di cui c’è bisogno, però, è un forte cambiamento. Come dice la Falcow:
“I giornalisti oggi hanno bisogno di fatti che siano supportati da ricerche e informazioni di background; hanno bisogno di immagini, grafici, video; hanno bisogno di citazioni degli executive, degli analisti e degli altri esperti. I giornalisti hanno in sostanza bisogno di accedere alle informazioni agevolmente”.
Ecco i punti fondamentali per chi vuole continuare ad avere rapporti con i media in modo efficace:

  • Il 98% dei giornalisti cominciano la propria storia effettuando una ricerca su Google. Fai uso del Search Engine Optimization per diffondere le notizie?
  • Non obbligare i giornalisti a registrarsi per accedere alla newsroom del tuo sito.
  • Aggiungi sempre materiali multimediali ai tuoi comunicati?
  • Assicurati che le news siano in formato facilmente leggibile e utilizzabile.
  • Assicurati che immagini e video siano pronti per la diffusione sul web e ottimizzati per i motori di ricerca
  • Assicurati che i contenuti pubblicati possano essere facilmente condivisi attraverso gli strumenti 2.0 più utilizzati: facebook, twitter, RSS.

 




La rivoluzione social e il Terzo Settore: il Non Profit Report 2011

Uno degli aspetti fondamentali che la rivoluzione social pone all’attenzione delle aziende è costituito dalla necessità di aprire i confini organizzativi. Questo significa che, da una parte, all’interno devono aumentare le sinergie, il dialogo costante, le iniziative congiunte fra funzioni che troppo spesso si ignorano reciprocamente (quando non sono l’una contra l’altra armate per ragioni di confilitti di potere personale, che si scatenano sotto l’occhio connivente di top manager fedeli all’antico ma sempre valido motto divide et impera –valido ovviamente nell’ottica di quel Management 1.0 bollato da Gary Hamel come inefficiente, burocratico e autoritario). Si tratta cioè di costruire un nuovo dominio manageriale a partire da una nuova collaborazione fra unità che si occupano di  HR, CSR , ICT, Ricerca e Sviluppo.
In questo quadro, scriviamo nella nostra indagine Delphi 2.0, la Sostenibilità deve trovare messaggi, modalità e strumenti di dialogo aziendali con stakeholder interni e/o esterni diversi da quelli tradizionali, ormai insufficienti. Questo vale anche per  le organizzazioni non profit. Ma mentre all’estero (secondo il rapporto di Craig Newmark’s  Craigconnects – settembre 2011) almeno le 50 organizzazioni non profit  americane più importanti sono ben strutturate sul versante social media, in Italia la situazione è ben diversa.
In questo quadro, un utile contributo alla riflessione sul tema è offerto dal  Non Profit Report 2011, l’indagine realizzata da ContactLab in collaborazione con VITA Consulting, che ha coinvolto 20.000 persone presenti nei database di 38 organizzazioni non profit in Italia. La nuova infografica di approfondimento,  offre nuovi dettagli per conoscere meglio questi stessi utenti e i loro comportamenti online.
I social network: un mondo ancora da esplorare
La metà degli intervistati – il 49% degli oltre 20.000 contattati – dichiara di utilizzare i social network per scrivere post, caricare foto e partecipare a gruppi. Cambia però lafrequenza: solo il 14% riconosce infatti di avere una presenza social attiva e assidua, mentre un ulteriore 35% scrive, commenta o condivide contenuti sul proprio profilo più raramente, pur mantenendosi aggiornato sulle attività dei propri amici e contatti.
Quando si parla invece in modo più specifico di non profit, un utente su quattro dichiara di seguire una o più Onlus sui social network. Lo fa perché trova che la comunicazione sui social media sia più diretta e vicina alla gente (50%) o per fedeltà ad una specifica Onlus, sulle cui iniziative desidera tenersi sempre aggiornato (16%).
È interessante invece sottolineare come tra chi al contrario dichiara di non frequentare le pagine social delle organizzazioni non profit, l’11% non ne trovainteressante o rilevante la presenza. Ancora una volta sono i contenuti che potrebbero fare la differenza: chi ricorda una particolare fanpage, cita l’organizzazione della pagina (47%), i post (29%) e le foto pubblicate (13%).
“Questi dati dimostrano che la comunicazione non si improvvisa – a parlare è Massimo Fubini, amministratore delegato di ContactLab, che commenta i risultati della ricerca -. Non basta creare una fanpage per catturare l’attenzione degli utenti: la presenza sui social network va pensata e integrata all’interno di una strategia online che miri a costruire e mantenere un dialogo coi propri sostenitori e donatori. Una comunicazione costante e coerente con le specificità dei mezzi utilizzati può diventare determinante per fidelizzare i propri contatti e potenziare il foundraising”.
L’esperienza pionieristica di ideaTRE60, il primo social media italiano finalizzato all’innovazione sociale, lo conferma. Il suo successo infatti è largamente dovuto alla capacità di integrare i contenuti della piattaforma madre (sviluppati attraverso Forum, blog e web television) con piani editoriali specifici sugli principali 8 social network, da Facebook a LinkedIn.
Trasparenza, chiarezza, continuità dei messaggi uguale fidelizzazione
Gli utenti chiedonotrasparenza e concretezza: lo fanno manifestando l’esigenza di un’area riservata all’interno del sito delle Onlus (62%), per poter seguire da vicino lo sviluppo dei progetti o chiedendo maggiore cura dei contenuti, nelle newsletter così come nelle pagine social. Vorrebbero trovare più storie, magari illustrate da fotografie e accompagnate dai commenti degli stessi utenti che desiderano condividere la propria esperienza e portare una testimonianza del proprio impegno a sostegno di una causa.
Questi dati confermano un’altra ipotesi della nostra indagine Delphi: “in  opposizione al tradizionale flusso top-down della catena del valore, il secondo principio della nuova economia social  è la co-creazione di valore che nasce dalla collaborazione orizzontale, conviviale,  da attuare all’interno dell’azienda e al suo esterno, con e fra tutti gli stakeholder. Diventa essenziale la valorizzazione dellacollaborazione emergente tra le persone indipendentemente da gerarchie e schemi organizzativi predefiniti.”
Per quanto riguarda la raccolta delle informazioni, gli utenti si informano a proposito delle attività delle Onlus principalmente sul web: il 54% lo fa visitando il sito istituzionale, il 40% leggendo le newsletter. Al terzo posto la posta cartacea (31%), mentre gli eventi di piazza sono fonte di informazione per il 15% dei rispondenti. Interessante il fenomeno del passaparola, che può facilmente essere alimentato online grazie agli strumenti di condivisione come il “segnala ad un amico” da inserire nella newsletter o la funzionalità “condividi” sui social network.
A fronte di un 31% di utenti che dichiarano di tenersi informati tramite il materiale cartaceo spedito via posta, il 58% dei rispondenti dichiara che preferirebbe essere aggiornato esclusivamente tramite canali online, rinunciando al supporto offline. Un dato interessante per le Onlus, che potrebbero ridurre i costi limitando la stampa e la spedizione di materiale cartaceo, differenziando i contenuti in funzione delle potenzialità dei canali (offline e online) e integrando i diversi strumenti per creare sinergie.
In accordo con i principi dello Humanistic Management 2.0, dunque,  una strategia di successo anche nel Terzo Settore deve fondarsi su  Sensemaking e storytelling, Social Networking e   Transmedialità, Multicanalità.
Fidelizzazione
Anche da un punto di vista molto pratico, emerge la necessità  di essere attrezzati con modalità 2.0: il 39% degli utenti intervistati dona (o ha già donato) online; il 13% utilizza esclusivamente Internet per effettuare le proprie donazioni. Più in generale, il 26% degli utenti dichiara di utilizzare in genere canali di pagamento online. Nonostante emerga un’abitudine consolidata alla donazione tramite i tradizionali canali offline, tanto che il bollettino postale si conferma lo strumento più utilizzato (quasi il 30%), la sfida per le organizzazioni non profit di tramutare i donatori occasionali in donatori regolari, si sposta anche sul web: sarà sempre più importante prevedere e mettere a disposizione degli utenti modalità di donazioni online regolari.
E’ importante infine sottolineare che il 61% dei rispondenti si interessa al sociale da più di 10 anni. La costanza nel tempo dimostrata dagli iscritti alle newsletter delle organizzazioni non profit avvalora l’efficacia di una strategia di comunicazione che non solleciti esclusivamente la donazione oneshot, ma punti sulla fidelizzazione, per aumentare il numero di donatori regolari, la frequenza e l’ammontare delle donazioni.
“La fidelizzazione oggi passa soprattutto attraverso la chiarezza, la trasparenza, la semplicità e la continuità dei messaggi – afferma Fubini -. Per creare engagement e convincere i donatori occasionali a sposare non più solo una specifica iniziativa, ma una Onlus con tutta la sua storia e la sua missione, sarà sempre più necessario sfruttare lasinergia tra i diversi canali di comunicazione online, intuendone e mettendone a frutto lespecificità. La sfida per le organizzazioni non profit rimane quella di coinvolgere e coltivare l’interesse delle fasce più giovani: in quest’ottica l’integrazione tra i canali dell’offline e dell’online, con il quale i più giovani hanno già maggiore dimestichezza, si rivela sicuramente vincente. Non dimentichiamoci infatti che questi ‘futuri adulti’ saranno i donatori di domani.”




Psico drink e canzoni

la Festa degli inquieti (pensando al futuro)
Premiato Renato Zero: «Sono il re degli agitati»
«Il futuro non è più quello di una volta. Una volta il futuro era migliore». Da Paul Valéry in avanti queste parole hanno macerato il cuore e la mente degli inquieti. E quest’anno diventano il filo che annoda la grande Festa dell’inquietudine che da oggi a domenica invaderà la tranquilla cittadina di Finale Ligure e il più ancor tranquillo complesso monumentale di Santa Caterina nell’antica frazione di Finalborgo. Una trentina di eventi in cui compare sempre la parola «Futuro»: mostre, concorsi fotografici, progetti etichettati come «Inquieta-mente», dibattiti, convegni, viaggi nell’avvenire ma anche nel passato e, per spezzare il ritmo, ci sono pure gli aperitivi-psicologici. Regista di tutto questo delirio è Elio Ferraris, che del Circolo degli inquieti è il fondatore-presidente: un passato a Sociologia (Trento, naturalmente) e nel comitato centrale del Pci, un presente da cane sciolto dell’Inquietudine, un po’ sognatore, insoddisfatto del vuoto attuale, bisognoso di un pizzico d’irrazionalità. Come tutte le grandi feste che si rispettino, anche questa di Finale avrà un premiato: il cantante, anzi «cantattore», Renato Zero. La motivazione, come tutte le motivazioni ufficiali, non spiega granché: «Inquietamente protagonista nel panorama musicale italiano». Una traccia si trova nei versi di una sua canzone, «Non si fa giorno mai», in cui dice: «Qui dove sto si vede il mare, conosco ormai i misteri suoi, lui come me calmo e inquieto…». Senta signor Renato Zero, ma perché se lo merita questo riconoscimento e perché è giusto considerarla un simbolo per tutti gli inquieti? «Diciamo che l’inquietudine è una scienza esatta – risponde orgoglioso -. Un segnale netto, inequivocabile di uno stato d’animo perturbabile. Le ragioni di questa condizione dipendono sicuramente da un bisogno di espansione. Di muoversi costantemente, lanciando e raccogliendo sollecitazioni, al fine di rendere l’esistenza meno prevedibile e piatta. Non si placa con le caramelle. Con le coccole, con le adulazioni o peggio: con una scarica di bromuro. L’inquietudine oggi finalmente viene premiata! Una giornata di noi inquieti (incognite comprese) equivale almeno alle dieci interminabili dei parsimoniosi. Quindi applauditemi perché gli agitati di oggi, che lo vogliate o no, sono un popolo che… io modestamente rappresento». Altre due star dell’happening saranno Ilaria Capua (da Newcastle e Venezia coordina scienziati di tutto il mondo che combattono le influenze cattive come l’aviaria e la suina) e il giornalista, storico e presidente di Rcs libri Paolo Mieli. Tema impegnativo per il loro colloquio: «Un nuovo modo di pensare il mondo». Per adesso sappiamo da dove partiranno: «Tsunami ambientali, politici, sociali; nuove malattie, rischi di pandemie, migrazioni sud-nord; innovazioni tecnologiche e scoperte scientifiche sconvolgenti; crisi energetiche e crisi dell’ideologia della crescita. Tutto questo indica che non è più possibile affrontare in modo disgiunto la salute dell’ambiente da quella degli animali e dell’uomo e che devono mutare le categorie di interpretazione del mondo. È arrivato al termine il principio dell’edonismo infinito? Inizia un nuovo modo di pensare il mondo fondato sul principio di interdipendenza e di responsabilità?». Ma i futuri sono tanti; c’è anche quello che insegue (e spiegherà) Giulio Sandini, il bioingegnere papà del robot «iCub», l’umanoide capace di apprendere che potrebbe diventare un sereno compagno di viaggio nel tempo che non ha ancora avuto luogo, quel domani in cui la scienza non ci farà più paura. Come non ci farà più paura la fine del mondo annunciata da chi teme l’intelligenza artificiale o le previsioni dei Maya o le profezie di Nostradamus. A smascherare un’angoscia irrazionale ci penserà Massimo Polidori che, con Piero Angela, ha fondato il Comitato per il controllo delle affermazioni sul paranormale. E le donne? Le donne in quale futuro? Eccolo disegnato e discusso da quattro donne del presente: Ilaria Capua, Emanuela Martini (sociologia e cinema), Chiara Montanari (ingegnere, missioni scientifiche in Antartide), Valeria Palumbo (giornalista e scrittrice). Entro il 2030 le donne saranno la maggioranza dei manager. Sono in arrivo le «Alpha Girls», versione al femminile di una teoria etologica sui maschi-alfa lupi (dominanti) e di una biologica sui maschi-alfa umani (dominanti, ma ancora per poco). Competizione e carriera non sono incompatibili con il dna femminile: il sorpasso è probabile. Anche perché, come diceva Simone de Beauvoir «donne non si nasce, si diventa» e – ormai è dimostrato – a scuola le ragazze capiscono e imparano di più e più in fretta dei ragazzi. Se poi qualcuno è interessato alle donne del passato che raccontavano e continuano a raccontare il futuro, ecco nelle fotografie giganti dei «Tarots», gli Arcani maggiori del Tarocco marsigliese, i simboli rigorosamente femminili reinventati da Alessio Delfino che, a saperli leggere, aprono scenari esoterici su un più o meno inquietante futuro.
Dietro le quinte della Festa ci sono anche due politici-amministratori. Il sindaco pdl di Finale, Flaminio Richeri, che ha saltato steccati e pregiudizi ideologici «perché la cultura e l’inquietudine non sopportano confini» e l’assessore alla cultura Nicola Viassolo (An e ora Fli) figlio delle virtù e dei vizi della beat generation, così inquieto (non soltanto per la retrocessione in serie B della sua amata Sampdoria) che, se fosse per lui, inviterebbe pure Fidel Castro.




Breve rassegna da 'Sette Green', supplemento de Il Corriere della Sera

L’Emilia Romagna fa una scommessa l’elettrico puro
Cento colonie entro il 2012, da triplicare in tre anni, per ricaricare circa mille veicoli elettrici. Incentivi comunali. Ma anche piste riciclabili e car sharing. Ecco la green valley italiana.
Dalla motor volley alla green, il passo è breve. È l’Emilia Romagna a raccogliere per prima in Italia la sfida dell’auto elettrica. Quella del futuro. Quella a zero emissioni. Lo fa, per esempio, spostando il baricentro verso Parma. È qui che è partito il progetto “ZEC, Zero Emission City”, a oggi la più estesa iniziativa di mobilitò elettrica nel nostro Paese: 100 colonnine entro il 2012 che diventeranno 300 nel 2015, pronte a rifornire un parco di veicoli elettrici a due, tre e quattro ruote di poco meno di 1.000 unità. Ci sono poi gli incentivi all’acquisto erogati dal Comune, che arrivano fino a 6.000 euro, e una valenza ambientale in più: parte dell’energia utilizzata per la ricarica sarà prodotta in maniera rinnovabile e pulita all’interno dei parchi del Sole della Città dell’Energia che nascerà nell’area nord-est della città. “A differenza delle altre iniziative presenti oggi in Italia, il progetto di Parma si inserisce come parte integrante dei piani di mobilità e non come proposta a se stante. Integrandosi con le altre forme di spostamenti “dolce” come la bicicletta, oppure alternativa come il servizio di car sharing, spiega Carlo Iacovini, responsabile del progetto. Cosi come diverso è l’approccio intrapreso: nessun accordo esclusivo con una singola industria automobilistica, ma un progetto aperto a tutti i produttori di elettrici (finora hanno Chevrolet, Citroen, Mercedes, Mitsubishi, Nissan, Opel, Peugeot, Pininfarina e Renault), senza dunque alcuna barriera alla diffusione della cultura sostenibile. Dalle parole ai fatti con l’arrivo delle prime auto: lo  scorso 14 maggio è stata consegnata la prima Smart elettrica (destinata al Comune) alla quale, entro l’estate, si aggiungeranno altre nove unità. Dall’esperienza del progetto ZEC, l’associazione Green Value ricaverà delle linee guida che potranno essere messe in rete a disposizione di tutte le Amministrazioni che vorranno seguire l’esempio di Parma. In queste Italia a batterie c’è anche Reggio Emilia, la città a oggi più “elettrica d’Europa”, con la più alta percentuale di veicoli elettrici in circolazione (322 mezzi). Una storia iniziata nel 2001, quando le batterie consentivano ancora autonomie di circa 50 km e arrivata ai giorni d’oggi con la possibilità di noleggiare dei Piaggio Porter elettrici per 150 euro al mese comprensivi di bollo, manutenzione, libero accesso alla zona a traffico limitato e parcheggio gratuito all’interno delle strisce blu. Entro la fine dell’anno, saranno inoltre aumentati i punti di ricarica all’interno della città, grazie all’accordo siglato tra le regione Emilia Romagna e l’Enel. Il progetto si allargherà coinvolgendo anche i Comuni di Bologna e Rimini. Senza considerare poi l’aspetto industriale: dalle oltre 50 piccole e medie imprese attive nella filiera dei veicoli elettrici, molte sono concentrate proprio in Emilia Romagna (per esempio la maggior parte delle colonnine di ricarica presenti in Italia sono prodotte dalla Ducati Energia di Bologna). È un’Italia all’avanguardia. È un’Italia che crede nel futuro a emissioni zero e crea lavoro. È un’Italia a cui, forse, bisognerebbe provare a dare una mano.
 
L’albero solare che ricarica le auto
A prima vista sembrerebbe la pensilina di un normale parcheggio. Ma Antares, l’albero fotovoltaico progetto da Pininfarina, è molto più di un semplice spazio sosta per la macchina del futuro. Energetico. Sotto la sua ala – ricoperta dai 33 mq di 20 pannelli fotovoltaici da 230 Wp cioascuno, in grado di produrre una potenza totale nominale di 4,6 Kw – possono trovare riparo e ricaricarsi due city car. L’albero tecnologico è in grado di ricaricare, in un anno, il consumo delle due auto con percorrenza media giornaliera di 75 km.
 
Oltre 7.000 pannelli per le auto del sud
Hanno cominciato più di un anno fa. Con 10 mila metri quadrati di pannelli fotovoltaici. Poi la scorsa primavera, altri quattromila metri quadrati di pannelli. Risultato: 1.4 Mw di potenza ricavata dal sole. È cosi che la sede Bosch di Bari si è trasformata nell’impianto-bandiera del gruppo che produce (anche) componenti per l’energia eolica, impianti fotovoltaici, batterie agli ioni di litio. Bosch, significa duemila dipendenti e un’area di 240 mila metri quadrati con un Centro ricerca e sviluppo e due divisioni produttive. La più grande industria del settore auto in Puglia, una delle aziende più rilevanti del Sud. La rivoluzione comincia con la caccia agli sprechi: lo spegnimento degli impianti nelle ore di stop, per esempio. Misure “minime”, ma importanti: da 6.500 tonnellate di CO2 all’inizio dell’anno scorso, si cala a 5.100. a quel punto parte il mega progetto: 8 milioni di euro spesi per dotare di impianti fotovoltaici le sedi europee. Dieci siti, di cui due in Italia, Bari e Correggio. Questo pugliese è un mosaico di oltre settemila pannelli: nove su dieci realizzati con moduli cristallini, l’altro, sperimentale, fatto con tecnologia e film sottile. Il conto ammonta a 4,4 milioni di euro.