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Computer Rivoluzione Qwiki, ora lo schermo parla l' enciclopedia del futuro ha una nuova voce

Il computer ha iniziato a parlare. Con voce sintetica, certo, ma in grado di discorrere di qualsiasi argomento. Poco importa che lo si interroghi sugli ultimi vincitori di Sanremo, sui romanzi di Cormac McCarthy, sulle fortune e sfortune di Steve Jobs o sulla storia di Montparnasse a Parigi. Lui racconta con tono neutro, cita date, mostra video, foto, mappe, fa scorrere testi e ipertesti, offre collegamenti ad altri aspetti in un mosaico in continuo movimento. Mette in scena un “qwiki”, modo tutto nuovo di chiamare una voce in questa strana via di mezzo fra un motore di ricerca e un’ enciclopedia futuribile. «Siamo sommersi di dati», ha spiegato Doug Imbruce, una delle menti dietro questo progetto che a breve dovrebbe aprire i battenti. «E l’ unico sistema per salvarci è fare in modo che queste informazioni diventino qualcosa che si può guardare». Come un telefilm, o meglio come un documentario interattivo. Il servizio, provato in anteprima e che sarà disponib i l e a n c h e p e r smartphone, unisce la ricchezza di Wikipedia, prendendo da qui i testi introduttivi da recitare, con quella di Google Maps per le indicazioni geografiche, dei motori di ricerca più usati per immagini e documenti, di YouTube o Vimeo per i video. Si scrive un nome, il cofondatore di Facebook Eduardo Saverin ad esempio, ed ecco che la voce sintetica comincia a raccontarci quando è nato e dove è cresciuto, ci fa vedere le immagini del social network più popolare al mondo che ha contribuito a creare, quelle del suo ex amico Mark Zuckemberg, le sequenze del film girato da David Fincher tratto liberamente dalla loro vicenda. Eduardo Saverin in Qwiki ci crede a tal punto da aver investito otto milioni di dollari. Perché, come ha detto lui stesso, «è ancora all’ inizio, ma ha tutte le carte per diventare un punto di svolta». E ci crede anche Louis Monier, a capo del progetto assiemea Imbruce, già noto per aver fondato nel 1995 il motore di ricerca Altavista.A bordo, come investitore, c’ è perfino Jawed Karim, che assieme a Steve Chen e Chad Hurley diede vita a YouTube sei anni fa. Una schiera di grandi ex, insomma, che nella maggior parte dei casi, escluso Monier nato nel 1956, hanno appena superato i trent’ anni. Se l’ idea alla base di Qwiki è semplice, trasformare le informazioni sparse per la Rete in un’ esperienza visiva, il suo eventuale successo ha implicazioni più profonde. Da un lato raccoglie, sintetizza e banalizza le fonti, andando quindi incontroa tutti coloro che non hanno tempo per cercare e approfondire. Dall’ altro è in linea con una moda sempre più diffusa nel campo della tecnologia che cerca di limitare al minimo l’ uso di mouse e tastiera, preferendo altre forme di interazione per noi più naturali. Che nel caso di Qwiki significa voce e sguardo, per l’ iPhone di Apple e Surface della Microsoft significa invece il tatto, infine per Eye Toy (PlayStation), la Wii della Nintendo e Kinect per Xbox 360 vuol dire trasformare i gesti in comandi da usare nei videogame. Ma c’ è, come sempre accade, chi si vuol spingere molto più avanti. In un’ azienda di neuroingegneria (la Emotiv), ad esempio, hanno messo in commercio un dispositivo, l’ Epoc, dotato di 19 sensori che una volta indossato sulla testa riesce a trasformare le onde cerebrali in comandi comprensibili da un pc. Giocattolo da 299 dollari che, a oggi, permette sì e no di muovere qualche oggetto in ambienti digitali. Ma chissà, magari per il World Wide Web di domani sarà più che sufficiente.
 




Secondo una nuova ricerca Weber Shandwick il 64% dei CEO delle più grosse aziende del mondo non è attivo online

Secondo una nuova ricerca di Weber Shandwick, la multinazionale leader in Italia nel settore delle relazioni pubbliche, la maggior parte dei CEO delle più grosse società del mondo – il 64% – non è ancora “social”, ovvero non ha presenza attiva sui social media e non promuove online attività di engagement degli stakeholders.

Lo studio “Socialising Your CEO: From (Un)Social to Social” ha preso in esame la presenza e le attività digital dei CEO delle prime 50 aziende a livello globale.
“In questo periodo di precarietà e di incertezza generali, si registra un forte trend dei CEO a non rimanere in silenzio. Anzi, partecipano ai più importanti forum e convegni delle loro industry e le loro parole e i loro messaggi sono ampiamente presenti sulla stampa economica. Ma quando si parla di digital engagement, i CEO dimostrano di non essere pienamente “social” commenta Leslie Gaines-Ross, chief reputation strategist di Weber Shandwick ed esperta di online reputation. “Tuttavia il top management sta progressivamente prendendo confidenza con i new media, di conseguenza ci aspettiamo che la tendenza attuale si inverta molto rapidamente.”
Più di 9 su 10 CEO delle maggiori 50 aziende mondiali (il 93%) hanno comunicato all’esterno in maniera tradizionale: il 93% è stato recentemente intervistato sui principali giornali generalisti ed economici e il 40% ha sfruttato la leva delle speaking opportunities per veicolare i propri messaggi ad audience esterne.
La Comunicazione online, tuttavia, non è andata di pari passo. La presenza sul web dei CEO si limita prevalentemente ad una pagina su Wikipedia, l’enciclopedia online costituita dal sapere dagli utenti. A parte Wikipedia la visibilità online dei CEO è piuttosto ridotta – solo il 36% può essere definito a pieno titolo “social” e intrattiene in qualche modo relazioni con l’esterno sul sito aziendale o sui social media (es. messaggi/ video/podcasts sui siti aziendali o su Youtube; presenza su Twitter, Facebook, LinkedIn, MySpace o nel blog aziendale).




Welfare aziendale, un dipendente su 4 non ne sa le iniziative

Per il 55% delle aziende è il costo il maggior freno alle politiche di welfare.
A fare il punto sulle politiche responsabili delle aziende italiane è una ricerca di Edenred condotta su un campione di giovani fino ai 35 anni e su un panel di manager e responsabili delle risorse umane.
Roma, 4 nov. – (Adnkronos) – Le attività di welfare aziendali sono insufficienti e, quando presenti, non sono promosse e valorizzate adeguatamente. Tanto che un dipendente su quattro non ne è a conoscenza. A fare il punto sulle politiche responsabili delle aziende italiane è una ricerca di Edenred condotta su un campione di giovani fino ai 35 anni e su un panel di manager e responsabili delle risorse umane che oltre a rilevare un sistema inefficiente, segnala anche la mancanza di una comunicazione adeguata.
Nonostante l’enorme interesse verso questi temi, dunque, c’è ancora molto da fare. Eppure i vantaggi di una adeguata azione comunicativa sono tanti: “dal miglioramento dell’immagine, all’attrazione di nuovi clienti, dal miglioramento del clima interno ad una più elevata capacità produttiva, dalla riduzione dell’assenteismo al miglioramento del senso di appartenenza alla valorizzazione del capitale umano, fino anche alla fidelizzazione dei lavoratori” spiega all’Adnkronos, Andrea Casadei, direttore della ricerca di Bilanciarsi, network che opera in merito alle tematiche inerenti la Responsabilità Sociale d’Impresa e la Sostenibilità.
Se sono ancora molte le aziende a non offrire piani di welfare, la ragione è ben precisa. Da un’indagine di Astraricerche svolta per Edenred, emerge che per il 55% delle aziende è il costo il maggior freno alle politiche di welfare. Ma quali sono le regole della buona comunicazione? Secondo Casadei, una volta definite le caratteristiche della comunicazione e gli argomenti da trattare, l’azienda, dovrebbe considerare diversi canali.
Prima di tutto “riunioni e assemblee, per comunicare all’intero staff, in modo personale, le attività di Csr da sviluppare. L’efficacia di questo mezzo comunicativo risiede, in particolare, nel confronto diretto con i dipendenti, i quali possono anche fornire feed-back sui progetti implementati”. Un altro strumento sono le cassette dei suggerimenti “per ricevere feed-back dai dipendenti e coinvolgerli nell’organizzazione dei progetti di Csr”.
Anche “comunicati in bacheca, poster e banner, hanno un’alta visibilità per i dipendenti e trasmettono, in modo efficace i valori dell’azienda e le particolari strategie votate alla sostenibilità delle proprie azioni”. Nell’era della digitalizzazione non possono mancare newsletter e house-organ, “per informare il personale su quanto accade all’interno dell’azienda, magari inserendo costantemente un articolo dedicato alle tematiche della responsabilità sociale”.
Ma per lo scambio interno di informazioni gioca un ruolo chiave anche l’intranet: ideale per pubblicare rapporti settimanali, promemoria; per dare vita a bacheche virtuali, messaggistica immediata e chat moderate. In questo modo, tutti dispongono delle medesime informazioni con un notevole risparmio di tempo. In Telecom Italia, ad esempio, “uno degli strumenti principali di comunicazione con i nostri dipendenti è proprio l’intranet aziendale, a cui nel tempo abbiamo affiancato blog, community dedicate ed e-convention. La multimedialità, dunque, gioca un ruolo chiave” commenta all’Adnkronos, Paolo Nazzaro, responsabile Group Sustainability di Telecom Italia.
Grazie all’interazione online, ma anche attraverso incontri e focus group, l’azienda ha individuato quattro ambiti nei quali sviluppare iniziative specifiche: equilibrio tra vita lavorativa e tempo libero; supporto alle esigenze dei figli e della famiglia, supporto alle iniziative di volontariato dei dipendenti e valorizzazione delle forme di diversità presenti nel contesto lavorativo.
Alle iniziative più tradizionali, spiega il responsabile Group Sustainability di Telecom Italia, “l’azienda affianca progetti più innovativi come ad esempio il servizio di counseling per i dipendenti offerto dal Centro People Caring e curato da psicologi professionisti”. Il servizio, sottolinea Nazzaro, “ha lo scopo di offrire un sostegno alle persone a fronte di possibili disagi sia nell’ambiente lavorativo che nella sfera privata”.
Il progetto, partito in via sperimentale in Friuli, Liguria, Lazio e Sicilia, “è stato molto apprezzato e per questo l’azienda ne sta valutando l’estensione anche nelle altre regioni”. Inoltre, aggiunge Nazzaro, “ogni due anni effettuiamo un’analisi del clima aziendale”. Dall’ultima indagine, quella del 2010, emerge che il dato medio di soddisfazione generale, su scala da 1 a 10, si attesta in Italia a 7,23 (6,35 nella precedente edizione del 2008).




Csr: A Torino esperti a convegno sui diversi modelli di business

Asili nido per bimbi stranieri. Sviluppo di energie alternative. Film di utilità sociale. Sempre più aziende sviluppano un modello di business “etico”, attento anche all’ambiente e alla collettività. Ma non tutti pensano che questo sia il modo giusto per far crescere l’economia. Come il consulente internazionale di Relazioni pubbliche Paul Seaman, che sostiene “la necessità di puntare al profitto”.
E l’esperto italiano di Csr Luca Poma sceglie Affaritaliani.it per replicare. “Ho avuto uno scontro con Seaman – spiega –  proprio sul concetto di responsabilità sociale d’impresa. Secondo lui in un periodo di crisi è superfluo affiancare agli utili altri tipi di responsabilità e soprattutto è superfluo fare filantropia. Sono d’accordo con lui solo su quest’ultimo punto: secondo me la Csr non deve fare filantropia ma deve fare gli interessi veri degli azionisti con relazioni stabili con tutti gli stakeholder, cioè dai fornitori ai dipendenti fino ai clienti di un’azienda. La Csr parte dal dna dell’azienda che realizza poi progetti sul territorio. E queste iniziative alla fine fanno anche guadagnare le imprese in reputazione. Dallo scontro con Seaman è nata poi l’idea di organizzare un dibattito sui diversi modelli di business”.
Il convegno organizzato dal Club della Comunicazione d’Impresa di Torino, dal titolo “RES – Responsabile Etico Sostenibile” con focus sul ruolo delle strategie industriali e della comunicazione da “corporate responsability” a “human responsability” si svolgerà il 26 ottobre dalle 14.30 alle 19.30 nel capoluogo piemontese.
L’incontro, moderato dal giornalista economico finanziario Oscar Giannino, vedrà gli interventi di esperti in Relazioni Pubbliche come Toni Muzi Falconi della New York University e Luca Poma giornalista e professionista di CSR, di Emilia Costa, docente di Psichiatria a La Sapienza, e di Paul Seaman, Editor di 21st – Century PR Issues e accanito detrattore della cultura della responsabilità sociale d’impresa.
Il Presidente del Club, Luca Glebb Miroglio, afferma che il convegno è nato per “stimolare un confronto tra realtà imprenditoriali differenti per settore merceologico, dimensioni, territorio e cultura, sull’importanza dell’attenzione al sociale nelle attività di comunicazione e nelle strategie industriali. E’ evidente che il consumatore di oggi è sempre più informato e opera le proprie scelte tenendo conto di una pluralità di fattori, inclusi il rispetto per l’ambiente e per i diritti umani e i benefici per la collettività, ed è facile intuire che, a parità di rapporto qualità-prezzo verrà sempre più spesso preferito/a il prodotto o l’azienda che s’impegna per osservare questi requisiti ”.
Tra le aziende partecipanti, FIAT Group, Michelin e Ikea per il settore industriale, Grom e Cascina Cornale per il settore alimentare, la Fondazione Cittadellarte-Pistoletto e Papili Factory per la moda, Lifegate, La Esco del Sole e Centro Riciclo di Vedelago per l’ambiente, Bayer e GUNA per il settore pharma. Proprio quest’ultima rappresenta un caso d’eccellenza italiana nell’ambito delle attività di CSR.
E di progetti di responsabilità sociale d’impresa ce ne sono tanti. “Guna per esempio – sottolinea Poma – è un’impresa best in class in Csr. Tra i vari progetti l’azienda ha contribuito alla realizzazione dell’asilo multietnico ‘Sogno di bimbo’ nel quartiere Palmanova di Milano. Non solo raccogliendo soldi, con una campagna nelle farmacie, per la ristrutturazione dell’edificio ma anche distaccando i propri dipendenti che sono andati lì a fare volontariato. E poi Guna è attenta anche ai fornitori, ha fatto una mappa di tutti i fornitori e monitora l’eventuale sfruttamento eccessivo del territorio per l’estrazione delle materie prime”.
“Ma non è la sola – aggiunge -. Anche Bayer è impegnata nel sociale: un esempio è ‘Asfalto Rosso’, il film girato contro le stragi del sabato sera dovute all’abuso di alcol. E La Esco del Sole ha sviluppato progetti per rendere autonomi dal punto di vista energetico gli edifici sequestrati alla mafia.




CSR od ottimizzazione dell’investimento?

Come le società di commodities non applicano la teoria degli stakeholder
La teoria della Responsabilità Sociale d’Impresa (CSR) prevede tra le sue modalità di applicazione un approccio “caldo” al mercato e agli stakeholder: la capacità di applicare un modello di business “dal volto umano”, irrobustendo le relazioni con i pubblici dell’azienda così da creare nel tempo valore duraturo per gli azionisti.
C’è un settore però dove la CSR – che sta entrando sempre più insistentemente nei nuovi paradigmi del management strategico – pare trovare più alte barriere all’ingresso: la telefonia. Il contesto competitivo tipico di quel mercato – per certi versi più simile a quello delle commodities che a quello industriale in senso stretto –  comporta altissimi investimenti infrastrutturali a fronte di una bassa marginalità di profitto, unita al fatto che una volta superato il break-even in un’area o mercato ogni utente in più è utile a costo zero, o quasi. Il settore della telefonia è quindi il tipico caso di “commoditizzazione” di un azienda: agli occhi dell’utente finale, un operatore vale l’altro, essi vengono scelti quasi esclusivamente sulla base del prezzo e delle offerte speciali di volta in volta disponibili.
Non sono un esperto di marketing, ma mi pare di capire che forse questo è il motivo per il quale gli operatori telefonici promuovono de facto una totale spersonalizzazione del rapporto con gli utenti finali, attraverso un’automatizzazione sempre più spinta del rapporto con il cliente. Caratteristiche queste che sono tipiche dei mercati “a nocciolo vuoto”, come ci ricordano Simon e Zatta nel loro libro “Think!” (1). Il “nocciolo”, in un dato mercato, rappresenta una costellazione competitiva che consente a tutte le aziende inserite in esso di operare con un buon ritorno dell’investimento. Il “nocciolo vuoto” è invece appunto caratterizzato da prodotti visti e trattati come commodities,  una competizione basata solo sul prezzo e sui bassi costi marginali contro gli alti costi strutturali del “core”. Questo porta inevitabilmente alla necessità di comprimere il più possibile il lato costi, riducendo l’impatto economico di tutte le attività “labour based”, gestendo ad esempio il rapporto umano tramite call-center subappaltati e delocalizzando quanti più processi sul web. Una totale smaterializzazione del contatto, e clienti percepiti sempre più come un “problema”: più clienti chiamano i call-center, più operatori è necessario assumere, più aumenta il costo per contatto, più si riducono le marginalità, esponendo le società alla mannaia dei “mercati”, con i titoli in borsa sempre sotto l’occhio critico e cinico degli analisti, pronti a ridurre i rating pregiudicando gli investimenti a breve termine e anche i bonus del management, non appena un gestore telefonico perde uno “zero virgola” di quota di mercato.
Già: la “quota di mercato” sembra essere il giudice unico e ultimo di ogni azienda quotata, ma anche la sirena tentatrice di ogni impresa che opera in un mercato maturo e competitivo qual’è appunto quello della telefonia, dell’automotive od anche in certe nicchie del mercato bancario. Visti i margini di redditività relativamente bassi, si ritiene – sbagliando, a nostro avviso – che l’unico metro per comprendere dove stia andando un’azienda sia la sua quota di mercato, che dev’essere sempre crescente. Così eccoci frastornati da comunicazione di basso profilo, campagne pubblicitarie e di marketing martellanti, noiose, ossessive, invadenti ed aggressive da parte dei gestori telefonici, che si azzuffano per metterci in tasca una SIM in più, magari legandola all’omaggio un nuovo telefonino, a una tariffa più conveniente o a una testimonial più svestita di quella della concorrenza. Assistiamo a fenomeni che rasentano la follia e superano i limiti del lecito, come i rivenditori del Veneto di un grande gestore telefonico che intestavano a ogni singolo e ignaro cliente fino a 1.000 SIM pur di rispettare i “budget” e far aumentare la quota di mercato del marchio da loro rivenduto, arrivando ad oltre 2 milioni di SIM “fantasma”, con successivo più che opportuno interessamento della Magistratura. Stessa “volatilità” dell’utenza per i conti bancari on-line: meno spese di sportello, processi automatizzati, home-banking – comodissimo, per carità – ma cosa ci lega a ING/Conto Arancio? Solo la percentuale di retribuzione delle giacenze medie di conto corrente, con il risultato che all’apparire di un player più aggressivo in grado di remunerare meglio immediatamente cambieremo interlocutore.
Questo sistema – che ha come risultato una bassissima fidelizzazione del cliente – è nella pratica la vera e propria negazione del principio “I care” tipico della CSR, ed è nel contempo anche la negazione dei presupposti stessi per la creazione di una comunità di marca stabile e duratura. “Non ci interessa chi tu sia o quali siano le tue esigenze”, sembrano raccontare questi spot che inondano in modo indifferenziato o ben poco “tailored” ogni possibile mass-media. Poi, una volta che sei stato “arruolato” come nuovo cliente, vai sul nostro sito per scegliere la tua tariffa ideale, e non sia mai che tu abbia necessità di supporto telefonico: i maggiori gestori telefonici spiccano per relativa inconsistenza del servizio post-vendita e di assistenza tecnica, con operatori probabilmente dipendenti da call-center esternalizzati. Recentemente ho sperimentato dal vivo questa cattiva esperienza d’acquisto: un disservizio causato dal mio operatore su una mia SIM dati è stata risolta solo utilizzando un servizio di assistenza tecnica a pagamento, senza possibilità alcuna di negoziare una soluzione non onerosa con uno degli operatori del servizio di prima assistenza. La sensazione netta era che non vi fosse alcun interesse a “prendere in carico” il problema, comprendendolo e guidando l’utente verso la soluzione. Ottimo invece lo standard di servizio del secondo livello, peccato che appunto stessi sborsando denaro per poter tornare ad utilizzare un prodotto/servizio per il quale già pagavo un canone, e che quindi era mio diritto utilizzare appieno senza ulteriori oneri.
Personalmente non conosco una sola persona, tra le centinaia con cui interagisco settimanalmente, che sia “entusiasta” del proprio gestore telefonico. Sta diventando anzi uno standard quello di accettare alcuni disservizi per la durata dei 24 mesi dell’opzione contrattuale obbligatoria per poi passare immediatamente per altri 24 mesi al gestore concorrente, sfruttando le agevolazioni garantite a chi migra da una compagnia telefonica all’altra. Il problema vero è che questa situazione irrituale pare non generare alcuna riflessione tra i vertici dei colossi telefonici, per i quali evidentemente l’unica teoria ancora valida e quella della “shareholder value”, ovvero del profitto a breve termine, e per i quali ogni azione di comunicazione, relazioni pubbliche e CSR orientate a valorizzare il rapporto tra il marchio e i suoi utenti è un inutile costo aggiunto in bilancio, evitabile in ragione di quanto non garantisce un ritorno più che immediato. Formare dipendenti in modo adeguato, contare su una struttura che “ci crede”, che è coinvolta, competente, entusiasta e che è capace di lottare per mantenere un rapporto vivo e “caldo” con l’utenza costerebbe in termini di formazione, di relazioni, di creazione di clima aziendale interno positivo… di CSR, appunto: ma i “margini” non lo consentono, e l’unica apparente soluzione è “strapparsi” ogni trimestre qualche utente tra un gestore e l’altro, in un mercato ormai sempre più saturo. Questa non è vera comunicazione, piuttosto è “cannibalizzazione” del mercato.
Quello che questi illuminati manager pare non stiano comprendendo è che il grado di soddisfazione che genera un passaparola positivo e il senso di appartenenza alla brand è un patrimonio inestimabile che nessuna campagna pubblicitaria basata sul prezzo o sulle modelle svestite potrà mai garantire.
Nessuno degli innumerevoli studi di mercato effettuati sulla tipologia di offerte promosse dai gestori ha mai previsto un focus-group al quale porre una semplice domanda: “Preferite che a rispondere al numero di servizio sia sempre lo stesso operatore, che vi conosce e ha già un’idea delle vostre esigenze e dei vostri problemi, o preferite una raccolta punti che ogni due anni di telefonate vi fa vincere un pieno di gasolio o qualche sconto alla Conad?”. I risultati a mio avviso sarebbero illuminanti: conosco centinaia di persone che per quel “plus” sarebbero disposti a pagare anche qualche cent di più nello scatto alla risposta.
Ci provano da sempre, le telefoniche, sia ben chiaro. D’altronde i primi anni 2000 sono stati l’era della “customer relationship management”, quando si credeva che un software che ti riconosce, ti profila e ti traccia proponendoti l’offerta giusta al momento giusto fosse la soluzione ottimale e potesse sostituire efficacemente il calore della comunicazione tra le persone. Oggi pomeriggio – esasperato dal disservizio con il mio gestore di cui ho accennato sopra, ho contattato il call-center del principale concorrente, per farmi “coccolare” e ricevere un’offerta vantaggiosa per spostare da loro le 6 SIM della nostra mini-rete aziendale. L’operatore dall’altra parte della cornetta non è stato soddisfatto quando gli ho riferito il mio numero di cellulare sul quale richiamarmi di li a poche ore per illustrarmi l’offerta: voleva a tutti i costi conoscere tutti e 6 i numeri delle 6 SIM da eventualmente migrare, perché “il software sennò non mi fa partire la pratica e quindi non la possiamo ricontattare”. Risultato: impossibile per me in quel momento diventare un loro cliente, e dire che lo desideravo assai! Il problema però era a monte: io non stavo parlando con un operatore vero, ma con la protesi umana di un software…
I romanzi di fantascienza degli anni ’50 immaginavano un mondo freddo, in cui l’uomo era servo-assistito da macchine. Siamo ora all’alba inoltrata del terzo millennio, nella situazione esattamente opposta: noi siamo le protesi dei software.
Con massima soddisfazione per i dividendi mensili, e buona pace della CSR e della comunicazione tra persone.

(1) “Think!”, di Hermann Simon e Danilo Zatta, Hoepli gruppo Sole 24 Ore, 2010