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Terra verso la bancarotta

Arriva l’Overshoot Day. Dal 27 settembre il bilancio tra risorse rinnovabili e consumi entra in rosso. Occorrerà cominciare a utilizzare fonti che non si ricaricano, creando forti squilibri ambientali.
Il 27 settembre il pianeta entra in rosso. E’ l’Earth Overshoot Day. Non siamo ancora al default ecologico, ma la minaccia di bancarotta è concreta e costerebbe più del tracollo della Grecia. Abbiamo consumato tutte le risorse rinnovabili che la Terra ha a disposizione e per andare avanti dobbiamo indebitarci, cioè utilizzare ricchezza che non ci appartiene.
Dobbiamo tagliare le foreste che servono a rallentare la corsa del caos climatico, rubare altri pesci a un mare che si impoverisce anno dopo anno, prelevare acqua dalle vene fossili che non si ricaricano, usare energia fossile turbando l’equilibrio dell’atmosfera, azzerare prati per darli in pasto al cemento.
Continuando così, con una popolazione che sta per sfondare il muro dei 7 miliardi e i consumi pro capite globali in continua crescita, entro la metà del secolo il nostro debito supererà il 100 per cento del Pil ambientale: per portare i conti in pareggio dovremmo avere a disposizione un secondo pianeta. Il calcolo viene dal Global Footprint Network, la rete che calcola la biocapacità globale e la confronta con l’impronta ecologica, cioè con la quantità di risorse e di servizi richiesta dalla specie umana.
“Oggi estraiamo e utilizziamo circa 60 miliardi di tonnellate di materie prime l’anno: è il 50% in più rispetto a 30 anni fa”, osserva Gianfranco Bologna, direttore scientifico del Wwf. “E’ come se mettessimo in circolazione ogni anno 40 miliardi di automobili che per essere parcheggiate richiederebbero uno spazio delle dimensioni di Italia e Austria messe insieme. Ogni essere umano utilizza in media oltre 8 tonnellate di risorse naturali l’anno, 22 chili al giorno. Se si includono i materiali di estrazione inutilizzati, il conto sale a 40 chili pro capite al giorno”.
Se due fattori pesano in negativo (aumento della popolazione e aumento dei consumi pro capite) ce n’è uno che gioca un ruolo positivo: il miglioramento della tecnologia che permette di fare di più con meno. Ma finora questa voce non è stata in grado di bilanciare la pressione congiunta della crescita demografica e dei consumi.
“Spingere sul miglioramento tecnologico è necessario e in particolare l’efficienza energetica e le fonti rinnovabili giocheranno un ruolo fondamentale”, aggiunge Roberto Brambilla, della Rete Lilliput. “Ma non possiamo pensare di vincere questa partita senza intervenire anche sugli stili di vita. Prendere l’autobus al posto della macchina una o due volte in più a settimana, ridurre il consumo della carne, sostituire lo spostamento materiale con lo spostamento di informazioni sul web sono tutti modi per migliorare la nostra vita alleggerendone l’impatto ambientale”.
“Se la limitazione delle risorse si rafforza ancora, sarà come  tentare di risalire su una scala mobile che scende”, conclude Mathis Wackernagel, lo studioso che costituisce il punto di riferimento obbligato per gli studi sull’impronta ecologica.  “Dobbiamo approfittare di questa crisi profonda dell’economia per ricostruirla in modo più sano e duraturo. Un recupero di lungo termine avrà successo solo se avviene contemporaneamente a una sistematica riduzione della nostra dipendenza da risorse che sono limitate. Cambiare rotta è possibile, ma è un percorso che dobbiamo cominciare subito”.




Cs Res 26-10-2011

Comunicato stampa di lancio del convegno Responsabile Etico Sostenibile, Torino Unione Industriali, 26/10/2011
CS RES 26 10 2011.pdf




Lovemarks ovvero passione e rispetto

Un capitale immateriale ma preziosissimo, che va al di la del marketing.
Il marketing, in questi ultimi anni assai burrascosi, ci racconta con sempre maggiore insistenza che i marchi sono a corto di energie. Una fascia crescente di persone nel mondo si aspetta grandi performance da prodotti e servizi, alla ricerca di esperienze che diventano emozioni, e sempre più spesso le brand impegnano le proprie forze per tentare di rispettare queste aspettative, al punto che ormai dire che le automobili partono al primo colpo, le patatine sono croccanti e i piatti brillano che di più non si può, è cosa assai scontata, e non fa più breccia nei cuori – e soprattutto nel portafogli – di quelli che una volta si definivano come “consumatori”.
Ma le “Lovemarks” trascendono i marchi, perchè le loro performance superano le aspettative. Come tutti i grandi marchi, godono dei più alti livelli di rispetto, ma le similitudini finiscono qui. Ce lo racconta una ricerca[1] di Saatchi & Saachi[2], datata ma sempre interessante, che riacquista straordinaria attualità in questo periodo di affermazione della CSR come dimensione strategica della vita d’impresa.
Le Lovemarks raggiungono il cuore – come la mente – creando una connessione intima ed emotiva senza la quale il consumatore non potrà più vivere. Può sembrare assurdo utilizzare termini così assoluti per degli oggetti, ma questa è la verità, specie per le nuove generazioni, che fanno dell’identificazione con il proprio marchio un vero e proprio problema identitario.
Elimina un marchio e le persone ne troveranno un altro con cui sostituirlo; elimina una Lovemark e la gente si lamenterà per la sua assenza. Le Lovemarks sono una relazione d’amore, non una mera operazione commerciale. Tu non acquisti semplicemente una Lovamarks, la abbracci appassionatamente. Ecco perché non la lascerai mai.
In un grafico ad assi cartesiani, Saatchi pone le caratteristiche dell’ “Amore” sul piano orizzontale, e del “Rispetto” sul piano verticale.
I Marchi, comunemente intesi, sono conosciuti e apprezzati, e ricevono quindi rispetto: saranno posizionati in alto, ma a sinistra, perchè non li “amiamo” veramente.
In fondo alla scala a sinistra troveremo i “Prodotti”: sono oggetti, consumi, cose “che servono”, e solo per questa ragione li acquistiamo. Ricevono poco amore e non sembrano meritare più di tanto “rispetto”.
Al loro fianco, sempre in basso, ma a destra, le “mode”: ricevono molto amore, sono infatuazioni di un momento o di una stagione, follie collettive, per qualche mese non ne possiamo fare a meno, ma… sono in basso rispetto all’asse del “rispetto”, e fra tre mesi ci dimenticheremo di loro, saremo passati oltre.
Il riquadro in altro a destra, infine, caratterizzato da molto amore e un alto grado di rispetto, è proprio quello delle Lovemark, le relazioni di lungo termine che un individuo stringe con le proprie brand del cuore, nei quali si riconosce e dalle quali probabilmente non si separerà mai.
Il grande amore per una Lovemark  è infuso attraverso tre intangibili  – ma allo stesso tempo reali  concreti – ingredienti: mistero, sensualità e intimità.
Il mistero porta con se storie, metafore, sogni e simboli. È il punto in cui presente, passato e futuro diventano uno, e aggiunge qualcosa alla complessità di relazioni ed esperienze, perché le persone sono sistematicamente attratte da ciò che non conoscono del tutto.
La sensualità mantiene i cinque sensi in constante allerta per nuovi gusti, intriganti profumi e sapori, musica meravigliosa. Vista, udito, odorato, tatto, gusto: i nostri sensi lavorano insieme per informarci, sollevarci e trasportarci verso nuove esperienze. Quando i sensi sono stimolati contemporaneamente, i risultati sono indimenticabili, ed è proprio attraverso di essi che creiamo e immagazziniamo i nostri ricordi. Gli esempi sono infiniti, ma se come me siete amanti di tutto ciò che è marchiato con una mela[3], penso condividerete quella piccola carica di emozioni che accompagna l’apertura della confezione del nuovo I-Pad: una promessa mantenuta ancora prima di accendere il device!
Intimità – infine – significa empatia, legame e passione. Legami stretti che ottengono intensa lealtà e piccoli gesti perfetti: sono loro ad essere spesso ricordati molto dopo che i compiti e i benefici dei prodotti acquistati sono svaniti. Senza intimità, le persone non possono avere la sensazione di “possedere” un marchio, e senza questa convinzione da parte dell’utente un marchio non può diventare una Lovemark.
Saatchi & Saatchi, che ha creato il termine Lovemark, lo accompagna con una serie di dati statistici molto interessanti, ottenuti intervistando diversi focus groups di pubblici potenziali. Il 61% degli intervistati ama interagire con la propria Lovemark attraverso una community, e senza necessità di aspettare il Web 2.0: da quando esistono Vespa o Harley-Davidson, in tutti e cinque i continenti si organizzano affollatissimi raduni di amanti di questi mezzi, ed è solo un esempio tra i tanti possibili.
Come accennavo prima, le Lovemarks sono un veicolo per riaffermare e distinguere la propria individualità e la propria identità da quella di altri, e per incontrare quindi altre persone che condividono gli stessi valori. Come si spiegano altrimenti i ragazzi che – con il tam-tam sui social network – si ritrovano in occasione delle inaugurazioni di un nuovo Apple Store, campeggiando davanti al negozio per almeno 36 ore? A tal proposito sarebbe interessante andare al di là della definizione di Lovemark e dall’analisi delle “community di marca”, e cercare di comprendere come le diverse community s’incrociano tra di esse, al fine di definire le categorie di “innamorati” potenziali: chi compra Apple consuma anche Martini? Chi fuma Davidoff viaggia in Mercedes? Chi beve Lavazza compra anche Barilla? Nuovi orizzonti si aprono per un co-branding ragionato ed elevato a dimensione strategica.
Tornando alla ricerca, il campione esaminato dalla ricerca ha affermato nella metà dei casi di apprezzare di più le persone che scelgono le stesse proprie stesse Lovemarks; nove intervistati su dieci riferiscono che la propria Lovemark si adatta “al modo in cui sognano se stessi”, e due intervistati su tre definiscono la Lovemark come “qualcosa che difenderei”.
E non è una questione di prezzo: è rilevante solo per un intervistato su dieci, e – dato molto interessante – solo l’8% del campione coinvolto vede nella “competitività economica” la chiave di successo di un’azienda. Come dire: sono disposto a pagare di più per avere ciò che amo.
Il rapporto con la Lovemark, poi, è globale, totalizzante, e dell’azienda in questione si analizzano diversi aspetti, al di la delle caratteristiche del prodotto, visto che due intervistati su tre sono a conoscenza degli impegni nel campo della responsabilità sociale d’impresa della propria Lovemark di riferimento.
Lovemark significa quindi amore e rispetto – reciproci – percepiti dal cliente e ricambiati dalla brand. Se l’amore in una relazione commerciale era cosa nota, nel marketing questa del “rispetto” sembra essere un’incognita in più nell’equazione che regola una scelta di acquisto.
Oggi in particolare gli acquirenti nella fascia 15/30 anni chiedono rispetto: “ti do i miei soldi – sembrano dire i Clienti – ma tu dammi sincerità, trasparenza… dimostrami di meritare altrettanto rispetto da parte mia”.
Ecco perchè, come amo spesso ripetere, il greenwashing è devastante per un’azienda. Nell’era del web 2.0, in un mondo in cui una menzogna – qualsiasi menzogna – viene puntualmente e sempre più in fretta svelata da un blogger, rilanciata sui social network, e punita nelle corsie del supermercato, fare greenwashing significa fare finta CSR, prendere in giro i clienti, disseminare di bugie quelle “conversazioni” che sono divenuti i mercati. Greenwashing[4]: inscenare una pallida imitazione delle pratiche di CSR, e inserire preoccupazioni etiche nella vita d’impresa solo perchè è “cool”, di moda, senza crederci veramente. Abbracciare dei valori senza condividerli, e quindi senza rispettarli realmente. Punizione: crollo del rispetto e quindi crollo della brand-reputation, con serio pregiudizio alle vendite.
Citiamo ancora Kevin Roberts[5], che nel suo saggio ricorda: “i consumatori vogliono fidarsi di voi. Vogliono che rimaniate fedeli agli ideali e alle aspirazioni che condividete con loro. Attenetevi a ciò che predicate. Non traditeli.”
Paghiamo un biglietto per andare a teatro ad assistere a una rappresentazione, e sappiamo di avere di fronte degli attori che recitano, e godiamo dello spettacolo. Ma quando un grande attore “entra” veramente nella parte, e “vive” il personaggio, non è più una recita: è una magia. Quello spettacolo sarà memorabile, e quell’attore resterà nel nostro cuore, meritando appunto – oltre al prezzo del biglietto – il nostro rispetto.
Un capitale immateriale ma preziosissimo, che va ben al di la del marketing, da custodire con cura e capitalizzare, in poche parole la vera anima di un’azienda.
[1] “Lovemarks. Il futuro oltre i brands” – di Kevin Roberts (AD Worldwide Saatchi & Saatchi) – trad. G. Russo – Mondadori, 2005
[2] una tra le più importanti agenzie pubblicitarie al mondo, fondata a Londra nel 1970 dai fratelli Charles e Maurice Saatchi
[3] La mela rosicchiata, il simbolo della Apple, la casa di produzione Cupertino (Mac, iPod, iPhone, iPad, etc.)
[4] si veda anche il mio articolo “L’irresistibile tentazione del Greenwashing”, pubblicato su Ferpi News il 27/01/2010 http://www.ferpi.it/ferpi/novita/notizie_rp/internazionale/lirresistibile-tentazione-del-green-washing/notizia_rp/40672/7
[5] CEO della Saatchi & Saatchi, autore, op. cit.




Luca Poma intervista copiaincolla

Pubblicitari in tour in giro per il mondo per sviluppare l’istinto creativo. E tornare a Mantova. Nel bagni pubblici.
Perché pubblicità, come è iniziata?
Beh abbiamo provato con un negozio di scarpe ma abbiamo capito che non era il nostro settore! A parte gli scherzi, tutto è nato per una serie di studiate casualità che ci hanno portato, mattone dopo mattone, persona dopo persona, a costruire nel tempo la nostra vocazione di comunicazione creativa e quello che siamo diventati oggi…
Le differenze con i concorrenti? Lasciando da parte l’ego e parlando di contenuti.
Premesso che, visto il coinvolgimento che siamo piacevolmente costretti a mettere ogni giorno su ogni progetto, è piuttosto complicato descrivere il sapore tipico dei nostri lavori escludendo del tutto la sfera emotiva e personale, possiamo comunque provare a rispondere con due esempi. Il primo è quello dei gadget: conosce altre agenzie che ogni anno progettano e assemblano originali oggetti-regalo che esprimano tutto il potenziale creativo e comunicativo che si crede (ognuno ovviamente lo crede) di avere molto più sviluppato di altri investendo importanti capitali del proprio fatturato? Noi ci esprimiamo anche così. Il secondo esempio è quello della struttura aziendale: conosce molte agenzie pubblicitarie che oggi sono composte e rese vive da personale completamente e unicamente interno e a tempo indeterminato? Per l’azienda è uno sforzo superiore ma per i pubblicitari la preziosa certezza dell’appartenenza al brand copiaincolla.
Una vostra strana iniziativa: “copiadecolla”. Di che si tratta?
copiadecolla è un progetto aziendale che nasce da una semplice convinzione: riuscire ad essere ogni giorno creativi rimanendo seduti davanti ad un monitor non è né facile né scontato. Per questo l’agenzia ha deciso di portare tutti i propri pubblicitari in giro per il mondo, ognuno in una diversa città del mondo, per tenere gli occhi aperti sull’attualità, per andare in cerca di nuove preziose contaminazioni ed esperienze da trasmettere poi in tutta la creatività di cui ogni giorno copiaincolla si serve. A tutto questo senso utile all’”interno” dell’agenzia, copiadecolla aggiunge un interesse verso l’”esterno” dell’agenzia dato che ogni viaggio può essere seguito live da chiunque attraverso le pagine di copiadecolla.com, il sito dedicato al progetto. Un interessante esperimento di condivisione col pubblico delle visioni e dei processi che stanno dietro al lavoro pubblicitario finito.
L’incarico più appassionante?
Difficile scegliere. Tra tanti, mi viene in mente ING: abbiamo deciso di sperimentare, ed abbiamo realizzato una serie di filmati che tra immagini e parole introducevano in modo leggero, ma comunque molto incisivo e puntuale, i lavori e gli argomenti di meeting interni all’istituto bancario, in cui venivano esposti alla rete vendita nuovi prodotti d’investimento mirati su macro aree economiche e mondiali. Un bel modo di mettersi in piazza e mostrare al cliente il “dietro le quinte” di un progetto assai ambizioso.
Il fallimento più eclatante?
Pochi dubbi: il mailing progettato per la promozione del nostro nuovo sito. Lo scorso anno abbiamo deciso che era venuto il momento di presentarci con un nuovo sito e, dopo una serie di valutazioni e idee alternative, abbiamo pensato di dargli le sembianze di un circo. Tendone, cannone che spara i gadget, presentatore che racconta col megafono una sorta di “chi siamo”, bigliettaia che tra sorrisi e gesti di benvenuto accoglie i navigatori appena arrivati sulla “home page”, non manca nulla. Così al momento della promozione di questo nostro importante cambiamento online, visto anche il suo carattere circense, ci è apparso chiaro: il claim doveva essere “Spettacolari evoluzioni sulla rete” riportato su un cartoncino rivestito di una vera rete. Credevamo che la comunicazione unisse alla perfezione i concetti di “passo avanti” e quello di “circo” in maniera forte e piacevole, ma purtroppo non ha dato i frutti che ci aspettavamo, purtroppo non abbiamo tenuto in sufficiente considerazione che la sua comprensibilità poteva non essere soddisfacente a tutti i livelli culturali o professionali a cui ci siamo rivolti.
Anticipazioni sul futuro: qualche idea non convenzionale?
In realtà è una posticipazione, dato che è una cosa già progettata, svolta e conclusa. Ma crediamo sia la risposta migliore alla domanda perché molto recente e molto pertinente. Stiamo parlando della nostra partecipazione all’edizione 2011 di Mantova Creativa (rassegna che raccoglie le esposizioni di professionisti delle più varie applicazioni della creatività) con l’evento “Mi scappa un’idea”. Ambientata negli antichi, sotterranei e sorprendentemente belli, bagni pubblici della città riaperti al pubblico per l’occasione, la mostra è stata pensata per guidare il visitatore attraverso la nostra concezione di creatività. Attraverso fotografie suggestive, rielaborate e “diverse” che abbiamo presentato installate su di una gigantesca mappa della metropolitana volevamo spiegare a tutti che la creatività non è altro che cambiare prospettiva d’osservazione per vedere le cose di sempre con gli occhi di mai. È stata un’opera “di servizio” a tutti e un esercizio di creatività, per una volta, deliziosamente autoriflessiva in cui abbiamo potuto dar libero sfogo ad ispirazioni e suggestioni. Il successo, in termini di ingressi, risonanza mediatica, gradimento dei visitatori e, perché no?, nostra stessa soddisfazione, è stato di molto superiore alle più ottimistiche previsioni…
(*) Nota sul conflitto d’interesse: Luca Poma non ha alcun accordo commerciale con Copiaincolla e non è coinvolto in progetti con l’agenzia o con Clienti dell’agenzia




Inafferrabile Assange

La più grande fuga di notizie della storia, raccontata dal direttore del New York Times
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