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Costa Concordia: è affondata solo la nave?

Dopo il fortissimo impatto emotivo iniziale, a distanza di tre settimane in molti si chiedono se al largo dell’Isola del Giglio ad affondare non sia stata anche la credibilità di Costa Crociere. Quale storia la compagnia di navigazione ha raccontato al mondo tramite i mass-media? Un contributo al dibattito nella cronaca del tentativo di un salvataggio d’impresa.

di Luca Poma (1)

Ci vogliono 20 anni per costruire una reputazione:
bastano 5 minuti per rovinarla.

(Warren Buffet)

La tragedia della motonave “Costa Concordia” al largo dell’Isola del Giglio, avvenuta nella notte tra venerdì 13 e sabato 14 gennaio 2012, è e resterà uno degli eventi più dolorosi sul piano umano, economico e reputazionale che ha toccato la compagnia di navigazione Costa Crociere e il nostro paese tutto, ma non solo, dal momento che l’organizzazione coinvolta è parte della multinazionale americana Carnival, guidata dal CEO Micky Arison, e soprattutto che a bordo della nave naufragata vi era un equipaggio di lavoratori e passeggeri proveniente da numerose nazioni del mondo.
Molto – forse troppo – si è già detto su questa vicenda nelle prime ore e nei primi giorni dal disastro, e tanti ancora sono gli elementi che la Magistratura dovrà impegnarsi a chiarire prima di poter emettere un giudizio finale circa l’operato della Costa e dei soggetti più direttamente coinvolti, quali ad esempio il Comandante della nave affondata.
Con questo paper non desidero quindi esprimere un giudizio definitivo sull’accaduto, né tracciarne un bilancio esaustivo, ma al contrario dare un contributo al dibattito attualmente in corso e analizzare le informazioni attualmente disponibili per tentare di capire cosa, finora, è risultato essere parte di una strategia vincente per l’organizzazione, e cosa per contro appare come pregiudizievole alla corretta e completa comunicazione di questa crisi.
È bene evidenziare innanzitutto come sotto il profilo tecnico la gestione della crisi attuata dal management di Costa Crociere sia stata – e sia ancora mentre scriviamo, pur con un rischio di disastro ambientale sempre impellente e la presenza di 20 dispersi all’interno del relitto – molto intensa: la compagnia, preso atto del default iniziale, ha certamente messo l’interesse pubblico al primo posto, non limitandosi a prendere atto delle efficienti risorse professionali messe a disposizione dalla macchina dei soccorsi dello Stato, ma dispiegando complessivamente oltre 1.000 uomini a proprio libro paga per le operazioni di soccorso e per la ricerca dei dispersi, certamente partendo dal presupposto che mai come in questi casi l’interesse pubblico coincide esattamente con l’interesse dell’organizzazione, cioè salvare più vite umane possibile.
Costa Crociere ha collaborato in modo aperto e disponibile con le autorità e con gli stessi abitanti dell’Isola del Giglio, che hanno ospitato i naufraghi nel corso della prima notte. Anche la gestione dei superstiti a posteriori si è rilevata efficace: a parte qualche lamentela occasionale, i naufraghi sono stati in massima parte velocemente ed efficientemente riportati a casa, e nei giorni successivi sono continuate senza sosta le ricerche dei dispersi.
Un altro aspetto interessante è quella che non esiterei a definire una tra le poche sorprese positive delle quali la Costa Crociere ha potuto giovarsi nelle ultime difficilissime settimane: la partecipazione, la coesione e lo spirito di gruppo dimostrati dai propri dipendenti. Durante una situazione di grave crisi un’azienda può anche correre il rischio di sfaldarsi “dal suo interno”: la risposta dei lavoratori di Costa è stata propositiva e ha dimostrato come l’organizzazione sia al suo interno sana e coesa. L’appoggio dei dipendenti è d’importanza fondamentale per un’azienda in crisi: i dipendenti sono i primi ambasciatori della compagnia. Se si sentono abbandonati, i lavoratori possono reagire in modo sbagliato, come ha fatto un membro dell’equipaggio a poche ore dal naufragio, rilasciando di propria iniziativa dichiarazioni dai toni fortemente accesi e polemici nei confronti di chi in quelle ore stava valutando e criticando l’operato del personale di bordo (2). Sicuramente sono stati importanti gli interventi a difesa dell’equipaggio della nave Costa Concordia – nonché di coloro i quali hanno contribuito successivamente ai soccorsi – effettuati a più riprese dal Presidente Foschi, come ad esempio quello espresso durante la conferenza del 16 gennaio: “Tutti i nostri membri dell’equipaggio si sono comportati da eroi, tutti!” (3). Attraverso le parole del loro Presidente, i dipendenti dell’organizzazione si sono sentiti protetti e gratificati per il loro sforzo – e in alcuni casi per il proprio sacrificio umano – compiuto in quelle tragiche giornate, prova ne sia che i dipendenti stessi hanno risposto al loro Presidente attraverso un evento auto-organizzato a Genova, il 22 gennaio scorso, intitolato “L’equipaggio c’è!” (4), dichiarandosi pronti a superare la crisi e a dare il proprio contributo alla piena ripresa delle attività della compagnia.
Tuttavia, come vedremo – e documenteremo – non mancano criticità e zone d’ombra, in quello che certamente verrà ricordato insieme al dossier Thyssen Krupp come il più significativo caso di Crisis degli ultimi anni nel nostro paese.
Iniziamo con il ripercorrere sommariamente l’episodio (5) – già noto a tutti – e quanto è accaduto nelle concitate ore di quella tragica sera (6):

  • sono le ore 21:45 di venerdì 13 gennaio quando la Costa Concordia, che navigava nei pressi dell’Isola del Giglio, urta violentemente con degli scogli, e si genera immediatamente un black out;
  • alle ore 21:48 la sala macchine è allagata;
  • dieci minuti dopo la collisione (ore 21:55), mentre l’imbarcazione sta navigando lentamente – di fatto in situazione di emergenza conclamata, ma ancora non formalmente annunciata – verso il porto del Giglio, avviene una comunicazione tra il comandante Francesco Schettino e il Centro di comando e coordinamento della Costa Crociere, durante la quale si parla di “problemi a bordo” ma non di una avvenuta collisione;
  • alle ore 22:06 una passeggera di fatto scatena l’allarme, contattando telefonicamente un familiare a casa che a sua volta contatta i Carabinieri, i quali immediatamente allertano la Capitaneria di Porto di Livorno. Quest’ultima ricontatta la Costa Concordia (alle 22:14) per domandare notizie a riguardo, ma dalla nave riferiscono solamente di “avere avuto un black-out”;
  • una decina di minuti dopo, alle ore 22:26, nel corso di un’altra telefonata tra la Capitaneria e il Comandante della nave, emerge la presenza di “una via d’acqua” sulla nave, mentre non vengono fornite notizie circa la presenza di feriti a bordo o di ulteriori problemi, ma si richiede l’invio di un rimorchiatore;
  • alle ore 22:31 la Capitaneria decide di prendere il controllo della situazione e attivare la macchina dei soccorsi, non fidandosi più delle informazioni incerte e parzialmente contraddittorie ricevute dalla nave;
  • tre minuti dopo (22:34) è la nave stessa a comunicare alla Capitaneria lo stato effettivo di emergenza;
  • ore 22:42, Costa Concordia – continuando ad imbarcare acqua – si ferma definitivamente a poche decine di metri da Punta Gabbianella e non lontano dal porto dell’isola, in una zona dove l’acqua non è molto profonda (infatti la nave ad oggi non è ancora stata totalmente sommersa dalle acque);
  • ore 22:45, a un’ora dalla collisione con gli scogli, i passeggeri iniziano di fatto disordinatamente l’evacuazione, nonostante ancora non sia stato diramato un ordine ufficiale da parte del Comandante;
  • alle ore 22:48 la Capitaneria chiede al Comandante della nave se si sta valutando l’ipotesi di un abbandono dell’imbarcazione, ma quest’ultimo ancora non conferma la notizia;
  • ore 22:58, scatta finalmente l’allarme di abbandono della nave vero e proprio: è ormai passata 1 ora e 13 minuti dalla collisione con gli scogli;
  • ore 23:15 la Costa Concordia inizia pericolosamente ad inclinarsi;
  • ore 23:35, il Direttore delle operazioni marittime della Costa Crociere, Roberto Ferrarini, messo al corrente dell’emergenza ma non riuscendo ancora ad inquadrarne la gravità, contatta telefonicamente il centro manutenzioni ordinarie di Costa a Savona – 20 dipendenti – informandosi circa la disponibilità nella zona del Giglio di un eventuale rimorchiatore “per riparare una piccola falla sulla Concordia” (7);
  • ore 00:42 di sabato, ennesima conversazione telefonica tra il Comandante Francesco Schettino e la Capitaneria di Porto, durante la quale Schettino comunica che rimangono ancora un centinaio di persone da evacuare. La Capitaneria sospetta che il comandante non si trovi più a bordo della nave, ma lui nega la circostanza;
  • ore 01:46 avviene la nota telefonata tra il comandante della nave e il comandante della Capitaneria Gregorio Maria De Falco, durante la quale quest’ultimo – appreso che il Comandante ha abbandonato la nave anzitempo – intima allo stesso di risalire sulla Concordia, dal momnento che sono ancora presenti delle persone a bordo (8);
  • ore 04:46: la Guardia di Finanza dichiara la fine delle operazioni di evacuazione della nave. Il bilancio – che si aggraverà nei giorni seguenti – è già in quel momento di alcuni morti e decine di dispersi.

Costa Crociere si è trovata dinnanzi a una crisi improvvisa e grave: le cause dirette più facilmente identificabili sono probabilmente da ricercare nell’errore umano da parte del Comandante della nave Francesco Schettino, ma le responsabilità della compagnia non sono da sottovalutare.
La vicenda ha coinvolto e sta coinvolgendo non solo l’organizzazione, i suoi dipendenti e gli utenti, ma anche tutta la comunità dell’Isola del Giglio e potenzialmente – dato il rischio d’inquinamento ambientale – una consistente area della costa Tirrenica, per vasti tratti riserva marittima protetta. La copertura mediatica internazionale è stata costante.
Come in tutte le crisi, anche in questa si possono ritrovare molti degli elementi “tipici” che contraddistinguono le concitate ore di un disastro:

  • l’effetto sorpresa, la tragedia si è consumata nella notte tra venerdì e sabato;
  • la mancanza di informazioni certe nelle prime ore – e per alcuni versi, giorni – successivi all’evento. Ad oggi mancano ancora molti elementi utili per comprendere chiaramente cosa sia avvenuto sulla nave quella notte. In nessun comunicato ufficiale della compagnia pare trovarsi traccia di una conferma formale dell’esistenza di registrazioni complete – effettuate a cura della Costa Crociere – di tutte le telefonate effettuate da/per la nave. Questa circostanza non solo solleva dubbi sotto il profilo dell’autenticità del rapporto della compagnia verso gli stakeholder in termini di immediata e trasparente capacità di rendicontazione dell’accaduto, ma – se si confermerà non esistere o non essere attivo un sistema automatico di registrazione delle comunicazioni telefoniche – genererà altri interrogativi sotto il profilo della capacità di previsione di scenari di crisi da parte della compagnia;
  • l’incalzare degli eventi, in quanto da un iniziale black-out – ancora da confermare – si è arrivati ad un naufragio nel giro di pochissime ore;
  • la perdita di controllo da parte del rappresentante più alto in grado della Costa Crociere a bordo, il Comandante della nave, se è vero che l’ordine di abbandono della nave è avvenuto quando ormai alcuni passeggeri stavano già calando le lance, che la forte inclinazione della nave non ha permesso la discesa di alcune scialuppe, e che il Comandante stesso ha abbandonato la nave anzitempo (a meno che non si voglia credere all’improbabile versione della sua “scivolata” dal bordo della nave giusto dentro una scialuppa, con tanto di computer portatile in mano, poi misteriosamente disperso);
  • la pressione dei mass-media, delle autorità e – tramite i social-media – del pubblico in generale, su tutte ricordiamo i migliaia di commenti sulla pagina Facebook della Costa Crociere in calce alla telefonata tra il comandante De Falco e il comandante Schettino;
  • un severo esame dall’esterno, da parte di tutti gli stakeholder di Costa Crociere, di tutte le persone coinvolte nella tragedia e dell’opinione pubblica internazionale;
  • lo scatenarsi del panico a bordo, comprovato dalle testimonianze di numerosi passeggeri, a riprova di una non ottimale capacità di previsione preventiva della crisi e/o dell’incapacità della Compagnia di formare lo stakeholder “passeggeri” e lo stakeholder “dipendenti” ad affrontare con competenza e sangue freddo quella che è la più tipica tra le crisi potenziali di una compagnia di navigazione, ovvero problemi sopravvenuti a bordo di una propria nave a causa di un incidente grave in grado di pregiudicare la sicurezza dell’imbarcazione;
  • l’insorgere di problemi di comunicazione, e qui ancora si possono richiamare le telefonate tra i due Comandanti, ma anche quelle – confuse e attualmente ancora non disponibili – tra il Comandante Schettino e Roberto Ferrarini di Costa Crociere, i quali peraltro – a ulteriore dimostrazione dell’incapacità della Compagnia di coordinare in modo uniforme il flusso di informazioni dall’interno verso l’esterno – forniscono informazioni completamente differenti sull’accaduto. L’unica certezza confortata dall’analisi dei tabulati telefonici è che – contrariamente alla versione inizialmente fornita dalla Compagnia, di un Comandante testardamente autonomo e “a briglia sciolta” – quella sera furono oltre cento le telefonate tra Schettino, Ferrarini e De Falco.

Occorre dire che l’origine di questa tragedia, ovvero l’impatto tra la nave Costa Concordia con degli scogli, è un evento a bassa probabilità ma ad altissimo impatto. Banale dirlo a posteriori, la risposta preventiva della compagnia a un evento probabilistico negativo come quello poi accaduto all’Isola del Giglio avrebbe dovuto essere quella della “preparazione”, ovvero del training e delle costanti e continue simulazioni di scenario da parte del Comandante, di tutto l’equipaggio e del personale a terra.
Alla base di questa tragedia non c’è solo un errore umano da parte del Comandante – evento statisticamente inevitabile – ma anche probabilmente un non ottimale set-up preventivo, forse – anche in presenza di consulenti di prim’ordine – a causa di una sottostima del rischio da parte dell’imprenditore, che non ha saputo attribuire la giusta importanza a questo genere di strumenti, propri del Crisis Management.
L’eventuale perfetta preparazione del personale di terra della Costa, addetto a coordinare l’emergenza, non attenua le eventuali responsabilità della compagnia in ordine allo scarso coordinamento “terra-nave”, dal momento che quest’ultimo flusso di lavoro e di comunicazione dovrebbe essere considerato parte integrante di una strategia di prevenzione e gestione della crisi.
Ma anche volendo evitare facili attribuzioni di responsabilità, soprattutto in assenza d’informazioni certe sul training preventivo interno programmato dalla compagnia e di verifiche accurate su quello poi realmente effettuato, dal momento che le due cose spesso non coincidono, che qualcosa non abbia funzionato alla perfezione è sotto gli occhi del mondo intero, a partire da una mancanza di ascolto dei segnali deboli, quali ad esempio l’approfondimento della pratica degli “inchini”, prassi pericolosa e non adeguatamente monitorata – se non tollerata o apertamente promossa, a detta di alcuni commentatori – da parte di Costa Crociere.
Inoltre, l’organizzazione ha dimostrato di non essere in possesso degli strumenti adeguati per evitare questo tipo di sciagure, quali ad esempio un sistema per mappatura gli scostamenti delle navi dalla rotta prevista, come ammesso direttamente dal presidente e AD Pier Luigi Foschi nel corso della conferenza stampa del 16 gennaio: “Noi non siamo in grado di valutare con esattezza né gli orari né la rotta che la nave ha tenuto nel momento precedente all’impatto con gli scogli” (9). Lo stesso Foschi afferma pochi giorni dopo, il 20 gennaio, in un’intervista al Corriere della Sera, che tra le lezioni da imparare occorre fare in modo di “…replicare a terra il sistema di suoni e segnali che vengono emessi sulla nave quando essa esce dalla rotta per poter conoscere in anticipo tali spostamenti”, confermando quindi la relativa impreparazione tecnica della compagnia in termini di risk management (10).
Oltre a quanto sopra illustrato – e riconoscendo comunque alla compagnia un’assoluta tempestività nell’attivazione delle procedure di comunicazione di crisi, in quanto i comunicati stampa sono stati frequenti ed esaustivi – proviamo qui di seguito ad approfondire alcuni temi cruciali al centro della vicenda:

  1. il primo argomento degno della massima attenzione è senza dubbio quella relativo alla pratica degli “inchini”, termine che è diventato un autentico tormentone mediatico in queste settimane. La prassi di navigare nei pressi delle isole più belle del Mediterraneo seguendo rotte turistiche è ovviamente un’attività nota e legale, diverso invece è se i Comandanti di queste vere e proprie città galleggianti decidono in autonomia di passare troppo vicino alle coste, uscendo dalle cosiddette “acque sicure”. Ancor più grave sarebbe se la compagnia crocieristica promuovesse o addirittura favorisse questi comportamenti potenzialmente pericolosi. In entrambi questi ultimi due casi, la compagnia è responsabile delle conseguenze che tali azioni possono comportare, con imputazioni variabili dalla colpa grave al dolo. La questione che dovrà quindi essere chiarita – innanzitutto dalla Magistratura – è fino a che punto Costa Crociere era al corrente – e/o favoriva – queste prassi. A riguardo, Pier Luigi Foschi afferma che gli inchini vengono effettuati “solo in sicurezza”, non troppo vicino alla costa, e che comunque sono i comandanti a decidere a riguardo. Per il caso specifico, egli afferma che “il comandante Schettino ha preso un’iniziativa di sua volontà che è contraria alle nostre regole di comportamento. [L’azienda intende] dissociarsi da questa condotta che ha causato un incidente facendo deviare la nave dalla sua rotta ideale. La rotta era stata impostata correttamente dalla partenza di Civitavecchia, il fatto che sia uscita da questa rotta è dovuto soltanto ad una manovra non approvata, né autorizzata né che la Costa Crociere era a conoscenza dal comando nave” (11). Questa discussione non afferisce solo un aspetto meramente tecnico e relativo alla sicurezza della navigazione in mare, ma al contrario chiama in causa anche in questo caso il grado di autenticità e di coerenza della comunicazione pubblica della compagnia, la quale ha eretto una specie di “linea del Piave” sul punto, prima negando in modo tassativo di essere al corrente della pratica degli inchini, poi in un secondo momento ammettendo di esserne a conoscenza ma di tollerarli “solo in condizioni di sicurezza”. Il Comandante Francesco Schettino peraltro afferma al riguardo che “la manovra del Giglio era stata pianificata alla partenza, anche perché avremmo già dovuto farla la settimana prima, ma non fu possibile perché era cattivo tempo. Mi dissero: perché facciamo navigazione turistica, ci facciamo vedere, facciamo pubblicità e salutiamo l’isola” (12);
  2. in stretta relazione con quanto esposto al punto precedente, è interessante richiamare il post apparso – poi improvvidamente rimosso, e poi infine ripubblicato dopo le proteste del popolo del web – nel blog aziendale Costa Crociere datato 26 settembre 2010, dove invece si afferma che “la Costa Concordia […] ha omaggiato con il suo saluto e con la sua breve sosta nella rada della Corricella, l’isola di Procida, tutto ciò grazie al Comandante Francesco Schettino, di Meta di Sorrento…” (13). Se quindi la condivisione della pratica degli “inchini” da parte della compagnia dovesse essere appurata, come pare, e provata anche in giudizio al di la di ogni ragionevole dubbio, le conseguenze per la credibilità della Costa Crociere sarebbero assai gravi. A margine di ciò, resta un mistero come una Crisis Room possa autorizzare la rimozione di un post a crisi aperta, incrinando ulteriormente la fiducia degli stakeholder nella compagnia, già in parte compromessa, né il fatto che la rimozione del post sia stata disposta da elementi esterni alla Crisis Room varrebbe da attenuante, dal momento che ancor più in questo caso si evidenzierebbe un non ottimale controllo dello scenario interno da parte degli esperti chiamati a presidiare la crisi;
  3. un’altra questione da chiarire è il ruolo di Roberto Ferrarini – Direttore delle operazioni marittime di Costa Crociere – nelle scelte compiute dal comandante Schettino nelle concitate ore che hanno seguito l’urto con gli scogli. Da un lato Pier Luigi Foschi lamenta che il comandante “non è stato sincero” con la compagnia e che ha tardato a dare informazioni utili a Ferrarini, nascondendo troppo a lungo la gravità della situazione, che è emersa definitivamente solo al segnale ufficiale di abbandono della nave, dall’altro lato Schettino afferma che Ferrarini monitorò costantemente, concordò e condivise tutte le scelte che seguirono il naufragio. La questione risulta essere fondamentale per la Magistratura, perché se la versione del Comandante dovesse essere confermata allora anche la compagnia risulterebbe direttamente colpevole – oltre che già comunque in parte responsabile, come abbiamo argomentato – del ritardo con cui è stato lanciato l’allarme, ritardo che avrebbe contribuito in modo significativo alle difficoltà nell’evacuazione poiché avvenuta quando la nave si stava già significativamente inclinando. Sotto il profilo della Comunicazione di Crisi, si tratterebbe inoltre di una grave menzogna, con serissime e definitive ripercussioni sul margine di residua credibilità di Costa Crociere, ma è appena utile ricordare che già allo stato la compagnia non ne esce affatto bene, neanche in caso di conferma della propria estraneità ai ritardi nella dichiarazione dello stato di emergenza: come illustrato in una nota stampa redatta da me e dal collega Giempietro Vecchiato poche ore dopo la tragedia e pubblicata su Affari Italiani a 72 ore dal disastro (14), la figura del Comandante non è in alcun modo scindibile da quella della compagnia, in quanto esso è il massimo rappresentante della compagnia stessa in mare, ed ogni tentativo quindi di “separare” le responsabilità dell’una e dell’altro è sì del tutto comprensibile dal punto di vista della strategia giudiziaria, ma è totalmente e irrimediabilmente pregiudizievole in termini di autenticità nella comunicazione verso gli stakeholder. Questa nostra presa di posizione ha trovato conforto alcuni giorni dopo anche nelle ben più autorevoli dichiarazioni del Procuratore Generale della Toscana Dott. Beniamino Deidda, il quale ha affermato: “Il datore di lavoro è garante e responsabile. […] Per ora l’attenzione generale si è concentrata sulle colpe del Comandante, che si è rivelato tragicamente inadeguato; ma chi lo sceglie il comandante? Occorre spingere lo sguardo sulle scelte fatte a monte dal datore di lavoro, e cioè dall’armatore” (15);
  4. infine, la vicenda della scatola nera (“Voice Data Recorder”): come ho detto, pare che – nonostante le tecnologie odierne certamente lo permetterebbero – non esista un sistema di “back-up” in tempo reale a terra delle registrazioni effettuate sulla nave durante la navigazione, ma soprattutto Schettino riferisce agli inquirenti che “a bordo avevamo il problema che da 15 giorni si era rotto il back-up del sistema Voice Data Recorder e avevamo fatto richiesta all’ispettore di aggiustarlo, ma non era successo” (16). Secondo questa ricostruzione, con il recupero della black-box sarà possibile ricostruire i movimenti della nave ma non le comunicazioni avvenute nella plancia di comando, anche se Pier Luigi Foschi nel corso di un intervento al Senato afferma che la scatola nera non era guasta poiché il problema che lamentava Schettino era stato risolto prima della partenza da Civitavecchia. Anche sulla verifica di questi dettagli non secondari si giocherà parte dell’indice reputazionale della compagnia.

Ma a prescindere dall’esito di queste pur importanti verifiche, il “braccio di ferro” tra il Comandante della nave e la direzione della Costa Crociere sta incrinando ulteriormente la reputazione di entrambi i soggetti, già seriamente colpita: foss’anche Schettino completamente nel torto e per nulla genuino della Sua propria difesa, risulterebbe a maggior ragione indiscutibile la grave responsabilità di Costa Crociere nella selezione, formazione e controllo di una figura di vertice come quella di un Comandante di una nave da crociera con oltre 4.000 passeggeri a bordo. Schettino infatti lavorava da quasi sette anni per Costa Crociere: le Sue lacune sono quelle della compagnia che aveva l’obbligo di monitorarne periodicamente l’attitudine al comando.
Il Procuratore Deidda chiama in causa l’organizzazione anche per quel che riguarda l’organizzazione della sicurezza e le problematiche incontrate nel corso dell’evacuazione della nave: “Scialuppe che non scendono, personale che non sa cosa fare, scarsa preparazione a gestire l’emergenza, ordini maldestri come quello assurdo di tornare nelle cabine. La confusione che c’è stata rivela un’incredibile trascuratezza nell’applicazione delle norme di sicurezza. Invece questo settore va organizzato prima con esercitazioni e simulazioni, e l’emergenza gestita dopo” (17).
Pur tuttavia, il focus di questo paper non è certamente sull’efficienza delle procedure di sgombero della Concordia, vera e propria città galleggiante, non certamente semplici, né sull’impegno personale indubbiamente profuso da buona parte dell’equipaggio, ancorchè forse non impeccabilmente preparato, bensì sulla discrasia esistente tra “verità dei fatti” – riportati da Deidda e soprattutto da non pochi passeggeri intervistati e “comunicazione dei fatti” a cura della Costa Crociere: tanto più i due piani si allontanano, tanto più vi è un problema di autenticità nella comunicazione, perchè – come autorevolmente ricordato in più occasioni da Luigi Norsa, “decano” della Comunicazione di crisi in Italia – “l’organizzazione deve sempre comunicare con trasparenza e sincerità”.
Ci sono altri aspetti non marginali da esaminare, sempre nell’ambito del Crisis management. Nelle prime 24 ore, le più importanti in una gestione di crisi, l’organizzazione non è riuscita a dirigere la gestione e la comunicazione di crisi entro dei binari ad essa stessa favorevoli. Il management di Costa Crociere non ha saputo prendere con immediatezza una posizione chiara sui fatti, ne è riuscito a centralizzare con efficacia il flusso delle informazioni, lasciando così che “molte versioni differenti dei fatti” emergessero all’attenzione dell’opinione pubblica prima che l’azienda prendesse di volta in volta una posizione ufficiale al riguardo. Anche nei giorni immediatamente seguenti, l’organizzazione non è sembrata in grado di rilasciare risposte univoche, che il pubblico peraltro richiedeva a gran voce, nascondendosi troppo spesso dietro frasi del tipo “c’è un’indagine della magistratura in corso”. Costa ha manifestato timore a rispondere “in diretta”, e in un certo qual modo ha perso la chance preziosa di essere ascoltata e di diventare il punto di riferimento unico e autorevole per le comunicazioni sulla tragedia. L’azienda è sembrata costretta a “rincorrere le notizie” e gli sviluppi della situazione, e si è trovata a dover “rettificare notizie”, piuttosto che a darle in prima persona.
Com’è noto, quando scoppia una crisi, tutti gli interlocutori esterni all’azienda parlano senza alcun controllo, e riempiono il vuoto conoscitivo con le più disparate notizie su quanto è avvenuto, a volte prive di genuinità, e come ha detto Gianluca Comin “…agli errori delle prime 24 ore non si ripara, al massimo si riduce l’impatto negativo” (18). In questo senso, Costa Crociere ha fatto un errore simile a quello del comandante Schettino, che ha ordinato l’evacuazione quando la nave era già inclinata: l’organizzazione ha perso tempo prezioso con una comunicazione inizialmente non del tutto coordinata, e ha poi faticato non poco per ristabilire i giusti toni e i giusti flussi comunicativi. La compagnia ha avuto in una certa misura paura di esporsi, lasciando ad altri il privilegio di saziare la fame di notizie che una situazione di crisi crea sempre nel pubblico. In questo modo, ha perso un’occasione preziosa per fare di un’emergenza grave l’opportunità di dimostrare la propria eccellenza nel settore: l’enorme risonanza internazionale dell’evento poteva essere – se correttamente governata – un’occasione per dimostrare quanto l’organizzazione fosse all’avanguardia nella gestione delle procedure di sicurezza e della comunicazione di crisi. Così certamente non è stato.
Non può inoltre essere trascurato nella fase di prevenzione di scenario il fatto che in situazioni di tale sovraesposizione mediatica ci sono sempre elementi pronti a cercare di avvantaggiarsi delle circostanze, come conferma la vicenda delle accuse per i presunti “clandestini” a bordo (19), poi smentita, o della proposta avanzata dalla compagnia ad alcuni dei passeggeri naufragati all’Isola del Giglio, i quali avrebbero ricevuto uno sconto del 30% sulla prossima crociera che desiderassero effettuare con Costa Crociere, notizia anche questa rivelatasi poi priva di fondamento. Pur tuttavia – ed è un altro indicatore di scarsa capacità di gestione dei flussi informativi – la compagnia si è fatta percepire come “impreparata” a monitorare i buzz del web, al punto che ad esempio in relazione a quest’ultima accusa ha risposto sul proprio blog solo 3 giorni dopo la messa in circolazione delle prime accuse (20).
Un altro aspetto importante nel crisis management e nella crisis communication è la capacità dell’organizzazione di assumere impegni chiari e di mantenerli, rendicontando a stretto giro ai propri stakeholder. Nel corso della conferenza stampa del 16 gennaio, l’AD Foschi aveva chiaramente espresso quali fossero le tre principali preoccupazioni dell’organizzazione: assistere gli ospiti, tutelare l’ambiente, rimuovere il relitto. A tre settimane dalla tragedia, Costa invece non è stata ancora in grado di dare certezze tali da permettere di scongiurare la minaccia ambientale, e neppure di ritrovare tutti i dispersi, mentre la sua nave giace ancora riversa accanto all’Isola del Giglio. L’organizzazione non ha quindi potuto sfruttare la forte copertura mediatica di questo periodo per promuovere perlomeno l’avvio della “fase recovery”, ovvero quella di recupero dalla crisi, che appare nel tempo ancora lontana.
Come ho segnalato in apertura di quest’articolo di approfondimento, allo scoppio della crisi Costa Crociere ha comunicato velocemente attraverso i propri canali: la prima nota ufficiale di Costa Crociere é dell´una e dieci di notte, sicuramente tempestiva. Sono seguiti altri comunicati: alle 05.23, 15.21 e 18.18 del 14 gennaio, il 15 gennaio alle 20.33 e infine la conferenza stampa del 16 mattina. Inoltre, nel corso della stessa notte della tragedia, la compagnia ha aggiornato due volte la propria pagina Facebook, alle ore 01.22 e alle ore 5.34.
In seguito però – e fino ad oggi – l’azienda ha commesso l’errore di standardizzare tutte le comunicazioni – comunicati stampa trasmessi a mezzo email, sito, blog, pagina Facebook – ripetendo su ogni piattaforma gli stessi identici messaggi. In questo modo ha perso un’altra interessante possibilità: quella di poter sfruttare le caratteristiche di ogni strumento di comunicazione, rinunciando a creare un “coro melodico” e preferendo invece un “monotono assolo”. Se da un lato si può capire l’iniziale timore nel diversificare la comunicazione, esponendosi al rischio di qualche sbavatura, dall’altro non si capisce perché ancora oggi – a due settimane dalle tragedia – nulla al riguardo sia cambiato: un utilizzo più opportuno e consono della pluralità di mass-media a disposizione avrebbe permesso di creare un legame diretto e più “caldo” con il pubblico, circostanza che risulta ancora più evidente se consideriamo le migliaia di commenti scritti sulla pagina Facebook di Costa Crociere, molti dei quali sono di sostegno e “affetto” nei confronti dell’organizzazione, risorsa questa in buona parte inutilizzata dalla compagnia e che avrebbe invece potuto costituire un effetto rebound positivo ancora maggiore.
Altra mancanza evidente, l’assenza di uno spazio web espressamente dedicato alla tragedia, sicuramente essenziale per un’organizzazione delle dimensioni di Costa Crociere, che avrebbe permesso di separare da un punto di vista comunicativo la gestione di crisi dalla normale attività della compagnia, che è comunque giustamente proseguita in questi giorni con altre navi in mare. Costa Crociere ha invece preferito inserire una semplice “finestra” sul proprio sito istituzionale, per reindirizzare gli utenti alle informazioni sulla tragedia: informazioni per altro molto scarse, quelle pubblicate on-line, che ad oggi si limitano ai video della conferenza del 16 gennaio e all’elenco dei comunicati emessi dal giorno del naufragio, senza alcuna possibilità di interagire con la compagnia se non attraverso un recapito telefonico. La possibilità di usufruire di un sito dedicato – preferibilmente “listando a lutto” quello istituzionale della compagnia, sarebbe stata ancor più utile alla luce del fatto che quest’ultimo è andato in tilt per più di 24 ore, ad ulteriore dimostrazione della scarsa programmazione preventiva e dell’assenza di “stress-test” effettuati sui server della compagnia, costringendo gli utenti interessati a visitare il blog o la pagina Facebook, o – peggio – a cercare altre fonti di informazione, contribuendo a far perdere all’organizzazione la possibilità di mantenere la propria autorevolezza di fonte principale per i release delle comunicazioni. L’esperto di strategie web Stefano Ferranti ci conferma che il default del sito sarebbe stato evitabile mediante un accurato progetto di prevenzione basato sulla gestione attenta dei “DNS” (Domain Name Server) e sulla predisposizione di una serie di server alternativi e gemelli sui quali ridistribuire gli elevati carichi di chiamate che in situazioni di crisi pervengono al sito web dell’azienda, interrogandolo e sovraccaricandolo. Questi accorgimenti sono tra i “basic” del Crisis management.
Come ha ricordato la collega Mariella Governo in un suo recente post sul sito internet Ferpi.it, un ulteriore grave errore dal punto di vista della comunicazione di crisi è stata anche la quasi totale mancanza di visibilità dei top-manager di Costa Crociere all’Isola del Giglio: in una situazione di crisi e di rischio, la presenza “fisica” del responsabile dell’organizzazione nel luogo della tragedia comunica – anche senza bisogno di troppe parole – l’interessamento concreto da parte dell’azienda. L’immagine dell’AD Foschi avrebbe dovuto sostituire nell’immaginario collettivo quella della nave riversa sul fianco: invece il presidente di Costa si è fatto vedere molto poco, limitandosi a dichiarazioni non esaustive (21), dichiarazioni che rivelano peraltro come la gestione della crisi sia rapidamente caduta in mano agli esperti legali, che spesso sono ben poco formati sulla gestione reputazionale delle organizzazioni, a tutto discapito dei comunicatori, circostanza che appare confermata anche dal tono di altre dichiarazioni dei vertici dell’organizzazione, come “Ci siamo costituiti parte offesa” (22) o ancora “In questo momento l’azienda è parte lesa” (23). Singolarissima poi a tal proposito la decisione – probabilmente suggerita proprio dai legali – di non ricevere una giornalista della BBC (24). La notizia della scelta di estromettere gli esperti di comunicazione dal Crisis team è comunque immediatamente “decollata” sul web in una chiave di lettura negativa (25), generando ulteriori dubbi e timori, ed è apparsa comunque – ad di là delle valutazioni di merito – come un’ulteriore conferma di una gestione per certi versi “schizofrenica” della crisi stessa, e quindi, inevitabilmente, di una preparazione preventiva non del tutto adeguata alla gravità dell’accaduto. È curioso peraltro leggere tra i commenti della pagina Facebook di Costa Crociere di come siano stati addirittura gli stessi clienti più affezionati della compagnia a chiedere all’organizzazione una comunicazione più efficace: “Anche a me dispiace sentire affermazioni infamanti sul vostro conto. Voglio sentire anche la vostra voce!” (26).
In conclusione, è troppo presto per dire quali possano essere le conseguenze a medio-lungo termine di una tragedia dalle proporzioni così significative, e se Costa Crociere rientrerà in quelle che la ricercatrice inglese Deborah Pretty, della Oxford University, definisce “aziende recoverers”, ovvero quelle organizzazioni che nel breve termine – segnatamente i primi cinque giorni – perdono circa l’8% del loro valore azionario, nel medio termine – circa 30-50 giorni dopo l’evento – riescono a recuperare la quota che avevano precedentemente, e nel lungo termine migliorano addirittura le proprie performance, cosa che certamente auguro ai vertici della compagnia e agli azionisti. In realtà, la vera spada di Damocle che ora pende sulla compagnia è quella del disastro ambientale, in grado di generare ulteriori ingenti richieste danni e recare un grave pregiudizio alla business continuity dell’organizzazione, con effetti ulteriormente pregiudizievoli anche dal punto di vista mass-mediatico.
Quello che è certo, è che questa disgrazia impone un serio ripensamento alle procedure di sicurezza e di gestione delle emergenze di tutta l’industria crocieristica nazionale, e forse non solo, che dovrà rafforzare i controlli e rivedere i propri standard di sicurezza e di formazione e verifica del personale di comando. Sicuramente il naufragio della Costa Concordia ha ricordato a tutti come il trasporto di persone resta un’attività con dei rischi ad altissimo impatto, e come la possibilità di un errore umano resti una variabile difficilmente controllabile e che non dovrebbe mai essere sottostimata. Anche la componente emotiva del panico durante la gestione di una crisi riguardante in contemporanea un così alto numero di persone e un così elevato numero di fattori – emotività mai elidibile completamente – è un elemento che occorrerà ripesare, alla luce di quanto avvenuto.
Il mio desiderio – al di la delle inevitabili discussioni tra colleghi su “cosa si sarebbe potuto fare di più e meglio”, sempre fin troppo facili a posteriori – è solo quello di dare un contributo alla riflessione generale, nella speranza che tragedie come questa non si verifichino mai più.
Le ultime parole di questo articolo vanno quindi da parte mia alla memoria di coloro che sono deceduti in questo incidente, con il rispetto dovuto all’immenso dolore dei loro familiari, compagni ed amici.

Per un’ulteriore analisi sul caso Costa Crociere a firma del collega ed esperto di Crisis Management Patrick Trancu, visita il suo blog.

NOTE:

(1) Giornalista, consulente in strategie di comunicazione, socio Professionista FERPI, e co-autore – tra le altre pubblicazioni – del volume “Crisis Management: la guida del Sole 24 Ore alla Comunicazione di Crisi”, Ed. Il Sole 24 Ore, gennaio 2011 – pagina Facebook: http://www.facebook.com/pages/Crisis-Management-la-guida-del-Sole-24-Ore/168748776564072 (si ringrazia Enrico Finucci per l’indispensabile e qualificata collaborazione alla stesura di questo paper) 

2() http://blog.panorama.it/italia/2012/01/17/costa-concordia-abbiamo-gestito-un-branco-di-pecoroni-allo-sbaraglio-il-commento-di-un-membro-dello-staff/
 

(3) http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2012/01/16/AP2WZ5gB-naufragio_della_spiegazioni.shtml
(4) http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2012/01/22/APjhecjB-giallo_schettino_piazza.shtml(5) le notizie riportate nella cronologia dell’articolo non possono ancora contare su conferme definitive, in quanto non sono ancora state rese pubbliche le trascrizioni della “scatola nera” ne risultano disponibili registrazioni complete di tutte le telefonate intercorse tra i protagonisti della vicenda, e sono quindi da ritenersi parziali e in alcuni casi da confermare.
(6) http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2012/01/18/pop_tragedia.shtml
(7) durante la telefonata Ferrarini dice: “potrebbe esserci qualche danno, c’è da capire come si può riparare” http://www.liberoquotidiano.it/news/914394/La-Costa-Crociere-ora-spieghi-gli-inchini-il-caos-e-le-telefonate-.html
(8) http://www.corriere.it/cronache/12_gennaio_16/procuratore-grosseto-schettino-fermato-perche-poteva-fuggire_76f76cec-4029-11e1-a5d2-75a8a88b1277.shtml
(9) http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2012/01/16/AP2WZ5gB-naufragio_della_spiegazioni.shtml
(10) http://www.corriere.it/cronache/12_gennaio_20/comandanti-troppi-poteri-bucci_a3d13dae-4332-11e1-8047-0b06b4bf3f34.shtml
(11) http://www.youtube.com/watch?v=nGGuMuohoqA&feature=youtu.be
(12) http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2012/01/23/news/concordia_la_versione_di_schettino-28610754/
(13) Il post continua così: “Una grande emozione non solo per i procidani ma anche per i numerosi turisti presenti che hanno accolto la grande e possente nave con applausi, striscioni, musica trombette e vuvuzelas, a bordo di motoscafi, pescherecci, natanti di ogni genere. […] Sicuramente una gioia ed una novità per tutti, anche per gli ospiti della Costa Concordia pronti sui ponti esterni con macchine fotografiche e telecamere ad immortalare quel momento unico, ed a festeggiare e salutare con bandiere e fazzoletti”, http://blog.costacrociere.it/post/Costa-Concordia-festeggiata-davanti-a-Procida.aspx
(14) http://affaritaliani.libero.it/cronache/costa-crociere-crisis170112.html
(15) http://www.liberoquotidiano.it/news/917120/La-Procura-accusa-la-Costa-Trovata-sedicesima-vittima.html
(16) http://www.corriere.it/cronache/12_gennaio_22/sarzanini-verbali-schettino_3bcfca5a-44cb-11e1-b12c-223272f476c4.shtml
(17) http://www.tg1.rai.it/dl/tg1/2010/articoli/ContentItem-c55f1ce5-b0a2-4821-93b0-5bb744811913.html
(18) http://www.ferpi.it/ferpi/novita/sala_stampa/show_rassegna/costa-crociere-in-crisi-mediatica/show_rassegna/43827
 
(19) http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/europe/italy/9030212/Costa-Concordia-insulting-cruise-offer-to-survivors.html La mattina di domenica 22 gennaio arriva la notizia di una ragazza ungherese di cui si sono perse le tracce, ma il suo nome non è però presente nell’elenco dei dispersi: subito scatta lo scoop giornalistico (http://www.corriere.it/cronache/12_gennaio_23/ospti-fantasma-imarisio_e3efaa62-4592-11e1-9389-b1111b488a17.shtml). La notizia viene però creduta veritiera, e spinge Franco Gabrielli, capo della Protezione Civile, a parlare di “dispersi ufficiali”, sottolineando come esista la possibilità che i “dispersi totali” possano essere in numero maggiore rispetto a quanto comunicato dalla compagnia. Solo 36 ore dopo arriva la smentita: si è trattato di una notizia priva di fondamento
http://www.ilgiornaledellaprotezionecivile.it/index.html?pg=1&idart=4947&idcat=3)
(20) “In merito alle notizie riportate su sconti e offerte promozionali, Costa Crociere ritiene di dover precisare quanto segue: non è mai stato offerto dall’azienda nessuno sconto per future crociere agli Ospiti a bordo di Costa Concordia sulla crociera del 13 gennaio e coinvolti nel tragico incidente. L’informazione lanciata da un giornale, e riportata da diversi organi di informazione, è totalmente infondata come confermatoci dallo stesso passeggero inglese che è stato citato dalla testata. […] Costa Crociere è incredula di fronte alle infamanti affermazioni che, senza verifica e senza fondamento, vengono diffuse sul suo conto” (http://blog.costacrociere.it/post/Comunicazione-Importante-Precisazione-su-sconti-e-offerte-promozionali.aspx)
(21) “Essendoci un’indagine della magistratura in corso, non possiamo rilasciare informazioni. Continueremo a collaborare con la magistratura”
(
http://www.ilmessaggero.it/articolo_app.php?id=44477&sez=HOME_INITALIA&npl&desc_sez
(22) http://www.corriere.it/cronache/12_gennaio_20/comandanti-troppi-poteri-bucci_a3d13dae-4332-11e1-8047-0b06b4bf3f34.shtml
(23) frase pronunciata dall’AD Foschi durante la conferenza stampa tenutasi nella mattinata del 16 febbraio
(24) Luisa Baldini, corrispondente dalla BBC, scrive: “CEO of Costa, Foschi, pulls out of interview I was supposed to do on behalf of English speaking broadcasters, on the advice of lawyers”
(25) http://patricktrancu.wordpress.com/2012/01/22/crisismanagement-costa-concordia-i-legali-prendono-il-comando-della-comunicazione/
(26) http://it-it.facebook.com/CostaCrociere
 



CSR e management aziendale: l’organigramma per stakeholder

Per un’organizzazione non solo gli stakeholder rivestono un ruolo fondamentale ma anche gli “stakeholder degli stakeholder”. In quest’ottica è possibile creare un organigramma all’interno del quale inserire tutte le funzioni aziendali in ragione dei tipi di stakeholder con i quali maggiormente dialogano. Luca Poma propone un ulteriore passo avanti nella contaminazione tra saperi.
In particolare negli ultimi cinque anni, con il mio team abbiamo investito una parte non trascurabile del nostro tempo tentando di dare un contributo per certi versi originale alla ricerca sul tema della Comunicazione di Crisi ma soprattutto della Responsabilità Sociale d’Impresa (1), settore quest’ultimo troppo spesso erroneamente classificato come semplice branca delle RP e della comunicazione o peggio ancora del marketing.
Il risultato di queste ricerche e sperimentazioni è stato rendicontato in una ventina di articoli e saggi, pubblicati in anteprima su questa stessa piattaforma internet, e che intendo quanto prima sottoporre a una revisione sistematica affinchè possano costituire la base di una pubblicazione editoriale più organica. Ovviamente abbiamo innanzitutto applicato le nostre idee al lavoro di tutti i giorni, grazie alla disponibilità ed allo spirito d’innovazione proprio di alcune aziende nostre Clienti. In estrema sintesi, i risultati sono stati i seguenti:

  • definitiva fuoriuscita della CSR dalla sua dimensione di “charity” e filantropica;
  • l’inserimento degli “stakeholder degli stakeholder” tra i nostri pubblici d’interesse, con una riflessione articolata sugli effetti creati dalle azioni del consulente sull’impresa e – a sua volta – dell’impresa verso tutti i suoi pubblici, ed ancora, di essi verso i loro pubblici, con una graduale estensione del concetto di “sostenibilità” del business ad una rete sociale molto più ampia di quella abitualmente fino ad oggi considerata;
  • il tentativo di applicazione del concetto di “rete neurale” – e dei relativi meccanismi di funzionamento – alla mappa degli stakeholder, come diretta conseguenza della riflessione di cui al punto precedente;
  • la “smaterializzazione” dell’azienda dalla mappa degli stakeholder: l’azienda diventa una “texture” di fondo che visivamente “include” tutti i suoi pubblici d’interesse, in un ideale – e, per quanto sostenibile, anche reale – sovrapposizione d’interessi;
  • l’inserimento della mappa su un grafico cartesiano a quadranti, con un indice numerico appositamente elaborato, certi come siamo della necessità di passare da un metodo di costruzione empirico ed approssimativo della mappa stessa ad un metodo il più possibile scientifico e verificabile (2). Il grafico cartesiano a quadranti misura il grado di “influenza” o meno dell’azienda verso ogni pubblico, e di ogni pubblico – e di gruppi di pubblici – verso l’azienda stessa. Questa fase ha incluso la predisposizione di una quindicina di checklist articolate, funzionali alla determinazione dell’esatta posizione di ogni stakeholder sulla mappa, nonché della sua rilevanza per l’azienda e dello stato di potenziale crisi nei rapporti con le organizzazioni rappresentate sul grafico;
  • l’avvio di un più stretto processo di stakeholder engagement, con la pubblicazione on-line del bilancio sociale già nella sua prima bozza, così da permettere ad ogni stakeholder di contribuire alla definizione della versione definitiva dello stesso;
  • la successiva strutturazione di un “cruscotto di indicatori” online, con la creazione del primo “bilancio sociale in tempo reale”: un salto in avanti in direzione di una totale disintermediazione tra l’azienda e i suoi pubblici, i quali possono consultare in diretta 365 giorni all’anno l’andamento di ogni indice di riferimento del bilancio sociale, dando contestualmente indicazioni migliorative e preziosi contributi alla definizione delle strategie aziendali;
  • ultimo ma non ultimo, l’inserimento automatico del Crisis Management in ogni mandato afferente alla CSR, dal momento che la gestione della crisi potenziale non può prescindere dalle strategie di valorizzazione del dialogo con gli stakeholder e viceversa.

Ora, nell’ambito di un mandato di lungo periodo, un’azienda Cliente ha manifestato l’esigenza di avviare un percorso di ridefinizione dei processi di Governance interna: l’impresa è quasi una “garage company”, nata nel magazzino sotto casa dall’intraprendenza di due coniugi, ed è cresciuta a dismisura negli ultimi 30 anni, sia per dipendenti che per fatturato, con il risultato che il “sogno” che sta alla base della mission aziendale sempre più difficilmente riesce a venir efficacemente trasferito dai fondatori e recepito adeguatamente dai quadri e dai collaboratori. Abbiamo coinvolto per assolvere a questo compito impegnativo Alberto Goffy, amico e professionista specializzato in riorganizzazione aziendale, successivamente coadiuvato anche da Federico Fioretto per la parte relativa alla miglior definizione delle griglie valoriali dell’impresa. Goffy ha elaborato un efficace organigramma a 8 divisioni, di tipo circolare, che permette di seguire passo per passo lo sviluppo di un nuovo prodotto, dalla sua ideazione all’industrializzazione all’acquisto da parte del Cliente finale. Ma ancora non eravamo soddisfatti: la CSR figurava ancora come una “funzione” essa stessa, ancorché importante e in staff alla Presidenza, e questo non rifletteva per nulla la nostra visione di quella che abbiamo ribattezzato Human Social Responsibility, che eleva la CSR a dimensione strategica ponendola come afferente al DNA stesso dell’azienda e permeandola quindi per intero.
Con Luca Yuri Toselli – il mio più stretto collaboratore – nel corso di una recente trasferta in centro America (le idee migliori come al solito emergono fuori contesto…) abbiamo allora immaginato un “organigramma per stakeholder”, all’interno del quale inserire tutte le funzioni aziendali in ragione dei tipi di stakeholder con i quali maggiormente dialogano: solo così – riflettevamo – sarà possibile comunicare realmente, all’intero come all’esterno, l’essenza di una “stakeholder company”, educando inoltre il capitale umano a mettere al centro della propria attenzione i pubblici d’interesse dell’azienda – senza la piena soddisfazione dei quali non esiste impresa – e non solo i prodotti e i servizi da essa erogati. Processo questo vieppiù essenziale dal momento che da molti manager la CSR viene ancora vissuta come “qualcosa di bello e socialmente utile che l’azienda fa collateralmente e marginalmente rispetto al proprio core-business”, confondendo sistematicamente e in modo vieppiù obsoleto una strategia di stakeholder engagement con qualcosa di “caritatevole”.
Pur tuttavia, l’organigramma “per prodotto” originariamente immaginato da Goffy presentava indubbiamente i suoi pregi. Con Stefano Ferranti, che si occupa a 360° di strategie web, abbiamo quindi ideato una tag-cloud (3) di stakeholder. Abbiamo poi identificato per ogni dipendente dell’azienda gli stakeholder di suo specifico riferimento, con i quali quotidianamente si relaziona, riportandoli accanto al suo nome sull’organigramma “per prodotto”. La tag-cloud ha preso quindi forma, con i nomi degli stakeholder più spesso ricorrenti che assumevano man mano maggior rilievo. Consultando l’organigramma per prodotto e cliccando su un qualunque stakeholder evidenziato di fianco a un dipendente, o cliccando lo stesso stakeholder sulla tag-cloud, l’organigramma per prodotto si converte immediatamente sotto gli occhi del fruitore in un organigramma per stakeholder, ridistribuendo automaticamente tutti i dipendenti all’interno di una certa categoria di stakeholder, e viceversa, grazie a un programma informatico che collega e incrocia i due data-base – quello dell’organigramma per prodotto e quello dell’organigramma per stakeholder.
Sarà tra l’altro interessante verificare in azienda quale delle due versioni verrà quotidianamente più consultata, con i dipendenti che diventeranno essi stessi inconsapevoli “termometri” della penetrazione reale del concetto di stakeholder company nella loro vita lavorativa di tutti i giorni.
Un altro piccolo passo verso l’integrazione di saperi, incrociando il management e la riorganizzazione aziendale con la responsabilità sociale d’impresa, svincolata da un ambito squisitamente filantropico.

(1) Le basi teoriche di quanto espongo in questo ed in altri precedenti articoli sono contenute nel saggio Nuovi strumenti per la CSR: dalla tradizionale mappa degli stakeholder alla rete neurale complessa, pubblicato nel 2008 su questa stessa rivista on-line
(2) Il metodo alla base della strutturazione di questa nuova mappa è stato oggetto della tesi di Master della SDA Bocconi Gestione dell’impresa sociale, non-profit e cooperativa (dicembre 2010) a firma della tesista Dott. sa Francesca Delpiano, che ha anche fattivamente contribuito – in staff con Luca Yuri Toselli – al perfezionamento del metodo stesso, e con l’occasione ringrazio entrambi.
(3) La “nuvola”, che racchiude – diversi per grandezza con riguardo all’importanza percepita – i nomi di una certa categoria di elementi, e li collega uno per uno a un contenuto ipertestuale.



La difficile chimica dell'emergenza

Un regista e tanti critici. Il naufragio di Costa Concordia e la gestione della crisi accende il dibattito sul web tra comunicatori.Come ha rivelato il Giornale, lo stratega dietro le quinte è Luigi Norsa. Laureato in chimica, al vertice di agenzie come Hill&Knowlton e Burson Marsteller, ha fondato nel 1999 una sua società di consulenza specializzata nella gestione e prevenzione delle emergenze. Da oltre 10 anni assiste Costa nelle situazioni difficili, come quando nel 2006 una ragazza irlandese cadde in acqua dalla Magica.
Sul sito di Ferpi, Norsa ha scritto sabato 28 gennaio: «Caro Luca, coraggio, capita anche ai migliori di perdere una collezione di cene e un’ottima occasione di tacere». Che cosa è successo? E chi è Luca? Luca Poma, coautore con Giampiero Vecchiato della Guida del Sole 24 Ore al crisis management, non ha risparmiato critiche. E il confronto ha assunto toni accesi nei post seguiti a un duro intervento di Mariella Governo.
Con allusioni e sciabolate inusitate. Da una parte i critici, che rivendicano il loro diritto di sottolineare gli errori. Dall’altra i «responsabili», guidati da Eva Iannotti (partner di Norsa), che se la prende con i «maghi del lunedì» e i «colleghi esperti di tutto». Il decano della categoria, Toni Muzi Falconi, consiglia cautela: «Non è tutto oro quel che luccica». Sullo sfondo, la vera questione: le aziende sono preparate ad affrontare le situazioni di crisi?




15 regole per un nuovo modello di business: CSR 2.0

Il marketing e la comunicazione unidirezionali stanno ridimensionando significativamente il proprio peso, a favore di discipline come la CSR e il web 2.0, che mostrano una dimensione strategica con una forte condivisione con gli utenti. Luca Poma presenta una nuova sfida per le Rp: 15 regole per impostare un nuovo modello di business, sempre più orientato alla Human Social Responsibility (HSR).

Mikkel H. SørensenNicolai Peitersen sono due giovani ricercatori danesi nel campo della CSR, esperti di Dynamic and self-organizing design processe e Biomimetic IT/Ambient Intelligence. Queste materie non diranno nulla all’asfittico ambiente nostrano delle relazioni pubbliche, ma dimostrano una volta di più quanto all’estero sia prassi comune la contaminazione interdisciplinare di saperi, più volte sollecitata anche in seno a Ferpi (1) da Toni Muzi Falconi (2) ed altri colleghi.

Sørensen e Peitersen nel loro paper CSR 2.0 (3) , che ho tradotto dall’inglese e al quale mi sono ispirato per questo mio articolo, scrivevano: 

“L’esercizio di una pressione senza precedenti da parte degli stakeholder, sospinta dalle nuove tecnologie web, rende necessario un nuovo approccio alla Corporate Social Responsibility (CSR). In particolare i consumatori sono oggi ben informati e consapevoli, abituati ad essere ascoltati, a formare comunità online quasi istantaneamente e ad avere un pubblico di milioni di persone sul web. Questo vi suona spaventoso oppure stimolante? Dipende se volete ostacolare il fenomeno o trarne vantaggio”.

Dopo anni caratterizzati da rassegnazione e torpore, sostenevano i due esperti, la CSR è tornata di attualità: ciò è ancor più vero nel corrente 2011 che ne 2007, data di pubblicazione dell’articolo dei due colleghi danesi.

Altri due ricercatori, David GraysonAdrian Hodges, già nel 2005 parlavano di CSO, ovvero Corporate Social Opportunity (4) . Allora pochissimi professionisti in Italia immaginavano una dimensione della CSRal di fuori di un ambito meramente filantropico : nella migliore delle ipotesi era intesa come uno strumento funzionale alle relazioni pubbliche di un’azienda, utile per garantire uscire sui mass-media e tutelare meglio l’indice reputazionale.

Oggi sono sempre più numerosi gli studi e gli articoli con una buona base bibliografica che indicano come la CSR – quando è elevata a livello strategico – permette di far convergere in modo sempre più stretto un rinnovato interesse per gli stakeholder con buone performance economiche per gli azionisti.

L’azienda: parte di una rete neurale complessa

Il Libro Verde della Commissione Europea definisce la Responsabilità Sociale d’Impresa come “l’integrazione su base volontaria, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali e ambientali nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”. Nel mio articolo La dimensione etica della vita d’impresa , citavo il Premio Nobel Milton Friedman, che negli anni ’80 dichiarò che l’unica azione “socialmente responsabile a carico di un’azienda sarebbe stata pagare le tasse”. Il tempo ha mutato profondamente questo concetto, e oggi la globalizzazione ha generato nuove preoccupazioni e aspettative nei consumatori, nelle comunità, nelle autorità pubbliche, negli investitori. Questo è vero per la grande multinazionale, come per il piccolo stabilimento: le aziende sono fortemente radicate e “connesse” con il territorio dove operano e con la società in generale, spesso molto più di quanto l’imprenditore stesso riesca a percepire. Come sia stato possibile per decenni considerare un’azienda, che è un organismo “vivo”, come totalmente avulsa dall’ambiente nel quale opera, resta un mistero. Questo agli azionisti può piacere o meno, ma ignorare questo fatto equivarrebbe a intestardirsi rifiutandosi di pagare gli stipendi ai dipendenti a fine mese “perché sono troppo esosi”.

Certo, prendere atto di ciò significa inevitabilmente assumersi responsabilità nuove, che in passato non erano proprie della normale vita aziendale. Ma – come sempre – le novità devono e possono essere “governate”, e da ciò che può apparire un nuovo problema possono nascere opportunità interessantissime.
Da una recente indagine promossa da un’agenzia internazionale di Relazioni pubbliche (6) , emerge che “i risultati aziendali non sono tutto”. Si sta sempre più velocemente sviluppando una sensibilità diversa verso le politiche aziendali da parte della cittadinanza, ed alle aziende non viene più solo chiesto di “macinare utili” o di far bene il proprio lavoro. I vertici aziendali sono chiamati in causa su tematiche quali la riduzione della povertà, l’impegno sociale ed ambientale, la qualità della vita. Ad esempio, il 77% degli italiani chiede alle aziende di “comunicare con maggiore trasparenza e onestà”, e di “contribuire all’incremento dell’economia locale” (7) . La domanda di un approccio “etico” alle questioni d’impresa è quindi sempre più evidente. Le aziende oggi devono fare i conti con un mercato veramente “globale” – non solo in senso geografico, com’è noto da decenni – bensì in quanto “parte della rete neuronale” della società in cui operano (8).

Non beneficenza, non (solo) comunicazione

La responsabilità sociale d’impresa si sta diffondendo a macchia d’olio, per alcuni un po’ come una “moda”, ma i rischi dell’adozione di queste pratiche al di fuori di una regia strategica sono evidenti:

  • certificazioni intese come mero adempimento burocratico, in grado di “fotografare” l’esistente mediante l’adempimento di requisiti puramente formali;
  • progetti di charity le cui risorse finanziarie non arrivano – o arrivano solo in parte – ai reali beneficiari finali;
  • azioni promozionali e di marketing finalizzate ad ottenere esclusivamente un ritorno di immagine sul breve termine;
  • operazioni cosiddette di “greenwashing” (“darsi una mano di verde”), con pericolosi rebound sugli organi di stampa;
  • propaganda negativa dannosa per la reputazione dell’azienda e del marchio sulle piattaforme web 2.0 (social network), da sempre molto sensibili all’autenticità e trasparenza delle proposte.

È molto più “semplice” approcciare questa materia in modo genuino, incidendo man mano sul DNA stesso dell’impresa: individuare tutti i tipi di pubblico con i quali l’azienda si rapporta – i Clienti, ma anche i fornitori, i dipendenti, i sindacati, le autorità politiche locali ed eventualmente nazionali, i concorrenti, il pubblico generico – ed elaborare una precisa strategia di comunicazione per migliorare la percezione che ognuno di questi pubblici ha dell’azienda. E questo processo – in ragione di quanto è teso a migliorare lo scenario generale nel quale l’azienda vive ed opera – è anche “etico” secondo la definizione che ne hanno dato sociologi e filosofi che si sono occupati di questa materia. Assolvere al proprio impegno in termini di social responsibility non significa pubblicare un bilancio sociale con un mero elenco di azioni di beneficienza, come abbiamo visto – purtroppo – anche sul sito di qualche nota multinazionale. Il tempo in cui bastava “fare del bene” e raccontarlo in qualche comunicato stampa prima di un elegante rinfresco per i giornalisti, è definitivamente tramontato: prima gli imprenditori se ne renderanno conto, prima includeranno nella propria catena del valore questi importanti assets immateriali. Le imprese sono parte di una rete complessa, che a livello planetario pone in relazione ognuno di noi con l’altro, ogni istituzione con un’altra istituzione, ogni azienda con le altre aziende, e tutti questi elementi organicamente tra loro. Solo la valorizzazione di questi rapporti – a partire ovviamente da quelli “di prossimità”, e in modo graduale e “sostenibile” per l’imprenditore stesso – può garantire un ritorno sull’investimento per gli azionisti veramente significativo e duraturo.

I vantaggi di questo approccio sono facilmente intuibili:

  • netto miglioramento del clima lavorativo interno;
  • ottimizzazione delle risorse e quindi dei profitti;
  • miglioramento misurabile dell’indice reputazionale dell’azienda;
  • migliore percezione delle brand da parte del pubblico, con induzione di comportamenti d’acquisto favorevoli;
  • creazione di community di marca;
  • controllo efficace delle relazione pubbliche ed istituzionali dell’azienda, con maggiore capacità di incidere sui processi della pubblica amministrazione, in modo trasparente ed etico;
  • minimizzazione dell’impatto ambientale e maggiore accettazione dell’azienda da parte di pubblici potenzialmente antagonisti o critici;
  • creazione di elementi fortemente distintivi rispetto alla concorrenza, a tutto vantaggio del marketing;
  • più spiccata capacità d’intercettare innovazione di prodotto e di processo;
  • ridistribuzione del valore aggiunto creato a tutti i pubblici di riferimento dell’azienda, azionisti in testa.

La CSR e il rapporto con il web 2.0

Le keywords dominanti di questo modello di business sono “autenticità” e “condivisione”, prima ancora che “green” e “sostenibilità”. Le aziende – su impulso sempre più forte della “base” di utenti finali, specie quelli a più alta alfabetizzazione informatica – comprendono che prima ancora che apparire “verdi” devono mostrarsi “coerenti” ai propri valori, quali che siano, e possibilmente condividerli con gli stakeholder fin dalla fase di formulazione e di codifica, perché se è vero che l’azienda non “ha” degli stakeholder ma “è” i propri stakeholder (9) , e che esiste una totale coincidenza d’interessi a lungo termine tra gli azionisti e i pubblici dell’azienda, la fase di co-management assume un ruolo assolutamente centrale.

Gli scandali che hanno investito diverse grandi multinazionali, i problemi ambientali connessi alla produzione e al consumo, e la rinnovata attenzione degli investitori sul “come” vengono impiegati i loro fondi, hanno posto al centro dell’attenzione la responsabilità socio-economica delle imprese.

Lo scenario è estremamente “fluido”, ed è appena utile evidenziare come il web sia lo strumento di comunicazione fluido per eccellenza: una vera e propria “chiave” per le strategie di CSR delle aziende.

Come sappiamo, la versione 2.0 (10) del web rappresenta il passaggio da “internet vetrina” – che nella sua versione 1.0 era mera descrizione di contenuti elaborati dall’azienda – al web inteso come momento di condivisione e di costruzione condivisa dei contenuti stessi. Con il web 2.0, termini come “intelligenza collettiva”, “condivisione di conoscenza” e “democrazia globalizzata” sono diventati di uso comune anche tra non addetti ai lavori.
La compartecipazione da parte dell’impresa con gli utenti finali del potere sui prodotti e sulle strategie ha portato le aziende in una dimensione del tutto nuova: come i politici, sempre più spesso chiamati in causa dagli elettori nel “rendere conto” di loro scelte e anche della loro vita privata, le aziende si sono scoperte apparentemente più deboli di prima, in preda al parere di blogger e “influenti” del mondo del web. Che sia stato il popolo di internet a reclamare con forza – ed ottenere – questo nuovo ruolo da protagonista o che siano state le aziende a concedere terreno esplorando nuove strategie di marketing, per vedersi poi sfuggire di mano la situazione, è pura analisi retorica.

Fatto sta che oggi sono sempre più frequenti le situazioni di co-protagonismo tra aziende, utenti finali e stakeholder in generale. Federico Minoli, amministratore delegato della storica marca di due ruoteDucati, ha dichiarato:

“Improvvisamente la domanda vera è: di chi è la marca? Noi siamo convinti che la marca sia dei Ducatisti” (12).

Un atteggiamento come questo ha conseguenze sull’innovazione e la produzione, come sullo sviluppo dei prodotti distribuiti su larga scala. Ma al di la di questo, quale azienda oggi avrebbe il coraggio di dire sul web“Sono fatti miei, non ho alcuna intenzione di rendicontare”, senza venire investita da un’ondata di polemiche del tutto pregiudiziali al proprio ranking reputazionale e di conseguenza alla propensione all’acquisto e infine alle vendite? Allora la CSR non è più un “optional”, un qualcosa che si può fare o non fare: ha a che fare con il DNA dell’azienda, ed è la “necessità” che spinge sempre più imprenditori a prendere in considerazione la teoria della stakeholder value come un imprescindibile indicazione di carattere strategico.

Già nel lontanissimo 1999 il Cluetrain Manifesto (14) diceva che “i mercati sono diventati conversazioni”, argomentando come il marketing a senso unico fosse stato sostituito da conversazioni bidirezionali e il branding strategico venga messo in crisi dalle persone: gli esseri umani – con le loro esigenze e sensibilità – si sostituiscono ai “clienti”. E, cosa nuova per le aziende, parlano tra loro e si coalizzano nella migliore delle ipotesi in “comunità di marca”, comunque in grado di influenzare il business dell’impresa, e nella peggiore delle ipotesi in movimenti ostili, con siti web (“attack site”) a volte più visibili e meglio recensiti dai motori di ricerca degli stessi siti web istituzionali delle aziende (15).

I quasi 800 milioni di utenti connessi alla piattaforma di Facebook ed il successo di realtà come Wikipedia, che è attualmente la fonte enciclopedica preferita di un’intera generazione, dimostrano indiscutibilmente che il futuro è nel sapere condiviso: le aziende che se ne faranno una ragione e impareranno a governare questi processi vinceranno la sfida dei mercati, quelle che rimarranno ancorate ad una cultura delle performance fine a se stesse pagheranno un prezzo significativo in termini di espansione.

E’ anche interessante notare come piattaforme “Wiki” a tema vengano impiegate in aziende come il colosso delle telecomunicazioni Nokia o del beverage Pepsi, per garantire una condivisione della conoscenza dinamica e coinvolgente. Mikkel Sørensen ci ricorda nel suo saggio che quando Microsoft arruolò un noto blogger per scrivere senza censure sui propri prodotti e creò uno show televisivo dedicato a svelare i “dietro le quinte” dell’importante multinazionale, l’azienda ha in parte riconquistato il favore dell’opinione pubblica americana, grazie al gradimento riservatole per aver “alzato un po’ il sipario” sui propri affari.

Non sono solo più i pubblici influenti, in grado di organizzarsi facendo uso di specifiche campagne di comunicazione, a condizionare le scelte aziendali: alle imprese è richiesto di “sintonizzarsi” al meglio sulle specifiche sensibilità di ogni stakeholder, mediante inchieste e sondaggi, sul web e non solo. “Per la prima volta – ha dichiarato Kevin Roberts, amministratore delegato di Saatchi & Saatchi (17) il consumatore è al comando, cosa fascinosamente terrificante, spaventosa, e terrorizzante, perché tutto quello che facevamo e tutto quello che sapevamo semplicemente non funzionerà più”.

I nuovi media sono così efficienti nello strutturare un dialogo, nel collegare periferie e nel gestire opinioni diverse, che gli utenti non dipendono più dall’omogeneità o dalla propria rappresentatività in termini di numeri per acquisire influenza, ed hanno inoltre maturato una nuova consapevolezza sociale ed etica. Fondamentalmente, ci ricorda Sørensen, gli utenti _“sanno che le loro scelte ora fanno parte dell’equazione complessiva” (18) . Un potere enorme, che chiama in gioco le aziende in un modo differente, mai visto prima: Apple, uno dei marchi più apprezzati e acclamati nel mondo, si è rapidamente messa alla ricerca di un Global Manager per la CSR non appena la blogosfera ha cominciato a tirare in ballo questioni relative alla forza lavoro cinese della multinazionale di Cupertino. Anche se Apple continua ad essere una “Guru-company”, dominata dalla personalità del defunto Steve Jobs, e condivida ancora poco delle sue strategie di medio-lungo periodo con gli stakeholder, una “mela verde” per lungo tempo ha campeggiato sulla home-page aziendale, e non fu certamente solo una scelta di carattere simbolico, specie dopo la campagna aggressiva di Greenpeace sul “rinverdire la mela”. Anche – ma non solo – in esito a questa case-history la rivistaForbes ha incluso fin dal 2005 i blog di lamentela e simili forme d’espressione di malcontento degli utenti tra i parametri significativi che influenzano l’opinione pubblica e le quotazioni azionarie dei marchi internazionali.

Sempre più aziende quindi stanno comprendendo le innovative potenzialità che offre la conoscenza delle opinioni dei loro pubblici più importanti. Non farlo sarebbe come insistere per vendere rolatine di maiale a un musulmano: per quanto di prima qualità e molto ben confezionate (marketing), non verrebbero prese in considerazione…

I pubblici influenti di un’azienda hanno un reale interesse circa come essa opera, per le più varie ragioni. Inoltre, l’interesse nel coinvolgerli nei processi decisionali dell’azienda potrebbe essere concreto: conoscenze su temi specifici nei quali l’azienda è coinvolta, oppure consapevolezza di violazioni degli standard aziendali in un dato stabilimento. Inoltre – lo conferma uno studio dell’Istituto Aspen – il 75% dei candidati di valore evita datori di lavoro privi di un chiaro profilo etico , e per quanto riguarda la produttività, la McKinsey stima un incremento fino al 10% nelle organizzazioni che riescono a far percepire con chiarezza i valori e gli obiettivi dell’azienda (20).

15 regole per un nuovo modello di business

Sørensen e Peitersen evidenziano quindi – di qui il termine da loro coniato CSR 2.0 – come le nuove tendenze della CSR e le nuove tendenze del web 2.0 convergano eccezionalmente. Riporto qui di seguito alcune loro suggestioni sui principi cardine che dovrebbero regolare questo nuovo modello di business nel XXI° secolo, alle quali ho aggiunto un eguale quantità di contenuti del tutto originali, frutto della mia personale esperienza, così da completare il quadro in un’ottica di sapere condiviso:

1) comunicare in modo non convenzionale

L’advertising tradizionale – come l’abbiamo inteso negli ultimi 40 anni – funziona ancora, ma i dati confermano che per le concessionarie di pubblicità sono finiti i tempi d’oro, che gli sconti aumentano per invogliare gli inserzionisti, e che i centri media “stentano”. A fronte di un investimento in televisione negli ultimi 5 anni costante rispetto al budget complessivo per la pubblicità – percentuale che va dal 54% del budget pubblicitario del gruppo FIAT al 96% del gruppo Perfetti – i 12 big-spender italiani hanno visto calare gradatamente – ed ormai pare inesorabilmente – il proprio ritorno in vendite (21) . La pubblicità televisiva è per definizione mono-direzionale e offre informazioni all’utente quasi sempre non richieste, e solo molto marginalmente di suo specifico interesse: questa – semplificando – è la ragione per la quale le percentuali di redemption sono in costante calo e la pubblicità massiva pare sempre meno efficace, meno coinvolgente, meno capace di persuadere. Nelle bellissime pagine del libro White Space (22) , doveArianna Brioschi ed Anna Uslenghi analizzano il mercato delle strategie di comunicazione non convenzionale, le autrici riportano dati di istituti di ricerca specializzati come Millward Brown che dimostrano che per mantenere gli stessi livelli di “ricordo” le aziende devono continuamente investire più risorse rispetto al periodo precedente. La parola d’ordine pare essere diventata “budget pubblicitari TV uguali all’anno scorso = minori risultati”, con il settore marketing che chiede all’amministrazione ogni anno risorse più significative, ed una pressione sempre più forte sui creativi per inventare spot più efficaci. Dove ci porterà tutto ciò? E – non disponendo di budget illimitati – quando collasserà il sistema? Più che di rivoluzione (collasso dei tessuti) parlerei però di riforma (rigenerazione dei tessuti): ascoltando le chiacchere nei coffee-break, a margine dei convegni di settore, è di tutta evidenza che, anche se non tutti se ne sono già accorti, siamo già dentro a quella che non esiterei a definire “la seconda guerra mondiale della comunicazione”. La creatività, l’innovazione, la ricerca di feedback efficaci da nuovi media, su nuovi canali, sta ridisegnando i confini dell’advertising: chi si ostina a puntare solo sulla “quantità di spazi occupati” è condannato a restare nell’ancienne regime della comunicazione, come i vecchi parrucconi di fine ‘700 che – mentre già il boia oliava la mannaia – sprecavano il poco fiato che gli rimaneva per cercare di convincere il popolo che nulla doveva cambiare e che il loro rassicurante modello era l’unico possibile e percorribile. Questi sono gli agenti delle principali concessionarie di pubblicità della TV e della carta stampata… Chi invece ha il coraggio di scommettere su nuovi percorsi, di inaugurare nuove strade, di percepire i segnali deboli dei trend innovativi, è destinato ad accumulare in questi anni cruciali un prezioso vantaggio competitivo. Parlo di seconda guerra mondiale della comunicazione non a caso: il 1939 fu il passaggio dalla “guerra di posizione” alla “guerra di movimento”, la blitzkrieg, la guerra lampo, esattamente come al giorno d’oggi i più illuminati tra gli addetti ai lavori stanno passando dalla pianificazione massiva degli investimenti pubblicitari “un tanto al chilo” su televisioni e giornali, alla ricerca dell’innovazione e della qualità, di stile, di metodo e di canale. Non più mera “occupazione di spazio” (più investo, più compro spazi pubblicitari, più i negozianti mi mettono in evidenza sui banconi, più vendo, più guadagno…) ma un media-mix diverso, che la Brioschi e la Uslenghi – ed altri prima di loro – definiscono con parole come Turbo Media, ovvero un insieme di tecniche di comunicazione che rispondono alla crescente diminuzione d’efficacia dell’advertising tradizionale, agendo come acceleratore e moltiplicatore di risultati, e che io ho rinominato Tailored Media, strategie di comunicazione tailored, cucite addosso stakeholder per stakeholder, suggerendo quindi un ulteriore passo avanti nella personalizzazione dei contenuti con riguardo alle diverse particolarità dei pubblici di riferimento dell’azienda, e incrociando così nuovamente il tema della CSR;

2) inclusività

La CSR 2.0 è interamente basata sulla trasformazione degli stakeholder in partners attraverso gli strumenti di co-creazione di contenuti tipici del Web 2.0. Non è quindi opportuno rivolgersi all’esterno solo per operazioni di CSR progettate per fare pubbliche relazioni, perché se vi muovete animati da spirito di autenticità gli stakeholder si avvicineranno sempre di più, e l’azienda intelligente sarà in grado di trasformare questa “intimità” in cooperazione. Abbiate a cuore il fatto che i vostri stakeholder si preoccupino realmente dell’interazione tra voi e loro, e dategli la possibilità di esprimersi ogni volta che hanno un contributo da dare: sarete sorpresi nel constatare quanto volentieri vi aiuteranno. L’interazione dovrebbe essere sincera e trasparente, così da richiamare interesse dei vari pubblici e non ottenere l’effetto opposto. I social media potrebbero sicuramente di volta in volta proporre un tema centrale di dibattito (l’azienda, un problema concreto da risolvere o il profilo commerciale di un prodotto) ma le gerarchie formali uccidono le conversazioni dinamiche. Inoltre, i social media richiedono pazienza e una mentalità aperta. Sørensen e Peitersen nel loro paper (23) ci ricordano che “i Social Media sono spesso fertili come una foresta pluviale, ma non sono funzionali come una piantagione”. Per ottenere un risultato, i rappresentanti delle aziende si devono impegnare in prima persona con tutte le risorse necessarie per garantire lo sviluppo di un dialogo bidirezionale. I social network creano valore solo marginalmente se sono concepiti come “kinder garden” nei quali relegare gli utenti come fossero bambini da tenere impegnati in un gioco: il vero valore può essere creato solo attraverso il coinvolgimento biunivoco. Come suggeriva il noto giornalista e scrittore americano Paul Gillin, per 12 anni alla guida del colosso Computer World, che nel suo blog personale proponeva un vademecum per le imprese sul 2.0, “siate aperti, onesti e trasparenti” (24). Date uno stile naturale alla cultura del dialogo della vostra azienda, e ricordate che la trasparenza e l’apertura sono il più delle volte ricompensate con un coinvolgimento e una benevolenza ancora più grandi. Permettere alle persone di farsi coinvolgere nella condotta di un’azienda non significa il caos: tra l’altro, se li invitate a darvi i loro commenti sulla vostra condotta, motivandoli perché siano orientati all’azione verso il miglioramento, più che spinti a una mera espressione di malcontento, e progettate modi di monitorare il feedback, otterrete sicuramente dei dati interessanti per il management;

3) disintermediazione

Poiché il Web 2.0 facilita la collaborazione diretta tra le aziende e gli stakeholder, il sollevare i problemi, la discussione delle priorità, la soluzione e l’implementazione di iniziative di CSR coinvolgeranno naturalmente gli stakeholder in modo dinamico e diretto. Di conseguenza, il ruolo dei rappresentanti formali degli stakeholder quali le ONGcambierà. Le ONG stanno perdendo terreno poiché non sanno veicolare con efficacia il sentimento del pubblico sul web. La blogosfera diffida notoriamente delle voci istituzionalizzate, e poche ONG sono state abili ad imparare le nuove modalità di comunicazione del web: secondo una recente indagine di Edelman (25) , il 70% delle persone influenti sul temaCSR nella blogosfera sono individui, non istituzioni;

4) siete sotto controllo

Gli utenti finali e gli investitori, che hanno acquisito un livello di facilità d’accesso all’informazione senza precedenti, potrebbero essere la vostra minaccia più grande, oppure il coinvolgerli potrebbe essere la vostra più grande opportunità. Le tecnologie basate sul web rendono possibile il diretto coinvolgimento degli individui, attribuendogli il giusto credito per il loro aiuto. È probabile che abbiano competenze particolari, una presenza geografica dove operano i vostri partner o fornitori, o che semplicemente gli piaccia l’attenzione data da Voi ai vostri stakeholder, o ancora che siano in grado di aggiungere valore agli sforzi dell’azienda sul piano dellaCSR. Avere stakeholder che vi mettono sotto pressione significa nient’altro che avere pubblici interessati alla vostra azienda, che facilmente vi spingeranno verso una situazione di più forte innovazione;

5) dal “controllo” all’innovazione condivisa

Sempre più aziende stanno lavorando per creare community di marca, e con il fiorire di comunità on-line stanno emergendo studi di consulenza che si specializzano nell’assistere le aziende nella creazione di community. La community di un marchio è di gran lunga la più ardua da creare, ma è anche potenzialmente lo strumento in grado di ricompensarvi di più. Creare una community significa offrire una piattaforma ai vostri stakeholder dove possano discutere, condividere, imparare, incontrare persone dalle idee affini e – forse – aiutare l’azienda. Tutto grazie a valori, interessi, e obiettivi condivisi e alla possibilità di guadagnare reputazione sociale con i loro contributi. Secondo Sorensen (26), far crescere una community vivace dipende dal suo reale valore per i membri, oltre che da un design attento, da pazienza, tolleranza e da un po’ di fortuna. Ma se siete abili, la ricompensa consisterà in una schiera dei cosiddetti “evangelisti”, i più attivi tra i sostenitori del vostro marchio, disponibili realmente a battersi per difenderlo. Le community richiedono impegno, pazienza e sincerità. I consulenti possono aiutarvi a progettarle e a farle partire, ma farle crescere dipende dal vero coinvolgimento da parte dell’azienda. Il Crowdsourcing rappresenta poi un’ulteriore evoluzione di una community di marca. Fare Crowdsourcing – abbiamo citato Ducati, che è una best-in-class sotto questo profilo – significa affidare ogni sfida di innovazione ai milioni di utenti sul web che insieme creano un’enorme banca dati di competenze e conoscenze al servizio gratuito dell’azienda. Perché non applicare questo strumento anche alla CSR? Non c’è ragione per non usare il Crowdsourcing per risolvere sfide concrete come ottenere un processo produttivo sostenibile, raggiungere i giusti stakeholder con proposte appropriate, progettare iniziative di forte impatto sociale. Date credito agli stakeholder che creano valore attraverso il loro incoraggiamento e le loro idee, strutturando a vostra cura meccanismi di gestione della reputazione sociale che permettano un resoconto quantitativo e/o qualitativo dei loro contribuiti, e lasciate che gli altri stakeholder giudichino quelli che criticano senza fini costruttivi, attraverso un meccanismo di filtro sociale, come la valutazione a punti dei post e la segnalazione delle prese di posizione inappropriate. Tutti questi parametri evidenziano la difficoltà di creare community frequentate, ma è anche vero che esse una volta avviate e con un’erogazione costante di contenuti interessanti, si autogestiscono in modo efficace;

6) dai Blog aziendali a Facebook, e ritorno

I Blog sono il social media aziendale probabilmente più noto, e vengono usati da anni in aziende innovative per instaurare un dialogo continuo con i vari pubblici. Un blog – neologismo diventato di uso comune, che contrae le due parole “web & log” – è una piattaforma semplice per pubblicare opinioni e punti di vista dell’azienda o più tipicamente personali dell’amministratore delegato o del presidente, commentati poi liberamente dagli utenti. Persino aziende contestate per la loro sostenibilità relativamente scarsa come McDonald si sono cimentati in blog aziendali sulla CSR ambiziosi ed effettivamente di successo (27) . Di fatto l’importanza dei blog è venuta a mancare in misura direttamente proporzionale all’affermazione di Facebook come piattaforma di pubblicazione di contenuti personali (foto, video, emozioni, esperienze, etc.). Facebook di fatto sostituisce egregiamente un blog, e inoltre è a costo zero. L’unica criticità quasi sempre sottovalutata nel rapporto tra blog e Facebook è che un blog vi permette di creare un data-base di utenti, mentre Facebook non rilascia mai le email degli utenti che si aggiungono al vostro profilo: di fatto voi create contenuti di successo per permettere a Facebook di incrementare il suo data-base;

7) autenticità e trasparenza

Siate fedeli a voi stessi qualsiasi cosa facciate e assicuratevi di allineare le vostre azioni ai vostri valori. Basate le vostre strategie sui valori veri, non su quelli presunti – e generici – del vostro settore, né su quelli dei vostri concorrenti e neppure con piaggeria su quelli dei vostri stakeholder più influenti. Se non lo fate, prima o poi sarete evidenziati nella vostra incoerenza da qualcuno, in qualche luogo, e smascherati brutalmente di fronte al mondo intero, e questo vale anche per chiunque altro abbia una partecipazione di qualche tipo nel vostro marchio;

8) Google e il reputation management

In un mondo iper-connesso, i motori di ricerca come Google sono i gestori più importanti della reputazione, premiando o punendo i comportamenti con un sistema di posizionamento che influenza le future ricerche sulla vostra azienda, e quindi anche la reputazione dei vostri prodotti/servizi. Il reputation management è una gamma di servizi creati con lo scopo di misurare e gestire l’opinione pubblica sulle aziende: viene usata dagli investitori per sondare i patrimoni intangibili delle aziende, quali la previsione della loro performance finanziaria, o per valutare la percezione pubblica dei politici nei periodi elettorali, o semplicemente dagli individui e dalle PMI per verificare le credenziali commerciali delle altre aziende od individui. Il Reputation Management della CSR 2.0 implica la ricezione dei commenti in modo aperto e il coinvolgimento degli stakeholder verso il miglioramento della percezione che pubblicamente si ha di voi. Loro sono i vostri alleati, quindi loro possono aiutarvi a migliorare la vostra reputazione. Una tale pubblicità trasparente del vostro indice reputazionale rappresenta un’apparente vulnerabilità, ma in realtà è un “termometro” che vi stimola a fare sempre meglio: scoprirete che essere “sotto osservazione” è molto salutare per i vostri dipendenti e per le vostre performance;

9) indice reputazionale Glocal (28)

Con l’avvento di tecnologie innovative e l’affermarsi della portata globale di Internet, l’impatto locale si fa globale: ciò che viene considerato localmente come un comportamento non etico può danneggiare il marchio su scala globale. Molti casi dimostrano che un problema inizia localmente e poi – proprio grazie al web 2.0 – si espande globalmente: la multinazionale delle medicine naturali Boiron è incappata in un problema del genere nei primi giorni di agosto 2011, quando per intervenire contro due articoli che criticavano un suo prodotto anti-influenzale su un blog frequentato da poche centinaia di lettori, ha fatto inviare una lettera di diffida legale in cui chiedeva non solo la rimozione degli articoli critici ma anche l’eventuale chiusura del blog. Gli articoli erano obiettivamente diffamanti oltre ogni limite, ma l’approccio a quella issue è stata sbagliato: il blogger ha invocato la libertà d’informazione, erigendosi a paladino libertario del web, e nel giro di 4 ore altri 37 blogger sono intervenuti per sostenerlo, ed è interessante notare che diversi di essi fossero normalmente a favore delle medicine biologiche. La sera del giorno dopo, oltre 600 tra blog e profili Facebook spendevano parole per nulla lusinghiere sull’azienda francese, la quale non ha in alcun modo risolto la crisi, che sicuramente sarà in qualche modo di pregiudizio al profilo commerciale dei suoi prodotti;

10) team-building

Una vera cultura basata sui valori nasce e si sviluppa attraverso il coinvolgimento dei vostri dipendenti. Le loro azioni costruiscono alla base i valori dell’azienda: “vivere” quotidianamente in azienda i vostri valori è cruciale in un’era come questa in cui tutto è collegato, e quindi allinearsi ad una cultura in cui le performance sono fondate sui valori è fondamentale. I nuovi strumenti del web 2.0 rendono più facile e significativamente più economico coinvolgere tutti i dipendenti nello sviluppo dei valori, nella condivisione di punti di vista e nel trasformare poi i valori in azioni concrete, applicate nella vita d’ufficio tutti i giorni;

11) andare oltre gli obblighi di legge

Standard fissi, soffocanti, stabiliti politicamente, codici di condotta istituzionali e statuti, sono fuori dai ritmi di oggi. In un momento in cui le persone diventano sempre più consapevoli e influenti, desiderano essere coinvolte e desiderano poter “fare la differenza”. Sorensen ci ricorda che _“le organizzazioni che mostrano al mondo di fare semplicemente la loro parte adempiendo a standard condivisi, non coinvolgono gli individui né gli fanno capire come siano ascoltati, che possano partecipare o fare la differenza, sono destinate a restare la palo. Le aziende devono essere proattive, ed instaurare un dialogo strutturato di tipo pluralista con i propri pubblici, sia per comprendere problemi pressanti che riguardano il loro specifico settore, sia per avere segnalazioni anticipate su problemi emergenti grazie a un confronto continuo con gli stakeholder” (29). Oggi – proprio grazie al web 2.0 – è diventato impossibile da prevedere in che modo un atto socialmente discutibile di un’azienda possa venire portato alla luce, indipendentemente da quanti standard, statuti e codici di condotta l’azienda abbia sottoscritto;

12) avere un approccio strategico alla CSR

Nel processo di cambiamento in corso, la CSR passerà da semplice strumento opzionale a strategia di base che guida tutte le aree del business. L’etica è costituita dalle qualità inter-personali che regolano l’empatia e il grado di affiliazione alla vostra azienda da parte di un altro soggetto, che sia questi un essere umano o un’organizzazione. L’etica non è qualcosa che si dimostra in uno o in una serie di progetti di CSR, ma è presente in tutto quello che un’azienda fa, è qualcosa di vivo, che si può percepire. Le aziende che imparano a gestire e ad incorporare processi di qualità etica nelle loro operazioni conquisteranno quote di mercato attraverso maggiore allineamento alla sensibilità di chi si rivolge a loro per acquistare oggetti e servizi al fine di migliorare i propri standard di vita;

13) la CSR governa le RP

Come ho scritto in un mio saggio , la sensazione che ho è che per la maggior parte degli addetti ai lavori la CSR sia intesa come – cito letteralmente un appunto ad un recente convegno sul tema – “uno strumento – tra i tanti efficaci – per migliorare le relazioni pubbliche dell’azienda”. È appena utile ricordare che la CSR è spesso – purtroppo – gestita da uomini di comunicazione o addirittura di marketing, sia all’interno dell’azienda che nel mondo della consulenza. Gli interventi diCSR rispondono infatti molto spesso alla domanda: “Come possiamo fare per migliorare la nostra brand-awareness?” oppure “Come possiamo ottenere una più incisiva presenza sui media” o – nel peggiore dei casi – “…Come possiamo vendere di più?”. Al di la delle parole, nei fatti è questo il livello di coinvolgimento ed interazione della maggior parte dei manager su questa specifica disciplina delle scienze sociali. Ma intendere la CSR in questo modo è tanto riduttivo quanto lo sarebbe utilizzare dello champagne per innaffiare piante d’appartamento: nulla di improprio di per se, ma come minimo discutibile. Eppure, questo è quello che succede quotidianamente nella maggior parte delle aziende: sono poche le imprese che possono vantare una chiara percezione del loro ruolo sociale come parte di una rete neurale complessa. Quante volte abbiamo sentito i chairman di note agenzie internazionali di RP affermare nel mezzo di un meeting di coordinamento “ottima idea, quest’azione di charity può essere utile per mettere insieme un po’ di politici e di decisori, possiamo organizzarci sopra con poca spesa un seminario, o qualcosa del genere…”? Se le relazioni pubbliche si occupano di migliorare la percezione che dell’azienda hanno tutta una serie di pubblici influenti per essa, la CSR muove i suoi passi ancora più a monte, codificando quali sono questi pubblici, quali sono le loro aspettative, che influenza può e dovrebbe avere – o non avere – l’azienda su di essi, anche come il comportamento dell’azienda può modificare il comportamento degli stakeholder dei suoi stakeholder, e soprattutto – come ho scritto – quale è il DNA dell’azienda in rapporto a tutti gli altri player. Un’azione di RP prevede sempre una mappatura dei pubblici d’interesse, al fine di comprendere dove concentrare le – spesso insufficienti – risorse disponibili. Una strategia di CSR ha nella mappatura della posizione dell’azienda rispetto ai suoi stakeholder il primo ed irrinunciabile passaggio: non è un “mezzo per”, bensì ha a che fare con la capacità dell’azienda di riflettere sul proprio ruolo all’interno della rete neurale alla quale appartiene. Le RP anche quando “riflettono” hanno un approccio sempre pragmatico: esaminare la situazione, identificare le criticità, elaborare una strategia, attuarla, migliorare la reputazione dell’azienda e la sua capacità di controllare l’area del proprio business ed esserne protagonista. Quando sono più evolute, le RP muovono dalla considerazione che è può essere funzionale prevedere scenari e prepararsi a fronteggiarli efficacemente, piuttosto che subirli ed intervenire per risolvere delle emergenze, e in tal caso le RP prendono le sembianze del crisis-management e si servono delle tecniche proprie di quella disciplina. Ma anche il crisis-management e la crisis-communication sono a mio avviso da intendersi come strumenti “subalterni” alla CSR: banalmente, la CSR utilizza queste metodologie d’indagine, programmazione ed azione allo scopo di tutelare i rapporti con tutti gli stakeholder, e quando assumo un incarico di CSR includo sempre in esso delle azioni di crisis-management, tanto sono convinto che non possa esistere la prima senza implementare gli strumenti tipici del secondo, come spiego al punto seguente;

14) capacità di predizione delle crisi

Per “crisi” intendiamo “una situazione operativa che – se non affrontata adeguatamente e risolta – potrebbe avere conseguenze negative sui rapporti con uno o più stakeholder e sulla business continuity”. Qualunque delle circostanze che ricadono sotto la definizione di “crisi” ha come caratteristica l’insorgere di timori diffusi, sia tra l’opinione pubblica che tra i pubblici interessati e interessanti per l’azienda. Una crisi genera comprensibilmente paure fra gli interlocutori chiave dell’azienda siano essi dipendenti, clienti, consumatori o fornitori, e genera contemporaneamente paure fra i dirigenti dell’organizzazione. Se questa si lascia paralizzare dalle paure dei propri dirigenti, o risponde lentamente e in modo improprio, allora le paure degli interlocutori avranno il sopravvento, si innescherà una spirale devastante di eventi e, alla fine, le peggiori paure dei dirigenti saranno superate dalla realtà degli eventi… Se come organizzazione sapremo invece accantonare le paure – spesso inespresse – dei nostri quadri direttivi, ed affrontare al meglio la situazione, potremo uscire più forti dalla prova, con relazioni più salde, con maggiore credibilità. L’ideogramma cinese che rappresenta la parola “crisi” e curiosamente lo stesso che rappresenta la parola “opportunità”. La capacità manifestata dal management nell’affrontare la crisi si rivela premiante anche nei riguardi degli azionisti e dei mercati finanziari, ed è quindi indiscutibilmente a maggior tutela di tutti gli stakeholder dell’azienda, nonché in un’ottica di piena responsabilità nei loro confronti, che diventa essenziale l’istituzione di una “crisis room” aziendale, che include tutti gli strumenti logistici, comunicativi e finanziari necessari ad affrontare la maggior quantità di scenari critici potenziali. La letteratura di settore dimostra come un’azienda che si doti di corretti strumenti di gestione di crisi potenziali, sia inoltre maggiormente immune di altre al verificarsi di crisi vere: un management formato in questa direzione sarà in grado di cogliere meglio i prodromi di possibili situazioni critiche, e risolverle prima che si manifestino;

15) la CSR come espressione dell’identità aziendale, verso una nuova mappa degli stakeholder

La CSR non è “un qualcosa che si fa per”. La CSR è l’azienda, e l’azienda è la propria CSR. Non prestare attenzione alle proprie politiche di CSR, non indagare la propria identità, non cercare di comprendere come essa condiziona il rapporto con i pubblici influenti, non interrogarsi sul ruolo che l’azienda inevitabilmente ricopre – che ne abbia percezione o meno – all’interno della società, significa non governare – e quindi subire – delle dinamiche che interagiscono con l’azienda, che ad essa ciò piaccia o meno. Non mettere in campo risorse per comprendere i confini di questo spazio, occuparlo e presidiarlo costantemente, significa prima o poi subire passivamente interazioni tanto forti da disorientare a lungo andare l’azienda stessa ed il suo management. Il neurone che cresce in maniera disarmonica, slegato dall’insieme al quale appartiene, diventa cancro, e il cancro può uccidere. Partendo da questi presupposti, già da alcuni anni nelle mie mappe degli stakeholder è “sparita” l’azienda, tradizionalmente raffigurata al centro della mappa stessa: l’organizzazione è diventata una “texture” di fondo, sulla quale sono a loro volta disegnati gli stakeholder, rappresentazione questa che evidenzia ancor meglio la “coincidenza” tra l’azienda stessa ed i suoi pubblici. Abbiamo quindi – prima internamente, poi discutendone in seminari per addetti ai lavori, e dal 2008 applicando la nuova mappatura anche sui Clienti – iniziato a raffigurare le mappe degli stakeholder su un grafico cartesiano a quadranti , costruito per l’occasione, e in grado di misurare con maggiore efficacia rispetto alle mappe tradizionali il grado di “influenza”, di interconnessione e di crisi potenziale dell’azienda con riguardo a ognuno dei suoi pubblici. Pur tuttavia, i dati necessari per posizionare correttamente gli stakeholder sul grafico derivavano ancora dalla restituzione di una pur articolata azione di audit interno effettuata da noi consulenti: il grado di approssimazione e di soggettività relativa del metodo mi lasciava ancora insoddisfatto. Ho quindi creato – con il prezioso supporto del mio staff – uno strumento (32) che valuta in modo più analitico il grado e la tipologia della responsabilità sociale aziendale, e che definisce un quadro di riferimento univoco e il più possibile personalizzato, nell’ambito di precisi standard di riferimento, permettendo tra l’altro la comparazione tra imprese sulle perormance che concorrono allo sviluppo sostenibile, come già hanno fatto in termini di classificazione dell’intero bilancio sociale le linee guida internazionali GRI che tutti conosciamo. Questo del quale vi sto parlando è un criterio _riproducibil_e di determinazione del posizionamento degli stakeholder su di una mappa cartesiana a quadranti. La metodologia viene applicata con lo scopo di fornire strumenti per valutare il grado di stakeholder engagement tra l’azienda ed i suoi pubblici, e permette di inserire correttamente questi ultimi sulla mappa, mediante un sistema di checklist e di attribuzione di “punteggi” che non elide l’apporto dell’osservazione professionale del consulente, ma anzi la valorizza, equilibrandola con dati oggettivi derivanti dalla contemperazione dei risultati dell’audit con la percezione che l’azienda ha di sé e che gli stakeholder a loro volta hanno dell’azienda. Una successiva evoluzione di questo metodo è stato il progetto Web-Cam per la rendicontazione integrata in tempo reale 365 giorni all’anno (33).

Creiamo futuro?

Sørensen e Peitersen scrivevano nel loro paper, nel 2007 (34) : “In 10 anni, crediamo che la CSR 2.0 sarà pienamente integrata nelle imprese, e che il termine CSR sarà lasciato alla storia e sostituito dal suo figlio più proattivo ‘Corporate Social Opportunity’ (CSO)”. Forse nel nostro paese le cose procederanno un po’ più lentamente, ma quello che è certo è che le imprese che si sono già attivate sul tema della CSR strategicamente intesa, stanno maturando un forte vantaggio competitivo.

Colleghi consulenti internazionalmente reputati come Paul Seaman, pungenti critici della CSR e della teoria della stakeholder value, avevano predetto o auspicato il crollo del paradigma della CSR, a favore di una rinnovata attenzione ai dividendi di breve periodo, in occasione della recente crisi finanziaria internazionale che ha creato – e sta continuando a creare mentre scrivo – la massima turbolenza possibile sui mercati. Questo non è avvenuto, anzi, molte aziende best-in-class nella CSR – ancorché in fase di contrazione di fatturato – hanno deciso scientemente di non abbandonare il percorso intrapreso: la loro risposta alla crisi è stata a volte anche un incremento dell’impegno sul fronte della CSR, partendo dal presupposto che era eticamente corretto e di maggiore sopravvivenza dell’azienda – e quindi nell’interesse degli azionisti – rispondere all’appello e fare la propria parte in un momento difficile. Il bello è che gli utenti finali paiono avere intenzione di ripagare in moneta sonante chi ha fatto questa scelta ed ha saputo comunicarla bene, con una rinnovata propensione all’acquisto dei prodotti/servizi offerti da queste imprese. A parità di prezzo, perché devo scegliere i prodotti di un’azienda “lontana” e disinteressata alle sorti della società in cui vivo, se posso premiare un’azienda che mi ha fatto capire di essere realmente interessata a me e a chi mi circonda e si è fatta percepire “vicina” in un momento difficile?

Alcuni analisti arrivano a predire che i clienti saranno disponibili con il tempo a pagare anche un ragionevole mark-up sul prezzo dei prodotti a fronte di un concreto impegno in CSR delle aziende, se le finalità verranno spiegate in modo convincente ed essi stessi di sentiranno “parte del progetto”.

La crisi internazionale comunque è stata una buona occasione per distinguere chi faceva CSR strategica e chi faceva CSR orientata solo al marketing (35), ma questo l’avevano predetto gli stessi esperti di CSR.

I due ricercatori danesi affermavano (36) anche – e su questo completamente d’accordo – che la maggioranza dei marchi che non sapranno offrire sia design, sia qualità che etica, si sfalderanno o perderanno in competitività, il valore del loro marchio si abbasserà, e gli risulterà difficile reclutare e inserire nuovi dipendenti di valore. Dialogando recentemente con Alessandro Pizzoccaro – un imprenditore milanese nel comparto farmaceutico, fondatore di Guna, leader italiano di settore – ci domandavamo se “potesse esistere un business dal volto umano”, in grado di mettere d’accordo il guadagno degli azionisti con interessi più diffusi: secondo tutto quanto abbiamo esposto in questo saggio, la risposta è si, e il passaggio di questi principi dalla teoria alla pratica quotidiana rappresenterà probabilmente una strada in grado di conciliare un alto grado di soddisfazione personale degli individui con un diverso paradigma di crescita del pianeta, che veda l’uomo e i suoi interessi realmente al centro dell’attenzione, e che – complici gli stimoli del mio sensibilissimo amico Max Judica Cordiglia – ho definito come Human Social Responsibility .

Solo il tempo potrà dare ragione a quella che da “teoria della CSR” sta diventando una vera e propria tecnica di gestione d’impresa.

Quello che già ora è certamente intuibile è che con una CSR orientata in senso strategico siamo definitivamente usciti da una dimensione di “charity” per entrare in un nuovo e stimolante modello di business.

Note

(1) Federazione Relazioni Pubbliche Italiana (www.ferpi.it)
(2) E’ uno dei più noti consulenti di settore a livello internazionale, Past President e Fondatore della Global Alliance for Public Relations and Communication Management, Past President Ferpi, Docente di Public Affairs e di Global Relations and Intercultural Communication alla New York University, Docente di Relazioni Pubbliche alla LUMSA di Roma ed alla Facoltà di Sociologia dell’Università “La Sapienza”, Docenti di Public Affairs alla “School of Government” della LUISS di Roma
(3) CSR 2.0, di Mikkel H. Sørensen e Nicolai Peitersen, articolo pubblicato in lingua inglese nel 2007
(4) Corporate Social Opportunity! Steps to make Corporate social responsibility work for your business, di David Grayson e Adrian Hodges, 2005
(5) Cosa non è CSR: appunti su una diversa dimensione della vita d’impresa in rapporto al mondo del no-profit, di Luca Poma, febbraio 2005
(6) Ketchum International, la ricerca ha coinvolto 3.000 tra top manager, politici e leader d’opinione, in 11 paesi
(7) Ketchum, op. cit.
(8) Nuovi strumenti per la CSR: dalla tradizionale mappa degli stakeholder alla rete neurale complessa, di Luca Poma, Ferpi News, 2008
(9) http://www.ferpi.it/ferpi/novita/notizie_ferpi/notizie_ferpi/strumenti-innovativi-per-la-mappatura-degli-stakeholder/notizia_ferpi/42422/11
(10) Termine coniato nel 2004 dall’esperto in nuove tendenze ICT Tim O’Reilly
(11) CSR 2.0, di Mikkel H. Sorensen e Nicolai Pietersen, 2007
(12) Citazione tratta dalla lezione dal titolo Crisi? Si, grazie, tenuta da Luca Poma presso l’Università Bocconi di Milano in data 01/12/2010 (Master in comunicazione d’impresa)
(13) Per i non addetti ai lavori, un’adeguata definizione sintetica di stakeholder e della teoria della stakeholder value è quella pubblicata suhttp://it.wikipedia.org/wiki/Stakeholder
(14) Scaricabile nella versione originale da http://www.cluetrain.com, una traduzione in italiano è pubblicata sull’archivio della newsletter lucapoma.info, all’URL https://creatoridifuturo.it/wp-content/uploads/2011/03/Il-Cluetrain-Manifesto.pdf
(15) Citazione tratta da Crisis 2.0, di Luca Poma, Giampiero Vecchiato ed Enrico Finucci, libro in corso di pubblicazione
(16) Op. cit.
(17) Una tra le più importanti agenzie pubblicitarie al mondo, fondata Londra nel 1970 dai fratelli Charles e Maurice
(18) Op. cit.
(19) Deriving Value from Corporate Values, The Aspen Institute (2005)
(20) McKinsey Quarterly, no.2, 2006
(21) Dai mass-media ai Tailored-media: la blitzkrieg della comunicazione, di Luca Poma, Ferpi News, settembre 2009
(22) White Space: comunicazione non convenzionale, di Arianna Brioschi e Anna Uslenghi, Egea Editrice, 2009
(23) Op. cit.
(24) http://gillin.com/blog/
(25) Corporate Social Responsibility and sustainability in the blogosphere, di Edelman & First, 2007
(26) Op. cit.
(27) http://csr.blogs.mcdonalds.com/
(28) Inizialmente, il termine – fusione delle parole Globale e Locale – evidenziava la tendenza di un “ritorno” – in tutto il mondo – ai valori del territorio. Il lavoro di Slow Food sulla salvaguardia dei presidi del gusto (mangiare bene in tutto il mondo, riscoprendo i prodotti a chilometri zero) è molto “Glocal”. In quest’accezione, il termine è usato per evidenziare l’impatto “globale” che può avere una crisi reputazionale apparentemente “locale”: il web di fatto cancella le barriere fino a ieri esistenti ed erette da muri e da chilometri.
(29) Op. cit.
(30) Impresa 2.0: una gerarchia delle fonti tra relazioni pubbliche e Corporate Social Responsibility di Luca Poma, Ferpi News, 2010
(31) Vedete come esempio la mappa degli stakeholder pubblicata sul bilancio sociale di GUNA S.p.a., all’URLhttp://www.guna.it/bilanciosociale2009, pagg. 20 e seguenti
(32) Il metodo sul quale relaziono in questo articolo è stato oggetto della tesi di Master della SDA Bocconi “Gestione dell’impresa sociale, non-profit e cooperativa” (dicembre 2010), a firma della tesista Dott. sa Francesca Delpiano, che ha anche fattivamente contribuito in staff con Luca Yuri Toselli al perfezionamento del metodo stesso
(33) http://www.ferpi.it/ferpi/novita/notizie_rp/management/il-progetto-webcam-per-il-bilancio-sociale/notizia_rp/42937/8
(34) Op. cit.
(35) Questa pratica si chiama “Greenwashing”, ovvero darsi una “pennellata di verde” per sembrare ecologicamente più sostenibili
(36) Op. cit.
 




Intervento di Luca Poma al Convegno L'Informazione, L'Universo, La Vita

La trascrizione integrale del discorso tenuto da Luca Poma il 02/12/2011 al convegno “L’INFORMAZIONE, L’UNIVERSO E LA VITA”, Milano, Università IULM
SLIDE INIZIALE:
“Se la bellezza della terra dovesse venir distrutta dall’aumento illimitato della ricchezza, allora io spero sinceramente per amore dei posteri che essa sarà contenta di rimanere stazionaria, molto tempo prima di esservi costretta dalla necessità”
 
Chi ha scritto questa frase? Un moderno imprenditore illuminato? La domanda non è retorica: se qualcuno conosce la risposta può rispondere…
John Stuart Mill, “Principi di economia politica”, siamo metà ‘800, Cassandra inascoltata dagli esperti di Wall Street, direi… La lasciamo li come monito, per l’intera durata del mio intervento.
Comunque, inizia così, con questa frase di Mill, l’ultimo provocatorio saggio di Serge Latouche, “Breve trattato sulla decrescita serena”. Ovvio che il pianeta non potrà mai “decrescere”, forse il lavoro di Latouche ha un approccio troppo utopistico, ma ciò che è sicuramente vero è che è arrivato il momento di interrogarci su come crescere con maggiore equilibrio, e questa priorità non è più rinviabile. Comunque, inascoltato Latouche, e inascoltati nel nostro piccolo anche noi, tanto che siamo tutti impegnati proprio in questi mesi – nessuna nazione esclusa – a raccogliere i cocci di anni disastrosi dal punto di vista economico-finanziario.
Il punto è che fino a poco prima di questa grande crisi internazionale ci lanciava l’allarme finiva inascoltato, come se predicasse dei principi astratti: ora invece si sta facendo largo a tutti i livelli la consapevolezza che il paradigma dell’ottimizzazione massima del guadagno a breve termine era un principio buono e profittevole solo per  coloro che ne godevano tutti i vantaggi. Noi, che nutrivamo dei dubbi, passando ancora per ignoranti e non “a la page”, inadeguati a cogliere i frutti del bengodi borsistico – siamo infine rimasti con il cerino in mano.
Cosa ci racconta il Professore di scienze economiche dell’Università di Paris-Sud? Che siamo tutti a bordo di un bolide senza pilota, lanciato in corsa, e i cui freni sono stati disattivati da noi stessi, che sta andando dritto dritto a fracassarsi contro i limiti del pianeta, e anche che siamo perfettamente al corrente della situazione, ma la sottovalutiamo per convenienza, perché ammettere questo tipo di consapevolezza turberebbe assai i nostri sonni di occidentali opulenti.
Sembrava impossibile ignorare le raccomandazioni del Club di Roma, che già negli anni ’70 scriveva che il proseguimento indefinito della crescita è incompatibile con i ‘fondamentali’ del pianeta. Ma noi – finchè siamo sicuri del nostro pasto di stasera – facciamo orecchie da mercante…
Dire che una crescita dopata ed infinita del sistema Terra è del tutto incompatibile con l’esistenza di un mondo “finito” nei suoi confini e nella sua capacità di produrre risorse, è cosa talmente ovvia da non poter che raccogliere consensi. Meno accettabile dai più, è tirarsi su maniche, connettere i cervelli, ed incominciare a discutere di “cosa tagliare”, iniziando magari da un ridimensionamento del nostro stile di vita.
Siamo tutti parte – aziende ed individui – di una rete neurale complessa, che è la nostra società, e con essa volente o nolente interagiamo quotidianamente: da questa rinnovata consapevolezza deve nascere l’impulso ad un differente paradigma di crescita del pianeta.
Facendo la media ponderata delle affermazioni, intenzioni, progettualità e proclami di tutti, e distillando il meglio da ognuno, è certamente possibile stabilire una “agenda” collettiva, e prima ancora personale, per tentare di invertire la rotta.
Che ruolo hanno la comunicazione e l’informazione in tutto ciò? Più che di comunicazione e informazione mi piace però parlare di “condivisione di informazioni”, di “veicolazione di saperi”, di “co-management”, che puoi vuol dire costruire conoscenza assieme.
Sviluppiamo questi concetti apparentemente “astratti” con qualche esempio:
Alessandro Pizzoccaro, imprenditore di successo nel settore farmaceutico, parlerà più tardi della sua esperienza alla guida di un’azienda nata in un magazzino e ora presente in 30 paesi del mondo – primo al mondo – decide di rinunciare i suoi brevetti ed al copyright sulle ricerche scientifiche e sulle produzioni editoriali, mettendo le conoscenze dei propri laboratori di ricerca a disposizione della collettività, dà certamente un segnale.
Una seconda case-history che ritengo pertinente quando parliamo di rapporto tra informazione nel III millennio e reti sociali, è quella dei politici italiani. La politica è l’Agorà con la A maiuscola, dovrebbe essere la massima espressione “social” di un paese, dal momento che determina e condiziona non solo lo stato di salute dell’ambiente nel quale viviamo, ma anche le modalità stesse con le quali ci interconnettiamo l’uno con l’altro, e un gruppo con un altro gruppo, e una zona geografica con l’altra, e determina anche il “clima” con il quale ci relazioniamo (di paura, diffidenza, timore per il futuro, o al contrario di speranza, di voglia di costruire nuovo futuro, guardate che differenza al riguardo tra gli anni ’60 e i primi 10 anni del 2000). Ebbene, la politica, o meglio, la classe politica: che rapporto c’è tra questo gruppo sociale di vertice e il mondo dell’informazione, segnatamente quella digitale?
Il passato governo Berlusconi era libertario nel DNA (figuriamoci gli altri allora…). Al di la della battuta, il partito si chiamava Popolo della Libertà: ebbene, il nome è uno dei fattori che definisce il DNA di un oggetto. Comunque, in controtendenza rispetto agli esecutivi di tutto il resto del mondo tranne i paesi a regime totalitarista come la l’Iran, Cina, la Corea e la Birmania, quel Governo dichiarò di avere in programma una nuova stretta su Internet: tra emendamenti inseriti nel pacchetto sicurezza, articoli del Disegno di Legge sulle intercettazioni telefoniche e clausole restrittive contro il Wi-Fi ed il livestreaming, sono stati ben sette i tentativi di quel Governo – per fortuna non andati a buon fine – di censurare o bloccare la Rete.
Tradizionalmente, si cerca di controllare ossessivamente ciò che non si conosce, e quello che vi sto raccontando ne è l’esatta conferma. Quando Berlusconi venne aggredito in piazza Duomo la notizia volò sui social network, anche con apprezzamenti di pessimo gusto per l’aggressore (figli del livello di sopportazione ormai ai minimi termini per l’ex Premier, ma comunque ingiustificabili).  Ecco però alcune chicche, dichiarazioni rilasciate dai nostri politici:
–                       “Facebook è più pericoloso dei gruppi eversivi degli anni ‘70” (Renato Schifani, Presidente del Senato)
–                       “Facebook andrebbe chiuso, è un luogo di paranoia e violenza” (Emilio Fede, iscritto all’Ordine dei Giornalisti e portavoce informale del Governo)
–                       “L’aggressore del Presidente Berlusconi è vicino ad ambienti del social network” (Bruno Vespa, iscritto all’Ordine dei Giornalisti, collaboratore RAI e intrattenitore televisivo)
–                       “Ormai i social network sono armi in mano a pochi delinquenti che sfruttando l’anonimato incitano alla violenza, all’odio sociale ed alla sovversione” (Gabriella Carlucci, ex show-girl televisiva delle reti Mediaset ed oggi Parlamentare del Popolo della Libertà)
–                       “Internet è un’ambaradan, un luogo di confusione e di disordine” (Pierluigi Bersani, Segretario del Partito Democratico, come vedete l’idiozia è bipartisan e ce n’è per tutti)
Penso che queste affermazioni non meritino commenti.
La libertà comporta sempre dei rischi: permettere ai cittadini di circolare liberamente di notte senza controllo darà modo a qualche fanatico squilibrato di scrivere a caratteri cubitali sui muri frasi pedo-pornografiche, offensive, diffamanti e volgari. Ma si arresta il maniaco o si abbattono tutti i muri della città?
La “guerra al contenitore” è un vecchio vizio sia fascista che comunista: rassicura la coscienza del borghese medio sapere che la gente malintenzionata non ha più – apparentemente – un luogo dove ritrovarsi a tramare. Peccato che oscurare tutti i siti Internet sospetti in Italia nulla impedirà a chi lo desidera di attivare un dominio all’estero per il proprio “blog sovversivo”, e – premesso che i filtri automatici sul web sono inefficaci su larga scala ed hanno dimostrato tutti i propri limiti – lo scenario cinese, che prevede oltre 40.000 esperti impegnati giorno e notte a setacciare il web è semplicemente folle, nonché economicamente insostenibile
E mai possibile che l’Italia sia uno dei pochi paesi del mondo occidentale nel quale stentano moltissimo a decollare autostrade superveloci per la Rete, nel quale il Wi-fi è raro e quando esiste è a pagamento, contrariamente a quanto accade ovunque nel mondo occidentale, nel quale non esiste un piano nazionale per la banda larga, e dove la tensione ideale della classe politica in tema di libertà d’informazione è indirizzata verso il “fermare” invece che verso il “facilitare”?
Come per l’Iran e gli altri paesi citati all’inizio di questo articolo, Internet forse fa paura, perché la verità rende liberi ed Internet a differenza della televisione – con tutte le pecche che ha il web – è un luogo di libertà, dove la verità prima o poi emerge sempre.
Questo ci porta dritti alla terza case-history. L’australiano 39enne Julian Assange è fondatore del sito rivelatore di dossier segreti “Wikileaks”, arrestato con fumose accuse di stupro, poi ridimensionate in “rapporto sessuale non protetto”. Stretto d’assedio dai Governi di tutto il mondo, ma ancora on-line, come tutti sappiamo il sito aveva come missione quella di selezionare e diffondere dossier “top secret” piuttosto imbarazzanti per le cancellerie di mezzo mondo: 77.000 documenti segreti sulla guerra in Afghanistan, 400.000 documenti sull’Iraq – alcuni dei quali accusano militari USA di aver chiuso gli occhi di fronte a torture e abusi nei confronti di civili compiute da militari iracheni – e centinaia di migliaia di documenti secretati a firma delle più importanti diplomazie occidentali.
Al di là della cronaca, quello che è già stato definito “il dossier web del decennio” chiama a mio avviso in causa ognuno di noi su keywords quali “libertà di informazione”, reti sociali, condivisione trasparente di conoscenza”.
Diversi intellettuali noti in tutto il mondo, tra cui l’americano Noam Chomsky, hanno firmato una lettera aperta al premier Australiano Julia Gillard, perche’ garantisca “un sostegno forte” ad Assange. Anche i Verdi italiani hanno lanciato una petizione per supportare il sito “libertario” per definizione.
Il fenomeno Wikileaks è solo la punta dell’iceberg di ciò che sta succedendo al mondo della comunicazione nell’era digitale. Migliaia di nuovi soggetti, associazioni, movimenti e singoli cittadini oggi trovano nella rete la possibilità di esprimersi in maniera diretta, democratica e senza filtri, accedendo direttamente a documenti e risorse in una maniera che non ha precedenti nella storia.
Assange ha saputo sollecitare – anche ruffianamente, se vogliamo – la “netiquette” più consolidata, la sensibilità del popolo del web con riguardo a valori come la trasparenza, la libertà di informazione, il diritto dell’utente a conoscere la verità, e con questa strategia di comunicazione non convenzionale Wikileaks è uscita vincente sul web ancora prima di iniziare la battaglia.
Tentiamo però un’analisi più “alta”, in fondo siamo in un’Università.
La teoria dei segnali – che in parte è alla base della teoria dell’informazione – studia appunto le proprietà matematiche e statistiche dei segnali intesi come variazioni per un certo tempo dello stato fisico di un sistema o di una particolare grandezza fisica, come è ad esempio una variazione dei parametri di campo elettromagnetico per i segnali radio. Tali variazioni consentono di rappresentare e trasmettere messaggi, in altre parole di trasferire informazione a distanza. In natura abbiamo diversi tipi di segnali, ma sono tutti accomunati dall’essere in larga misura “casuali”, mentre la teoria dei segnali ne studia la rappresentazione al fine di poterli poi manipolare in modo artificiale, ad uso e consumo dell’uomo, trattandoli anche matematicamente.
Dal momento che il sistema oggetto d’attenzione di questa teoria può essere il più disparato, inclusa ad esempio una Rete Sociale, in un mio saggio del 2010 mi chiedevo perché non applicare questo tipo di teorie anche al campo della comunicazione convenzionale e non convenzionale e alle relazioni tra persone e tra gruppi. “Incertezza” e “informazione” sono due facce della stessa medaglia: senza incertezza non c’è informazione che valga qualcosa, perchè quanta più incertezza c’è nel segnale, tanto più “informativo” è rivelare qual è la reale tendenza del segnale stesso.
Come noto, l’entropia è originariamente un concetto proprio della teoria termodinamica: il termine tedesco Entropie deriva dal greco “dentro”, “cambiamento”, “rivolgimento”: indica quindi “dove va a finire” l’energia fornita a un certo sistema, con riguardo al legame tra movimento interno al corpo ed energia interna o calore.
Questo concetto, oltre che in ambito termodinamico, è stato applicato anche nella teoria dell’informazione, che misura la quantità di “incertezza” presente in un impulso o in un segnale, ed è esattamente l’accezione che voglio prendere in esame.
L’entropia così intesa può essere descritta come il “minimo livello di complessità” di una certa variabile o di uno scenario: in poche parole, potremmo dire che l’entropia è “la misura del caos” (banalizzando, più entropia è uguale a più caos).
Per meglio comprendere il concetto di entropia applicata alla teoria dell’informazione, consideriamo per semplificare un sistema fisico in date condizioni di temperatura, pressione e volume, e stabiliamone il valore dell’entropia, ovvero il grado di “disordine” relativo e quindi l’ammontare delle informazioni a noi disponibili. Supponiamo ora – lasciando invariati gli altri parametri fisici – di abbassare la temperatura del sistema: osserveremo che la sua entropia diminuisce, poiché con il diminuire della temperatura si rallenta il movimento delle molecole, e quindi – come diretta conseguenza – il grado di “ordine” del sistema aumenta.
Si tratta di un ordine statico, che corrisponde alla mancanza di movimento e di lavoro all’interno del sistema stesso: diminuendo l’entropia, diminuisce il caos, quindi aumenta l’ordine, e aumentando l’ordine invariabilmente aumenterà la quantità di informazioni disponibili sul sistema, perché esso risulterà “leggibile” con più facilità e ci trasmetterà maggiori certezze rispetto ad un sistema con un’entropia superiore, ovvero con un livello di caos maggiore e quindi con un più alto numero di variabili ipotizzabili. Per proseguire con il nostro esempio, ad una temperatura prossima allo zero assoluto, tutte le molecole saranno quasi ferme: l’entropia tenderà al minimo, l’ordine sarà il massimo possibile, e con esso si avrà la massima certezza d’informazione.
Al contrario, alte temperature aumentano la “frenesia” all’interno del sistema, moltiplicano il numero di variabili possibili, e fanno quindi crescere esponenzialmente l’incertezza relativa dell’informazione, facendo tendere il sistema verso uno stato virtuale di “informazione zero”. Possiamo dire che per un comunicatore un numero di variabili eccessive rende di difficile interpretazione uno scenario: troppe informazioni sono eguali a nessuna informazione.
In ogni caso, questo genere di riflessioni sono state già fatte proprie dalle scienze sociali, e guarda caso nell’ambito dell’economia applicata alla responsabilità sociale d’impresa: Nicholas Georgescu-Roegen, applicando il secondo principio della termodinamica all’economia, e in particolare all’economia della produzione, ha elaborato una teoria economica che mette in discussione i “fondamentali” della decrescita: ogni processo produttivo non diminuisce l’entropia del pianeta, ma o la incrementa irreversibilmente o perlomeno la lascia uguale, ovvero: tanta più energia si trasforma in uno stato “indisponibile”, tanta più energia sarà sottratta alle generazioni future, e quindi tanta più entropia (disordine proporzionale) sarà riversato sull’ambiente che ci circonda.
E’ interessante in definitiva notare come discipline totalmente differenti – come ad esempio la termodinamica, l’informazione, la comunicazione, l’economia – abbiano molti più punti di contatto di quanto apparentemente si potrebbe sospettare…
L’ipotesi di ricerca che più mi stimola, per venire al dunque, è quella che prevede che – se è vero che siamo tutti, individui ed aziende, parte di una rete sociale articolata, come ipotizzavo nel mio saggio “Reti Neurali complesse” – il livello di sanità mentale e di benessere di un gruppo umano non può prescindere dal grado di sanità mentale e di benessere del singolo, ed esso è a sua volta in strettissima correlazione con la sua capacità di immaginare scenari futuri.
Come ci ricorda Anna Oliverio Ferraris, ricercatrice di grande esperienza, docente alla Sapienza di Roma e autrice – tra le sue numerose pubblicazioni – del bel manuale “Le età della mente”, sono editi a profusione studi sugli aspetti negativi e patologici dell’umore – depressioni, disturbi bipolari, psicosi, eccetera – mentre sono rarissimi quelli sugli stati “positivi”: tutta la tradizionale ricerca psicobiologica ruota intorno all’infelicità umana, mentre il tema della felicità e dei meccanismi che la generano – sia essa la felicità di un singolo che di un’intera comunità – sono da sempre sorprendentemente trascurati.
Emilia Costa, Professore emerito di Psichiatria della Sapienza di Roma e ricercatrice di fama in Italia e nel mondo, nel suo saggio “Il cervello e la mente: dal neurone al comportamento”, conferma che il sistema nervoso esprime in termini somatici la nostra condizione psico-emotiva, garantendo un “controllo sulla risposta allo stimolo”, mediante un feedback basato sul rilascio e sul metabolismo di ormoni, neurotrasmettitori, endorfine ed altri mediatori chimici. Un ambiente ricco di stimolazioni positive quindi fa aumentare lo spessore corticale delle cellule, migliora l’attività modulatrice degli impulsi nervosi e conseguentemente le prestazioni comportamentali dell’individuo e la sua capacità di relazionarsi positivamente con gli altri.
In realtà, le più recenti ricerche paiono dimostrarci che la genetica, le dinamiche neurochimiche e cerebrali e l’ambiente, sono variabili molto più strettamente interdipendenti di quanto fino a non troppo tempo fa si era ipotizzato. La psicobiologia ha dimostrato che alcune aree del sistema nervoso centrale esercitano un ruolo importante sugli stati umorali dell’individuo, che valuta la situazione in cui si trova, i messaggi provenienti dall’ambiente e le aspettative derivanti dai rapporti sociali e professionali, definendo poi ogni scenario in termini positivi o negativi, e reagendo con un differente grado di apprensione o di capacità di rispondere allo stress a seconda di una molteplicità di fattori, tra i quali spiccano certamente il temperamento, i fattori cognitivi e l’interpretazione della realtà.
Potremmo allora discutere della “suprema rete neurale”, la rete complessa che a livello planetario pone in relazione ognuno di noi con l’altro, ogni istituzione con un’altra istituzione, ogni azienda con le altre aziende, e tutti questi elementi organicamente tra loro.
Francois Michelin – l’uomo che portò la sua fabbrica di pneumatici ad essere leader mondiale assoluta nel proprio settore – in una bella intervista rilasciata anni fa ad un periodico italiano affermò convinto che “tagliare pietre” e “costruire cattedrali”, ancorché atti fattualmente simili, sono invece azioni ben diverse. Per questo quando parlo di impegno etico delle persone, delle aziende e delle istituzioni, dico che non si tratta di diventare “ecologicamente sostenibili” per ragioni di marketing e di immagine, ma parlo di “Human Social Responsibility”: si tratta di prendersi cura del tipo di pianeta che lasceremo ai nostri figli, mettendo L’UOMO al centro di ogni processo.
In definitiva, “sintonizzarci” meglio, più armonicamente, più efficacemente con questa rete neurale non potrà che migliorare il grado di benessere e sanità mentale nostro, del nostro gruppo, della comunità alla quale apparteniamo, e quindi – come pezzi di un grande puzzle – del pianeta intero.
Allora, facciamo un favore a noi stessi e al gruppo sociale al quali apparteniamo, quali che siano: apriamo la nostra mente, rimuoviamo barriere, condividiamo informazioni, veicoliamo conoscenza. Smettiamola di “FERMARE”, “facciamo scorrere”…
Costruiamo futuro. Tutti assieme. Grazie.
Breve bibliografia scientifica (in ordine per cognome):
– Bonazzi R., Catena R., Collina S., Formica L., Munna A., Tesini D., Telecomunicazioni per l’ingegneria gestionale. Codifica di sorgente. Mezzi di trasmissione e collegamenti – Pitagora Editrice, 2004, ISBN 88-371-1561-X;
– Chen X., Brent F., McKinnon B., Seker A., A Theory of Uncheatable Program Plagiarism Detection and Its Practical Implementation – 2002-05-05;
– Clausius R., Abhandlungen über die mechanische Wärmetheorie, 1864;
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– E. Costa et al., “Dallo stress psicosociale alla malattia” – Psiche Donna – Vol. 4, n. 3, CIC Edizioni Internazionali, Roma 2003;
– E. Costa, “La comunicazione efficace, ovvero il contrario del Brain Washing”– CIC Ed. Internazionali, Roma 2001;
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– Wise M., Improved Detection Of Similarities in Computer Program And Other Texts – 1996.
Un ringraziamento particolare va a Massimiliano “Max” Judica Cordiglia per la creazione, nel corso di uno dei suoi “aperitivi creativi” presso la sede della società di produzione audio-video Juma Tv, del termine “Human social responsibility”.