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Pensare al futuro è questione di Csr

Un business dal volto umano. Come e perchè le aziende cercano vantaggi competitivi attraverso politiche di responsabilità sociale d’impresa. Valori che a volte diventano il core anche della comunicazione pubblicitaria.
Immaginiamo un mare magnum dove molti vogliono bagnare i piedi, non solo perchè è di moda, ma perché è necessario farlo, quel grande mare rappresenta bene la Corporate Social Responsability: un concetto ampio che va alla charity all’adozione di processi di produzione più puliti, dalle policy interne per il benessere dei dipendenti alla scelta di fornitori compatibili, dalle politiche di trasparenza nei confronti dell’opinione pubblica e degli stakeholder alla comunicazione commercial dei brand. Solo rispettando questi parametri si può parlare di Csr, anceh se non esistono ancora vincoli obbligatori o monitoraggi imposti sui comportamenti delle aziende. Gianni Rotondo, direttore generale di Royal Caribbean, operatore di navi da crociera che ha recentemente staccato un assegno di 70 mila euro in favore di telethon, individua quattro momenti in cui un’impresa si muove sul filo della Csr: creare occupazione; implementare il business in attività che hanno un  funzione sociale, come una vacanza: ridurre i costi di produzione e gestione per una maggiore sostenibilità ambientale; sostenere azioni umanitarie. Chi attua una politica di Csr non mette in dubbio il modello economico occidentale, ma vuole rimediare a una contraddizione interna, vale a dire fare profitto senza distruggere tutto ciò che ci sta intorno. Sono stati, infatti, raggiunti sia la consapevolezza dei rischi sia gli strumenti per contrastarli. Il passo successivo è sicuramente ambizioso: ottenere vantaggi competitivi senza fare troppi danni e con maggiore attenzione alle risorse umane e naturali. “L’Unilever Sustainable Living Plan, il piano per vivere sostenibile, rappresenta la nostra visione di Csr nel 21° secolo e coinvolge tutti i dipendenti – spiega Sarah Brandy, communication director di Unilever Italia-. Con oltre 50 obbiettivi misurabili da raggiungere, entro il 2020 ci prefiggiamo di aiutare più di un miliardo di persone a migliorare la loro salute e il loro benessere, dimezzare l’impatto dei nostri prodotti e approvvigionarci al 100%  di materie prime agricole sostenibili”. La marca-ombrello Unilever comprende nel portafoglio brand noti come Algida, Mentadent, Cif, Svelto, Dove, Fissan, Knorr, Calvè, Lipton, Lysoform, solo per citarne alcuni: ogni giorno al mondo si utilizzano due miliardi di prodotti Unilever. “Il logo Unilever, che da ottobre 2010 appare su tutte le confezioni e nelle campagne di comunicazione dei nostri prodotti, rappresenta i nostri valori e il nostro impegno -prosegue Brandy-.  A livello di singolo brand cito su tutti Mentadent, che con il suo Mese della prevenzione dentale da 31 anni rappresenta la più longeva e coerente attività Csr”. Non è da meno Procter & Gamble, proprietaria di altrettanti marchi famosi, tra cui Dash, Ace, Fairy, Swift, Az, Oral B, Gillette, Pringles, Infasil, Viakal, che soprattutto attraverso il marchio-icona Dash esprime la propria spinta al sociale con l’iniziativa “Missione bontà” nata nel 1987. dal 2006 UK, e dal 2010 in Italia, l?azienda è a fianco dell’Unicef nella campagna di eliminazione del tetano neonatale, donando l’importo necessario all’acquisto di un vaccino per ogni singolo prodotto venduto, con l’obiettivo di sconfiggere la malattia dal pianeta entro il 2015. “L’obiettivo è quello di finalizzare azioni sociali nei confronti dell’infanzia, migliorando la qualità della vita a 300 milioni di bambini nel periodo 2007 -2012 sottolinea Renato Sciarrillo, relazioni estere di P&G – La campagna di Unicef si sposa bene con la nostra strategia e sta dando risultati: dal 2006 a oggi il numero di Paesi interessanti dal tetano neonatale è sceso da 59 a 39. nel 2010 in Italia abbiamo comprato 15 milioni di vaccini”.
Comunicare la Csr
Come dimostra una ricerca sull’impegno sociale delle aziende in Italia, effettuata da Errepi Comunicazione e SWG nel 2010, la pratica del “buon business” è cresciuta anche nel nostro Paese, tanto che tra le aziende con oltre 100 dipendenti, 7 su 10 hanno investito in iniziative di responsabilità sociale, confermando un trend positivo esploso negli anni duemila. Per molte imprese la Csr è diventata quindi, un modello di sviluppo. La sostenibilità può dare un’elevata visibilità e forza ai brand perchè diventa un canale preferenziale di un dialogo con i consumatori e quindi una levata di marketing. “il marketing è vitale per un brand, ma non è la prima finalità della Csr che, invece, attraverso azioni concrete trasferisce dei valori in grado di creare un circolo virtuoso positivo che può portare il cliente a scegliere un marchio proprio perchè è sostenibile”, chiarisce Rotondo. Eppure, secondo un’altra ricerca effettuata nel 2011 da Ipsos per un conto di Consumers’ Forum in 5 paesi dell’UE (Italia, Germania, Spagna, Polonia e Regno Unito) solo il 14% della popolazione conosce il significato dell’espressione Csr. “non credo che il termine abbia valore in quanto vocabolario in sé – precisa Brandy-, piuttosto è necessario semplificare la comunicazioni degli obiettivi e degli effetti della Csr sul grande pubblico, impiegando un linguaggio semplice, immediato ed emozionale anche attraverso le immagini. Penso a campagne educative e ideologiche, che mirano a stimolare il dibattito e le opinioni sui valori. L’alternativa può essere un approccio più soft, ma i risultati saranno più deboli. E i bisogni sociali difficilmente sono soft”. Cosa c’è di meno soft di uno spot che per mesi entra nelle vite degli italiani? L piano di comunicazione di P&G per l’ultimo trimestre 2011 ha destinato gli investimenti maggiori proprio sullo spot che presenta l0iniziativa con UNICEF. “Trasmettere i valori della Csr e della marca è complesso – spiega Sciarrillo – e lo si può fare a molti livelli. I nostri sono marchi che hanno creato relazioni continuative con i consumatori nel corso degli anni. La TV è fondamentale per raggiungere un target ampio, ma ora ci è data la possibilità di sfruttare altri mezzi, in primi il web, per rivolgerci a un pubblico più motivato . Il digitale da più profondità al messaggio, consente di dare dettagli in più rispetto a un 30 secondi”. I social media stanno quindi cambiando l’approccio alla responsabilità. “Un mezzo straordinario per entrare in contatto con la realtà del mercato – aggiunge Brandy- . Un tessuto di esperienze collettive che riflette la nostra realtà quotidiana. Anche Unilever è sempre più attenta a questa rete di comunicazione, per comprendere meglio quali sono le esigenze e le richieste dei nostri consumatori. Ma anche come mezzo per proporre prodotti che siano attuali e vicini alle esigenze delle persone”. Sempre secondo la ricerca di Ipsos, Fiat è stata votata come l’azienda italiana più responsabile. Inoltre, secondo gli indici del Dow Jones Sustainability World ed Europe. L’azienda automobilistica anche nel 2011 si è confermata per il terzo anno consecutivo uno dei leader di sostenibilità nel settore Automobiles, ottenendo il massimo punteggio in quasi tutte le aree di analisi, tra cui lotta al cambiamento climatico, performance dei prodotti, processi logistici e nella sezione sociale per lo sviluppo del capitale umano, lo stakeholder engagement, la gestione responsabile della catena di fornitura e le attività a favore della comunità. I grandi brand possono contribuire, grazie alla loro visibilità, a sensibilizzare e a catalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica su temi e fati sociali”. In questo senso cito su tutte le campagna di comunicazione del brand Lancia 2009, dedicata ai premi Nobel per la pace e in particolare ad Aung San Suu kyi, della quale chiedevano la liberazione  nel primo flight, per poi realizzare un secondo spot, quando l’attivista per i diritti umani fu rilasciata – precisa Maurizio Spagnulo, media & digital marketing director di Fiat Automobiles-. È ovvio  che la sua liberazione non è stata merito di Fiat ma di ben altri equilibri, però noi abbiamo contribuito a installare una goccia nel mare. Quella spot non si può definire prettamente commerciale e ha veicolato un concetto più che un marchio”.
Csr e crisi
Buono, etico, sano, responsabile, eco-compatibile sono parole che aiutano a definire e a migliorare la reputazione e l’immagine aziendale, ma la politica della sostenibilità ha (ed) è un costo ed è naturale pensare che sia una delle prime voci a sparire dai budget. Del resto, basta aggiungere due ii e Csr si trasforma in crisi. “Il fatto che lo USLP rappresenti la nostra strategia di business e non una semplice attività di comunicazione, attenua la prospettiva negativa della riduzione dei budget – spiega Brandy-. Buona parte delle nostre energie creative e del nostro impegno a trovare soluzioni si sta concentrando, in tutte le sedi Unilever del mondo, sulla realizzazione degli obiettivi dello USLP. Il nostro traguardo quindi, indipendentemente dagli scenari economici, sarà quello di introdurre sul mercato prodotto che rispondano a bisogni reali e rilevanti per i nostri consumatori nel rispetto del Pianeta in cui viviamo. Il nostro Piano per realizzare il cambiamento nel mondo rimane invariato, con o senza crisi”. Anche secondo Rotondo “esiste un rischio concreto per cui le iniziative di Csr si riducano, a causa della situazione economica. Invece è proprio questo il momenti di trasferire un’immagine più positiva a seguito di un’azione positiva. Perchè se è vero che sopratutto la green issue è di moda, e ancora più vero che il consumatore di informazioni sia in condizioni di riconoscere un approccio speculativo da un etico. La pennellata di benevolenza da sola non basta, ci deve essere dietro una sostanza che si esprime nella continuità degli interventi”. Anche la strategia di P&G proseguirà nonostante il momento difficile, perchè “i consumatori sono più disposti a premiare azioni trasparenti e impegnate, in un momento difficile forse è più facile essere solidali. Per noi è un opportunità di essere selettivi nelle scelte strategiche e continueremo a investire in Csr. La selettività alla fine premia”, conclude Sciarillo. In poche parole i vantaggi tangibili immediati forse sono inferiori ai costi, ma l’intervento viene fatto sul medio-lungo periodo. In questo panorama un po’ confuso, la morale è quella del “meglio fare qualcosa, piuttosto che non fare nulla” e in definitiva è proprio questa la strada che le imprese dovrebbero percorrere, anche secondo molti manager: prendere posizioni, proporre e non imporre, dando un segnale che fanno parte di una società che loro stessi contribuiscono a rendere migliore per la collettività. Perchè la Csr è ormai diventata, a tutti gli effetti, un modo di pensare al futuro.
BOX: dal Nord al Sud Europa prima di tutto “il benessere dei dipendenti”
Grom è un’azienda italiana fondata da due giovani imprenditori Federico Grom e Guido Martinetti, che nel 2003 hanno aperto a tornio il primo negozio di quella che è diventata una catena di gelati artigianali con 500 punti vendita nel mondo. Ikea, la “svedese”, la conoscono tutti, anche perchè oltre a vendere mobili con un ottimo rapporto qualità-prezzo, ha dovuto passare qualche volta la vaglio della censura mediatica per le sue campagne pubblicitarie. Dal Nord al Sud Europa, da una piccola azienda made in Italy a una multinazionale, la visione strategica comune è quella di creare una vita quotidiana migliore per la maggioranza delle persone, a cominciare dal personale a cui si dà lavoro, con un occhio iper attento alla salvaguardia dell0ambiente e alle risorse del pianeta. “Obiettivo primario di un imprenditore lungimirante- spiega Martinetti- è quello di far vivere bene chi lavora per lui, perchè il benessere di un’azienda è proporzionale al benessere dei dipendenti. Ci stiamo riuscendo: il tasso di dimissioni da Grom p del 3%, cioè molto basso. Cerchiamo di far crescere degli individui migliori facendo scelte di campo: per esempio l’82% del nostro personale p composta da giovani e da donne”. Altre “scelte di campo” sono le materie prime, bio e senza additivi, e il progetto ecologico “Grom Loves World” con il quale la plastica per cucchiaini e sacchetti per il gelato d’asporto è sostituita con il Materbi completamente biodegradabile. Grom appoggia anche alle iniziative benefiche ma “non ne parliamo perchè diventerebbe marketing!, spiega Martinetti. Ikea Foundation vanta dal suo conto cooperazioni con parecchie ong tra cui Wwf, Save the children e Unicef e sostiene globalmente programmi che promuovono salute, diritti umani e istruzioni per molti bambini bisognosi, però “la Csr non è solo Charity, è sentire la responsabilità di dare lavoro a 10mila persone”, spiega Valerio Di Bussolo, responsabile relazioni estere di Ikea Italia Retail. Ed è anche scegliere di fare una comunicazione fuori dal coro, che parla di integrazione di razze, generi, di scelte sessuali. “Ikea fa una fotografia dell’Italia che c’è. Per noi ognuno è una famiglia, anche un single o una coppia gay. Facciamo della “diversity” uno strumento di comunicazione prima di tutto nei confronti dei nostri dipendenti. Il fatto di utilizzare questo palcoscenico sottolinea la presa di coscienza di una realtà quotidiana trasferita in uno strumento importante quale è la pubblicità”.
BOX: La polemica: i si o i no alla Csr
La Csr è sempre di più oggetto di dibattito, a dimostrazione che la tematica è sentita come molto attuale. Nel recente convegno “RES Responsabile Etico Sostenibile. Esiste un modella di business dal volto umano? Che si è svolta a Torino con l’organizzazione del Club della Comunicazione d’Impresa del capoluogo piemontese, ha stimolato un testa a testa tra due “partiti”: quello a favore e quello contrario alla Csr. Partendo dalla situazione economica attuale, secondo il giornalista Luca Poma “l’esasperazione di fare profitto ci ha regalato una crisi socio-finanziaria e un pianeta malato. Dire che l’unica responsabilità è fare utili equivale all’atteggiamento di chi si tappa il naso per poi dire che non ha il senso dell’olfatto. La Csr per molte aziende, anche di piccole dimensioni, si è trasformata in un fattore di crescita, di competizione di distinzione e di fidelizzazione presso il consumatore”. Paul Seaman, esperto di pr ed editor di 21st-Century PR issues, è invece un accanito bastonatore della strategia che la Csr comporta perchè “essa, da un lato, è concepita da una parte dell’opinione pubblica come una frode, dall’altro rappresenta una fonte di distrazione per le aziende che possono continuare a esistere solo inseguendo il profitto. Il risultato di una implementazione della Csr sarebbe un mondo senza aziende e di conseguenza senza occupazione. Un manager non può fare due professioni, guidare un impresa e contemporaneamente salvare il mondo”. “Fare profitto – ribatte Poma – non significa fregarsene. Volendo volare basso si può dire che la Csr sia un investimento e non un costo, o si può volare alto e dire che le aziende, volenti o nolenti, fanno parte di una rete sociale complessa e per questo devono prendersi delle responsabilità, decidere da che parte stare: se subire il fatto di essere parte di una rete sociale disinteressandosene, o se governare questi processi e farne una marcia in più per competere sul mercato”. E sul costo della Csr? “Se la considero come pura azione di comunicazione, di fronte a una crisi la taglio, se la percepisco come stakeholder engagement diventa un fattore di crescita”, conclude Poma.




Mela Marcia, il lato oscuro di Apple

Le inquietanti zone d’ombra di una delle più grandi aziende del mondo ICT.
Mela marcia, La mutazione genetica di Apple è un trattatello scritto a più mani sotto forma di brevi monografie che svelano alcuni dei retroscena di maggior impatto nel mondo dell’informatica che conosciamo e soprattutto in quello che non conosciamo.
Indubbiamente laInformation and Communication Technology negli ultimi anni ha raggiuntoun’importanza e un peso economico di assoluto rilievo; basti pensare che le maggiori aziende del settore, considerate a livello planetario, sono circa il doppio di quelle che hanno in carico la domanda mondiale di risorse energetiche.
Da qui derivano sia l’importanza a volte esagerata che tutti i governi hanno dedicato recentemente all’informazione, sia la cura che le aziende mettono nella tutela dei propri segreti industriali.
Si spiegano così anche le varie battaglie – o le vere e proprie guerre – che vengono mosse per assicurarsi una fetta di mercato o la disfatta di un pericoloso concorrente.
In tale panorama si inserisce questo testo, il cui filo conduttore è l’analisi dettagliata delle vicende di Apple, l’azienda che nacque quasi per caso dalla passione di due hacker. Dopo un periodo di offuscamento quasi prefallimentare, in pochi anni è rinata sotto la guida di Steve Jobs, andando persino a insidiare, bilanci trimestrali alla mano, la corona di sua maestà Microsoft.
Il racconto prende le mosse dall’analisi punto per punto di quanto accadde in occasione del lancio dell’ultimo smartphone commercializzato da Apple, l’iPhone 4, rivisitando l’incidentalesmarrimento del prototipo in un bar e le vicende che portarono poi allaperquisizione della casa dell’editore di Gizmodo, uno dei blog di gadget più seguiti nei paesi anglofoni, da parte dei giannizzeri della Rapid Enforcement Allied Computer Team (REACT).
Prosegue poi raccontando il teatrino dell’antennagate, il noto malfunzionamento in ricezione dell’iPhone 4, dapprima nascosto agli utenti e poi ammesso a malincuore dall’azienda di Cupertino. Quest’ultima prometteva di risolvere l’irrisolvibile con una patch software, non senza gettare malignamente pietre nell’orticello della concorrenza (Motorola, Rim, Nokia ecc.) e lasciando intendere che ben altri difetti affliggevano l’hardware senza il marchio della mela.
Il tutto è calato nella profonda rivisitazione di tutto il Web e di ciò che esso diverrà con l’affermarsi inarrestabile del cloud computing, ma sempre tenendo d’occhio le ultime realizzazioni Apple e in particolare quell’iPad, vero e proprio bestseller a fronte di discutibili qualità e indiscutibili manchevolezze, rispetto alle realizzazioni analoghe di altri produttori.
Eppure – riflette tristemente la coautrice Mirella Castigli – anche in questo caso pare vigere la “legge di Metcalfe” secondo la quale il valore di una tecnologia è destinato a crescere in funzione del numero degli utenti che la adottano e non in funzione delle sue intrinseche qualità.
Di ciò Mirella Castigli fa il punto di partenza di una nuova analisi tecno-sociologica sul destino dell’editoria elettronica e sul perché si pongano su posizioni tanto distinte e spesso contrapposte gli editori “tradizionali” e quelli emergenti, travolti dal vento che trasporta la “nuvola” del calcolo distribuito da remoto.
Chiudono il volume cinque brevi “spioncini” che permettono di gettareocchiate indiscrete su segreti scomodi e vicende negate, poco conosciute o comunque passate sotto silenzio da un’informazione invece sempre pronta a dare addosso alla multinazionale di Redmond.
Si spazia quindi dai suicidi di Foxconn – l’azienda che realizza l’hardware di Apple – alla TV di Google prossima a venire, lasciando ancora un’ultima parola sui difetti dell’iPad e le disavventure di Gizmodo.
In definitiva si tratta di un testo complesso nei contenuti ma scritto con un linguaggio chiaro e coerente, denso di dati e riferimenti, che non può mancare nella libreria di chi si occupi di IT in modo men che occasionale; il tutto al prezzo di una decina di caffè.
Completano il testo la prefazione e le molte note poste alla fine degli otto capitoli, nonché una serie di codici QR mediante i quali è possibile accedere a contenuti multimediali in rete con l’impiego di un qualsiasi smartphone dotato o dotabile di un software di acquisizione. Che sia rigorosamente free, come rammentano gli Autori in quarta di copertina.
Scheda
Titolo: Mela marcia
Sottotitolo: La mutazione genetica di Apple
Autore: NGN (Ferry Byte; Mirella Castigli; Caterina Coppola; Franco Vite)
Editore: XBook (Agenzia X e Associazione Culturale Mimesis)
ISBN: 978-88-95029-40-5
Distributore: Mimesis Edizioni – PDE
Licenza: Creative Commons Pagine: 130
Prezzo: Euro 10,00




Alcune brevi news "green"

Una carrellata di “brevi” sul trema dell’ecologia, tratte da “SetteGreen”, allegato del Corriere della Sera
Giocando si impara a rispettare l’ambiente
Un altro videogioco si va ad aggiungere al filone del serious games, basati cioè su tematiche di attualità e concepiti con obbiettivi educativi. E questa volta p il rispetto per l’ambienti a fare da messaggio. In “The Invisible Hand, la sfida per un modo equo”, realizzato in 3d per PC, si parte da un grande metropoli del Nord del mondo per battersi contro il consumismo e la pubblicità martellante. Poi l’azione si sposta in Africa, in una piantagione sfruttata dalle multinazionali, per indagare i meccanismi ingiusti che governano l’economica mondiale. Alla fine l’incontro con un produttore indipendente e la scoperta del commercio equo-solidale. Oltre l’aspetto lucido, il disco propone schede di approfondimento e quiz adatti anche agli studenti.
Cambiare rotta per ridurre la CO2
Ottimizzare le rotte aree con l’obiettivo di risparmiare carburante e abbattere la produzione di CO2. Ci prova l’Enav, società nazionale per l’assistenza al volo. L’esperimento è iniziato nel 2008 sulla rotta Milano-Roma, facendo volare aerei a un livello di crociera più atto, dove l’aria è più rarefatta e l’attrito è minore, condizione che permette di consumare quantità di combustibile più basse garantendo gli standard di sicurezza. Poi, un programma, il Fight Effeciency Plan (FEP), per la riconfigurazione della rotte e l’ottimizzazione di alcuni percorsi, per abbreviare le tratte. E se negli ultimi tre anni il risultato complessivo è stato quindi di 55 milioni di chili di carburante non consumati, quasi nove milioni di chilometri percorsi in meno e 175 milioni di chili di CO2  ridotti, i benefici per le compagnie aree si sono tradotti anche in un risparmi in termini monetari, con un taglio stimati di ben 27 milioni di euro.
La pecora, ovvero la tosaerba più ecologico
Tosaerba a impatto zero: tagliare un prato in maniera ecologia è possibile. L’hanno fatto alla Whiripool, che ha aperto i cancelli a 1.200 pecore invitate da Coldiretti. Gli ovini hanno brucato 5 ettari di prato che circondano la fabbrica di Cassinetta di Biandronno, provincia di Varese, dimostrando che un giorno da pecora, anzi da gregge, può diventare di massima utilità per l’ambiente: fa risparmiare carburante e riduce l’inquinamento. Anche gli animali e gli allevatori hanno avuto un rientro in erba fresca a costo zero: considerato il rincaro del 19 per cento, che ha interessato mangimi quest’anno, la collaborazione azienda-ruminanti potrebbe consolidarsi.
Lotta allo spreco a tavola
Dal piatto alla spazzatura: è triste destino degli avanzi di pranzi e cene al ristorante in Italia, infatti, a differenza che nei Paesi anglosassoni, resta poco diffusa l’usanza di portare a casa quello che non si è riusciti a mangiare. Alcuni locali milanesi però hanno cominciato a offrire ai propri clienti Doggy Bag (www.doggy-bag.it), un sacchetto di carta che include un contenitore a chiusura ermetica per trasportare le “rimanenze” e consumarle il giorno dopo, o fare assaggiare a Fido. La vaschetta, disponibile nella versione a uno o due scoparti, è realizzata in materiale per alimenti adatto al forno a microonde, e può essere riutilizzata.
Un cemento a impatto zero
Per abbattere le emissioni di anidride carbonica bisognerebbe intervenire dalle fondamenta. O meglio; dal cemento che serve per costruirle. Ne sono convinti quelli della Novacen (società che si occupa di materiale da costruire a impatto zero), tanto da averne creato un tipo che non solo abbatte il rilascio di CO2 durante la fase di produzione, ma addirittura attira quella che circola nell’aria e la distrugge. Insomma: un cemento mangia anidride carbonica. Il nuovo materiale utilizza il silicato di magnesio invece che i composti di calcio perchè brucia meno energia durante la fase di lavorazione e, allo stesso tempo, assorbe CO2 . Secondo i produttori costi e presentazioni saranno quasi identici al cemento tradizionale. Ma con vantaggi incalcolabili per la salute dell’ambiente e nostra.
I professionisti green si trovano on-line
I lavoratori eco sostenibili sono il futuro. Lo sanno bene gli esperti di www.Infojob.it, che opera nel settore del recruiting online. Hanno creato, infatti, green-job (www.infojob.it/lavoro/green-job), il primo canale tematico dedicato alle offerte di lavoro nel settore della green economy. Green-job offre impieghi per posizioni “tradizionali” (amministrazione, vendite, compatibilità) e per i ruoli più tecnici come progettisti d’impianti fotovoltaici.
 




Chiacchiere da brand.

Storie di aziende che cercano il dialogo con i clienti
Ogni prodotto ha dietro di sé una storia da raccontare. E da sempre è proprio quella storia il punto di forza per attrarre e convincere i clienti. Ma con i social network abbiamo assistito a un cambiamento: ormai gli addetti ai lavori sanno che il racconto di un’azienda ai clienti non è più confinato in uno spot di trenta secondi, né su una pagina di giornale: è diventato una conversazione continua. In Rete si parla di tutto, anche di prodotti, marchi e aziende. Si scambiano giudizi e impressioni, esperienze, aspetti positivi e negativi di un prodotto. “Le aziende devono essere consapevoli che in Rete si parla di loro anche se loro non sono presenti”, dice Vincenzo Cosenza, responsabile della sede di Roma di Digital PR. “Essere online è un modo per dialogare con i potenziali clienti, ma anche per indirizzare la conversazione”. Se ben usati, i social network possono essere un’opportunità. “Per un marchio lasciare che la conversazione fluisca completamente libera è ben più pericoloso”. Da alcuni anni il marketing si trova ad avere a che fare con un cliente che non è più soggetto passivo della comunicazione pubblicitaria. Anzi, ormai si aspetta (pretende!) una certa dose di dialogo con il produttore: vuole influenzare gli sviluppi dei progetti, essere interpellato sulle novità, ricevere risposte ai suoi dubbi. Alcune aziende lo hanno capito e stanno investendo nella comunicazione sul Web per sviluppare un nuovo tipo di relazione con il cliente. Secondo eMarketer, un gruppo di analisi sulle abitudini e i consumi online, alla fine del 2011 la spesa globale per la pubblicità sul Web raggiungerà i 6 miliardi di dollari. In un periodo in cui gli introiti pubblicitari calano su quasi tutte le piattaforme (tv a -1,8%, stampa -5,3%, radio -7,2%) Internet assiste invece a un deciso aumento dei ricavi, con un +17,6% a livello mondiale e un incremento del 15% registrato nel 2010 sul mercato italiano. Facile immaginare che gran parte di questi investimenti finisca sui social network, che permettono alle aziende di raggiungere un pubblico ampio e insieme ben definito. Facebook, ad esempio, ha superato lo scorso luglio i 750 milioni di utenti. Venti milioni sono gli italiani iscritti alla più famosa delle piattaforme sociali, di cui quasi quattordici compresi nelle fasce d’età tra i 18 e i 44 anni.
Conversazioni da multinazionale
Non c’è solo Facebook. Vincenzo Cosenza ha curato per il colosso Procter & Gamble la comunicazione di Pringles. Dopo aver abbondantemente superato i 15 milioni di “Mi Piace”, le patatine nel tubo hanno deciso di lanciarsi anche su Foursquare, il social network basato sulla geolocalizzazione che permette di far sapere ai propri contatti dove ci si trova in ogni momento. È una community ancora di nicchia nel nostro paese, ma nel mondo ha già più di 10 milioni di utenti. “L’immagine di Pringles ― spiega Cosenza ― è legata al divertimento e alla festa; noi abbiamo iniziato a suggerire i luoghi del divertimento (locali, piazze, discoteche) nella zona in cui si trovano gli utenti che si collegano al nostro profilo”. Ovviamente anche gli utenti possono suggerire nuovi luoghi, arricchendo le proposte di Pringles. In questo caso, per Procter & Gamble il social network non è un luogo per fare promozione ma diventa una piccola guida, un modo innovativo per guadagnarsi la fiducia dell’utente. Anche se poi l’obiettivo finale è sempre quello, vendere; “Ma l’utente apprezzerà comunque il buon consiglio ― dice Cosenza ― anche se arriva da qualcuno che, alla fine, vuole fargli comprare un prodotto”. Attenzione a non farsi prendere dall’entusiasmo. I social network sono uno strumento potente, ma bisogna saperlo utilizzare. La pagina delle Frecce di Trenitalia, per esempio, ha a lungo usato Foursquare per indicare agli utenti che entravano in una stazione le promozioni o gli sconti che potevano ottenere acquistando il biglietto in loco. Tutto bello, ma si può immaginare che a quel punto l’utente Foursquare abbia già acquistato il biglietto online, comodamente da casa o dall’ufficio. E scoprire solo a quel punto che poteva risparmiare diventa inutile e anche un po’ fastidioso. Il rischio è questo: se non si conosce la grammatica del Web Sociale ci si espone a errori gravi.
Piccole imprese sul Web
Forse saranno le imprese di medie dimensioni a trarre i maggiori benefici da un’efficace presenza sul Web. Hanno budget discreti da investire e poca burocrazia, letale se accoppiata alla rapidità della Rete. La Lago, in questo senso, è un caso virtuoso. Un’azienda di design domestico e arredamenti, da 30 milioni di fatturato all’anno e 150 dipendenti, che ha fatto del dialogo con i clienti un marchio di fabbrica. Progettazione condivisa dell’appartamento, incontri con designer e architetti, ma anche un blog sempre aggiornato con gli appuntamenti in programma e una community molto vivace che accoglie i dubbi dei clienti: “Ho comprato il vostro tavolo Air laccato bianco ― scrive preoccupato uno di loro ― ma si è macchiato di vino. Ho provato a pulire subito ma è rimasto l’alone. Avete qualche rimedio da consigliarmi?”. Dopo pochi minuti risponde uno dei cinque responsabili comunicazione che promette di informarsi con gli esperti e tornare con una soluzione il prima possibile. Anche questo è social marketing. “Abbiamo deciso di metterci sempre la faccia ― racconta Diego Paccagnella di Lago ― dimostrando di credere nei nostri prodotti: e abbiamo subito capito che risultavamo più credibili e convincenti”.
Il discorso vale per tutti. Secondo uno studio del Boston Consulting Group sulle piccole e medie imprese italiane, le aziende attive online (con marketing e vendite sul Web) hanno registrato un aumento medio dei ricavi dell’1,2% negli ultimi tre anni, mentre le imprese che usano soltanto un sito o sono del tutto offline hanno subito cali del 2,4 e 2,5%. Dati significativi se pensiamo che secondo L’ISTAT le pmi rappresentano il 70% del fatturato e l’80% degli occupati italiani.
Pubblicità per pochi
Immaginate di dover comprare un’automobile, o uno smartphone. Dove cerchereste le informazioni per scegliere il modello giusto? Difficilmente su un sito aziendale. Più facile che optiate per i commenti di vecchi clienti su un forum, o per siti di recensioni. “Il vecchio sito statico non è più negli interessi del consumatore: per ottenere informazioni su un prodotto non si va più sul sito promozionale di un’azienda”, dice ancora Vincenzo Cosenza. “Prima di arrivarci gli utenti passano per siti specialistici, blog ritenuti affidabili e i tweet degli amici: insomma, quando arrivano sul sito aziendale si sono già fatti un’opinione ben precisa”. Le aziende devono usare altri mezzi. E le potenzialità del Social Web si mostrano al massimo quando si vuole raggiungere un target piccolo ma ben definito. Il lancio della nuove Fiat 500 è ormai un caso studio, ma nel 2009 l’azienda torinese ha raccolto un’altra sfida. “Dovevamo lanciare la 500 in versione speciale, tutta rosa, dedicata alle giovani donne. Bisognava creare il marchio della macchina, ma ancora non avevamo nemmeno il nome”, racconta Giovanna Negrim che ha curato il progetto. “Abbiamo deciso di coinvolgere i circa 100mila fan (all’epoca) di Fiat 500 su Facebook, proponendo loro quattro nomi fra cui scegliere”. Il più votato alla fine è stato so Pink, e, voilà, ecco il nome per l’edizione limitata. Sempre su Facebook il team di Giovanna Negri ha lanciato un’applicazione in collaborazione con Google Maps per aiutare a localizzare il concessionario con Fiat 500 so Pink più vicino all’utente. Il risultato è stato un grande successo commerciale: in poco tempo il lotto di trecento so Pink è andato esaurito e si è deciso in corsa di metterne in produzione altrettante. “E la comunicazione è stata fatta tutta online, di cui l’80% sui social network. Non c’era budget per l’offline”. Le pubblicità devono avere al loro interno un elemento sociale intrinseco. Facebook ha imposto un modello basato sulla socialità, che ora Google+ svilupperà ulteriormente. E anche le narrazioni aziendali devono adattarsi ai requisiti di compartecipazione e condivisione del Web Sociale. È un campo in cui c’è ancora molto da innovare.




Illy Caffè: una stakeholder company

Vendiamo caffè? No, facciamo felici i nostri pubblici!
Chicchi d’intelligenza del leader italiano dell’espresso

Illycaffé è una  stakeholder company, la cui missione è il miglioramento della qualità della vita di tutti coloro che con essa hanno un rapporto.

Questa affermazione di Anna Adriani, Direttore Relazioni Esterne e global PR dell’azienda triestina, la dice lunga su quanto, in Illy, le relazioni pubbliche non solo siano istituzionalizzate ma abbiamo realmente un ruolo strategico.
La cura e la gestione delle relazioni è il cuore della governance dell’azienda…
Illycaffé è una  stakeholder company, la cui missione è il miglioramento della qualità della vita di tutti coloro che con essa hanno un rapporto, in una gerarchia che vede al primo posto consumatori e clienti, seguiti dai collaboratori, i fornitori, le comunità di riferimento e, infine, gli azionisti.
Per questo la gestione delle relazioni è cruciale e centrale e il compito della funzione che dirigo è proprio questo.
Tutte le iniziative ed i progetti che portiamo avanti in stretta collaborazione e integrazione olistica con le altre funzioni aziendali – dal Marketing alla Direzione Artistica, dal Commerciale all’Università del Caffè – hanno lo scopo di crearee mantenere rapporti di lungo termine e ad alto valore aggiunto.
Cosa significa fare comunicazione oggi e quali gli strumenti più efficaci?
Se il fine è la relazione, gli strumenti che riteniamo più mirati all’obiettivo sono quelli che consentono di entrare in un rapporto attivo con la marca, con i suoi contenuti e con i suoi valori. Una mostra di Sebastiao Salgado che ritrae nelle sue foto i coltivatori brasiliani, indiani o guatemaltechi da cui l’azienda compera il suo caffè, parla immediatamente di responsabilità sociale e di sostenibilità. Il magazine Illywords ospita argomenti e suggestioni che propongono una visione della marca profonda e coinvolgente. La Guida ai Bar d’Italia che da anni facciamo in collaborazione con il Gambero Rosso è un modo per promuovere un’istituzione unica e peculiare come il bar italiano presso tutti gli amanti della qualità della vita.
Illy è stata una delle prime aziende ad aprire all’e-commerce diretto. Che posto occupa il web nelle vostre strategie e chi sono i pubblici che lo utilizzano di più?
Abbiamo proprio di recente rinnovato il nostro sito, che è in continua evoluzione e vuole rispondere alle esigenze sia di chi va sul web per comperare, sia, soprattutto, di chi in internet cerca relazioni e conversazioni. Collaboriamo con il Marketing proprio nella costruzione di una comunità in rete vicina alla nostra marca, nella logica del web 2.0. Ogni nostra iniziativa off line, inoltre, trova il suo corrispettivo e la sua integrazione on line, in quella logica olistica di cui parlavo prima.
L’accordo con Coca Cola ha avuto un’ampia eco internazionale. Come l’hanno accolto i consumatori?
C’è moltissima curiosità e interesse attorno a questa iniziativa, che va nella direzione, intrapresa ormai da alcuni anni all’azienda, di offrire la qualità ed il gusto illy in tutte le situazioni ed occasioni di consumo.
Il cosiddetto Ready To Drink è molto affermato in alcuni mercati, come ad esempio quelli asiatici e pressoché sconosciuto in altri, come l’italiano. La sfida affascinante, anche per le Relazioni esterne, è quella di costruire conoscenza, interesse, suggestioni attorno a questo prodotto.
Come fate a valutare gli effetti delle vostre attività e misurarne, eventualmente, i risultati?
Valutiamo in modo molto approfondito le evidenze e i risultati quantitativi e qualitativi del lavoro dell’ufficio stampa a livello globale, anche in rete. E ci avvaliamo dello strumento della ricerca per quanto attiene a iniziative specifiche – ad esempio Galleria illy – per verificarne l’impatto sulla rilevanza della marca nella mente dei nostri interlocutori. Riteniamo che misurare sia fondamentale per orientarci nelle scelte strategiche.
Il caffè, materia prima del vostro prodotto, si porta dietro questioni etiche e socioeconomiche come lo struttamento dei produttori. Come l’etica entra nelle vostre politiche di comunicazione?
Sostenibilità ed etica sono per illy valori imprescindibili da sempre. Non sono un tool di comunicazione frutto di mode recenti, ma stanno nel DNA dell’azienda sin dalle sue origini, 75 anni fa. Inoltre, riguardano a 360 gradi i comportamenti dell’azienda, che promuove la sostenibilità sociale, ambientale ed economica nei confronti di tutti i suoi stakeholder.
Certamente, considerando che il caffè viene coltivato al cento per cento nel Sud del mondo in Paesi spesso molto poveri o in via di sviluppo, illycaffé rivolge ai suoi fornitori un’attenzione particolare, creando con loro relazioni dirette. Sono basate innanzi tutto sul trasferimento di conoscenza finalizzata ad ottenere un raccolto di qualità superiore, attraverso l’Università del Caffè che tiene corsi per i coltivatori in India, Brasile e in tutti quei Paesi dove l’azienda compera i sui preziosi chicchi. E poi paga questa qualità direttamente nelle mani dei coltivatori, a un prezzo sempre superiore a quello di mercato. Comunichiamo queste nostre politiche con adeguata enfasi in quanto sono le persone che scelgono la nostra marca a volere essere giustamente al corrente dei comportamenti dell’azienda.