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Intervento di Luca Poma al Convegno L'Informazione, L'Universo, La Vita

La trascrizione integrale del discorso tenuto da Luca Poma il 02/12/2011 al convegno “L’INFORMAZIONE, L’UNIVERSO E LA VITA”, Milano, Università IULM
SLIDE INIZIALE:
“Se la bellezza della terra dovesse venir distrutta dall’aumento illimitato della ricchezza, allora io spero sinceramente per amore dei posteri che essa sarà contenta di rimanere stazionaria, molto tempo prima di esservi costretta dalla necessità”
 
Chi ha scritto questa frase? Un moderno imprenditore illuminato? La domanda non è retorica: se qualcuno conosce la risposta può rispondere…
John Stuart Mill, “Principi di economia politica”, siamo metà ‘800, Cassandra inascoltata dagli esperti di Wall Street, direi… La lasciamo li come monito, per l’intera durata del mio intervento.
Comunque, inizia così, con questa frase di Mill, l’ultimo provocatorio saggio di Serge Latouche, “Breve trattato sulla decrescita serena”. Ovvio che il pianeta non potrà mai “decrescere”, forse il lavoro di Latouche ha un approccio troppo utopistico, ma ciò che è sicuramente vero è che è arrivato il momento di interrogarci su come crescere con maggiore equilibrio, e questa priorità non è più rinviabile. Comunque, inascoltato Latouche, e inascoltati nel nostro piccolo anche noi, tanto che siamo tutti impegnati proprio in questi mesi – nessuna nazione esclusa – a raccogliere i cocci di anni disastrosi dal punto di vista economico-finanziario.
Il punto è che fino a poco prima di questa grande crisi internazionale ci lanciava l’allarme finiva inascoltato, come se predicasse dei principi astratti: ora invece si sta facendo largo a tutti i livelli la consapevolezza che il paradigma dell’ottimizzazione massima del guadagno a breve termine era un principio buono e profittevole solo per  coloro che ne godevano tutti i vantaggi. Noi, che nutrivamo dei dubbi, passando ancora per ignoranti e non “a la page”, inadeguati a cogliere i frutti del bengodi borsistico – siamo infine rimasti con il cerino in mano.
Cosa ci racconta il Professore di scienze economiche dell’Università di Paris-Sud? Che siamo tutti a bordo di un bolide senza pilota, lanciato in corsa, e i cui freni sono stati disattivati da noi stessi, che sta andando dritto dritto a fracassarsi contro i limiti del pianeta, e anche che siamo perfettamente al corrente della situazione, ma la sottovalutiamo per convenienza, perché ammettere questo tipo di consapevolezza turberebbe assai i nostri sonni di occidentali opulenti.
Sembrava impossibile ignorare le raccomandazioni del Club di Roma, che già negli anni ’70 scriveva che il proseguimento indefinito della crescita è incompatibile con i ‘fondamentali’ del pianeta. Ma noi – finchè siamo sicuri del nostro pasto di stasera – facciamo orecchie da mercante…
Dire che una crescita dopata ed infinita del sistema Terra è del tutto incompatibile con l’esistenza di un mondo “finito” nei suoi confini e nella sua capacità di produrre risorse, è cosa talmente ovvia da non poter che raccogliere consensi. Meno accettabile dai più, è tirarsi su maniche, connettere i cervelli, ed incominciare a discutere di “cosa tagliare”, iniziando magari da un ridimensionamento del nostro stile di vita.
Siamo tutti parte – aziende ed individui – di una rete neurale complessa, che è la nostra società, e con essa volente o nolente interagiamo quotidianamente: da questa rinnovata consapevolezza deve nascere l’impulso ad un differente paradigma di crescita del pianeta.
Facendo la media ponderata delle affermazioni, intenzioni, progettualità e proclami di tutti, e distillando il meglio da ognuno, è certamente possibile stabilire una “agenda” collettiva, e prima ancora personale, per tentare di invertire la rotta.
Che ruolo hanno la comunicazione e l’informazione in tutto ciò? Più che di comunicazione e informazione mi piace però parlare di “condivisione di informazioni”, di “veicolazione di saperi”, di “co-management”, che puoi vuol dire costruire conoscenza assieme.
Sviluppiamo questi concetti apparentemente “astratti” con qualche esempio:
Alessandro Pizzoccaro, imprenditore di successo nel settore farmaceutico, parlerà più tardi della sua esperienza alla guida di un’azienda nata in un magazzino e ora presente in 30 paesi del mondo – primo al mondo – decide di rinunciare i suoi brevetti ed al copyright sulle ricerche scientifiche e sulle produzioni editoriali, mettendo le conoscenze dei propri laboratori di ricerca a disposizione della collettività, dà certamente un segnale.
Una seconda case-history che ritengo pertinente quando parliamo di rapporto tra informazione nel III millennio e reti sociali, è quella dei politici italiani. La politica è l’Agorà con la A maiuscola, dovrebbe essere la massima espressione “social” di un paese, dal momento che determina e condiziona non solo lo stato di salute dell’ambiente nel quale viviamo, ma anche le modalità stesse con le quali ci interconnettiamo l’uno con l’altro, e un gruppo con un altro gruppo, e una zona geografica con l’altra, e determina anche il “clima” con il quale ci relazioniamo (di paura, diffidenza, timore per il futuro, o al contrario di speranza, di voglia di costruire nuovo futuro, guardate che differenza al riguardo tra gli anni ’60 e i primi 10 anni del 2000). Ebbene, la politica, o meglio, la classe politica: che rapporto c’è tra questo gruppo sociale di vertice e il mondo dell’informazione, segnatamente quella digitale?
Il passato governo Berlusconi era libertario nel DNA (figuriamoci gli altri allora…). Al di la della battuta, il partito si chiamava Popolo della Libertà: ebbene, il nome è uno dei fattori che definisce il DNA di un oggetto. Comunque, in controtendenza rispetto agli esecutivi di tutto il resto del mondo tranne i paesi a regime totalitarista come la l’Iran, Cina, la Corea e la Birmania, quel Governo dichiarò di avere in programma una nuova stretta su Internet: tra emendamenti inseriti nel pacchetto sicurezza, articoli del Disegno di Legge sulle intercettazioni telefoniche e clausole restrittive contro il Wi-Fi ed il livestreaming, sono stati ben sette i tentativi di quel Governo – per fortuna non andati a buon fine – di censurare o bloccare la Rete.
Tradizionalmente, si cerca di controllare ossessivamente ciò che non si conosce, e quello che vi sto raccontando ne è l’esatta conferma. Quando Berlusconi venne aggredito in piazza Duomo la notizia volò sui social network, anche con apprezzamenti di pessimo gusto per l’aggressore (figli del livello di sopportazione ormai ai minimi termini per l’ex Premier, ma comunque ingiustificabili).  Ecco però alcune chicche, dichiarazioni rilasciate dai nostri politici:
–                       “Facebook è più pericoloso dei gruppi eversivi degli anni ‘70” (Renato Schifani, Presidente del Senato)
–                       “Facebook andrebbe chiuso, è un luogo di paranoia e violenza” (Emilio Fede, iscritto all’Ordine dei Giornalisti e portavoce informale del Governo)
–                       “L’aggressore del Presidente Berlusconi è vicino ad ambienti del social network” (Bruno Vespa, iscritto all’Ordine dei Giornalisti, collaboratore RAI e intrattenitore televisivo)
–                       “Ormai i social network sono armi in mano a pochi delinquenti che sfruttando l’anonimato incitano alla violenza, all’odio sociale ed alla sovversione” (Gabriella Carlucci, ex show-girl televisiva delle reti Mediaset ed oggi Parlamentare del Popolo della Libertà)
–                       “Internet è un’ambaradan, un luogo di confusione e di disordine” (Pierluigi Bersani, Segretario del Partito Democratico, come vedete l’idiozia è bipartisan e ce n’è per tutti)
Penso che queste affermazioni non meritino commenti.
La libertà comporta sempre dei rischi: permettere ai cittadini di circolare liberamente di notte senza controllo darà modo a qualche fanatico squilibrato di scrivere a caratteri cubitali sui muri frasi pedo-pornografiche, offensive, diffamanti e volgari. Ma si arresta il maniaco o si abbattono tutti i muri della città?
La “guerra al contenitore” è un vecchio vizio sia fascista che comunista: rassicura la coscienza del borghese medio sapere che la gente malintenzionata non ha più – apparentemente – un luogo dove ritrovarsi a tramare. Peccato che oscurare tutti i siti Internet sospetti in Italia nulla impedirà a chi lo desidera di attivare un dominio all’estero per il proprio “blog sovversivo”, e – premesso che i filtri automatici sul web sono inefficaci su larga scala ed hanno dimostrato tutti i propri limiti – lo scenario cinese, che prevede oltre 40.000 esperti impegnati giorno e notte a setacciare il web è semplicemente folle, nonché economicamente insostenibile
E mai possibile che l’Italia sia uno dei pochi paesi del mondo occidentale nel quale stentano moltissimo a decollare autostrade superveloci per la Rete, nel quale il Wi-fi è raro e quando esiste è a pagamento, contrariamente a quanto accade ovunque nel mondo occidentale, nel quale non esiste un piano nazionale per la banda larga, e dove la tensione ideale della classe politica in tema di libertà d’informazione è indirizzata verso il “fermare” invece che verso il “facilitare”?
Come per l’Iran e gli altri paesi citati all’inizio di questo articolo, Internet forse fa paura, perché la verità rende liberi ed Internet a differenza della televisione – con tutte le pecche che ha il web – è un luogo di libertà, dove la verità prima o poi emerge sempre.
Questo ci porta dritti alla terza case-history. L’australiano 39enne Julian Assange è fondatore del sito rivelatore di dossier segreti “Wikileaks”, arrestato con fumose accuse di stupro, poi ridimensionate in “rapporto sessuale non protetto”. Stretto d’assedio dai Governi di tutto il mondo, ma ancora on-line, come tutti sappiamo il sito aveva come missione quella di selezionare e diffondere dossier “top secret” piuttosto imbarazzanti per le cancellerie di mezzo mondo: 77.000 documenti segreti sulla guerra in Afghanistan, 400.000 documenti sull’Iraq – alcuni dei quali accusano militari USA di aver chiuso gli occhi di fronte a torture e abusi nei confronti di civili compiute da militari iracheni – e centinaia di migliaia di documenti secretati a firma delle più importanti diplomazie occidentali.
Al di là della cronaca, quello che è già stato definito “il dossier web del decennio” chiama a mio avviso in causa ognuno di noi su keywords quali “libertà di informazione”, reti sociali, condivisione trasparente di conoscenza”.
Diversi intellettuali noti in tutto il mondo, tra cui l’americano Noam Chomsky, hanno firmato una lettera aperta al premier Australiano Julia Gillard, perche’ garantisca “un sostegno forte” ad Assange. Anche i Verdi italiani hanno lanciato una petizione per supportare il sito “libertario” per definizione.
Il fenomeno Wikileaks è solo la punta dell’iceberg di ciò che sta succedendo al mondo della comunicazione nell’era digitale. Migliaia di nuovi soggetti, associazioni, movimenti e singoli cittadini oggi trovano nella rete la possibilità di esprimersi in maniera diretta, democratica e senza filtri, accedendo direttamente a documenti e risorse in una maniera che non ha precedenti nella storia.
Assange ha saputo sollecitare – anche ruffianamente, se vogliamo – la “netiquette” più consolidata, la sensibilità del popolo del web con riguardo a valori come la trasparenza, la libertà di informazione, il diritto dell’utente a conoscere la verità, e con questa strategia di comunicazione non convenzionale Wikileaks è uscita vincente sul web ancora prima di iniziare la battaglia.
Tentiamo però un’analisi più “alta”, in fondo siamo in un’Università.
La teoria dei segnali – che in parte è alla base della teoria dell’informazione – studia appunto le proprietà matematiche e statistiche dei segnali intesi come variazioni per un certo tempo dello stato fisico di un sistema o di una particolare grandezza fisica, come è ad esempio una variazione dei parametri di campo elettromagnetico per i segnali radio. Tali variazioni consentono di rappresentare e trasmettere messaggi, in altre parole di trasferire informazione a distanza. In natura abbiamo diversi tipi di segnali, ma sono tutti accomunati dall’essere in larga misura “casuali”, mentre la teoria dei segnali ne studia la rappresentazione al fine di poterli poi manipolare in modo artificiale, ad uso e consumo dell’uomo, trattandoli anche matematicamente.
Dal momento che il sistema oggetto d’attenzione di questa teoria può essere il più disparato, inclusa ad esempio una Rete Sociale, in un mio saggio del 2010 mi chiedevo perché non applicare questo tipo di teorie anche al campo della comunicazione convenzionale e non convenzionale e alle relazioni tra persone e tra gruppi. “Incertezza” e “informazione” sono due facce della stessa medaglia: senza incertezza non c’è informazione che valga qualcosa, perchè quanta più incertezza c’è nel segnale, tanto più “informativo” è rivelare qual è la reale tendenza del segnale stesso.
Come noto, l’entropia è originariamente un concetto proprio della teoria termodinamica: il termine tedesco Entropie deriva dal greco “dentro”, “cambiamento”, “rivolgimento”: indica quindi “dove va a finire” l’energia fornita a un certo sistema, con riguardo al legame tra movimento interno al corpo ed energia interna o calore.
Questo concetto, oltre che in ambito termodinamico, è stato applicato anche nella teoria dell’informazione, che misura la quantità di “incertezza” presente in un impulso o in un segnale, ed è esattamente l’accezione che voglio prendere in esame.
L’entropia così intesa può essere descritta come il “minimo livello di complessità” di una certa variabile o di uno scenario: in poche parole, potremmo dire che l’entropia è “la misura del caos” (banalizzando, più entropia è uguale a più caos).
Per meglio comprendere il concetto di entropia applicata alla teoria dell’informazione, consideriamo per semplificare un sistema fisico in date condizioni di temperatura, pressione e volume, e stabiliamone il valore dell’entropia, ovvero il grado di “disordine” relativo e quindi l’ammontare delle informazioni a noi disponibili. Supponiamo ora – lasciando invariati gli altri parametri fisici – di abbassare la temperatura del sistema: osserveremo che la sua entropia diminuisce, poiché con il diminuire della temperatura si rallenta il movimento delle molecole, e quindi – come diretta conseguenza – il grado di “ordine” del sistema aumenta.
Si tratta di un ordine statico, che corrisponde alla mancanza di movimento e di lavoro all’interno del sistema stesso: diminuendo l’entropia, diminuisce il caos, quindi aumenta l’ordine, e aumentando l’ordine invariabilmente aumenterà la quantità di informazioni disponibili sul sistema, perché esso risulterà “leggibile” con più facilità e ci trasmetterà maggiori certezze rispetto ad un sistema con un’entropia superiore, ovvero con un livello di caos maggiore e quindi con un più alto numero di variabili ipotizzabili. Per proseguire con il nostro esempio, ad una temperatura prossima allo zero assoluto, tutte le molecole saranno quasi ferme: l’entropia tenderà al minimo, l’ordine sarà il massimo possibile, e con esso si avrà la massima certezza d’informazione.
Al contrario, alte temperature aumentano la “frenesia” all’interno del sistema, moltiplicano il numero di variabili possibili, e fanno quindi crescere esponenzialmente l’incertezza relativa dell’informazione, facendo tendere il sistema verso uno stato virtuale di “informazione zero”. Possiamo dire che per un comunicatore un numero di variabili eccessive rende di difficile interpretazione uno scenario: troppe informazioni sono eguali a nessuna informazione.
In ogni caso, questo genere di riflessioni sono state già fatte proprie dalle scienze sociali, e guarda caso nell’ambito dell’economia applicata alla responsabilità sociale d’impresa: Nicholas Georgescu-Roegen, applicando il secondo principio della termodinamica all’economia, e in particolare all’economia della produzione, ha elaborato una teoria economica che mette in discussione i “fondamentali” della decrescita: ogni processo produttivo non diminuisce l’entropia del pianeta, ma o la incrementa irreversibilmente o perlomeno la lascia uguale, ovvero: tanta più energia si trasforma in uno stato “indisponibile”, tanta più energia sarà sottratta alle generazioni future, e quindi tanta più entropia (disordine proporzionale) sarà riversato sull’ambiente che ci circonda.
E’ interessante in definitiva notare come discipline totalmente differenti – come ad esempio la termodinamica, l’informazione, la comunicazione, l’economia – abbiano molti più punti di contatto di quanto apparentemente si potrebbe sospettare…
L’ipotesi di ricerca che più mi stimola, per venire al dunque, è quella che prevede che – se è vero che siamo tutti, individui ed aziende, parte di una rete sociale articolata, come ipotizzavo nel mio saggio “Reti Neurali complesse” – il livello di sanità mentale e di benessere di un gruppo umano non può prescindere dal grado di sanità mentale e di benessere del singolo, ed esso è a sua volta in strettissima correlazione con la sua capacità di immaginare scenari futuri.
Come ci ricorda Anna Oliverio Ferraris, ricercatrice di grande esperienza, docente alla Sapienza di Roma e autrice – tra le sue numerose pubblicazioni – del bel manuale “Le età della mente”, sono editi a profusione studi sugli aspetti negativi e patologici dell’umore – depressioni, disturbi bipolari, psicosi, eccetera – mentre sono rarissimi quelli sugli stati “positivi”: tutta la tradizionale ricerca psicobiologica ruota intorno all’infelicità umana, mentre il tema della felicità e dei meccanismi che la generano – sia essa la felicità di un singolo che di un’intera comunità – sono da sempre sorprendentemente trascurati.
Emilia Costa, Professore emerito di Psichiatria della Sapienza di Roma e ricercatrice di fama in Italia e nel mondo, nel suo saggio “Il cervello e la mente: dal neurone al comportamento”, conferma che il sistema nervoso esprime in termini somatici la nostra condizione psico-emotiva, garantendo un “controllo sulla risposta allo stimolo”, mediante un feedback basato sul rilascio e sul metabolismo di ormoni, neurotrasmettitori, endorfine ed altri mediatori chimici. Un ambiente ricco di stimolazioni positive quindi fa aumentare lo spessore corticale delle cellule, migliora l’attività modulatrice degli impulsi nervosi e conseguentemente le prestazioni comportamentali dell’individuo e la sua capacità di relazionarsi positivamente con gli altri.
In realtà, le più recenti ricerche paiono dimostrarci che la genetica, le dinamiche neurochimiche e cerebrali e l’ambiente, sono variabili molto più strettamente interdipendenti di quanto fino a non troppo tempo fa si era ipotizzato. La psicobiologia ha dimostrato che alcune aree del sistema nervoso centrale esercitano un ruolo importante sugli stati umorali dell’individuo, che valuta la situazione in cui si trova, i messaggi provenienti dall’ambiente e le aspettative derivanti dai rapporti sociali e professionali, definendo poi ogni scenario in termini positivi o negativi, e reagendo con un differente grado di apprensione o di capacità di rispondere allo stress a seconda di una molteplicità di fattori, tra i quali spiccano certamente il temperamento, i fattori cognitivi e l’interpretazione della realtà.
Potremmo allora discutere della “suprema rete neurale”, la rete complessa che a livello planetario pone in relazione ognuno di noi con l’altro, ogni istituzione con un’altra istituzione, ogni azienda con le altre aziende, e tutti questi elementi organicamente tra loro.
Francois Michelin – l’uomo che portò la sua fabbrica di pneumatici ad essere leader mondiale assoluta nel proprio settore – in una bella intervista rilasciata anni fa ad un periodico italiano affermò convinto che “tagliare pietre” e “costruire cattedrali”, ancorché atti fattualmente simili, sono invece azioni ben diverse. Per questo quando parlo di impegno etico delle persone, delle aziende e delle istituzioni, dico che non si tratta di diventare “ecologicamente sostenibili” per ragioni di marketing e di immagine, ma parlo di “Human Social Responsibility”: si tratta di prendersi cura del tipo di pianeta che lasceremo ai nostri figli, mettendo L’UOMO al centro di ogni processo.
In definitiva, “sintonizzarci” meglio, più armonicamente, più efficacemente con questa rete neurale non potrà che migliorare il grado di benessere e sanità mentale nostro, del nostro gruppo, della comunità alla quale apparteniamo, e quindi – come pezzi di un grande puzzle – del pianeta intero.
Allora, facciamo un favore a noi stessi e al gruppo sociale al quali apparteniamo, quali che siano: apriamo la nostra mente, rimuoviamo barriere, condividiamo informazioni, veicoliamo conoscenza. Smettiamola di “FERMARE”, “facciamo scorrere”…
Costruiamo futuro. Tutti assieme. Grazie.
Breve bibliografia scientifica (in ordine per cognome):
– Bonazzi R., Catena R., Collina S., Formica L., Munna A., Tesini D., Telecomunicazioni per l’ingegneria gestionale. Codifica di sorgente. Mezzi di trasmissione e collegamenti – Pitagora Editrice, 2004, ISBN 88-371-1561-X;
– Chen X., Brent F., McKinnon B., Seker A., A Theory of Uncheatable Program Plagiarism Detection and Its Practical Implementation – 2002-05-05;
– Clausius R., Abhandlungen über die mechanische Wärmetheorie, 1864;
– E. Costa, “Il cervello e la mente: dal neurone al comportamento” – in “La Formazione in Psichiatria e Psicologia Clinica”, di Emilia Costa e Maria Di Giusto – CIC Edizioni Internazionali, Roma 2004;
– E. Costa et al., “Dallo stress psicosociale alla malattia” – Psiche Donna – Vol. 4, n. 3, CIC Edizioni Internazionali, Roma 2003;
– E. Costa, “La comunicazione efficace, ovvero il contrario del Brain Washing”– CIC Ed. Internazionali, Roma 2001;
– Cover T. M., J. A. Thomas, Elements of Information Theory – Wiley, 1991;
– Davidson R. J. et al, “Approach-withdrawall and Cerebral asymmetry: emotional expression and brain physiology”, in “Journal of Personality and Social Psychology” – 58(2), 1990, pag. 330-341;
– De Beauregard O., Irreversibilità, entropia, informazione: il secondo principio della scienza del tempo – Di Renzo Editore, 1994 
• Fano R. M., Transmission of information; a statistical theory of communications. – M.I.T. Press, 1961;
– Diener E., “Subjective well-being: the science of happiness and a proposal for a national Index”, in “American Psycologist” – 55, 2000, pag. 34-43;
– M.G. Malvestito, E. Costa, “Le politiche economico–aziendali di prevenzione e di contrasto” – in Prevenire il Mobbing – Giappichelli, Torino 2005;
– L. Mecacci, “Industria e psicologia: Adriano Olivetti” – in Psicologia contemporanea, edita da Giunti, Milano Nov. Dic. 2010 n° 222;
– F. Michelin, “La cattedrale di Michelin”, intervista pubblicata sul periodico Avvenire in data 23/04/2008 pag. 31, e ripubblicata sulla newsletter del sito creatoridifuturo.it e lucapoma.info in data 23/02/09;
– C. Musatti et al., “Psicologi in fabbrica: la psicologia del lavoro negli stabilmenti Olivetti” – Einaudi, Torino 1980;
– A. Oliverio Ferraris, “Le età della mente” – Edizioni BUR, Milano 2004;
– A. Pizzoccaro, “La felicità interna lorda: dai paradigmi del XX secolo alla vera misura del benessere”, in “Etica anticirisi”, edito dal Centro Studi della Fondazione Banca Europa, 2009;
– Poma L., “Reti Neurali complesse: nuovi strumenti per la CSR” – Ferpi News, 27/01/09;
– Poma L., La Teoria dei Giochi: dalla strategia militare alle relazioni pubbliche, Ferpi News, 2008;
– Poma L., Reti Neurali complesse: nuovi strumenti per la CSR – Ferpi News, 2009;
– M. Pugno, “Economia, autonomia e benessere personale” – in Psicologia contemporanea, edita da Giunti, Milano Nov. Dic. 2010 n° 222;
– Shannon C. E., A Mathematical Theory of Communication – Bell system Technical Journal, vol 27, lug e ott 1948;
– Tribus M., McIrvine E.C., Energy and information – Scientific American, n. 224 (1971), pp. 178–184;
– Wikipedia, enciclopedia libera, Entropia e teoria dell’informazione;
– Wise M., Improved Detection Of Similarities in Computer Program And Other Texts – 1996.
Un ringraziamento particolare va a Massimiliano “Max” Judica Cordiglia per la creazione, nel corso di uno dei suoi “aperitivi creativi” presso la sede della società di produzione audio-video Juma Tv, del termine “Human social responsibility”.
 




Pensare al futuro è questione di Csr

Un business dal volto umano. Come e perchè le aziende cercano vantaggi competitivi attraverso politiche di responsabilità sociale d’impresa. Valori che a volte diventano il core anche della comunicazione pubblicitaria.
Immaginiamo un mare magnum dove molti vogliono bagnare i piedi, non solo perchè è di moda, ma perché è necessario farlo, quel grande mare rappresenta bene la Corporate Social Responsability: un concetto ampio che va alla charity all’adozione di processi di produzione più puliti, dalle policy interne per il benessere dei dipendenti alla scelta di fornitori compatibili, dalle politiche di trasparenza nei confronti dell’opinione pubblica e degli stakeholder alla comunicazione commercial dei brand. Solo rispettando questi parametri si può parlare di Csr, anceh se non esistono ancora vincoli obbligatori o monitoraggi imposti sui comportamenti delle aziende. Gianni Rotondo, direttore generale di Royal Caribbean, operatore di navi da crociera che ha recentemente staccato un assegno di 70 mila euro in favore di telethon, individua quattro momenti in cui un’impresa si muove sul filo della Csr: creare occupazione; implementare il business in attività che hanno un  funzione sociale, come una vacanza: ridurre i costi di produzione e gestione per una maggiore sostenibilità ambientale; sostenere azioni umanitarie. Chi attua una politica di Csr non mette in dubbio il modello economico occidentale, ma vuole rimediare a una contraddizione interna, vale a dire fare profitto senza distruggere tutto ciò che ci sta intorno. Sono stati, infatti, raggiunti sia la consapevolezza dei rischi sia gli strumenti per contrastarli. Il passo successivo è sicuramente ambizioso: ottenere vantaggi competitivi senza fare troppi danni e con maggiore attenzione alle risorse umane e naturali. “L’Unilever Sustainable Living Plan, il piano per vivere sostenibile, rappresenta la nostra visione di Csr nel 21° secolo e coinvolge tutti i dipendenti – spiega Sarah Brandy, communication director di Unilever Italia-. Con oltre 50 obbiettivi misurabili da raggiungere, entro il 2020 ci prefiggiamo di aiutare più di un miliardo di persone a migliorare la loro salute e il loro benessere, dimezzare l’impatto dei nostri prodotti e approvvigionarci al 100%  di materie prime agricole sostenibili”. La marca-ombrello Unilever comprende nel portafoglio brand noti come Algida, Mentadent, Cif, Svelto, Dove, Fissan, Knorr, Calvè, Lipton, Lysoform, solo per citarne alcuni: ogni giorno al mondo si utilizzano due miliardi di prodotti Unilever. “Il logo Unilever, che da ottobre 2010 appare su tutte le confezioni e nelle campagne di comunicazione dei nostri prodotti, rappresenta i nostri valori e il nostro impegno -prosegue Brandy-.  A livello di singolo brand cito su tutti Mentadent, che con il suo Mese della prevenzione dentale da 31 anni rappresenta la più longeva e coerente attività Csr”. Non è da meno Procter & Gamble, proprietaria di altrettanti marchi famosi, tra cui Dash, Ace, Fairy, Swift, Az, Oral B, Gillette, Pringles, Infasil, Viakal, che soprattutto attraverso il marchio-icona Dash esprime la propria spinta al sociale con l’iniziativa “Missione bontà” nata nel 1987. dal 2006 UK, e dal 2010 in Italia, l?azienda è a fianco dell’Unicef nella campagna di eliminazione del tetano neonatale, donando l’importo necessario all’acquisto di un vaccino per ogni singolo prodotto venduto, con l’obiettivo di sconfiggere la malattia dal pianeta entro il 2015. “L’obiettivo è quello di finalizzare azioni sociali nei confronti dell’infanzia, migliorando la qualità della vita a 300 milioni di bambini nel periodo 2007 -2012 sottolinea Renato Sciarrillo, relazioni estere di P&G – La campagna di Unicef si sposa bene con la nostra strategia e sta dando risultati: dal 2006 a oggi il numero di Paesi interessanti dal tetano neonatale è sceso da 59 a 39. nel 2010 in Italia abbiamo comprato 15 milioni di vaccini”.
Comunicare la Csr
Come dimostra una ricerca sull’impegno sociale delle aziende in Italia, effettuata da Errepi Comunicazione e SWG nel 2010, la pratica del “buon business” è cresciuta anche nel nostro Paese, tanto che tra le aziende con oltre 100 dipendenti, 7 su 10 hanno investito in iniziative di responsabilità sociale, confermando un trend positivo esploso negli anni duemila. Per molte imprese la Csr è diventata quindi, un modello di sviluppo. La sostenibilità può dare un’elevata visibilità e forza ai brand perchè diventa un canale preferenziale di un dialogo con i consumatori e quindi una levata di marketing. “il marketing è vitale per un brand, ma non è la prima finalità della Csr che, invece, attraverso azioni concrete trasferisce dei valori in grado di creare un circolo virtuoso positivo che può portare il cliente a scegliere un marchio proprio perchè è sostenibile”, chiarisce Rotondo. Eppure, secondo un’altra ricerca effettuata nel 2011 da Ipsos per un conto di Consumers’ Forum in 5 paesi dell’UE (Italia, Germania, Spagna, Polonia e Regno Unito) solo il 14% della popolazione conosce il significato dell’espressione Csr. “non credo che il termine abbia valore in quanto vocabolario in sé – precisa Brandy-, piuttosto è necessario semplificare la comunicazioni degli obiettivi e degli effetti della Csr sul grande pubblico, impiegando un linguaggio semplice, immediato ed emozionale anche attraverso le immagini. Penso a campagne educative e ideologiche, che mirano a stimolare il dibattito e le opinioni sui valori. L’alternativa può essere un approccio più soft, ma i risultati saranno più deboli. E i bisogni sociali difficilmente sono soft”. Cosa c’è di meno soft di uno spot che per mesi entra nelle vite degli italiani? L piano di comunicazione di P&G per l’ultimo trimestre 2011 ha destinato gli investimenti maggiori proprio sullo spot che presenta l0iniziativa con UNICEF. “Trasmettere i valori della Csr e della marca è complesso – spiega Sciarrillo – e lo si può fare a molti livelli. I nostri sono marchi che hanno creato relazioni continuative con i consumatori nel corso degli anni. La TV è fondamentale per raggiungere un target ampio, ma ora ci è data la possibilità di sfruttare altri mezzi, in primi il web, per rivolgerci a un pubblico più motivato . Il digitale da più profondità al messaggio, consente di dare dettagli in più rispetto a un 30 secondi”. I social media stanno quindi cambiando l’approccio alla responsabilità. “Un mezzo straordinario per entrare in contatto con la realtà del mercato – aggiunge Brandy- . Un tessuto di esperienze collettive che riflette la nostra realtà quotidiana. Anche Unilever è sempre più attenta a questa rete di comunicazione, per comprendere meglio quali sono le esigenze e le richieste dei nostri consumatori. Ma anche come mezzo per proporre prodotti che siano attuali e vicini alle esigenze delle persone”. Sempre secondo la ricerca di Ipsos, Fiat è stata votata come l’azienda italiana più responsabile. Inoltre, secondo gli indici del Dow Jones Sustainability World ed Europe. L’azienda automobilistica anche nel 2011 si è confermata per il terzo anno consecutivo uno dei leader di sostenibilità nel settore Automobiles, ottenendo il massimo punteggio in quasi tutte le aree di analisi, tra cui lotta al cambiamento climatico, performance dei prodotti, processi logistici e nella sezione sociale per lo sviluppo del capitale umano, lo stakeholder engagement, la gestione responsabile della catena di fornitura e le attività a favore della comunità. I grandi brand possono contribuire, grazie alla loro visibilità, a sensibilizzare e a catalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica su temi e fati sociali”. In questo senso cito su tutte le campagna di comunicazione del brand Lancia 2009, dedicata ai premi Nobel per la pace e in particolare ad Aung San Suu kyi, della quale chiedevano la liberazione  nel primo flight, per poi realizzare un secondo spot, quando l’attivista per i diritti umani fu rilasciata – precisa Maurizio Spagnulo, media & digital marketing director di Fiat Automobiles-. È ovvio  che la sua liberazione non è stata merito di Fiat ma di ben altri equilibri, però noi abbiamo contribuito a installare una goccia nel mare. Quella spot non si può definire prettamente commerciale e ha veicolato un concetto più che un marchio”.
Csr e crisi
Buono, etico, sano, responsabile, eco-compatibile sono parole che aiutano a definire e a migliorare la reputazione e l’immagine aziendale, ma la politica della sostenibilità ha (ed) è un costo ed è naturale pensare che sia una delle prime voci a sparire dai budget. Del resto, basta aggiungere due ii e Csr si trasforma in crisi. “Il fatto che lo USLP rappresenti la nostra strategia di business e non una semplice attività di comunicazione, attenua la prospettiva negativa della riduzione dei budget – spiega Brandy-. Buona parte delle nostre energie creative e del nostro impegno a trovare soluzioni si sta concentrando, in tutte le sedi Unilever del mondo, sulla realizzazione degli obiettivi dello USLP. Il nostro traguardo quindi, indipendentemente dagli scenari economici, sarà quello di introdurre sul mercato prodotto che rispondano a bisogni reali e rilevanti per i nostri consumatori nel rispetto del Pianeta in cui viviamo. Il nostro Piano per realizzare il cambiamento nel mondo rimane invariato, con o senza crisi”. Anche secondo Rotondo “esiste un rischio concreto per cui le iniziative di Csr si riducano, a causa della situazione economica. Invece è proprio questo il momenti di trasferire un’immagine più positiva a seguito di un’azione positiva. Perchè se è vero che sopratutto la green issue è di moda, e ancora più vero che il consumatore di informazioni sia in condizioni di riconoscere un approccio speculativo da un etico. La pennellata di benevolenza da sola non basta, ci deve essere dietro una sostanza che si esprime nella continuità degli interventi”. Anche la strategia di P&G proseguirà nonostante il momento difficile, perchè “i consumatori sono più disposti a premiare azioni trasparenti e impegnate, in un momento difficile forse è più facile essere solidali. Per noi è un opportunità di essere selettivi nelle scelte strategiche e continueremo a investire in Csr. La selettività alla fine premia”, conclude Sciarillo. In poche parole i vantaggi tangibili immediati forse sono inferiori ai costi, ma l’intervento viene fatto sul medio-lungo periodo. In questo panorama un po’ confuso, la morale è quella del “meglio fare qualcosa, piuttosto che non fare nulla” e in definitiva è proprio questa la strada che le imprese dovrebbero percorrere, anche secondo molti manager: prendere posizioni, proporre e non imporre, dando un segnale che fanno parte di una società che loro stessi contribuiscono a rendere migliore per la collettività. Perchè la Csr è ormai diventata, a tutti gli effetti, un modo di pensare al futuro.
BOX: dal Nord al Sud Europa prima di tutto “il benessere dei dipendenti”
Grom è un’azienda italiana fondata da due giovani imprenditori Federico Grom e Guido Martinetti, che nel 2003 hanno aperto a tornio il primo negozio di quella che è diventata una catena di gelati artigianali con 500 punti vendita nel mondo. Ikea, la “svedese”, la conoscono tutti, anche perchè oltre a vendere mobili con un ottimo rapporto qualità-prezzo, ha dovuto passare qualche volta la vaglio della censura mediatica per le sue campagne pubblicitarie. Dal Nord al Sud Europa, da una piccola azienda made in Italy a una multinazionale, la visione strategica comune è quella di creare una vita quotidiana migliore per la maggioranza delle persone, a cominciare dal personale a cui si dà lavoro, con un occhio iper attento alla salvaguardia dell0ambiente e alle risorse del pianeta. “Obiettivo primario di un imprenditore lungimirante- spiega Martinetti- è quello di far vivere bene chi lavora per lui, perchè il benessere di un’azienda è proporzionale al benessere dei dipendenti. Ci stiamo riuscendo: il tasso di dimissioni da Grom p del 3%, cioè molto basso. Cerchiamo di far crescere degli individui migliori facendo scelte di campo: per esempio l’82% del nostro personale p composta da giovani e da donne”. Altre “scelte di campo” sono le materie prime, bio e senza additivi, e il progetto ecologico “Grom Loves World” con il quale la plastica per cucchiaini e sacchetti per il gelato d’asporto è sostituita con il Materbi completamente biodegradabile. Grom appoggia anche alle iniziative benefiche ma “non ne parliamo perchè diventerebbe marketing!, spiega Martinetti. Ikea Foundation vanta dal suo conto cooperazioni con parecchie ong tra cui Wwf, Save the children e Unicef e sostiene globalmente programmi che promuovono salute, diritti umani e istruzioni per molti bambini bisognosi, però “la Csr non è solo Charity, è sentire la responsabilità di dare lavoro a 10mila persone”, spiega Valerio Di Bussolo, responsabile relazioni estere di Ikea Italia Retail. Ed è anche scegliere di fare una comunicazione fuori dal coro, che parla di integrazione di razze, generi, di scelte sessuali. “Ikea fa una fotografia dell’Italia che c’è. Per noi ognuno è una famiglia, anche un single o una coppia gay. Facciamo della “diversity” uno strumento di comunicazione prima di tutto nei confronti dei nostri dipendenti. Il fatto di utilizzare questo palcoscenico sottolinea la presa di coscienza di una realtà quotidiana trasferita in uno strumento importante quale è la pubblicità”.
BOX: La polemica: i si o i no alla Csr
La Csr è sempre di più oggetto di dibattito, a dimostrazione che la tematica è sentita come molto attuale. Nel recente convegno “RES Responsabile Etico Sostenibile. Esiste un modella di business dal volto umano? Che si è svolta a Torino con l’organizzazione del Club della Comunicazione d’Impresa del capoluogo piemontese, ha stimolato un testa a testa tra due “partiti”: quello a favore e quello contrario alla Csr. Partendo dalla situazione economica attuale, secondo il giornalista Luca Poma “l’esasperazione di fare profitto ci ha regalato una crisi socio-finanziaria e un pianeta malato. Dire che l’unica responsabilità è fare utili equivale all’atteggiamento di chi si tappa il naso per poi dire che non ha il senso dell’olfatto. La Csr per molte aziende, anche di piccole dimensioni, si è trasformata in un fattore di crescita, di competizione di distinzione e di fidelizzazione presso il consumatore”. Paul Seaman, esperto di pr ed editor di 21st-Century PR issues, è invece un accanito bastonatore della strategia che la Csr comporta perchè “essa, da un lato, è concepita da una parte dell’opinione pubblica come una frode, dall’altro rappresenta una fonte di distrazione per le aziende che possono continuare a esistere solo inseguendo il profitto. Il risultato di una implementazione della Csr sarebbe un mondo senza aziende e di conseguenza senza occupazione. Un manager non può fare due professioni, guidare un impresa e contemporaneamente salvare il mondo”. “Fare profitto – ribatte Poma – non significa fregarsene. Volendo volare basso si può dire che la Csr sia un investimento e non un costo, o si può volare alto e dire che le aziende, volenti o nolenti, fanno parte di una rete sociale complessa e per questo devono prendersi delle responsabilità, decidere da che parte stare: se subire il fatto di essere parte di una rete sociale disinteressandosene, o se governare questi processi e farne una marcia in più per competere sul mercato”. E sul costo della Csr? “Se la considero come pura azione di comunicazione, di fronte a una crisi la taglio, se la percepisco come stakeholder engagement diventa un fattore di crescita”, conclude Poma.




Mela Marcia, il lato oscuro di Apple

Le inquietanti zone d’ombra di una delle più grandi aziende del mondo ICT.
Mela marcia, La mutazione genetica di Apple è un trattatello scritto a più mani sotto forma di brevi monografie che svelano alcuni dei retroscena di maggior impatto nel mondo dell’informatica che conosciamo e soprattutto in quello che non conosciamo.
Indubbiamente laInformation and Communication Technology negli ultimi anni ha raggiuntoun’importanza e un peso economico di assoluto rilievo; basti pensare che le maggiori aziende del settore, considerate a livello planetario, sono circa il doppio di quelle che hanno in carico la domanda mondiale di risorse energetiche.
Da qui derivano sia l’importanza a volte esagerata che tutti i governi hanno dedicato recentemente all’informazione, sia la cura che le aziende mettono nella tutela dei propri segreti industriali.
Si spiegano così anche le varie battaglie – o le vere e proprie guerre – che vengono mosse per assicurarsi una fetta di mercato o la disfatta di un pericoloso concorrente.
In tale panorama si inserisce questo testo, il cui filo conduttore è l’analisi dettagliata delle vicende di Apple, l’azienda che nacque quasi per caso dalla passione di due hacker. Dopo un periodo di offuscamento quasi prefallimentare, in pochi anni è rinata sotto la guida di Steve Jobs, andando persino a insidiare, bilanci trimestrali alla mano, la corona di sua maestà Microsoft.
Il racconto prende le mosse dall’analisi punto per punto di quanto accadde in occasione del lancio dell’ultimo smartphone commercializzato da Apple, l’iPhone 4, rivisitando l’incidentalesmarrimento del prototipo in un bar e le vicende che portarono poi allaperquisizione della casa dell’editore di Gizmodo, uno dei blog di gadget più seguiti nei paesi anglofoni, da parte dei giannizzeri della Rapid Enforcement Allied Computer Team (REACT).
Prosegue poi raccontando il teatrino dell’antennagate, il noto malfunzionamento in ricezione dell’iPhone 4, dapprima nascosto agli utenti e poi ammesso a malincuore dall’azienda di Cupertino. Quest’ultima prometteva di risolvere l’irrisolvibile con una patch software, non senza gettare malignamente pietre nell’orticello della concorrenza (Motorola, Rim, Nokia ecc.) e lasciando intendere che ben altri difetti affliggevano l’hardware senza il marchio della mela.
Il tutto è calato nella profonda rivisitazione di tutto il Web e di ciò che esso diverrà con l’affermarsi inarrestabile del cloud computing, ma sempre tenendo d’occhio le ultime realizzazioni Apple e in particolare quell’iPad, vero e proprio bestseller a fronte di discutibili qualità e indiscutibili manchevolezze, rispetto alle realizzazioni analoghe di altri produttori.
Eppure – riflette tristemente la coautrice Mirella Castigli – anche in questo caso pare vigere la “legge di Metcalfe” secondo la quale il valore di una tecnologia è destinato a crescere in funzione del numero degli utenti che la adottano e non in funzione delle sue intrinseche qualità.
Di ciò Mirella Castigli fa il punto di partenza di una nuova analisi tecno-sociologica sul destino dell’editoria elettronica e sul perché si pongano su posizioni tanto distinte e spesso contrapposte gli editori “tradizionali” e quelli emergenti, travolti dal vento che trasporta la “nuvola” del calcolo distribuito da remoto.
Chiudono il volume cinque brevi “spioncini” che permettono di gettareocchiate indiscrete su segreti scomodi e vicende negate, poco conosciute o comunque passate sotto silenzio da un’informazione invece sempre pronta a dare addosso alla multinazionale di Redmond.
Si spazia quindi dai suicidi di Foxconn – l’azienda che realizza l’hardware di Apple – alla TV di Google prossima a venire, lasciando ancora un’ultima parola sui difetti dell’iPad e le disavventure di Gizmodo.
In definitiva si tratta di un testo complesso nei contenuti ma scritto con un linguaggio chiaro e coerente, denso di dati e riferimenti, che non può mancare nella libreria di chi si occupi di IT in modo men che occasionale; il tutto al prezzo di una decina di caffè.
Completano il testo la prefazione e le molte note poste alla fine degli otto capitoli, nonché una serie di codici QR mediante i quali è possibile accedere a contenuti multimediali in rete con l’impiego di un qualsiasi smartphone dotato o dotabile di un software di acquisizione. Che sia rigorosamente free, come rammentano gli Autori in quarta di copertina.
Scheda
Titolo: Mela marcia
Sottotitolo: La mutazione genetica di Apple
Autore: NGN (Ferry Byte; Mirella Castigli; Caterina Coppola; Franco Vite)
Editore: XBook (Agenzia X e Associazione Culturale Mimesis)
ISBN: 978-88-95029-40-5
Distributore: Mimesis Edizioni – PDE
Licenza: Creative Commons Pagine: 130
Prezzo: Euro 10,00




Alcune brevi news "green"

Una carrellata di “brevi” sul trema dell’ecologia, tratte da “SetteGreen”, allegato del Corriere della Sera
Giocando si impara a rispettare l’ambiente
Un altro videogioco si va ad aggiungere al filone del serious games, basati cioè su tematiche di attualità e concepiti con obbiettivi educativi. E questa volta p il rispetto per l’ambienti a fare da messaggio. In “The Invisible Hand, la sfida per un modo equo”, realizzato in 3d per PC, si parte da un grande metropoli del Nord del mondo per battersi contro il consumismo e la pubblicità martellante. Poi l’azione si sposta in Africa, in una piantagione sfruttata dalle multinazionali, per indagare i meccanismi ingiusti che governano l’economica mondiale. Alla fine l’incontro con un produttore indipendente e la scoperta del commercio equo-solidale. Oltre l’aspetto lucido, il disco propone schede di approfondimento e quiz adatti anche agli studenti.
Cambiare rotta per ridurre la CO2
Ottimizzare le rotte aree con l’obiettivo di risparmiare carburante e abbattere la produzione di CO2. Ci prova l’Enav, società nazionale per l’assistenza al volo. L’esperimento è iniziato nel 2008 sulla rotta Milano-Roma, facendo volare aerei a un livello di crociera più atto, dove l’aria è più rarefatta e l’attrito è minore, condizione che permette di consumare quantità di combustibile più basse garantendo gli standard di sicurezza. Poi, un programma, il Fight Effeciency Plan (FEP), per la riconfigurazione della rotte e l’ottimizzazione di alcuni percorsi, per abbreviare le tratte. E se negli ultimi tre anni il risultato complessivo è stato quindi di 55 milioni di chili di carburante non consumati, quasi nove milioni di chilometri percorsi in meno e 175 milioni di chili di CO2  ridotti, i benefici per le compagnie aree si sono tradotti anche in un risparmi in termini monetari, con un taglio stimati di ben 27 milioni di euro.
La pecora, ovvero la tosaerba più ecologico
Tosaerba a impatto zero: tagliare un prato in maniera ecologia è possibile. L’hanno fatto alla Whiripool, che ha aperto i cancelli a 1.200 pecore invitate da Coldiretti. Gli ovini hanno brucato 5 ettari di prato che circondano la fabbrica di Cassinetta di Biandronno, provincia di Varese, dimostrando che un giorno da pecora, anzi da gregge, può diventare di massima utilità per l’ambiente: fa risparmiare carburante e riduce l’inquinamento. Anche gli animali e gli allevatori hanno avuto un rientro in erba fresca a costo zero: considerato il rincaro del 19 per cento, che ha interessato mangimi quest’anno, la collaborazione azienda-ruminanti potrebbe consolidarsi.
Lotta allo spreco a tavola
Dal piatto alla spazzatura: è triste destino degli avanzi di pranzi e cene al ristorante in Italia, infatti, a differenza che nei Paesi anglosassoni, resta poco diffusa l’usanza di portare a casa quello che non si è riusciti a mangiare. Alcuni locali milanesi però hanno cominciato a offrire ai propri clienti Doggy Bag (www.doggy-bag.it), un sacchetto di carta che include un contenitore a chiusura ermetica per trasportare le “rimanenze” e consumarle il giorno dopo, o fare assaggiare a Fido. La vaschetta, disponibile nella versione a uno o due scoparti, è realizzata in materiale per alimenti adatto al forno a microonde, e può essere riutilizzata.
Un cemento a impatto zero
Per abbattere le emissioni di anidride carbonica bisognerebbe intervenire dalle fondamenta. O meglio; dal cemento che serve per costruirle. Ne sono convinti quelli della Novacen (società che si occupa di materiale da costruire a impatto zero), tanto da averne creato un tipo che non solo abbatte il rilascio di CO2 durante la fase di produzione, ma addirittura attira quella che circola nell’aria e la distrugge. Insomma: un cemento mangia anidride carbonica. Il nuovo materiale utilizza il silicato di magnesio invece che i composti di calcio perchè brucia meno energia durante la fase di lavorazione e, allo stesso tempo, assorbe CO2 . Secondo i produttori costi e presentazioni saranno quasi identici al cemento tradizionale. Ma con vantaggi incalcolabili per la salute dell’ambiente e nostra.
I professionisti green si trovano on-line
I lavoratori eco sostenibili sono il futuro. Lo sanno bene gli esperti di www.Infojob.it, che opera nel settore del recruiting online. Hanno creato, infatti, green-job (www.infojob.it/lavoro/green-job), il primo canale tematico dedicato alle offerte di lavoro nel settore della green economy. Green-job offre impieghi per posizioni “tradizionali” (amministrazione, vendite, compatibilità) e per i ruoli più tecnici come progettisti d’impianti fotovoltaici.
 




Chiacchiere da brand.

Storie di aziende che cercano il dialogo con i clienti
Ogni prodotto ha dietro di sé una storia da raccontare. E da sempre è proprio quella storia il punto di forza per attrarre e convincere i clienti. Ma con i social network abbiamo assistito a un cambiamento: ormai gli addetti ai lavori sanno che il racconto di un’azienda ai clienti non è più confinato in uno spot di trenta secondi, né su una pagina di giornale: è diventato una conversazione continua. In Rete si parla di tutto, anche di prodotti, marchi e aziende. Si scambiano giudizi e impressioni, esperienze, aspetti positivi e negativi di un prodotto. “Le aziende devono essere consapevoli che in Rete si parla di loro anche se loro non sono presenti”, dice Vincenzo Cosenza, responsabile della sede di Roma di Digital PR. “Essere online è un modo per dialogare con i potenziali clienti, ma anche per indirizzare la conversazione”. Se ben usati, i social network possono essere un’opportunità. “Per un marchio lasciare che la conversazione fluisca completamente libera è ben più pericoloso”. Da alcuni anni il marketing si trova ad avere a che fare con un cliente che non è più soggetto passivo della comunicazione pubblicitaria. Anzi, ormai si aspetta (pretende!) una certa dose di dialogo con il produttore: vuole influenzare gli sviluppi dei progetti, essere interpellato sulle novità, ricevere risposte ai suoi dubbi. Alcune aziende lo hanno capito e stanno investendo nella comunicazione sul Web per sviluppare un nuovo tipo di relazione con il cliente. Secondo eMarketer, un gruppo di analisi sulle abitudini e i consumi online, alla fine del 2011 la spesa globale per la pubblicità sul Web raggiungerà i 6 miliardi di dollari. In un periodo in cui gli introiti pubblicitari calano su quasi tutte le piattaforme (tv a -1,8%, stampa -5,3%, radio -7,2%) Internet assiste invece a un deciso aumento dei ricavi, con un +17,6% a livello mondiale e un incremento del 15% registrato nel 2010 sul mercato italiano. Facile immaginare che gran parte di questi investimenti finisca sui social network, che permettono alle aziende di raggiungere un pubblico ampio e insieme ben definito. Facebook, ad esempio, ha superato lo scorso luglio i 750 milioni di utenti. Venti milioni sono gli italiani iscritti alla più famosa delle piattaforme sociali, di cui quasi quattordici compresi nelle fasce d’età tra i 18 e i 44 anni.
Conversazioni da multinazionale
Non c’è solo Facebook. Vincenzo Cosenza ha curato per il colosso Procter & Gamble la comunicazione di Pringles. Dopo aver abbondantemente superato i 15 milioni di “Mi Piace”, le patatine nel tubo hanno deciso di lanciarsi anche su Foursquare, il social network basato sulla geolocalizzazione che permette di far sapere ai propri contatti dove ci si trova in ogni momento. È una community ancora di nicchia nel nostro paese, ma nel mondo ha già più di 10 milioni di utenti. “L’immagine di Pringles ― spiega Cosenza ― è legata al divertimento e alla festa; noi abbiamo iniziato a suggerire i luoghi del divertimento (locali, piazze, discoteche) nella zona in cui si trovano gli utenti che si collegano al nostro profilo”. Ovviamente anche gli utenti possono suggerire nuovi luoghi, arricchendo le proposte di Pringles. In questo caso, per Procter & Gamble il social network non è un luogo per fare promozione ma diventa una piccola guida, un modo innovativo per guadagnarsi la fiducia dell’utente. Anche se poi l’obiettivo finale è sempre quello, vendere; “Ma l’utente apprezzerà comunque il buon consiglio ― dice Cosenza ― anche se arriva da qualcuno che, alla fine, vuole fargli comprare un prodotto”. Attenzione a non farsi prendere dall’entusiasmo. I social network sono uno strumento potente, ma bisogna saperlo utilizzare. La pagina delle Frecce di Trenitalia, per esempio, ha a lungo usato Foursquare per indicare agli utenti che entravano in una stazione le promozioni o gli sconti che potevano ottenere acquistando il biglietto in loco. Tutto bello, ma si può immaginare che a quel punto l’utente Foursquare abbia già acquistato il biglietto online, comodamente da casa o dall’ufficio. E scoprire solo a quel punto che poteva risparmiare diventa inutile e anche un po’ fastidioso. Il rischio è questo: se non si conosce la grammatica del Web Sociale ci si espone a errori gravi.
Piccole imprese sul Web
Forse saranno le imprese di medie dimensioni a trarre i maggiori benefici da un’efficace presenza sul Web. Hanno budget discreti da investire e poca burocrazia, letale se accoppiata alla rapidità della Rete. La Lago, in questo senso, è un caso virtuoso. Un’azienda di design domestico e arredamenti, da 30 milioni di fatturato all’anno e 150 dipendenti, che ha fatto del dialogo con i clienti un marchio di fabbrica. Progettazione condivisa dell’appartamento, incontri con designer e architetti, ma anche un blog sempre aggiornato con gli appuntamenti in programma e una community molto vivace che accoglie i dubbi dei clienti: “Ho comprato il vostro tavolo Air laccato bianco ― scrive preoccupato uno di loro ― ma si è macchiato di vino. Ho provato a pulire subito ma è rimasto l’alone. Avete qualche rimedio da consigliarmi?”. Dopo pochi minuti risponde uno dei cinque responsabili comunicazione che promette di informarsi con gli esperti e tornare con una soluzione il prima possibile. Anche questo è social marketing. “Abbiamo deciso di metterci sempre la faccia ― racconta Diego Paccagnella di Lago ― dimostrando di credere nei nostri prodotti: e abbiamo subito capito che risultavamo più credibili e convincenti”.
Il discorso vale per tutti. Secondo uno studio del Boston Consulting Group sulle piccole e medie imprese italiane, le aziende attive online (con marketing e vendite sul Web) hanno registrato un aumento medio dei ricavi dell’1,2% negli ultimi tre anni, mentre le imprese che usano soltanto un sito o sono del tutto offline hanno subito cali del 2,4 e 2,5%. Dati significativi se pensiamo che secondo L’ISTAT le pmi rappresentano il 70% del fatturato e l’80% degli occupati italiani.
Pubblicità per pochi
Immaginate di dover comprare un’automobile, o uno smartphone. Dove cerchereste le informazioni per scegliere il modello giusto? Difficilmente su un sito aziendale. Più facile che optiate per i commenti di vecchi clienti su un forum, o per siti di recensioni. “Il vecchio sito statico non è più negli interessi del consumatore: per ottenere informazioni su un prodotto non si va più sul sito promozionale di un’azienda”, dice ancora Vincenzo Cosenza. “Prima di arrivarci gli utenti passano per siti specialistici, blog ritenuti affidabili e i tweet degli amici: insomma, quando arrivano sul sito aziendale si sono già fatti un’opinione ben precisa”. Le aziende devono usare altri mezzi. E le potenzialità del Social Web si mostrano al massimo quando si vuole raggiungere un target piccolo ma ben definito. Il lancio della nuove Fiat 500 è ormai un caso studio, ma nel 2009 l’azienda torinese ha raccolto un’altra sfida. “Dovevamo lanciare la 500 in versione speciale, tutta rosa, dedicata alle giovani donne. Bisognava creare il marchio della macchina, ma ancora non avevamo nemmeno il nome”, racconta Giovanna Negrim che ha curato il progetto. “Abbiamo deciso di coinvolgere i circa 100mila fan (all’epoca) di Fiat 500 su Facebook, proponendo loro quattro nomi fra cui scegliere”. Il più votato alla fine è stato so Pink, e, voilà, ecco il nome per l’edizione limitata. Sempre su Facebook il team di Giovanna Negri ha lanciato un’applicazione in collaborazione con Google Maps per aiutare a localizzare il concessionario con Fiat 500 so Pink più vicino all’utente. Il risultato è stato un grande successo commerciale: in poco tempo il lotto di trecento so Pink è andato esaurito e si è deciso in corsa di metterne in produzione altrettante. “E la comunicazione è stata fatta tutta online, di cui l’80% sui social network. Non c’era budget per l’offline”. Le pubblicità devono avere al loro interno un elemento sociale intrinseco. Facebook ha imposto un modello basato sulla socialità, che ora Google+ svilupperà ulteriormente. E anche le narrazioni aziendali devono adattarsi ai requisiti di compartecipazione e condivisione del Web Sociale. È un campo in cui c’è ancora molto da innovare.