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Computer prestati alla ricerca

William Graham Richards, presidente della facoltà di Chimica dell’Università di Oxford, ha appena vinto il premio Italgas per la ricerca scientifica per le sue ricerche progettazione di farmaci assistita dal computer. Chi studia i nuovi farmaci anticancro prima deve individuare la proteina “impazzita”, poi deve studiare il modo di bloccarla attraverso un apposito farmaco. Trovata la proteina-bersaglio, si procede a realizzare la molecola-farmaco che inibisce l’attività. Ma per ogni proteina le molecole-farmaco possono essere centinaia di migliaia e, anche disponendo di potenti supercalcolatori, possono passare anni prima di trovare quella adatta. Perchè  allora non suddividere il lavoro fra una nutrita schiera di computer volontari?
Analogicamente a ciò che era già stato organizzato per il progetto Seti (ricerca della presenza di segnali di vita extraterrestri), Richard e i suoi collaboratori hanno realizzato uno speciale salvaschermo che, nei lassi di tempo in cui il computer non viene impiegato (di notte, nella pausa pranzo ecc.), si attiva automaticamente e ne utilizza le risorse per effettuare i calcoli a sostegno della ricerca sulle molecole-farmaco. In ogni singolo computer (purchè connesso a Internet) vengono analizzati 10mila potenziati molecole, ovvero calcoli che richiedono dalle 5 alle 30 di lavoro dal processore.
 




Cattive pratiche ambientali:dove meno te le aspetteresti

Riportiamo – sempre dal periodico TerraNuova – il resoconto di alcune malepratiche in tema di ambiente.
L’ultimo parquet
Come l’industria del parquet sta spopolando all’estinzione il merbau, saccheggiando le Foreste del Paradiso del Sud-Est Asiatico.
Di: Sergio Baffoni (Greenpeace)
La domande di parquet di lusso cresce, e con essa fanno la loro comparsa sul mercato sempre nuove specie. Nuove mode vengono alla ribalta. Colori, venature e caratteristiche tecniche per tutti i gusti, ma pochi si domandano quali siano le conseguenze ambientali di queste nuove tendenze. La grande disponibilità di legnami sul mercato sembra suggerire che si tratti di specie molto diffuse, anzi c’è chi sostiene che il loro impegno sia benefico allentando la pressione sulle varietà più usate. Purtroppo non sempre è cosi.  Al contrario, spesso si tratta di specie rare o minacciate, provenienti da paesi in cui i controlli sono scarsi ed ulteriormente annacquati da istituzioni corrotte o autoritarie. È il caso merbau , albero che cresce nelle foreste del sud-est asiatico, le meravigliose Foreste del Paradiso, dove ogni anni spedizioni scientifiche scoprono nuove specie di vita animali o vegetali di cui non si conosceva l’esistenza. Il merbau è un albero a crescita lenta. Ogni albero ha bisogno di 75-80 anni per raggiungere una dimensione di interesse commerciale. È inoltre una specie con una densità che va dai cinque ai dieci alberi per ettaro, perfino nelle foreste più ricche. In molti casi non si trova più di un albero di merbau in un ettaro di foresta. Oggi le foreste della Nuova Guinea vengono setacciate palmo a palmo alla ricerca del merbau.  Proprio come nei decenni precedenti veniva setacciata l’Amazonia alla ricerca del mogano.
L’indagine di Greenpeace
Greenpeace ha svolto una ricerca sul mercato italiano, da cui emerge che circa la metà dei fornitori di parquet offre il merbau nel proprio listino, senza però essere in grado di dichiarare la zona di provenienza. Eppure la crescente domanda di parquet di lusso in Italia, così come negli Stati Uniti, Cina; Giapponese e Australia, sta portando il merbau all’estinzione. Nell’ isola della Nuova Guinea, la caccia a questo legno ha scatenato il taglio illegale ed operazioni distruttive, con una devastante corsa al saccheggio angoli dimenticati di paradiso, mettendo a rischio questo albero e numerose specie animali e vegetali che vivono nelle sue foreste. Le grandi multinazionali malesi guidano l’assalto. Una parte significativa del merbau viene poi commercializzata come prodotto finito o semilavorato attraverso la Cina, ma le rotte del contrabbando passano anche tramite l’Indonesia e la Malesia, e terminano sotto i nostri piedi.
Sudan da boicottare
Occorre disinvestire dal Sudan, per colpire economicamente un regime che continua incessantemente e nell’indifferenza pressochè totale, a praticare in genocidio nei confronti della minoranza nera del Darfour; senza contare la piaga, ormai arrivata a livelli di pura barbarie, degli stupri generalizzati. Negli Stati Uniti il Michigan e il New Hampshire hanno approvato una legislazione tesa a disinvestire da compagnie che fanno affari col governo di Khartoum. Di recente anche la California ha reso illegali i contratti con aziende che finanziano il Sudan. Ormai più della metà degli stati ha approvato legislazione che sanzionano chi sostiene il governo della barbarie, così come hanno fatto varie città, enti locali ed università. Il Sudan divestment task force offre consulenza ed appoggio per gli attivisti che hanno a cuore la sorte dei popoli del Darfour e opera anche in altre nazioni come la Gran Bretagna o il Canada. Per l’Italia il responsabile è Scott Wisor, ma la campagna è ancora ai suoi inizi. (G.V.)
Lo scandalo dell’olio di palma sostenibile
Mentre l’industria dell’olio di palma festeggia il primo certificato di “olio di palma sostenibile” rilasciato dalla RSPO (Tavola rotonda per l’olio di palma sostenibile) e dispone a breve sul mercato europeo, Greenpeace diffonde il rapporto “Olio di palma – scandalo delle certificazioni in Indonesia”, che dimostra l’inefficacia del RSPO. La prima certificazione è stata rilasciata alla United PLantations, che rifornisce Neslè e Unilever ed è coinvolta nella distruzione di foreste e torbiere a Kalimantan, in Indonesia. Intanto, per protesta, attivisti di Greenpeace hanno bloccato una nave con un carico di olio di palma indonesiano destinato all’Europa. uno degli attivisti si è incatenato all’ancora della nave Gran Couva resistendo per ore ai potenti getti d’acqua puntati contro l’equipaggio che richiesto l’intervento della polizia.
United Plantations possiede diverse piantagioni in Malesia e Indonesia. la società ha ricevuto la certificazione solo per le proprie piantagioni malesi, ma a condizione che tutte le sue piantagioni – comprese quelle in Indonesia –  soddisfino i criteri minimi di sostenibilità stabili dalla RSPO. Il rapporto dimostra come United Plantations non rispetti nessuno di questi criteri. “L’industria dell’olio di palma promuove la certificazione come strumento per combattere la crescente deforestazione del Sud Est Asiatico e quest’approccio è accolto a braccia aperte dai giovani dei paesi europei” avverte Chiara Campione della, responsabile campagna foreste di Greenpeace Italia “ma il nostro rapporto dimostriamo come il primo certificato della RSPO sia solo una cortina di fumo”. L’abbattimento e gli incidenti nelle foreste e torbiere indonesiane hanno già deteriorato l’accelerazione dei cambiamenti climatici. L’Indonesia è, infatti, il terzo più grande emettitore di gas serra nel mondo.




Alcune news sull'ambiente e la sua tutela

Riportiamo alcune buone “news” e curiosità sull’ambiente e la sua tutela, dal periodico TerraNuova
Un ecovillaggio che “fa tendenza”
Che sia arrivato il momento in cui gli eco villaggi possano diventare un’alternativa allettante anche per le famiglie convenzionali?  The Eco-village, eco-villaggio situato a Currumbin, nel Queensland (Australia), sta per avviare la terza ed ultima parte del proprio percorso di sviluppo. Le prime due parti fasi hanno ottenuto vendite per oltre 25 milioni di dollari australiani. L’ideatore Chris Walton di Landmatters, ha trascorso più di 13 anni pianificando e creando questo eco-villaggio per renderlo un punto di riferimento e modello di vita sostenibile per il ventunesimo secolo. Il villaggio è situato in prossimità di foreste pluviali patrimonio dell’umanità; è dotato di risorse idriche autonome e di sistemi di recupero delle acque reflue; generatori ad energia solare; orti-giardino (detti “edible landscape”, ovvero “paesaggi commestibili”); perma-cultura; riduzione dei rifiuti e riciclaggio. Nel 2008 l’eco-villaggio di Currumbin ha vinto mondiale per il maggior sviluppo ambientale, e una delle sue abitazioni è stata nominata Green smat building of the year, edificio ecologico dell’anno.
L’eco-villagio Sieben Linden costruisce il futuro
Sieben Linden, un eco-villaggio situato nel Nord-Est della Germania, tra Amburgo e Berlino. È stato costruito nel 1997, in realtà dove prima c’era solo un vecchio edificio abbandonato e fatiscente, circondato da monoculture agricole e forestiali.  In questo luogo poco ospitale, 80 adulti e 30 bambini hanno creato un modello di insediamento ecologico che può comprende sino a 300 persone. Un gran numero di persone delle provenienze più diverse ha contribuito alla crescita dell’area sviluppando il paesaggio, le costruzioni i giardini, il terreno boschivo. A Sieben Linden c’è una vivace cultura comunitaria e un centro seminari per promuovere l’educazione alla sostenibilità ambientali.  Negli ultimi dodici mesi a Sieben Linden è stata costruita una sauna e sono iniziati i lavori per due nuovi edifici in balle di paglia, per un totale di sette costruzioni. Quest’estate l’assemblea generale di GEN Europa si è tenuta a Sieben Linden, alla quale ha partecipato anche la stampa. Lo scorso autunno l’eco-villaggio ha comprato il terreno accanto al proprio (i membri della comunità sono anche loro membri di questa cooperativa, non ci sono terreni di proprietà privata): adesso quindi hanno a disposizione 44 ettari di terreno boschivo, 22 ettari di terreno agricolo, 3 ettari di coltivazioni biologiche, un vivaio/serra di alberi da frutto, 2 ettari di prato e 7 ettari di terreno edificabile.
Investire nell’ambiente e nelle donne è un buon affare
‘La premessa alla base di tutti i fondi Pax World è il fatto che le compagnie che integrano criteri sociali ed ambientali nelle modalità di fare business hanno sul lungo termine delle performance migliori per investire rispetto a quelle che non lo fanno’. Per Sujatha R.Avutu, portfolio manager del  Women’s  Equiy Fund, non ci sono dubbi: investire in chi rispetta l’ambiente è anche un buon affare. E lo è anche se si investe in compagnie che promuovono l’ugualianza di genere, che ormai dovrebbe sempre di più essere considerata un valore centrale per il cambiamento verso un mondo ecosostenibile. Anche alla luca del fatto che la disugualianza tra uomini e donne è la causa numero uno di ostacolo ad un futuro verde ed equo. Per questo occorre investire in aziende che siano rispettose delle donne, promuovendole ai vertici decisionali,  presentando pubblicità con immagini positive di donne che praticano modelli di lavoro compatibili con la vita femminile. Investire sulle donne quindi può essere una buona scelta, per il portafoglio e per l’etica (G.V.)
Il Tar dà ragione alle api
Il Tar del Lazio ha respinto i ricorsi di tre grandi multinazionale chimiche (Basf, Bayer e Syngenta), “colpite” dalla  sospensione dei concianti a base di neurotossici. I ricorsi presentati dai tre potenti colossi della chimica miravano a sospendere l’esecuzione del provvedimento con il quale il Ministero della salute ha vietato in via cautelativa l’utilizzo dei loro prodotti, perchè ritenuto causa della moria di api che ha decimato gli alveari nel nostro paese nell’ultimo anno. Il Tar non ha ritenuto che “nel bilanciamento dei diversi interessi, la preservazione dei cicli naturali assicurata dalle api, che coinvolge la produzione non solo del miele ma anche delle piante e della frutta, appare prevalente rispetto agli interessi meramente economici delle tre società”




Così hanno gonfiato la depressione

Ovunque, Italia compresa, è boom di antidepressivi. Ma siamo sicuri che il mal di vivere sia una patologia? E, sopratutto, che sia curabile con i farmaci? Uno psicoterapeuta americano smonta queste certezze in un libro.
‘Il comune raffreddore della malattia mentale’: l’Oms definisce così la depressione, stimolando sia la seconda causa di validità nel mondo. E pare davvero un’epidemia dilagante, a giudicare dal consumo di farmaci contro il “male oscuro”: solo in Italia, nell’ultimo decennio, è triplicata la vendita di psicofarmaci (+310 per cento), come conferma il rapporto Osserva-salute. Queste cifre suonano talmente incontrovertibili che pare assurdo chiedersi come ci siano arrivati? Com’è che oggi è normale considerare l’infelicità una malattia? Questi interrogativi se li pone invece Gary Greenberg, psicoterapeuta americano, in storia segreta del male oscuro (Bollati Boringhieri). Lui, che la depressione l’ha sperimentata anche da paziente, e ha pure partecipato a uno studio clinico come “cavia” per l’ennesimo trattamento, apre squarci illuminanti sull’”invenzione” (come la definisce) di una malattia per cui oggi si spendono 20 miliardi di dollari l’anno in cure. La sua non è solo, o non tanto, un’accusa a Big Pharm. I pezzi grossi dell’industri, scrive, fanno ciò che devono: “Fanno cavalcare l’onda dei tempi alle loro aziende”. E i tempi hanno fornito legioni di consumatori cui vendere antidepressivi: “Persone convinte che i medici debbano curare la loro infelicità”. La stupiscono i nuovi dati sul consumo di antidepressivi in Italia? Questo andamento, un aumento del consumo di antidepressivi e delle prescrizioni, soprattutto da parte dei medici di base, è lo stesso che da anni c’è negli Stati Uniti. Contribuiscono vari fattori. Un paziente che conosce qualcuno che prende antidepressivi è più probabile li chieda a sua volta. Ne risulta una sorta di contagio: la domanda accresce la domanda e le vendite si impennano. Così non solo sempre più persone prendono gli antidepressivi, ma sempre più sono convinte che la loro infelicità sia una malattia. Invece non lo è? Non penso sia una malattia che dicono gli psichiatri. I medici sostengono che è causata da uno squilibrio chimico nel cervello, cosa non dimostrata. E, ammesso sia vero che alcune persone soffrono di una depressione provocata da uno squilibrio chimico, sono molte meno di quante si dice. Lei afferma che la depressione è stata inventata. Come e perchè? Nell’Ottocento si individuarono le cause di alcune malattie e si affermò il concetto di “pallottola magica”: un farmaco che mira al bersaglio ed elimina l’origine stessa della malattia. Un modello valido per le malattie infettive e che si è cercato di applicare alle presunte cause biochimiche della nostra sofferenza, dove però funziona assai meno bene. Poi si iniziarono a scoprire farmaci che influivano sull’umore. Fu un caso. Per esempio si vede che un farmaco antitubercolosi faceva sentire su di giri. Mentre di altri composti, nati come antistaminici, si osservò che avevano effetti inattesi sulla coscienza. Si pensò allora che il malessere psicologico doveva essere causato dal problema chimico su cui il farmaco agiva. Il trucco è stato convincere la gente che la loro infelicità è depressione, curabile con i farmaci . Non è stato una questione di farmaci, ma di diagnosi. Gli psichiatri sono superficiali con le diagnosi? Se i dottori fossero più attenti, forse verrebbero diagnosticate meno casi di depressione, ma non è questo il problema. Anche usando con scrupolo i criteri diagnostici si ottiene che una persona su cinque soffre di depressione o ne soffrirà: il 20 per cento della popolazione mondiale. Non sono vere queste cifre? Mettiamola così: mi fido dei numeri, credo che provengano da medici onesti che usano i criteri diagnostici in modo competente. La domanda è: cosa facciamo con questi dati? Si può concludere che c’è un epidemia di depressione, ed è la conclusione che molti psichiatri e le industri farmaceutiche vogliono che raggiungiamo. Se depressione vuol dire “sofferenza significativa”, molti ne soffrono. Ma c’è un altro modo di guardare alla questione: cosa significa che tante persone sono significativamente infelici? Che c’è un epidemia di questo squilibrio biochimico? O significa solo che la vita è dura, e vorremmo che non lo fosse? Lei che cosa pensa significhi? Sono confuso sull’argomento come tutti. Forse, tra le difficoltà della nostra esistenza, che include mortalità, dolore, perdita e le particolari circostanze della vita nel mondo industrializzato, vale la pensa considerare la possibilità che una delle ragioni per cui soffriamo sia proprio la natura della nostra società. Oggi c’è molta pressione su tutti noi affinché ci sentiamo soddisfatti della vita. Si suppone che non sentirsi bene sia non solo spiacevole, ma patologico. Fino a non molto tempo fa non era così. Non vorrei certo ritornare a quel tempo, ma forse bisogna chiedersi se non abbiamo aspettative sulla vita impossibili da soddisfare. Gli antidepressivi in qualche modo ci aiutano a colmare la distanza. È la società dei consumi: quando qualcosa ci manca, usciamo e la compriamo. Dunque non c’è un’epidemia di depressione, ma di tristezza? Direi di infelicità, malcontento. E i farmaci non sono la soluzione? Non sono contro gli antidepressivi. Per alcune persone fanno una gran differenza. È però vero che le nostre aspettative sui farmaci dipendono molto da come ci vengono proposti. Dire “questa medicina aggiusta il tuo squilibrio biochimico, la devi prendere come i diabetici prendono l’insulina” è diverso dal dire “ti aiuterà a sopportare il tuo matrimonio disastroso”. Mi preoccupa di più il significato che le persone traggono dai farmaci del fatto se li prendono o no. Mi preoccupa che i farmaci ci rendano, in un certo senso, compiacenti: le cose che ci facevano arrabbiare non ci fanno arrabbiare più. Queste pillole ci desensibilizzano e quando, come negli Stati Uniti, le prende il 10-15 per cento della popolazione, è un po’ inquietante.




27/03/2012 Presentazione a Torino