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All’avanguardia nel riciclaggio dei rifiuti
fonte: Ilturista.info
British Airways avanguardia in riciclaggio dei rifiuti.pdf
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All’avanguardia nel riciclaggio dei rifiuti
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Una riflessione a 360° su metodologie innovative di relazione tra l’azienda ed i suoi pubblici
Ho volentieri raccolto l’invito dellaFerpi (1) di contribuire con un breve paper ai “Quaderni del Quaderni delle RP Quaderni delle RP” (2), il cui primo numero sarà dedicato a “Stakeholder e influenti”, tema sul quale il dibattito è assai caldo, come dimostrano le riflessioni stimolanti pubblicate sulla piattaforma web della Federazione derazione (3).
Il problema però è che io non credo al concetto di “influenti”, il che potrebbe fin dall’origine condizionare la mia analisi.
Dopo alcune iniziali riflessioni non convenzionali sulla possibile applicazione della Teoria dei Gioc Teoria dei Giochi alle RP hi alle RP (4), in un più articolato saggio di un paio d’anni fa dal titolo “Reti neurali complesse” “Reti neurali complesse” (5) ho teorizzato l’applicazione della logica a insiemi sfumati, o “logica “logica “logica fuzzy” (6) alla CSR, alle RP e al Crisis Management. Se sono convinto della necessità di applicare una logica ad infiniti valori di verità – e lo sono – ne deriva che ho serie difficoltà – quasi un senso di fastidio, o di impotenza – a tentare di definire in maniera netta chi è stakeholder e chi non lo è, chi è influente e chi non lo è. Questa suddivisione – figlia della logica Aristotelica, che basava i propri paradigmi sull’assunto “o è vero, o è falso, o è bianco o è nero…” – è a mio avviso obsoleta e legata ad un modo non più attuale di intendere la vita ed anche le Relazioni Pubbliche. La nostra mentalità “cartesiana” – occidentale, a oriente la storia della cultura e la filosofia ci insegnano cose ben diverse – necessita costantemente di certezze, si alimenta con esse, con il risultato che fino a ieri ci spiegavano che in assenza di chiarezza non c’è serietà, e che la codificazione accademica passa attraverso l’ordine, e che senza di esso non vi è neppure consapevolezza. Vero è che l’uomo ha antropologicamente paura del disordine, che lo disorienta in quando di per se non è controllabile: nella nostra percezione, più disordine è uguale a un minor grado di controllo potenziale.
Ma – come scrivevo in un altro articolo (7) – l’entropia è sia la misura del caos, come è anche la misura della complessità dell’ordine nel quale volente o nolente dobbiamo imparare ad orientarci. Maggiore entropia è uguale a maggiore caos, ma questo è figlio del lavoro all’interno di un dato sistema: se scende il caos, aumenta l’ordine e quindi scende l’entropia, ma scende anche drasticamente il valore informativo del nostro contributo di professionisti: che valore può avere la lettura di un fenomeno chiaro alla totalità degli osservatori? Pressoché nullo.
Lo scienziato svizzero Conrad Gessner Conrad Gessner (8) è stato il primo a lanciare l’allarme sugli effetti dell’eccesso d’informazione e sulla difficoltà di gestirla. In un libro che ha fatto storia, ha descritto come il mondo moderno abbia sommerso di dati le persone, e come quest’abbondanza abbia confuso e danneggiato le menti. Gessner non ha mai mandato un’e-mail e ignora i computer. Non perché sia “tecnofobo”, ma perchè è morto nell’anno 1565. La sua preoccupazione si riferiva al flusso d’informazioni generato dall’invenzione della stampa a caratteri mobili. L’ansia da “governo della comunicazione” è quindi antica quanto la comunicazione stessa: il problema allora non è certo la complessità – di cosa ci stupiamo? – bensì eventualmente la nostra (in)capacità di governarla, specie in una società “liquida” come quella nella quale viviamo e lavoriamo.
Per fortuna la logica evolve, e con essa dovrebbe – dovrebbe…? – evolvere il nostro modo di intendere il mondo che ci circonda e anche la nostra professione, la quale, come ha auspicato Toni Muzi Falconi Toni Muzi Falconi (9), troverà – troverà…? – nuovi, stimoli nella contaminazione con la matematica e con le neuroscienze neuroscienze (10), al fine di abbandonare un concetto meramente empirico della professione – che bello mettersi, come abbiamo fatto per anni, in condizione di non essere mai misurati, vero? – per abbracciare un nuovo paradigma professionale, in grado di valorizzare ogni nuovo strumento utile ad agevolarci nella previsione scientifica di uno scenario futuro.
Giancarlo Panico (11) in un suo recente articolo ci ricorda che Furio Garbagnati, CEO di WeberShandwick Italia (12), intervenendo al convegno “Relazioni pubbliche per le imprese: verso un ruolo strategico”, organizzato nell’ambito delle iniziative di Ferpi 40° Anniversario presso l’Università IULM, sottolineava come sia arrivato il momento per le aziende “di non raccontare più le loro storie, ma di mettersi in ascolto delle storie dei loro pubblici”. Non vorrei sembrare arrogante, ma stupisce che se ne parli ora così come stupirebbe sentir dire oggi che si può spaccare un atomo per ricavarne energia. Personalmente – checchè ne dica Seaman (13) – non vedo più da anni alcuna distinzione tra le storie del mio Cliente e le storie dei suoi stakeholder, tra gli interessi suoi e i loro, tra il raccontare se stesso e raccontare i suoi pubblici. Un soggetto non HA dei pubblici, bensì E’ i suoi pubblici, quindi il problema in linea di principio non si pone: c’è una totale sovrapposizione e coincidenza d’interessi, e non esiste contrapposizione. Laddove c’è contrapposizione, è creata ad arte: è stato inserito un arbitrario nella rete neurale della quale fa parte la nostra Cliente che orienta il sistema in modo artificiale verso il profitto di una specifica parte in causa. Allora c’è volontà di danneggiare, e dobbiamo armarci e gestire una crisi, ma è un altro discorso. Non vorrei essere accusato di un approccio utopico alla professione: è di tutta evidenza, e fin qui non penso ci sia da discutere, che sono (siamo) tutti stakeholder, anche se alcuni soggetti difendono interessi apparentemente contrapposti a quelli della nostra mandante.
Ma se io sono un’azienda, e faccio parte di una rete sociale complessa, presidio un business che ha un fine etico se non altro in termini di valore aggiunto per la collettività. Quindi necessariamente contempero gli interessi dei miei azionisti con quelli della comunità, perché più cresce la società, più si ramifica la rete neurale della quale faccio parte e più si creano condizioni favorevoli per il mio business. Tutto ciò è vero in ragione di quanto non sono indifferente ad un paradigma etico inteso non come “regola morale”, paradigma etico bensì come “maggior interesse per il maggior numero di elementi coinvolti nello scenario” (14): se esistono interessi che si contrappongono, significa allora che o qualcuno si è chiamato fuori da questo paradigma etico – un mio stakeholder…o magari la stessa azienda nostra assistita – oppure, cosa che accade molto più spesso di quanto noi si sia disposti ad ammettere, c’è stata cattiva comunicazione da parte nostra come relatori pubblici, incapacità di gestire criticità, tra trasferire il senso della missione sociale della nostra Cliente nel suo significato più alto, e richiamo qui il modo di fare azienda di imprenditori come Francois Michelin e Adriano Olivetti (15). Qualcuno potrebbe obiettare che certi gruppi di pressione fanno eccezione a questa pedagogia della forte correlazione identitaria, perchè si contrappongono sistematicamente e ideologicamente al business e alle sue espressioni “senza se e senza ma”: non ne sono per nulla convinto, perché i watchdog, nonostante le apparenze, sono li per mantenermi sulla retta via nel rispetto dell’interesse collettivo, e quindi rientrano in un approccio olistico alla mia mappa degli stakeholder. Nessuna contrapposizione, quindi, mai, e nessuna differenza tra stakeholder e influenti, perché sono/siamo tutti stakeholder, in questo mondo sempre più fluido e 2.0, secondo variabili dettate da una logica ad insiemi sfumati sulla base della quale creare un nuovo modello di un nuovo modello di mappa degli stakeholder (16).
La tendenza a voler stabilire i confini di un cerchio per decidere poi “chi è dentro e chi è fuori” da quel perimetro evidenzia una mania classificatorie, la nostra, veramente desueta: anche perché come peccato originale abbiamo quello di ritenere le RP una scienza a se stante rispetto ad altre discipline, madre di un ipotetica famiglia matriarcale delle scienze sociali. A me proprio non va giù, e l’ho anche scritto (17), perché non mi è chiaro come si possa pretendere di fare RP declassando la CSR a specchietto delle allodole, quasi a marketing o a comunicazione: “facciamo un evento social, che aiuta a far uscire articoli di giornale positivi e ci fa fare bella figura con i Parlamentari”. Beninteso, non ne faccio una questione “morale”, non è vergognoso di per se: evidenzia solo l’incapacità di leggere i fenomeni per quelli che sono, permeata da una certa supponenza, arroccati come siamo noi professionisti su certezze vecchie di un secolo.
Perché qui il rischio è quello di invertire strumentalmente i ruoli: la CSR – o la HSR (18), se vogliamo riferirci ad un nuovo paradigma che mi è più congeniale – definisce il DNA dell’azienda, ed è da li che si parte, ab ovo, quella è l’origine di tutto. Poi le RP, che parlano ad alcuni – nella pratica della professione solo ad alcuni – degli stakeholder che la CSR ha definito come parte della rete neurale dell’azienda. Infine il Crisis Management e la Crisis Communication, che sono il necessario “antifurto” per difendere per tempo gli interessi di tutti i pubblici di riferimento dell’azienda. Se non comprendiamo bene qual è l’esatta gerarchia tra queste discipline, iniziamo a costruire la casa dal tetto.
Rilancio: mentre scrivo quest’articolo mi trovo in trasferta di lavoro in Kenia, per seguire dei progetti sociali per conto di un’azienda. Oggi, in un momento di pausa con affianco il mio braccio destro Luca Yuri Toselli, che tra una bibita è l’altra è uso illuminarmi con quelle che lui pensa siano ovvietà terrificanti ma che a me accendono sempre molte lampadine in testa, ho riflettuto sulla pubblicità, che da sempre “racconta storie” di prodotti. Fin dalle origini, con questo pretesto, la pubblicità ha spaziato scendendo nell’intimo, nel quotidiano di chi il prodotto lo utilizza. Reclame che sono una narrazione per il cliente, e spesso “con il cliente”, guardando il prodotto dal suo punto di vista e con lui come protagonista: l’utilizzatore del bene o del servizio racconta se stesso e la sua relazione con il prodotto. Immaginiamo le varie “Lovemarks” (19), e quanto è stretta la relazione tra user e brand: la brand come appartenenza, come strumento per indicare e rivendicare una propria identità. Memorabile la campagna di Microsoft in cui raccontava le short-bio di studenti, ricercatori, piccoli imprenditori di successo laureatisi grazie alle borse di studio dell’azienda di Redmond, o la compagnia di assicurazioni telefoniche che personalizza i propri “testimonial” negli spot, caratterizzandoli con un volto, un nome e cognome: sono gli operatori del call-center, che promuovono la forte relazione cliente/operatore, in quanto il software che gestisce il call-center riconosce il numero del cliente e lo fa parlare sempre con il proprio consulente personale. La storia dell’azienda attraverso la storia dei suoi dipendenti. E quanti annunci citano nome, logo, numeri e statistiche…dei principali clienti dell’azienda che si sta pubblicizzando? I poster di Oracle tappezzano gli aeroporti di tutto il mondo, e parlano del proprio prodotto attraverso le storie delle aziende che l’hanno acquistato. DHL, con i suoi spot nei quali puntando uno spillo sul planisfero ci racconta che “qui alle h. 18:00 si beve il miglior caffè della Siria”, non ci sta forse raccontando il vissuto quotidiano dei propri dealer, che pure sono uno stakeholder? Quindi possiamo dire che ci stiamo interrogando su un approccio al rapporto con gli stakeholder che per certi versi la pubblicità ha fatto proprio da decenni. Ecco… come al solito siamo in ritardo. Però la medaglia a sempre due facce: salviamoci in corner, considerando che la pubblicità è un superficiale mondo di illusioni mentre noi relatori pubblici dobbiamo saper andare più a fondo, lavorare più in profondità. E’ vero, il nostro è un mondo più complesso.
Però – per favore, e a proposito di “ritardi” – smettiamola di emettere parcelle a debito dei nostri clienti, e nulla più: diamo (anche) tutti un contributo alla crescita della professione, all’innovazione degli strumenti e dei metodi, e quando ci interroghiamo su quanto il mondo stia correndo veloce rispetto alla nostra capacità di stargli dietro, proviamo anche a elaborare delle risposte. Perché va bene essere soffocati dal quotidiano, ma questo vale per tutti, e l’idea che ci sia sempre qualcun’altro a farlo, mi ricorda tanto la parabola dell’ebreo: hanno portato via tutti, e sono stato zitto, poi a un certo punto è toccato a me e non c’era nessuno a difendermi.
E – scusate la provocazione – al funerale delle RP io proprio non voglio andarci.
Breve bibliografia dei contributi citati nell’articolo (20):
NOTE:
(1) Federazione Relazioni Pubbliche Italiana, l’associazione di categoria del relatori pubblici e comunicatori, www.ferpi.it
(2) LINK all’articolo
(3) LINK all’articolo
(4) Saggio “La Teoria dei Giochi: dalla strategia militare alle relazioni pubbliche”, redatto nel 2007 e inizialmente pubblicato sulla newsletter www.creatoridifuturo.it, poi ripubblicato successivamente in Ferpi News il 24/01/2011
(5) Saggio “Nuovi strumenti per la CSR: dalla tradizionale mappa degli stakeholder alla rete neurale complessa”, pubblicato in Ferpi News il 27/01/2009
(6) Si tratta di un approccio alla logica in cui si può attribuire a ciascuna proposizione un grado di “verità variabile” compreso tra un valore 0 ed un valore 1. Quest’intuizione, utilissima per spiegare molti fenomeni moderni, era stata tratteggiata già prima da ricercatori del calibro di Bertrand Russel ed Albert Einstein, ma venne codificata in modo articolato per la prima volta negli anni ’60 dal Prof. Lotfi Zadeh, dell’Università di Berkeley. Quando parliamo di grado di verità o valore di appartenenza, intendiamo dire – disorientando un po’ le nostre mentalità cartesiane, pregnate dal concetto “o e vero o è falso, o è bianco o è nero” – che una certa proprietà oltrechè essere vera (cioè con valore 1) o falsa (cioè con valore 0) come prevede la logica classica, può anche essere contraddistinta da valori intermedi: vero è
che “o si è vivi o si è morti” (valore 1 o valore 0), e che è indiscutibile che non si possa essere vivi se si è morti, ma altrettanto vero è che – in logica fuzzy – si può assegnare a un neonato valore 1, a un ragazzo appena maggiorenne valore 0,8, e a un anziano pensionato settantenne valore 0,15. Detta così può apparire banale, ma la codificazione di questa riflessione sotto forma di algoritmi matematici avviò una vera e propria rivoluzione nel mondo della logica moderna, fino a prima retta da valutazioni logiche di tipo Aristotelico.
(7) Saggio “Teoria dell’entropia, comunicazione di crisi e rapporti con la CSR”, pubblicato in Ferpi News il 13/01/2011
(8) episodio tratto da Vaughan Bell, Slate (USA), e ripreso dal periodico “Internazionale” n° 837, 12/18 marzo 2010
(9) uno dei “papà” italiani delle Relazioni Pubbliche. Esperto di fama internazionale, è Consigliere speciale del Presidente della Global Alliance for Public Relations and Communication Management, Docente di Global Relations and Intercultural Communication alla New York University e Docente di Relazioni Pubbliche all’Università LUMSA di Roma. Anima frequentemente con i suoi post, stimolanti e a volte provocatori, il sito www.ferpi.it, nonché i più importanti blog di RP in Italia ed all’estero
10) Saggio “ Human Social Responsibility: una nuova prospettiva per la CSR. I rapporti della Corporate Social Responsibility con le neuroscienze e la biopsicologia”, pubblicato in Ferpi News il 16/12/2010
(11) socio Professionista FERPI ed esperto di RP, è anche il Direttore editoriale del sito www.ferpi.it
(12) uno dei colossi internazionali delle Relazioni Pubbliche, con uffici in tutte le capitali politiche ed economiche del mondo
(13) mi riferisco alle polemiche sul web tra il sottoscritto e il consulente internazionale Paul Seaman, che ha negato l’importanza della Teoria degli Stakeholder tentando di riportare indietro l’orologio del dibattito professionale alla Teoria degli Shareholder, polemiche di cui ha rendicontato anche Ferpi News sia nella versione cartacea che in quella elettronica. Questo dibattito ha portato alla redazione del mio articolo – redatto nell’agosto 2010 e pubblicato il 06/10/10 – dal titolo “Stakeholder: valore a lungo termine contro profitto a breve termine”
(14) articolo “La dimensione etica nella vita d’impresa”, pubblicato sulla newsletter www.creatoridifuturo.it nel maggio 2007
(15) Saggio “Human Social Responsibility”, op. cit.
(16) articolo “Una nuova mappatura degli stakeholder: strumenti innovativi per una raffigurazione delle relazioni tra un’azienda e i suoi pubblici”, pubblicato in Ferpi News il 28 gennaio 2011
(17) articolo “Impresa 2.0: una gerarchia delle fonti tra Relazioni Pubbliche e Corporate Social Responsibility”, pubblicato in Ferpi News il 14/05/2010
(18) Saggio “Human Social Responsibility”, op. cit.
(19) articolo “Lovemarks: storie di passione”, pubblicato in Ferpi News nel febbraio 2011
(20) Al fine di permettere al lettore un corretto inquadramento dello sviluppo della mia attività di ricerca in questa materia, la bibliografia non segue l’ordine di pubblicazione bensì l’ordine cronologico di redazione dei vari contributi: la data indicata accanto al titolo del lavoro è quindi quella in cui è stato terminata la stesura dell’articolo/saggio nella sua versione finale. La pubblicazione è avvenuta in alcuni casi immediatamente, in altri casi in epoca successiva.
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