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Direttiva Ue sui fornitori: rinviato il voto sugli obblighi per le imprese

Direttiva Ue sui fornitori: rinviato il voto sugli obblighi per le imprese

Rinviato il voto chiave sul Supply chain act europeo, che avrebbe messo a rischio la competitività dell’industria europea in uno scenario congiunturale e geopolitico complesso. Decisivo il dietrofront di Germania, Austria, Finlandia e Italia, dopo l’appello lanciato dalle associazioni confindustriali nazionali e da quella continentale BusinessEurope. La richiesta dei rappresentanti industriali era chiara e concorde, in particolare in Germania e Italia: bloccare il testo della proposta di direttiva europea sulla Corporate responsibility due diligence (Csddd) perché una normativa così concepita – e giudicata macchinosa, di difficile applicazione e invasiva – avrebbe fatto aumentare il costo degli approvvigionamenti industriali con conseguenti difficoltà per le imprese e nuove tensioni inflazionistiche. I negoziati ora si riaprono, su nuove basi, a un passo dal voto decisivo che era stato fissato al 9 febbraio.
Le imprese europee avevano lanciato l’allarme perché la Csddd avrebbe imposto obblighi di verifica lungo tutta la catena di fornitura comportando un aumento dei costi di approvvigionamento e monitoraggio. L’appello dell’associazione delle confindustrie europee BusinessEurope non è passato inascoltato.

Il dietrofront della Germania

In Germania si è consumata negli ultimi giorni una battaglia politica, con schieramenti contrapposti di partiti, per bloccare in extremis un testo giudicato troppo punitivo per le aziende, nella congiuntura attuale. Anche in Italia, Confindustria aveva chiesto ufficialmente al Governo di astenersi (quindi di esprimere una posizione negativa) sulla proposta di direttiva al voto finale.
Per una volta, forse la prima di una serie (visto il rallentamento economico in atto), la Germania ha abbandonato la linea ecologica che ha contraddistinto il suo supporto alla Commissione von der Leyen a trazione green, confluendo di fatto sulle posizioni italiane. Posizioni, quelle del Governo Meloni, critiche da diversi mesi sulla pioggia di regolamenti e direttive green (come quelle sulle auto e sul packaging) varate tutte insieme, con scarse misure di supporto per agevolare una transizione giusta e senza la necessaria neutralità tecnologica per consentire ai singoli Stati di raggiungere i risultati concordati nel modo più adatto al loro sistema economico e tecnologico. Finora l’Italia era sola in Europa in questa battaglia, giudicata “di retrovia” e inadeguata di fronte all’emergenza dei cambiamenti climatici in atto. Ora la Germania e altri Paesi nordici, con la svolta di oggi al Consiglio europeo e al meeting Coreper in Belgio, hanno rotto il fronte europeo, ponendo fine all’isolamento italiano.
È bastato infatti che la Germania annunciasse – al pari dell’Austria, della Finlandia e dell’Italia – che si sarebbe astenuta al momento della votazione per avviare frenetiche negoziazioni in extremis per salvare la votazione del 9 febbraio sulla direttiva Csdd. Ma i rilievi tedeschi sono stati giudicati «extensive», secondo i rumors dal Belgio, e il voto è stato rinviato, per dare più tempo ai negoziati di svolgersi. Secondo un’anticipazione di Radiocor Il Sole-24 Ore, che ha battuto sul tempo tutte le agenzie europee, Germania, Austria e Finlandia avevano già preannunciato l’astensione, che ai fini della votazione sarebbe stata conteggiata come un voto negativo. A questi tre Paesi si sarebbe aggiunta l’Italia, sempre con l’astensione. Se gli ambasciatori avessero votato, sarebbe emersa platealmente la minoranza di blocco impedendo, appunto, che si raggiungesse la maggioranza necessaria. La posizione dei quattro Paesi riflette quella assunta dalla maggior parte del mondo industriale che ritiene l’impatto di quelle regole sull’attività delle aziende troppo onerosa.

L’appello delle imprese

Positiva la reazione di Confindustria alla notizia lanciata da Radiocor Il Sole-24 Ore. «Per le regole della maggioranza qualificata serviva l’astensione anche dell’Italia per fermare il testo attuale, macchinoso e ingestibile, di una direttiva critica per le imprese e per la competitività europea – spiega Stefano Pan, delegato del presidente di Confindustria per l’Europa e vicepresidente di BusinessEurope -. Per questo abbiamo chiesto al Governo italiano di astenersi in fase di votazione, in modo da consentire il riavvio dei negoziati».
Del resto, lo stesso allarme delle imprese tedesche è stato recepito dalla Germania, che ha optato per il dietrofront dalla battaglia ecologista a seguito di un vivace dibattito interno, che ha diviso i partiti e ottenuto vasta eco, in un Paese alle prese con scioperi e preoccupazione montante per la tenuta industriale.
«Il dibattito sulla direttiva europea è stato in evidenza per giorni nei telegiornali in Germania e ha avuto vasta eco per la sua portata simbolica – racconta Pan -. Le imprese tedesche, al pari di quelle italiane e di altri Paesi, sono molto preoccupate dal varo di una normativa estremamente complessa e invasiva per la sua portata globale. Speriamo quindi che si riaprano i negoziati per scongiurare un aumento dei costi incontrollato degli approvvigionamenti, in una fase economica delicata e in uno scenario geopolitico critico».

Perché la direttiva Csdd preoccupa

Al centro delle polemiche c’è una delle direttive chiave per completare la strategia anti-climate change europea realizzata con il pacchetto di normative Fit for 55 e con il Green new deal. La direttiva Csddd – detta anche Csdd, Cs3D o più simbolicamente Eu Supply chain act – prevederà infatti dovere di diligenza (due diligence) delle imprese ai fini della sostenibilità sociale, mirando a promuovere un comportamento sostenibile e responsabile lungo tutta la filiera del valore. Le imprese, in sostanza, dovranno evitare che le loro operazioni abbiano effetti negativi sui diritti umani, come il lavoro minorile e lo sfruttamento dei lavoratori, e sull’ambiente, ad esempio l’inquinamento e la perdita di biodiversità.
Tutto condivisibile, in linea di principio.
«Ma in uno studio appena realizzato, BusinessEurope calcola che il controllo di tutti i fornitori (e dei loro fornitori) comporterà un aumento dei costi considerevole, per monitorare tutta la filiera, controllare continuamente la supply chain e fornire garanzie di compliance – spiega Pan -. Nel caso di una media impresa, lo studio calcola che i costi possono arrivare fino a quattro milioni di euro; per non parlare dei costi di una possibile disruption della catena di fornitura, che potrebbe avvenire se tante imprese cambiassero fornitori in un momento geopolitico ed economico così complesso. Pensiamo ad esempio ai nostri settori della concia delle pelli e dell’edilizia: il rischio di nuovi shock lungo la supply chain ci preoccupa».

Che cosa prevede il Supply chain act

La proposta di direttiva, la cui approvazione fin qui è stata data per certa dopo un dibattito e un iter normativo durato due anni, prevede un dovere di diligenza molto forte per le imprese, sotto il profilo sociale e ambientale. Le aziende sopra i 40 milioni di fatturato saranno tenute, nelle loro operazioni, nelle controllate e nelle catene del valore, a individuare, far cessare, evitare, attenuare e dar conto degli effetti negativi sui diritti umani e sull’ambiente. Inoltre, determinate grandi imprese devono disporre di un piano per garantire che la loro strategia commerciale sia compatibile con la limitazione del riscaldamento globale a 1,5 °C, in linea con l’accordo di Parigi.
Gli amministratori sarebbero incentivati (con benefici non meglio specificati) a contribuire agli obiettivi di sostenibilità e mitigazione dei cambiamenti climatici. Ma avranno anche forti responsabilità. In particolare saranno tenuti a integrare il dovere di diligenza nella strategia aziendale, istituire i relativi processi e vigilare sulla loro attuazione. Inoltre, nell’adempimento del loro obbligo di agire nel migliore interesse dell’impresa, gli amministratori dovranno tenere conto delle conseguenze delle loro decisioni sui diritti umani, sui cambiamenti climatici e sull’ambiente. Lungo tutta la filiera e anche per contratti di fornitura già firmati e vincolanti su base pluriennale.

A chi si applica la Csdd

L’applicazione della direttiva sarebbe comunque graduale, in base alla dimensione dell’impresa. Le imprese con più di mille dipendenti dovranno adeguarsi entro il 2027; quelle con più di 500 dipendenti e fatturato annuo netto di 150 milioni entro il 2028; entro il 2029 quelle con oltre 250 dipendenti, fatturato netto annuo sopra i 40 milioni e che operano in settori ad alto rischio. Le società extra-UE dovranno conformarsi se la loro soglia di fatturato annuo è raggiunta dalle entrate nella Ue.
Nell’ultima bozza, rilasciata a fine gennaio, si erano attenuate le misure a carico degli amministratori e alcuni gruppi di pressione avevano parlato di “direttiva annacquata”. Alle Pmi impattate dalle norme proposte verrebbero garantite misure di sostegno, in linea generale. Ma le modifiche apportate non sono bastate a BusinessEurope e ad altre associazioni europee.
Altro nodo critico sono i controlli e le sanzioni. Gli Stati membri dovrebbero designare un’autorità incaricata di vigilare e imporre sanzioni, comprese ammende e ingiunzioni di conformità. A livello europeo la Commissione dovrebbe istituire una rete europea di autorità di vigilanza per riunire i rappresentanti degli organismi nazionali al fine di garantire un approccio coordinato. Le autorità amministrative istituite ad hoc da ogni Stato potrebbero infliggere sanzioni pari almeno al 5% del fatturato mondiale: una soglia giudicata «vessatoria» dalle confindustrie europee. Va detto, comunque, che l’applicazione della direttiva e le sanzioni per gli inadempienti sarebbero comunque fissate dagli Stati membri in sede di recepimento. E questo potrebbe ammorbidire l’efficacia della norma, almeno nei Paesi con un giudizio critico.

L’impatto su subfornitori e multinazionali

Di certo, l’effetto annuncio della normativa e la corsa a fornitori certificati farebbe comunque lievitare i costi degli approvvigionamenti, con effetti anche su Pmi e microimprese. Non solo: le multinazionali rischiano cause legali su vasta scala in caso di inadempienza, perché la bozza di direttiva prevede la possibilità per i cittadini di fare class action con richieste di ingenti risarcimenti danni. Una misura, questa, contenuta nella bozza finale e contestata in particolare dalla Svezia, dove le class action non sono ancora a pieno regime nell’ordinamento giuridico nazionale.
Guardando il bicchiere non solo mezzo vuoto, ma anche mezzo pieno, c’è in verità qualche vantaggio che, nel medio-lungo periodo, potrebbe arrivare alle Pmi italiane . «È presumibile che i fornitori nei Paesi in via di sviluppo che non offrono garanzie di rispetto della direttiva europea saranno gradualmente sostituiti da fornitori che offrono maggiori garanzie; in questo scenario le imprese italiane potrebbero sostituirli e guadagnare contratti di fornitura importanti con le multinazionali soggette a compliance della Csddd, in quanto di solito percepite come più affidabili e soggette a norme stringenti», fa notare Pier Mario Barzaghi, partner Kpmg con anni di incarichi di rappresentanza negli organismi di regolamentazione internazionali. «Ma persino le Pmi italiane che guadagnassero questi contratti sarebbero comunque soggette al rialzo dei costi delle materie prime e delle forniture lungo la loro supply chain e quindi il loro vantaggio si azzererebbe», ribatte Stefan Pan.
La battaglia su questa proposta normativa controversa si sposta ora al Parlamento europeo. Dove, per una volta, la Germania e i Paesi nordici condividono gli stessi interessi e le stesse preoccupazioni del sistema economico italiano. Una novità simbolo di una svolta in atto: forse la forsennata corsa europea al rispetto degli accordi internazionali sul clima e dei 17 Obiettivi di sostenibilità Onu sta rallentando, a causa della congiuntura e della geopolitica sfavorevoli. Del resto, anche il Regno Unito, ora fuori dall’Unione europea, ha appena annunciato il taglio dei fondi per la transizione ecologica da 28 a 4,7 miliardi di sterline all’anno.




USA, stop alle chiamate automatiche con voci AI: sono frode

USA, stop alle chiamate automatiche con voci AI: sono frode

L’utilizzo di voci generate dall’AI per effettuare chiamate automatizzate è stato vietato negli Stati Uniti. La Federal Communications Commission (FCC) ha stabilito che è necessario ottenere il consenso del destinatario prima di utilizzare queste voci artificiali o preregistrate, salvo emergenze.

La decisione mira a contrastare le attività fraudolente e la diffusione di disinformazione attraverso tecniche di clonazione vocale basate sull’AI. Si tratta di un importante intervento a tutela dei consumatori, in un momento in cui le voci generate dall’intelligenza artificiale stanno diventando sempre più sofisticate e difficili da distinguere dall’originale.

Un fenomeno in crescita e preoccupante

La clonazione vocale tramite AI è una pratica che consiste nel replicare la voce di una persona reale, utilizzando algoritmi avanzati. Questa tecnologia può avere applicazioni positive, come la creazione di contenuti multimediali o la personalizzazione di assistenti virtuali. Tuttavia, può anche essere usata per scopi meno nobili, come l’inganno, la manipolazione o l’estorsione.

Negli ultimi tempi, sono emersi diversi casi di abuso di voci clonate dall’intelligenza artificiale. Ad esempio, a gennaio è stato scoperto che la voce di Michael, uno dei protagonisti del videogioco GTA 5, era stata copiata da un’AI senza il suo consenso. Un’azienda aveva clonato la sua voce per creare un servizio di chat online che sfruttava la sua popolarità.

Inoltre, alcuni elettori del New Hampshire hanno ricevuto una chiamata da una voce falsa di Joe Biden, il presidente degli Stati Uniti, che li invitava a non votare alle primarie presidenziali dello Stato. Si trattava di una campagna di disinformazione orchestrata da due società texane, Life Corporation e Lingo Telecom, che sono ora sotto inchiesta.

Una nuova arma legale contro i truffatori

La sentenza della FCC chiarisce che la clonazione vocale tramite AI rientra nella categoria delle voci “artificiali o preregistrate” prevista dal Telephone Consumer Protection Act, una legge che regola le chiamate commerciali e telemarketing. Questo significa che chi chiama deve informare i destinatari della natura artificiale della voce e ottenere il loro permesso prima di proseguire la conversazione. In caso contrario, si espongono a sanzioni civili e penali.

La presidente della Federal Communications Commission, Jessica Rosenworcel, ha spiegato che la messa al bando delle chiamate automatizzate con voci generate dall’intelligenza artificiale ha l’obiettivo di tutelare consumatori e cittadini dagli abusi legati alla clonazione vocale. Rosenworcel ha precisato che la FCC proseguirà il monitoraggio di queste tecnologie emergenti, collaborando con altre agenzie governative per garantire sicurezza e privacy nelle comunicazioni.




Vent’anni di Facebook, una rivoluzione dell’io senza rivoluzionari

Vent'anni di Facebook, una rivoluzione dell’io senza rivoluzionari

Vent’anni fa, esattamente il 4 febbraio del 2004, Facebook irrompeva nella nostra vita.

La storia di quell’evento ci è stata raccontata mille volte, la sua evoluzione da catalogo di belle scolastiche a sistema relazionale del mondo. Oggi siamo in un picco di riprovazione sociale per l’intero sistema dei social. Ogni giorno ci si esercita in un tiro al bersaglio al grido del male assoluto. In questi due decenni, che nella nuova dimensione temporale che ci ha imposto la rete sembrano più o meno di avere la durata di un secolo, almeno 5 generazioni sono cresciute nella certezza che ogni individuo del pianeta sia raggiungibile con un click.

Le sei persone che separano ognuno di noi da tutti gli altri si sono vertiginosamente ridotte a due: chi ci cerca e chi viene trovato. Il mondo è sicuramente più corto, ma soprattutto è affiorata una nuova soggettività, quell’irrefrenabile io che si manifesta sui social frantumando ogni primato o gerarchia dei mediatori.

Insieme al ventennale della creatura di Mark Zuckerberg celebriamo in questi giorni anche i 15 anni del magico bottone I Like, che apparve il 9 febbraio 2009 nella bacheca di Facebook. Un’altra tappa di quella rivoluzione dell’Io avrebbe detto Fichte, il filosofo che poco più di due secoli fa forse anticipò con più nitidezza il processo mentale che oggi vediamo dispiegarsi nella rete.

Nell’interpretazione di un altro grande filosofo scomparso non da molto, Aldo Masullo, Fichte ha focalizzato quella relazione basata sul protagonismo di due individui che si riconoscono l’uno nell’altro come forza motrice. Ci spiega Masullo nel saggio “La Comunità come fondamento” (Libreria Scientifica Editrice), infatti, che Fichte afferma che “l’iità non potrebbe individualizzarsi nella forma della prima persona, diventare io, se non si individualizzasse nella seconda persona: non può nascere un io là dove non sia nato un tu”.

In questa dinamica che estrae gli individui dalle masse, dando a loro il primato nella costituzione delle identità collettive, Fichte aggiunge una forza, diciamo oggi un potere, che promuove e organizza questi incontri fra gli infiniti io con gli infiniti tu ed è, ci dice sempre Masullo, l’Aufforderung, ossia l’invito, una spinta esterna che attrae l’individuo verso la libertà.

Una visione che oggi ci appare forse come la più lucida e profonda razionalizzazione di quel magico meccanismo che ha visto in così poco tempo diffondere per l’intero pianeta questa spinta irrefrenabile alla relazione in rete mediante un sistema di contatto e conversazione. Gli aspetti degenerativi di  questo ancora acerbo esercizio di discrezionalità per cui ogni io afferma sé stesso scegliendosi un tu con cui dialogare, sono fin troppo noti ed evidenti. Ma sono anche una frazione infinitesimale della massa quotidiana di quei contatti che danno senso a milioni di vite. Le cosidette bolle d’odio, gli sciami violenti che si abbattono su bersagli momentanei, sono tuoni locali in un universo infinito in cui gran parte dell’umanità, almeno 4 miliardi stabilmente si calcola, appoggia la propria esistenza a un sostegno che trova nelle relazioni che si tessono in rete.

I numeri di questo fenomeno ci impongono di non limitarci nell’analisi alla constatazione degli effetti perversi che questa opportunità di protagonismo innesta in ambiti comunque limitati.

Non possiamo non cogliere che l’avvento con Facebook dei social coincide con il ridisegno di processi sia geopolitici, con un appiattimento del mondo come direbbe il politologo americano Thomas Friedman, in cui ogni equilibrio va rimediato con una platea di interlocutori più vasta, fino ad arrivare anche a forme di ingovernabilità, come i conflitti in corso ci testimoniano, che non possono però farci rimpiangere l’equilibrtio di un mondo sottoposto al dominio di due sole super potenze. Dall’altro, non possiamo non registrate quel fenomeno universale di corrosione e contestazione delle élite di comando che vede a tutte le latitudini del pianeta traballare i governi e precarizzarsi le istituzioni. Un fenomeno che ha del tutto sorpreso e scavalcato le forze della sinistra che nella nuova dinamica fra io e tu non ritrovano la propria dimestichezza nel padroneggiare la precedente società di massa. Mentre le destre si ritrovano più istintivamente ad adattare le forme plebiscitarie che il cosidetto capitalismo della sorveglianza, come dice Shoshanna Zuboff, in inediti regimi autocratici. 

Ma è l’assenza di un attrito sociale che possa contrastare una deriva autoritaria nell’uso della relazioni digitali la causa di questo squilibrio. Nessuna tecnologia è mai stata buona di per sé e certo non lo poteva essere la rete, è il conflitto sociale il soggetto in grado di negoziare l’invito al protagonismo, di cui parlava Fichte con la tentazione peronista che è insita in ogni forma di controllo dall’alto. Così è stato per il fordismo industriale e così ancora oggi non è per il nuovo modello di produzione sociale basato sulla connessione fra l’io e il tu.

Ma Hic Rudus Hic Salta, da qui bisogna passare per civilizzare questo mondo che non potrà mai tornare alle gerarchie del ‘900. L’accesso all’intelligenza artificiale ci dice che i 20 anni di facebook stanno chiudendo una fase, che gli storici definiranno di alfabetizzazione digitale. Siamo già in vista di un nuovo tornante che ci conduce a un nuovo intraprendente io dotato di protesi di raccolta ed elaborazione di dati fino a oggi riservate solo ai grandi apparati statali. Un nuovo guazzabuglio si disegnerà dove comunque si dovrà capire come attivare nell’affollamento di miliardi di io, forme cooperative e collaborative che possano neutralizzare gli istinti predatori che una rete senza conflitto socviale irrimediabilmente evoca.

Ma come ci capitò 20 anni fa quando un impertinente e furbo ragazzetto aprì il vaso di pandora di facebook, dobbiamo avere sempre la certezza, come diceva Henry-Louis Bresson che “il caos rimane un equilibrio che non abbiamo ancora decifrato“.




Lobbying e trasparenza: la necessità di una regolamentazione efficace

Lobbying e trasparenza: la necessità di una regolamentazione efficace

É oramai da diverso tempo che si tenta di regolamentare l’attività della rappresentanza degli interessi e anche in questa legislatura la Commissione Affari Costituzionali della Camera ha avviato una indagine conoscitiva. La nostra associazione è da sempre impegnata a dare il proprio contributo per rappresentare i tanti professionisti del settore e abbiamo provato ad evidenziare, anche in questa occasione, i punti cruciali in merito alla necessità di regolamentare l’attività di lobbying.

Dal nostro punto di vista la rappresentanza di interessi è un’importante espressione della democrazia partecipativa. La condivisione di informazioni legate all’expertise tecnica degli operatori economici corrobora il lavoro alla base del processo decisionale, sottolineando la sua rilevanza nella formazione delle politiche pubbliche.  A nostro avviso è dal libero confronto tra più gruppi di interesse e il decisore pubblico, che si può conseguire un miglioramento nell’efficacia dell’attività di policy-making attraverso la possibilità di assumere scelte collettive adeguatamente informate e ponderate.

Per raggiungere tale obiettivo abbiamo espresso alcune raccomandazioni. Queste includono l’istituzione di un registro nazionale, una maggiore trasparenza nel processo decisionale, la pubblicazione degli incontri tra il decisore e il rappresentante di interessi, un sistema di premialità per gli iscritti al registro come la disponibilità degli schemi degli atti di governo, nonché regole trasparenti per entrambi i soggetti coinvolti (decisore e lobbista).

Peraltro la necessità di regolare tale attività, non è soltanto chiesto dai professionisti del settore. E’ proprio di questi giorni la pubblicazione del report CPI 2023 – Indice di Percezione della Corruzione – redatto da Transparency International, che colloca il nostro Paese al 42° posto su 180 Paesi misurati. Se da un lato si conferma l’impegno dell’Italia nella lotta alla corruzione, dall’altro si evidenziano le necessità di affrontare alcune carenze normative – e tra queste – la mancanza di disciplina in materia di lobbying, per migliorare la posizione del Paese nella lotta alla corruzione.

In conclusione, la regolamentazione dell’attività di lobbying emerge come un passo fondamentale per migliorare la trasparenza e contrastare la corruzione. L’associazione continua a svolgere un ruolo chiave nel promuovere un sistema decisionale più aperto e partecipativo. La sfida ora è tradurre queste raccomandazioni in azioni concrete per il bene della democrazia e della società.




L’insofferenza alle domande: dalle tecniche per schivarle ai rimedi per costruire un dialogo inclusivo.

L’insofferenza alle domande: dalle tecniche per schivarle ai rimedi per costruire un dialogo inclusivo.

Parto da un assunto: quello che le domande siano diventate scomode, non solo quelle che scomode intendono esserle ma anche quelle che vorrebbero solo stimolare riflessione, confronto e dialogo. In molti casi sembriamo addirittura insofferenti, infastiditi, intolleranti alle domande. Con piccoli vantaggi immediati nel rifiutarle o aggirarle, ma conseguenze anche gravi nelle nostre relazioni.

È una tendenza riscontrabile su vari livelli delle interazioni sociali. Partendo dall’alto è ormai un tema ricorrente il cattivo rapporto di evitamento e conflittualità tra la Prima Ministra Meloni e i giornalisti. Talmente palese che è ormai “iconico” (esistono molte foto che evidenziano questo atteggiamento) e “strutturale” (molti articoli trattano il tema sotto vari aspetti. Uno per tutti un autorevole quotidiano americano di destra come il Washington Post, qui in italiano). Le critiche alla Premier hanno riguardato, tra le varie cose: il numero ridotto di conferenze stampa, l’atteggiamento di conflittualità coi giornalisti che pongono domande, il fatto che gli esponenti del suo partito disertino le reti o le trasmissioni non allineate, le querele temerarie (intimidatorie verso giornalisti di diversa opinione o parte politica), ma anche i no comment o le mancate/negate risposte, comportamento peraltro comune a molti politici.

Sono dunque così terribili e temibili le domande della stampa? Pare piuttosto che siamo di fronte a un modello culturale e a un sistema di pensiero che preferiscono:

  • il monologo (ad esempio con la videorubrica “L’agenda di Giorgia” che crea un senso di intimità, autenticità, trasparenza però del tutto fittizio)
  • il dialogo asincrono e asimmetrico dei social (dove si evita il fatto di dover rispondere immediatamente alle domande e alle obiezioni attraverso la disintermediazione e si ha una posizione di totale controllo sul pubblico decidendo chi ammettere a rispondere o chi “bannare” attraverso la moderazione)
  • la polarizzazione (dando per scontato a priori l’antagonismo e anzi, perseguendolo e consolidandolo inseguendo posizioni sempre più estremiste come ci spiega uno studio del Carnegie Endowment for International Peace).

I “QUESTION DODGERS”: I LEADER A STELLE E STRISCE E LE LORO TECNICHE PER AGGIRARE LE DOMANDE

Shane Snow, giornalista, autore di best seller e imprenditore della comunicazione fa una bella ricostruzione in cui riconduce il problema del “dodging questions” (così è definito universalmente in inglese lo schivare o aggirare le domande) e delle sue tecniche nel campo della “disonestà intellettuale“. Snow elenca alcuni casi con delle vignette molto divertenti che rappresentano le tecniche preferite da noti politici o personaggi televisivi statunitensi.

There is only one intellectually honest way to dodge a question. And that’s to actually say that you don’t want to answer the question, or you don’t think the question is worth answering.Sean Snow, “Intellectual Dishonesty

Dirchiaramente che non si vuole rispondere“potrà essere “l’unico modo onesto di evitare una domanda“, come dice Snow, ma è anche spesso interpretabile come una ammissione di responsabilità o genera il dubbio, all’interlocutore, che si abbia qualcosa da nascondere.

Purtroppo non tutte le forme di “dodging” sono altrettanto facilmente rilevabili e, come dimostra una ricerca di Harvardsono frequenti i casi in cui l’interlocutore NON si accorge che la sua domanda è stata evitata o raggirata.

L’EVASIVITÀ: UNA PRATICA “FAMILIARE”

Le tecniche per evitare domande, specialità di molti politici, sono un fatto comune che impariamo sin da bambini nelle relazioni domestiche e scolastiche con genitori, insegnanti, compagni e compagne. E non vale solo per i più piccoli, spesso sono proprio gli adulti a evitare o aggirare le domande dei bambini perché non sono sicuri di come rispondere.

L’”evitamento” (“avoidance coping” in inglese e nel linguaggio scientifico psicologico) è anche un meccanismo di difesa volto a placare l’ansia che, nei casi gravi, costituisce un vero e proprio disturbo della personalità (Avoidant personality disorder (AVPD) o Disturbo Evitante di Personalità). Chiaramente non si può sostenere che il “question dodging” sia indicatore di un disturbo grave, ma vari tratti o sintomi di questo disturbo della personalità sono in realtà sovrapposti alla pratica di evasività o evitamento delle domande. Dalla scarsa autostima al senso di inferiorità, sentimenti di inadeguatezza e timore del rifiuto, una particolare sensibilità alle critiche sono segni del Disturbo Evitante di Personalità, ma anche potenziali cause dell’evitamento delle domande.

Insomma, evitare le domande è sicuramente una malizia al confine con la menzogna, anche se potrebbe avere radici più profonde di natura psicologica.

PR E MEDIA TRAINING: L’ADDESTRAMENTO A EVITARE LE DOMANDE COME “SKILL” DA SVILUPPARE

Se l’evitare le domande è da alcuni considerato un venir meno ai propri doveri politici o manageriali, in molti casi è vista, invece, come una tecnica da coltivare e sviluppare. Nel mondo delle Public Relations è prassi comune organizzare corsi o servizi di “Media Training”. Come suggerisce il nome si tratta di un addestramento a relazionarsi con i media. Rispondere a un’intervista, parlare in video etc etc. Come possiamo immaginare i media training si sono evoluti con i media e con le interazioni a cui sono esposti i leader, manager, funzionari che lo ricevono. Una pietra miliare di ogni media training è come rispondere, evitare, rimbalzare le domande, specialmente quelle “scomode”. Consapevoli del loro ruolo malizioso, alcuni si specializzano addirittura in “Come aggirare le domande senza sembrare evasivi“. Anche le agenzie di PR più blasonate, serie, professionali come Edelman, seppur usando linguaggi meno espliciti, preparano i clienti a sviluppare:

“[…] the ability to limit or adjust undesirable messages that result from a media interview.”Acing Media Interviews Begins with Better Prep (EDELMAN)

Disintermediare e moderare le domande scomode attraverso i Social Media: OPPORTUNITÀ E RISCHI

Ci sono molti studi sulle dinamiche dei social media e sul perché sono uno strumento preferito da molti personaggi pubblici (ma anche del business) per il controllo che forniscono loro sull’audience e sulle interazioni. Di disintermediazione si parla da molti anni ormai e politici e aziende ne hanno fatto un grande uso attratti dall’idea di potersi costruire un loro pubblico, evidentemente amichevole, e di togliere di mezzo soggetti scomodi quali i giornalisti o i critici. La semplice apertura di un proprio profilo sui Social Network è una forma di disintermediazione in cui un’azienda o un politico “conversano” direttamente con il proprio pubblico. L’uso di video, on demand o live, e di formati in cui “l’azienda diventa editore” o “media company” sono altri esempi in cui non solo si organizza produttivamente il lavoro vista la grande mole di contenuti necessaria ai media digitali, ma si cerca questo rapporto diretto ritenuto comodo in quanto si può addomesticare il pubblico.

Disintermediazione e moderazione, però, hanno un prezzo. Un recente studio, condotto da ricercatori e professori dell’Università di Oslo e Lucerna parla addirittura di “mettere la museruola ai social media

La leva individuata dalla ricerca è la moderazione, potere interamente in mano all’emittente e che consente di passare da una conversazione “crowdsourced” (totalmente spontanea, dal basso”) a una “controlled” (cioé filtrata e selezionata o censurata). Un doppio esperimento incrociato mostra come all’aumentare della moderazione peggiorino significativamente, nei confronti dell’organizzazione che la applica: atteggiamento generale, fiducia, soddisfazione e percezione del commitment dell’organizzazione.

La polarizzazione: GLI ESTREMI come posizione “obbligata”

La polarizzazione, cioé la tendenza diffusa in media, politica e società a schierarsi in fazioni opposte e conflittuali, esaspera queste dinamiche. La crescente polarizzazione, sia all’interno di un gruppo e quindi nei processi decisionali delle organizzazioni sia all’interno dei partiti politici assume dinamiche che accelerano le estremizzazioni e radicalizzano attivisti e leader. Di fronte a attivisti e alle “early majority” (gruppi ancora minoritari, ma prime manifestazioni di consenso aggregato) i leader di partito tendonosecondo una ricerca della Cornell University, a radicalizzarsi sulle posizioni di questi soggetti.

Parties and candidates clearly believe that more polarizing candidates are more likely to win elections. This may be a self-fulfilling prophecy […]Polarization, Democracy, and Political Violence in the United States: What the Research Says – Carnegie Endowment for International Peace

Ecco allora che un leader esposto alle tendenze della polarizzazione di fronte a domande su un tema risponderà rifugiandosi nell’estremismo in cui lui e la sua organizzazione sono (già) polarizzati.

LA CASSETTA DEGLI AMBIGUI. TECNICHE E STRUMENTI PER AGGIRARE LE DOMANDE SCOMODE E DIFFICILI

Ci sono innumerevoli elenchi di trucchi per evitare le domande e ne troverete uno linkato. Ma prima vorrei passare in rassegna alcune tecniche analizzate e studiate in un “paper” del 2018 di David Clementson della scuola di Giornalismo dell’University of Georgia.

Lying (Mentire)

Un modo per “gestire”, evitare, eludere domande scomode è certamente quello di mentire, ma, dice l’autore, “non è certo la menzogna possa essere considerata una forma di dodging”. Sarebbe addirittura più grave, certo, ma alcuni studiosi ritengono appunto il “dodging”, l’”evitamento o evasività”, il “raggiro” una forma alternativa alla menzogna, cui si ricorre per non mentire appunto. Non fatte per una forma (magari discutibile) di attenzione verso il ricevente, ma nemmeno del tutto maligno, diciamo delle bugie grigie.

Strategic ambiguity (cerchiobottismo)

Quando si concorda con diverse posizioni o interlocutori nonostante l’incompatibilità delle stesse.

Equivocation (equivocità)

L’uso intenzionale di un linguaggio poco chiaro volto ad evitare di dover dire cose negative in situazioni in cui non si può non rispondere. Famosa la ricerca, ribattezzata in codice “ugly baby project”, del 1990 di Bavelas et al. in cui situazioni come quella di dover complimentare un neonato hanno “conflicting goals”: non mentire o tacere, ma anche non dispiacere l’interlocutore.

Obfuscation (fumosità)

Simile al cerchiobottismo o “strategic ambiguity” la fumosità è descritta come un modo di sostenere cose contraddittorie o di non prendere chiaramente posizione o di creare un compromesso il cui fine è però quello di salvare la posizione del parlante.

Evasion (Evasività)

L’evasività viene qui considerata più intenzionale e quindi più grave dell’equivocità. I fini sono meno nobili e maggiormente avversi per chi fa le domande. Vi sono, infatti, cose da nascondere più gravi che mere questioni di sensibilità

Artful Dodging (scaltrezza o parlantina)

Colui che “sa rispondere a una domanda su un argomento parlando di un argomento completamente diverso senza che l’interlocutore se ne accorga”. L’espressione viene dal nome di un personaggio di Dickens in Oliver Twist, un ragazzino molto abile a manipolare i discorsi con la propria parlantina o capacità retorica: Jack Dawkins detto, appunto, “The Artful Dodger” (in italiano “lo scaltro”), raffigurato nella cover image (Photo by Larry Ellis/Express/Getty Images).

Topic avoidance (Cambiare discorso)

La topic avoidance si concentra più sul definire ciò che NON si dice di ciò che viene detto. Prevede un interrogato abile e consapevole e un interlocutore sensibile e attento ed “il continuo rigetto, esplicito o implicito, o cambio di argomento in una conversazione”.

Paltering (doppiezza)

Simile al cambiare discorso in quanto evita di esplicitare una posizione, ma più grave in quanto nasconde il disaccordo o fatti gravi o posizioni cruciali dietro una verità diversa e irrilevante. Bill Clinton, per esempio, parlando di suoi “extramarital affairs” non li ammetteva mai, ma rispondeva dicendo che “non c’è mai stata alcuna relazione”. Relazione no, rapporti…

Infine, se proprio volete cimentarvi anche voi nel “question dodging”, ecco una guida in 17 punti per… lascio a voi dichiarare le intenzioni. Sappiate, però, che state mettendo a rischio la fiducia degli altri verso di voi e la vostra reputazione.

Come uscirne? Allenarsi alle domande e alla diversità.

Sean Snow ci offre anche un percorso virtuoso in cui costruire le condizioni per evitare di… evitare le domande. Si tratta di coltivare la diversità e far fiorire il:

  • Discorso (cioé lo scambio di opinioni e idee)
  • Dibattito (il confronto in merito a queste idee).

Per farlo dovete assicurarvi di:

A) Avere attorno a voi persone che la pensano diversamente (la “cognitive diversity” preziosa nelle realtà organizzative)

B) Farle collaborare (creare la “cognitive friction”),

C) Essere aperti al cambiamento (usando l’“intellectual humility”).

Sembra facile, ma come ben sappiamo accettare la diversità è la sfida più grande e comincia con l’accettare, o anzi proprio volere accanto a sé, chi la pensa diversamente da noi.