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CSR od ottimizzazione dell’investimento?

Come le società di commodities non applicano la teoria degli stakeholder
La teoria della Responsabilità Sociale d’Impresa (CSR) prevede tra le sue modalità di applicazione un approccio “caldo” al mercato e agli stakeholder: la capacità di applicare un modello di business “dal volto umano”, irrobustendo le relazioni con i pubblici dell’azienda così da creare nel tempo valore duraturo per gli azionisti.
C’è un settore però dove la CSR – che sta entrando sempre più insistentemente nei nuovi paradigmi del management strategico – pare trovare più alte barriere all’ingresso: la telefonia. Il contesto competitivo tipico di quel mercato – per certi versi più simile a quello delle commodities che a quello industriale in senso stretto –  comporta altissimi investimenti infrastrutturali a fronte di una bassa marginalità di profitto, unita al fatto che una volta superato il break-even in un’area o mercato ogni utente in più è utile a costo zero, o quasi. Il settore della telefonia è quindi il tipico caso di “commoditizzazione” di un azienda: agli occhi dell’utente finale, un operatore vale l’altro, essi vengono scelti quasi esclusivamente sulla base del prezzo e delle offerte speciali di volta in volta disponibili.
Non sono un esperto di marketing, ma mi pare di capire che forse questo è il motivo per il quale gli operatori telefonici promuovono de facto una totale spersonalizzazione del rapporto con gli utenti finali, attraverso un’automatizzazione sempre più spinta del rapporto con il cliente. Caratteristiche queste che sono tipiche dei mercati “a nocciolo vuoto”, come ci ricordano Simon e Zatta nel loro libro “Think!” (1). Il “nocciolo”, in un dato mercato, rappresenta una costellazione competitiva che consente a tutte le aziende inserite in esso di operare con un buon ritorno dell’investimento. Il “nocciolo vuoto” è invece appunto caratterizzato da prodotti visti e trattati come commodities,  una competizione basata solo sul prezzo e sui bassi costi marginali contro gli alti costi strutturali del “core”. Questo porta inevitabilmente alla necessità di comprimere il più possibile il lato costi, riducendo l’impatto economico di tutte le attività “labour based”, gestendo ad esempio il rapporto umano tramite call-center subappaltati e delocalizzando quanti più processi sul web. Una totale smaterializzazione del contatto, e clienti percepiti sempre più come un “problema”: più clienti chiamano i call-center, più operatori è necessario assumere, più aumenta il costo per contatto, più si riducono le marginalità, esponendo le società alla mannaia dei “mercati”, con i titoli in borsa sempre sotto l’occhio critico e cinico degli analisti, pronti a ridurre i rating pregiudicando gli investimenti a breve termine e anche i bonus del management, non appena un gestore telefonico perde uno “zero virgola” di quota di mercato.
Già: la “quota di mercato” sembra essere il giudice unico e ultimo di ogni azienda quotata, ma anche la sirena tentatrice di ogni impresa che opera in un mercato maturo e competitivo qual’è appunto quello della telefonia, dell’automotive od anche in certe nicchie del mercato bancario. Visti i margini di redditività relativamente bassi, si ritiene – sbagliando, a nostro avviso – che l’unico metro per comprendere dove stia andando un’azienda sia la sua quota di mercato, che dev’essere sempre crescente. Così eccoci frastornati da comunicazione di basso profilo, campagne pubblicitarie e di marketing martellanti, noiose, ossessive, invadenti ed aggressive da parte dei gestori telefonici, che si azzuffano per metterci in tasca una SIM in più, magari legandola all’omaggio un nuovo telefonino, a una tariffa più conveniente o a una testimonial più svestita di quella della concorrenza. Assistiamo a fenomeni che rasentano la follia e superano i limiti del lecito, come i rivenditori del Veneto di un grande gestore telefonico che intestavano a ogni singolo e ignaro cliente fino a 1.000 SIM pur di rispettare i “budget” e far aumentare la quota di mercato del marchio da loro rivenduto, arrivando ad oltre 2 milioni di SIM “fantasma”, con successivo più che opportuno interessamento della Magistratura. Stessa “volatilità” dell’utenza per i conti bancari on-line: meno spese di sportello, processi automatizzati, home-banking – comodissimo, per carità – ma cosa ci lega a ING/Conto Arancio? Solo la percentuale di retribuzione delle giacenze medie di conto corrente, con il risultato che all’apparire di un player più aggressivo in grado di remunerare meglio immediatamente cambieremo interlocutore.
Questo sistema – che ha come risultato una bassissima fidelizzazione del cliente – è nella pratica la vera e propria negazione del principio “I care” tipico della CSR, ed è nel contempo anche la negazione dei presupposti stessi per la creazione di una comunità di marca stabile e duratura. “Non ci interessa chi tu sia o quali siano le tue esigenze”, sembrano raccontare questi spot che inondano in modo indifferenziato o ben poco “tailored” ogni possibile mass-media. Poi, una volta che sei stato “arruolato” come nuovo cliente, vai sul nostro sito per scegliere la tua tariffa ideale, e non sia mai che tu abbia necessità di supporto telefonico: i maggiori gestori telefonici spiccano per relativa inconsistenza del servizio post-vendita e di assistenza tecnica, con operatori probabilmente dipendenti da call-center esternalizzati. Recentemente ho sperimentato dal vivo questa cattiva esperienza d’acquisto: un disservizio causato dal mio operatore su una mia SIM dati è stata risolta solo utilizzando un servizio di assistenza tecnica a pagamento, senza possibilità alcuna di negoziare una soluzione non onerosa con uno degli operatori del servizio di prima assistenza. La sensazione netta era che non vi fosse alcun interesse a “prendere in carico” il problema, comprendendolo e guidando l’utente verso la soluzione. Ottimo invece lo standard di servizio del secondo livello, peccato che appunto stessi sborsando denaro per poter tornare ad utilizzare un prodotto/servizio per il quale già pagavo un canone, e che quindi era mio diritto utilizzare appieno senza ulteriori oneri.
Personalmente non conosco una sola persona, tra le centinaia con cui interagisco settimanalmente, che sia “entusiasta” del proprio gestore telefonico. Sta diventando anzi uno standard quello di accettare alcuni disservizi per la durata dei 24 mesi dell’opzione contrattuale obbligatoria per poi passare immediatamente per altri 24 mesi al gestore concorrente, sfruttando le agevolazioni garantite a chi migra da una compagnia telefonica all’altra. Il problema vero è che questa situazione irrituale pare non generare alcuna riflessione tra i vertici dei colossi telefonici, per i quali evidentemente l’unica teoria ancora valida e quella della “shareholder value”, ovvero del profitto a breve termine, e per i quali ogni azione di comunicazione, relazioni pubbliche e CSR orientate a valorizzare il rapporto tra il marchio e i suoi utenti è un inutile costo aggiunto in bilancio, evitabile in ragione di quanto non garantisce un ritorno più che immediato. Formare dipendenti in modo adeguato, contare su una struttura che “ci crede”, che è coinvolta, competente, entusiasta e che è capace di lottare per mantenere un rapporto vivo e “caldo” con l’utenza costerebbe in termini di formazione, di relazioni, di creazione di clima aziendale interno positivo… di CSR, appunto: ma i “margini” non lo consentono, e l’unica apparente soluzione è “strapparsi” ogni trimestre qualche utente tra un gestore e l’altro, in un mercato ormai sempre più saturo. Questa non è vera comunicazione, piuttosto è “cannibalizzazione” del mercato.
Quello che questi illuminati manager pare non stiano comprendendo è che il grado di soddisfazione che genera un passaparola positivo e il senso di appartenenza alla brand è un patrimonio inestimabile che nessuna campagna pubblicitaria basata sul prezzo o sulle modelle svestite potrà mai garantire.
Nessuno degli innumerevoli studi di mercato effettuati sulla tipologia di offerte promosse dai gestori ha mai previsto un focus-group al quale porre una semplice domanda: “Preferite che a rispondere al numero di servizio sia sempre lo stesso operatore, che vi conosce e ha già un’idea delle vostre esigenze e dei vostri problemi, o preferite una raccolta punti che ogni due anni di telefonate vi fa vincere un pieno di gasolio o qualche sconto alla Conad?”. I risultati a mio avviso sarebbero illuminanti: conosco centinaia di persone che per quel “plus” sarebbero disposti a pagare anche qualche cent di più nello scatto alla risposta.
Ci provano da sempre, le telefoniche, sia ben chiaro. D’altronde i primi anni 2000 sono stati l’era della “customer relationship management”, quando si credeva che un software che ti riconosce, ti profila e ti traccia proponendoti l’offerta giusta al momento giusto fosse la soluzione ottimale e potesse sostituire efficacemente il calore della comunicazione tra le persone. Oggi pomeriggio – esasperato dal disservizio con il mio gestore di cui ho accennato sopra, ho contattato il call-center del principale concorrente, per farmi “coccolare” e ricevere un’offerta vantaggiosa per spostare da loro le 6 SIM della nostra mini-rete aziendale. L’operatore dall’altra parte della cornetta non è stato soddisfatto quando gli ho riferito il mio numero di cellulare sul quale richiamarmi di li a poche ore per illustrarmi l’offerta: voleva a tutti i costi conoscere tutti e 6 i numeri delle 6 SIM da eventualmente migrare, perché “il software sennò non mi fa partire la pratica e quindi non la possiamo ricontattare”. Risultato: impossibile per me in quel momento diventare un loro cliente, e dire che lo desideravo assai! Il problema però era a monte: io non stavo parlando con un operatore vero, ma con la protesi umana di un software…
I romanzi di fantascienza degli anni ’50 immaginavano un mondo freddo, in cui l’uomo era servo-assistito da macchine. Siamo ora all’alba inoltrata del terzo millennio, nella situazione esattamente opposta: noi siamo le protesi dei software.
Con massima soddisfazione per i dividendi mensili, e buona pace della CSR e della comunicazione tra persone.

(1) “Think!”, di Hermann Simon e Danilo Zatta, Hoepli gruppo Sole 24 Ore, 2010

 




SUZUKI: DALLA MACRO-CSR ALLA QUOTIDIANITA’ IN-SOSTENIBILE

Pietro Rosernwirth è un portatore di handicap “eccezionalmente normale”. 42 anni, affetto da una grave menomazione fisico-motoria, da sempre attivo come volontario sul fronte della difesa dei diritti umani, lo scorso 1° maggio è partito da Trieste per un viaggio che aveva il sapore di una sfida impossibile: da solo, attraverso 6 nazioni, Pietro ha affrontato il difficile viaggio a bordo di uno scooter-trike opportunamente modificato, e regolarmente omologato presso la Motorizzazione Civile. Dalle autostrade alle provinciali, attraverso montagne e metropoli, Piero ha dimostrato che un handicappato, messo nelle migliori condizioni possibili e con la fornitura dei necessari ausili e l’adeguata assistenza socio-sanitaria, può fare cose che risulterebbero impegnative anche per i cosiddetti ‘normo-dotati’. L’abbiamo intervistato al rientro dalla Sua folle traversata d’Europa, anche in relazione al Suo rapporto con Suzuki, azienda che a livello internazionale vanta di essere impegnata in concrete politiche di responsabilità sociale.
D: Pietro, qual è il senso della sfida che ha lanciato con questo viaggio?
R: Con questa iniziativa voglio tentare di far aprire gli occhi sia alle pubbliche amministrazioni che agli altri cittadini cosiddetti ‘normali’, che spesso non si rendono conto di quanto le nostre città non siano a misura di ‘qualunque uomo’. E’ questo il vero razzismo: ragionare ‘escludendo’, come se fosse una cosa naturale vedersi interdire di fatto i propri più elementari diritti.
D: Tu provocatoriamente ti definisci “handicappato”, una parola spesso connotata negativamente.
R: Purtroppo, quando mi definisco “handicappato non lo considero affatto una “provocazione” bensì l’uso del termine più adatto e realistico. Infatti, fino a quando le persone saranno considerate un ‘costo’ dalle Pubbliche Amministrazioni e fino a quando l’abbattimento delle barriere – architettoniche e mentali – saranno vissute come “una seccatura da risolvere”, invece di una cosa naturale per offrire pari opportunità di movimento e di espressione a tutti, la parola ‘handicappato’ sarà il termine sicuramente più appropriato per definire la mia situazione fisica e sociale.
D:Quali aiuti hai trovato per affrontare questa sfida?
R: In diversi si sono fatti avanti, per piccoli ma sostanziali contributi. Per quanto riguarda il mezzo, dopo aver contattato i principali adattatori di auto e moto per handicappati in Italia, ho trovato fortunatamente Alessandro della “Dal Bo Mobility”, da subito disponibile a tentare quest’avventura dell’assemblaggio ed omologazione del 1° scooter-trike in Italia. Mi è anche venuto spontaneo pensare al top di gamma della Suzuki, avendo usato per alcuni anni un Suzuki Burgman 150 di serie, comprato perché l’unico con l’altezza sella idonea alle mie esigenze, circa 70cm.
D: Quindi hai contattato la Suzuki Italia?
R: Si. Per prima cosa ho inviato al settore tecnico della Suzuki tutte le informazioni tecniche relative al kit di ruote supplementari prodotto dall’americana Danson-Trike ricevendo autorizzazione scritta all’installazione del suddetto kit: come unico ineludibile vincolo, il divieto assoluto di apportare modifiche al telaio dello scooter. Ho allora ordinato un Suzuki Burgman 650 An Executive, prezzo chiavi in mano €.10.200: mi è stato venduto dal concessionario Suzuki & Ducati “Dolomiti Racing” di Trieste, con l’intervento della loro sede principale a Conegliano, al prezzo leggermente scontato di €.9.000. Dopo circa 11 mesi di lavoro, sotto strettissimo controllo da parte di un ingegnere della Motorizzazione Civile di Treviso, lo scooter-trike mi è stato consegnato dalla Dal Bo Mobility a dicembre 2010.
D: Poi cosa è successo?
R: Il 3 febbraio ho presentato ufficialmente lo scooter-trike a Trieste con ottimi riscontri mediatici. Nel frattempo mi arriva l’agognata convocazione presso la sede della Suzuki Italia. Per una persona nelle mie condizioni il viaggio è stato impegnativo, ma sono volentieri partito per Torino con molte aspettative. Il 6 febbraio ho incontrato l’allora Amministratore Delegato dott. Savini, la Responsabile nazionale Marketing dott. ssa Procacci e un loro responsabile tecnico.
D: Com’è andata la riunione?
R: Mi hanno chiesto di riassumere loro il progetto.
D: Perché, non era chiaro?
R: Nelle molteplici e-mail che avevo inviato per ottenere l’incontro era chiarissimo. E’ stato assai mortificante per me dover rispiegare tutto. Anche perché a quel punto è partita la responsabile marketing con una lunga descrizione delle difficoltà in cui versa da ogni punto di vista la Suzuki Italia, e sul fatto che lavorano a compartimenti stagni, cioè per Paese e tutti, separatamente, rispondono poi alla Suzuki-Giappone, eccetera, per farmi capire che era “molto difficile” per loro aiutarmi. A quel punto, il dott. Savini si alza e fa capire che la riunione per Lui era conclusa.
D: Sconcertante. Tu come hai reagito a quel punto?
R: Ero basito. Hanno fatto spostare un handicappato apposta da Trieste a Torino – per giunta a proprie spese – per che cosa? Quindi sono rimasto seduto e ho detto testualmente “Scusatemi, ma forse non ho colto bene le Vostre risposte ai miei quesiti… potreste gentilmente chiarirmi?” Il loro Amministratore Delegato ha ripreso la parola dicendo: “Esattamente, cosa vuole sapere?”. Ero davvero allibito, mi sentivo preso in giro. Comunque a quel punto volevo andare fino in fondo, e ho posto domande ancor più stringenti:  “Rispetto alla mia iniziativa ed al viaggio in programma…supporto mediatico?” Risposta: “Nessuno”. “Supporto tecnico, cioè tagliandi e cambi gomme?” Risposta: “Nessuno, deve trovare i centri autorizzati e farseli fare da se” “A mie spese, cioè senza poter contare su un vostro appoggio o rimborso?” Risposta: “Esatto”. “E rispetto al budget complessivo dell’operazione, in quale proporzione potreste sostenermi?” Risposta: “In nessun modo”. Al che ho chiesto perché mi avessero fatto andare fino a lì apposta: “Per conoscerla di persona e sentire da lei tutto quello che ci ha spiegato e raccontato”.
D: Ma quale pensi fosse il loro interesse, vista l’assoluta indisponibilità ad aiutarti in qualsivoglia modo?
R: Bhe, la prima parte della riunione per certi versi mi è parso più “un interrogatorio” che un incontro: ho avuto la netta sensazione che fossero chiaramente interessati a comprendere di che entità numerica fosse il potenziale mercato per un mezzo come quello da me elaborato. Infatti mi hanno chiesto di spiegare come sono riuscito ad omologare lo scooter-trike, ed hanno insistito affinché reinviassi loro copia dell’autorizzazione che mi avevano all’epoca mandato insieme alla copia del libretto del mio scooter, che pur avendo 4 ruote ha l’omologazione come scooter, con possibilità di andare in autostrada e minori costi assicurativi e di bollo. Penso fosse questo l’unico loro interesse…
D: Con che umore sei ripartito?
R: Non sapevo se ridere o piangere. Non ho chiesto decine di migliaia di euro. Ho chiesto un aiuto, di qualunque genere, e mi pareva giusto, dato che avrei portato il loro marchio in giro per l’Europa. Una porta sbattuta in faccia così non me la sarei proprio aspettata.
D: A parte queste “disavventure” con Suzuki, pensi che qualcosa possa cambiare, a seguito di iniziative come quella da te promossa?
R: Me l’auguro, anche se il mio è un piccolissimo contributo in termini di sensibilizzazione, ma che spero non vada inesitato. Innanzitutto gli Enti pubblici possano attivarsi per inserire nei propri bilanci fondi per aiutare concretamente chi è alla ricerca di una propria autonomia negli spostamenti quotidiani: il movimento è parte essenziale della vita, e l’indifferenza di amministratori pubblici ‘normali’ condanna spesso quelli come noi ad un esistenza da reclusi. Poi spero che anche le aziende possano farsi parte diligente: a volte basta pochissimo, ma anche quel pochissimo è difficile da ottenere, come la vicenda Suzuki ha dimostrato. Il contributo delle grandi imprese sarebbe invece fondamentale per portare ovunque sia possibile un messaggio tanto semplice quanto significativo: è possibile abbattere le barriere dell’indifferenza e della discriminazione. Quest’avventura ne è la dimostrazione concreta.
 
Nota: ho contattato Suzuki Italia, al fine di raccogliere il loro punto di vista sulla questione esposta dall’intervistato, e volentieri pubblico qui sotto la loro lettera di precisazioni.
 
 

Gentile Luca, Suzuki Italia, in seguito alla sua richiesta, ritiene di dover chiarire alcuni punti circa quanto dichiarato dal Sig. Pietro Rosernwirth nell’intervista a lei rilasciata. Suzuki Italia non ha voluto rifiutare a priori l’incontro con il suo Cliente Sig. Rosernwirth e nell’accettare, dopo le diverse richieste pervenuteci dallo stesso, era certa di trasmettere un messaggio di solidarietà e interesse verso i cittadini “eccezionalmente normali”.
Il Sig. Rosernwirth è arrivato in Suzuki Italia e ha potuto mostrare a rappresentanti dell’azienda che ricoprono ruoli tecnici e commerciali, il suo progetto, spiegandone le caratteristiche principali. Il Cliente era molto contento di poter illustrare di persona il suo importante progetto che prevede la modifica del Burgman 650 con un kit di ruote supplementari prodotte in after market. Suzuki crede inoltre di aver dimostrato tutta la sua disponibilità e attenzione nel comprendere le peculiarità del progetto, nel rilasciare autorizzazione scritta ad apportare le modifiche tecniche del mezzo, che però essendo modifiche al modello originale non rientrano nelle politiche aziendali di Suzuki. Comprendendo la bontà dell’iniziativa legata al mezzo modificato, Suzuki Italia ha voluto aiutare il Sig. Rosernwirth offrendogli un canale preferenziale per l’assistenza tecnica in Italia, in un momento in cui i tempi di attesa erano lunghi, oltre che offrire uno sconto del 15% sui ricambi necessari a ripristinare il mezzo per affrontare il lungo viaggio. Ci spiace constatare che quanto fatto non sia stato apprezzato dal nostro Cliente Sig. Rosernwirth, nonostante gli sia stata data un’opportunità in più rispetto a molti altri Clienti che hanno proposto a Suzuki Italia progetti/iniziative altrettanto interessanti ma rimaste purtroppo prive di supporto. Ci preme sottolineare come le logiche internazionali di una multinazionale non sempre risultino comprensibili dai singoli Clienti che vivono soprattutto la realtà locale del Concessionario di zona. Nello specifico è risultato impossibile per Suzuki Italia organizzare una rete di assistenza internazionale che potesse supportare il Cliente durante il lungo viaggio, oltre che dare un supporto redazionale all’iniziativa, viste le modifiche apportate al mezzo estranee all’omologazione d’origine e con evidenti ripercussioni sulle performance del mezzo stesso (si veda impianto frenante).
Siamo certi che l’incomprensione, generata da un forte entusiasmo da entrambe le parti, sarà chiarita da questa nostra lettera. Suzuki Italia resta comunque a disposizione per ulteriori delucidazioni in merito.
Con l’occasione porgiamo i nostri più cordiali saluti.
Imma Moretta
SUZUKI ITALIA SpA
Pubbliche Relazioni Corporate & Ufficio Stampa
tel. 011 9213824
fax 02 700423503
mob. 366 6749854



Teoria dell’entropia applicata alle Relazioni Pubbliche

Una correlazione con le RP

La teoria dei segnali – che in parte è alla base della teoria dell’informazione – studia appunto le proprietà matematiche e statistiche dei segnali intesi come variazioni per un certo tempo dello stato fisico di un sistema o di una particolare grandezza fisica, com’è ad esempio una variazione dei parametri di campo elettromagnetico per i segnali radio. Talivariazioni consentono di rappresentare e trasmettere messaggi, in altre parole di trasferire informazione a distanza. In natura abbiamo diversi tipi di segnali, ma sono tutti accomunati dall’essere in larga misura “casuali”, mentre la teoria dei segnali ne studia la rappresentazione in modo da poterli poi manipolare in modo artificiale, ad uso e consumo dell’uomo, trattandoli anche matematicamente.

Dal momento che il sistema oggetto d’attenzione può essere il più disparato, inclusa ad esempio una mappa evoluta degli stakeholders o uno schema di previsione di scenari di crisi, mi chiedo perché non applicare questo tipo di teorie anche al campo della comunicazione convenzionale e non convenzionale e alle relazioni pubbliche: tanto più sarà alta la quantità d’incertezza associata ad una serie di eventi, tanto più sarà importante rimuovere l’incertezza ad essi associata, ottenendo le informazioni necessarie a predire o meno la realizzazione dell’evento stesso. Cos’è una strategia di RP se non la successione di una serie di azioni, in applicazione a un ben preciso progetto, il cui esito è incerto, in quanto correlato alle “reazioni” degli altri stakeholder coinvolti?

La possibile ambiguità sussistente tra “incertezza” e “informazione” non deve stupire, perchè esse sono due facce della stessa medaglia: senza incertezza non c’è informazione che valga qualcosa, perchè quanta più incertezza c’è nel segnale, tanto più “informativo” è rivelare qual è la reale tendenza del segnale stesso.

Gli studi antesignani sul concetto di entropia applicato alla teoria dell’informazione sono a firma di Claude Shannon: il suo primo lavoro su questo tema si trova nell’articolo dal titolo A Mathematical Theory of Communication, pubblicato nel lontano 1948. Com’è noto, l’entropia è originariamente un concetto proprio della teoria termodinamica: il termine tedesco Entropie deriva dal greco “dentro”, “cambiamento”, “rivolgimento”: indica quindi “dove va a finire” l’energia fornita a un certo sistema, con riguardo al legame tra movimento interno al corpo ed energia interna o calore. Se per esempio si brucia un pezzo di carbone, la sua energia si conserva e si converte in energia contenuta nell’anidride carbonica, nell’anidride solforosa e negli altri residui di combustione, oltre che in forma di calore. Per quanto – come ci conferma la fisica – non si sia persa energia nel processo di trasformazione, sappiamo bene che non possiamo invertire automaticamente il processo di combustione e “ricreare” dagli scarti il pezzo di carbone originale. La spiegazione a questa apparente contraddizione si trova nel secondo principio della termodinamica, che in termini discorsivi possiamo illustrare così: “ogni volta che una certa quantità di energia viene convertita da uno stato ad un altro, si ha una penalizzazione, che consiste nella degradazione di una parte dell’energia stessa in forma di calore, e questa parte in particolare non sarà più utilizzabile per produrre nuovo lavoro”.

Tuttavia questi concetti, oltre che in ambito termodinamico, sono stati mutuati anche dalla teoria dell’informazione, che misura la quantità di “incertezza” presente in un impulso o in un segnale, ed è esattamente l’accezione che stiamo prendendo in esame in questo breve saggio. L’entropia così intesa può essere descritta come il “minimo livello di complessità” di una certa variabile o di uno scenario: in poche parole, potremmo dire che l’entropia è “la misura del caos” (banalizzando, più entropia è uguale a più caos).

E’ di tutta evidenza il rapporto concettuale tra l’entropia termodinamica e l’entropia dell’informazione. Per meglio comprendere il concetto di entropia applicata alla teoria dell’informazione, consideriamo per semplificare un sistema fisico in date condizioni di temperatura, pressione e volume, e stabiliamone il valore dell’entropia, ovvero il grado di “disordine” relativo e quindi l’ammontare delle informazioni a noi disponibili. Supponiamo ora – lasciando invariati gli altri parametri fisici – di abbassare la temperatura del sistema: osserveremo che la sua entropia diminuisce, poiché con il diminuire della temperatura si rallenta il movimento delle molecole, e quindi – come diretta conseguenza – il grado di “ordine” del sistema aumenta.

Si tratta di un ordine statico, che corrisponde alla mancanza di movimento e di lavoro all’interno del sistema stesso: diminuendo l’entropia, diminuisce il caos, quindi aumenta l’ordine, e aumentando l’ordine invariabilmente aumenterà la quantità di informazioni disponibili sul sistema, perché esso risulterà “leggibile” con più facilità e ci trasmetterà maggiori certezze rispetto ad un sistema con un’entropia superiore, ovvero con un livello di caos maggiore e quindi con un più alto numero di variabili ipotizzabili. Per proseguire con il nostro esempio, ad una temperatura prossima allo zero assoluto, tutte le molecole saranno quasi ferme: l’entropia tenderà al minimo, l’ordine sarà il massimo possibile, e con esso si avrà la massima certezza d’informazione. Al contrario, alte temperature aumentano la “frenesia” all’interno del sistema, moltiplicano il numero di variabili possibili, e fanno quindi crescere esponenzialmente l’incertezza relativa dell’informazione, facendo tendere il sistema verso uno stato virtuale di “informazione zero”. Per un comunicatore, infatti, un numero di variabili eccessive rende di difficile interpretazione uno scenario: troppe informazioni da decrittare in pochissimo tempo sono eguali a nessuna informazione.

L’interesse primario del lavoro di Shannon fu che egli riuscì ad elaborare una serie articolata di logaritmi matematici per misurare l’entropia – e quindi la quantità d’informazione, ed anche il livello di auto-informazione media – di ogni possibile scenario considerato, ma soprattutto riuscì a dimostrare tali algoritmi facendone quindi un preciso standard di riferimento.

Come avevo già ricordato nel mio breve saggio del 2008 La Teoria dei Giochi: dalla strategia militare alle relazioni pubbliche, l’applicazioni di questo genere di paradigmi teorici possono rivelarsi a mio avviso di estremo interesse anche per noi comunicatori e relatori pubblici, qualora si desideri passare da un approccio meramente empirico ed “esperienziale” alla professione ad un approccio che preveda la possibilità, con l’aiuto dei matematici, di anticipare con più accuratezza scenari futuri, cosi come nella teoria dell’informazione si mira a prevedere l’esito di scambi di informazioni provenienti da sorgenti nuove e mai prima considerate, dette “senza memoria”, oppure anche da sorgenti “con memoria”, che presentano ragionevolmente una minore entropia in quanto i messaggi emessi dipendono in una certa misura da quelli emessi precedentemente, il che li rende appunto più prevedibili.

Questo genere di riflessioni sono state già fatte proprie dalle scienze sociali, guarda caso nell’ambito dell’economia applicata alla responsabilità sociale d’impresa: Nicholas Georgescu-Roegen, applicando il secondo principio della termodinamica all’economia, e in particolare all’economia della produzione, ha elaborato una teoria economica che mette in discussione i “fondamentali” della decrescita: ogni processo produttivo, consumando risorse in modo irreversibile incrementa l’entropia sul Pianeta; ovvero, tanta più energia si trasforma in uno stato “indisponibile”, tanta più energia sarà sottratta alle generazioni future, tanta più entropia (disordine proporzionale) sarà riversata sull’ambiente che ci circonda, perchè senza responsabilità non può esistere sviluppo sostenibile.

Queste teorie potrebbero anche rivelarsi utili nel Crisis management, per la previsione di futuri scenari di crisi. Potrei ridefinire lo stato di crisi come“un repentino aumento del grado di entropia in un dato sistema”, sfruttando poi gli algoritmi matematici di Shannon per tentare di prevedere lo sviluppo del grado di caos all’interno dell’area in crisi.

La correlazione tra Crisis è CSR è a mio avviso di tutta evidenza, come ho già sostenuto in altri miei lavori: in quest’ottica, il Crisis management altro non è se non la tecnica di ridurre progressivamente e sistematicamente il livello di entropia sulla mappa degli stakeholder di un azienda, e la crisis communication l’applicazione della teoria dei segnali e della teoria dell’informazione al problema rappresentato dalla crisi, al fine di prevederne l’evoluzione e possibilmente risolverlo, a tutto beneficio degli stakeholder coinvolti nella crisi e più in generale di tutti gli stakeholder dell’azienda, ed anche degli stakeholder degli stekaholder, essendo l’azienda parte integrante di una rete neurale complessa che non può che giovarsi di un livello di entropia basso e della conseguente maggiore accessibilità alle informazioni disponibili, che spetterà poi ai relatori pubblici “lavorare”.

A margine, è simpatico riportare una curiosa nota storica: Shannon interrogò Von Neumann sull’entropia, e i due ebbero per quanto ci è noto un unico scambio di opinioni tra loro. Come ricordò Shannon, “la mia più grande preoccupazione era come chiamarla, come definire questa teoria. Pensavo a qualcosa come ‘teoria dell’incertezza’. Ma quando ne parlai a Von Neumann, lui mi disse che avrei dovuto chiamarla ‘teoria dell’entropia’, per due motivi: primo perchè la mia ‘funzione di incertezza’ era già nota in meccanica statica con quel nome, e secondo perché nessuno sapeva con certezza cosa significasse ‘entropia’, e quindi in una qualunque discussione mi sarei sempre trovato in vantaggio” (!).

Sarebbe ora interessante ridefinire questa teoria nelle sue varie possibili applicazioni al Crisis management ed alla Crisis Communication, in stretta correlazione con la CSR e le relazioni pubbliche. Dopo aver riflettuto sul paradigma dell’entropia termodinamica e dell’entropia dell’informazione, possiamo ora tentare di ipotizzare un paradigma dell’“entropia della comunicazione”, tailored-made sulla nostra professione?


Breve bibliografia

• Bonazzi R., Catena R., Collina S., Formica L., Munna A., Tesini D., Telecomunicazioni per l’ingegneria gestionale. Codifica di sorgente. Mezzi di trasmissione e collegamenti – Pitagora Editrice, 2004, ISBN 88-371-1561-X

• Chen X., Brent F., McKinnon B., Seker A., A Theory of Uncheatable Program Plagiarism Detection and Its Practical Implementation – 2002-05-05.

• Clausius R., Abhandlungen über die mechanische Wärmetheorie, 1864

• Cover T. M., J. A. Thomas, Elements of Information Theory – Wiley, 1991

• De Beauregard O., Irreversibilità, entropia, informazione: il secondo principio della scienza del tempo – Di Renzo Editore, 1994

• Fano R. M., Transmission of information; a statistical theory of communications. – M.I.T. Press, 1961

• Poma L., La Teoria dei Giochi: dalla strategia militare alle relazioni pubbliche, Ferpi News, 2008

• Poma L., Reti Neurali complesse: nuovi strumenti per la CSR – Ferpi News, 2009;

• Shannon C. E., A Mathematical Theory of Communication – Bell system Technical Journal, vol 27, lug e ott 1948

• Tribus M., McIrvine E.C., Energy and information – Scientific American, n. 224 (1971), pp. 178–184

• Wikipedia, enciclopedia libera, Entropia e teoria dell’informazione

• Wise M., Improved Detection Of Similarities in Computer Program And Other Texts – 1996

(*) giornalista e consulente in responsabilità sociale d’impresa e comunicazione di crisi, ha ideato «Giù le Mani dai Bambini®», la più visibile campagna di farmacovigilanza per l’età pediatrica in Europa, e ne è tuttora il portavoce. Socio Professionista FERPI e socio del Club Comunicazione d’Impresa dell’Unione Industriali, è stato docente e relatore a cento convegni e seminari, ha scritto un centinaio tra articoli e saggi, ed ha rilasciato negli ultimi cinque anni più di 250 interviste a TV e carta stampata. Ha collaborato alla definizione delle strategie di comunicazione della Marcia Mondiale per la Pace, un’iniziativa per la nonviolenza che si è articolata in 98 nazioni del mondo.




La classifica delle 50 aziende più "sostenibili"

Quali sono le aziende migliori in termini di responsabilità sociale di impresa?Interbrand presenta la classifica dei 50 Best Global
Interbrand ha stilato la classifica Best Global Green Brands, dedicata alla responsabilità sociale d’impresa per premiare i migliori marchi “sostenibili”. Interbrand, l’agenzia che si occupa di fornire dati sul valore economico finanziario di alcuni brand, combina la percezione dei consumatori con le effettive performance dell’azienda, sulla base di dati pubblicamente disponibili, nell’ambito della sostenibilità ambientale.
Al primo posto si classifica Toyota, seguita da 3M e Siemens. Toyota, prima in classifica, registra un alto punteggio soprattutto sulla percezione dei consumatori, dovuta principalmente alla Prius, veicolo ibrido per antonomasia nell’immaginario comune.
Le analisi mostrano come i migliori brand sono quelli che hanno saputo differenziarsi impegnandosi in attività ritenute rilevanti dai consumatori e, allo stesso tempo, hanno migliorato le strategie di sostenibilità ambientale in diversi processi aziendali, talora misurandone la performance e rendendola di pubblico dominio.
“Le iniziative “green” possono sembrare le più facili da pubblicizzare, ma allo stesso tempo posso rivelarsi promesse difficili da mantenere” afferma Jez Frampton, Global Chief Executive Officer di Interbrand. “Crediamo che i brand più forti in ambito di sostenibilità ambientale siano quelli che sanno gestire in modo equilibrato la percezione ed effettiva performance, consolidando le relazioni con i propri clienti grazie ad azioni credibili.”
“Poiché la sostenibilità in generale, e quella ambientale nello specifico, rappresenta una componente di rischio ineludibile in qualsiasi settore. Un brand in grado di affrontare correttamente questo versante del proprio agire e del proprio comunicare è un brand che ha maggiori prospettive di generare valore economico”, dichiara Manfredi Ricca, Managing Director dell’ufficio italiano di Interbrand.
La ricerca, condotta nei primi dieci mercati mondiali, ha evidenziato quanto il concetto di sostenibilità influenzi il processo d’acquisto e ha analizzato il grado di conoscenza generale dei consumatori delle azioni di responsabilità sociale di impresa intraprese dai brand.
L’automotive, ossia la branca del disegno industriale che si occupa della progettazione di veicoli, e l’elettronica di consumo guidano questa classifica, non solo grazie all’abilità nello sviluppo di programmi di sostenibilità all’interno delle proprie organizzazioni, ma anche per la loro capacità di comunicare all’esterno il proprio impegno.
Alcuni dei marchi più conosciuti come Coca-Cola e McDonald’s, data l’elevata visibilità, godono di una percezione da parte dei consumatori migliore delle reali performance in termini di sostenibilità.
In definitiva, l’indagine sottolinea che il divario tra percezione e prestazioni è un rischio significativo per il marchio che deve essere sempre all’altezza delle aspettative dei consumatori.
http://www.interbrand.com/en/best-global-brands/Best-Global-Green-Brands/2011-Report/BestGlobalGreenBrandsTable-2011.aspx




Vuoi lavorare dopo la laurea? Scegli l'ambito della green economy

Il settore della green economy è un ambito in crescita costante, e si prevedono entro il 2020 110 mila nuove assunzioni. Energy manager, sustainibility manager, ovvero specialisti sulle tematiche delle energie rinnovabili, Energy auditor specializzato in certificazione di bilanci degli impianti energetici saranno solo alcune tra le professioni più richieste dalle aziende da qui al 2020.
Il lavoro dopo la laurea è la preoccupazione maggiore di tutti coloro che si accingono ad iscriversi ad un corso universitario. Se non volete che questo sia un vostro problema in futuro, sappiate che ci sono al giorno d’oggi dei settori in forte espansione che nei prossimi anni cercheranno tantissimi giovani professionisti. Uno su tutti è l’innovativo ambito della green economy: entro il 2020 infatti, sono previste 110 mila assunzioni nel campo delle energie rinnnovabili, che porteranno ad un ammontare degli stipendi pari a 2,6 miliardi di euro all’anno.
Althesys infatti all’interno dello studio “Green employment e sviluppo delle rinnovabili”, ha rilevato che già negli ultimi due anni l’ambito delle rinnovabili è stato l’unico settore in Italia ad aver mostrato una crescita con un raddoppiamento del proprio giro d’affari, arrivato a circa 13 miliardi di euro complessivi, valore che equivale all’1,07% del Pil.
Secondo Althesys, nell’ambito dei microsettori della green economy, quello che registrerà il maggior numero di professionisti impiegati sarà il fotovoltaico (41.612 addetti), seguito dell’eolico (28.259) e dalle biomasse (26.214); quello darà la caccia a meno professionisti sarà il geotermico, all’interno del quale saranno aperte le porte a poco più di 800 figure.
Ad ogni modo una nota positiva si è registrata nell’ultimo anno un po’ in tutti i settori: infatti in Italia si è avuta una crescita degli occupati dello 0,8% rispetto all’agosto 2010, anche se sono aumentati i rapporti precari. La disocuppazione tra luglio e agosto 2011 è diminuita dell’1,8%, anche se comunque bisogna sottolineare che per coloro i quali si trovano nello status di disoccupato si tratta di una situazione che si protrae da più di 12 mesi.
Avete preso in considerazione dei percorsi universitari nell’ambito delle rinnovabili?