Si è spesso discusso in varie sedi – università, convegni, forum di RP sul web – delle teorie alla base della scienza delle relazioni pubbliche, e la bibliografia in materia è copiosa. A rischio di banalizzare, è utile qualche breve richiamo sul tema, da fonti autorevoli.
Toni Muzi Falconi (1) in uno dei suoi numerosi e apprezzati interventi sul tema, descrive le RP come “una disciplina della comunicazione d’impresa che ha lo specifico compito di orientare opinioni, atteggiamenti, comportamenti e decisioni – anche di consumo – dei soggetti che possono ostacolare o agevolare il raggiungimento degli obiettivi di un’organizzazione”. Invernizzi estende le RP non solo alle strategie di comunicazione dell’impresa, ma anche “ad attività come la comunicazione interna, finanziaria e di marketing” (2). Per J.E. Grunig le RP sono “…la gestione della comunicazione tra un’organizzazione e i suoi pubblici” (3), mentre per Giampiero Vecchiato fare RP significa governare relazioni, e più precisamente “…costruire relazioni basate sulla fiducia con tutti i pubblici dell’organizzazione – stakeholder, pubblici influenti e destinatari finali – per rafforzare la propria credibilità sociale, ambientale e finanziaria e la propria reputazione” (4). Per abbandonare per un’istante l’approccio accademico in favore della divulgazione di massa, la più nota enciclopedia on-line del mondo ci spiega che lo scopo principale delle relazioni pubbliche è di “sostenere la reputazione dell’organizzazione che comunica, contribuendo alla creazione di una specifica identità” (5).
Se è vero – com’è vero – che dobbiamo comprendere da dove arriviamo per capire dove andiamo, interrogarsi sulla filosofia che sta alla base del nostro lavoro non è certamente una questione marginale, nè è mera dissertazione. Stesso dicasi per la CSR: la responsabilità sociale d’impresa è una disciplina codificata più di recente, da non più di 10 anni, ma anche su questo paradigma teorico sono stati spesi ultimamente fiumi d’inchiostro.
Quello che mi pare sia stato poco approfondito è l’eventuale legame sotto il profilo teorico – se esiste – che regola i rapporti tra questi due modi d’intendere la professione e di impostare le proprie strategie d’intervento a favore del Cliente.
Mi spiego meglio: la sensazione che ho è che per la maggior parte degli addetti ai lavori la CSR sia intesa come – cito letteralmente un appunto ad un recente convegno sul tema – “uno strumento – tra i tanti efficaci – per migliorare le relazioni pubbliche dell’azienda”.
È appena utile ricordare che la CSR è spesso gestita da uomini di comunicazione o addirittura di marketing, sia all’interno dell’azienda che nel mondo della consulenza. Gli interventi di CSR rispondono infatti molto spesso alla domanda: “Come possiamo fare per migliorare la nostra brand awareness?” oppure “Come possiamo ottenere una più incisiva presenza sui media” o – nel peggiore dei casi – “…Come possiamo vendere di più?”. Al di là delle parole, nei fatti è questo il livello di coinvolgimento ed interazione della maggior parte dei manager su questa specifica disciplina delle scienze sociali.
Ma intendere la CSR in questo modo è tanto riduttivo quanto lo sarebbe utilizzare dello champagne per innaffiare piante d’appartamento: nulla di improprio di per se, ma come minimo discutibile. Eppure, questo è quello che succede quotidianamente nella maggior parte delle aziende: sono poche le imprese che possono vantare una chiara percezione del loro ruolo sociale come parte di una rete neurale complessa.
Inoltre, le relazioni pubbliche sono per tradizione a diretto contatto con l’azionariato o i vertici aziendali: quale amministratore delegato ingaggerebbe un’agenzia di RP per poi delegare ad un quadro intermedio la gestione dei rapporti con essa e la definizione delle sue delicate strategie d’intervento? La CSR – tranne rare eccezioni – non gode invece quasi mai di un rapporto diretto e non mediato con la Direzione Generale o la Presidenza, a conferma della percezione di strumento residuale che ne hanno gli imprenditori.
È di tutta evidenza che questo scenario è condizionato dall’atteggiamento degli stessi consulenti di relazioni pubbliche, che percepiscono la responsabilità sociale d’impresa come “figlia di un dio minore”, strumento utile solo per ottenere l’attenzione dei propri pubblici di riferimento. Quante volte abbiamo sentito i chairman di note agenzie internazionali di RP affermare nel mezzo di un meeting di coordinamento “ottima idea, quest’azione di charity può essere utile per mettere insieme un po’ di politici e di decisori, possiamo organizzarci sopra con poca spesa un seminario, o qualcosa del genere…”?
Beppe Facchetti nel suo Manuale di Relazioni pubbliche (6), volume che riassume con efficacia molti aspetti legati alle tecniche di RP, ma “relega” la CSR al fondo del libro, costituendo così un esempio lampante di questa discutibile misduplicazione: poche decine di pagine, quasi un appendice da pag. 355 a pag. 370, inquadrando la responsabilità sociale d’impresa come una tecnica recente ed ancora tutta da sviluppare, una “tattica” utile e funzionale al raggiungimento degli obiettivi delle strategie di RP.
Ma se la genesi teorica è funzionale alla comprensione delle dinamiche di interazione tra queste due discipline, ricordiamo ora qualcosa di ciò che si è detto della CSR.
Il primo “codificatore” di questa innovativo approccio fu Robert Freeman, che la definì come “l’integrazione di preoccupazioni di natura etica all’interno della visione strategica d’impresa, una manifestazione della volontà delle grandi, piccole e medie imprese di gestire efficacemente le problematiche d’impatto sociale ed etico al loro interno e nelle zone di attività” (7). Già prima di lui, l’economista italiano Giancarlo Pallavicini affermò che “l’attività d’ impresa, pur mirando al profitto, deve tenere esplicitamente presenti una serie di istanze interne ed esterne all’ impresa, anche di natura socio-economica” (8), e con ciò pose di fatto le basi teoriche dalle quali si mossero poi tutte le successive analisi. Paolo D’Anselmi sulla CSR disse: “non è filantropia o volontariato aziendale, ma è qualcosa che fa parte del business. In sostanza, chiediamo alle aziende di prendere consapevolezza delle azioni che compiono, e di renderlo pubblico“(9).
In un mio saggio scritto l’anno scorso (10), pur condividendo le precedenti definizioni afferenti la CSR ho provato a fare un ulteriore passo in avanti, allargando i confini dell’analisi fino a comprendere gli stakeholder degli stakeholder nella sfera d’influenza di un’azienda, e questo mi ha portato direttamente all’elaborazione di un tipo di mappa dei pubblici influenti più evoluto, basato su un grafico cartesiano a quadranti in grado di identificare con la maggior accuratezza possibile una serie di variabili quali il grado di influenza dei pubblici verso l’azienda e viceversa, il grado di predominanza, di interconnessione, di crisi potenziale, etc. (11).
Questa nuova pedagogia della CSR ci porta però a riflettere su una possibile ridefinizione dei rapporti tra queste due discipline, le relazioni pubbliche e la corporale social responsibility, e alla codificazione di una gerarchia delle fonti che vede – invertendo le attuali “certezze” – le relazioni pubbliche come strumento di una responsabilità sociale d’impresa che esce da una dimensione meramente filantropica: la CSR non più come tecnica per valorizzare gli interventi di charity dell’azienda, bensì come filosofia orientata a stabilire l’esatta posizione dell’azienda stessa all’interno della società, i suoi obblighi, il ruolo che le è proprio, le caratteristiche del suo DNA, la sua storia passata e recente, e le modalità d’interazione con tutto il resto della rete della quale l’azienda è – consapevolmente o inconsapevolmente – parte integrante.
Ecco che la percezione di molti colleghi rischia di uscirne capovolta: se è vero, com’è a mio avviso vero, che le RP – ricordavamo all’inizio di questo articolo, citando il parere di alcuni tra i protagonisti del settore – si occupano di migliorare la percezione che dell’azienda hanno tutta una serie di pubblici influenti per essa, la CSR muove i suoi passi ancora più a monte, codificando quali sono questi pubblici, quali sono le loro aspettative, che influenza può e dovrebbe avere – o non avere – l’azienda su di essi, come il comportamento dell’azienda può modificare il comportamento degli stakeholder dei suoi stakeholder, e soprattutto – come ho scritto – qual è il DNA dell’azienda in rapporto a tutti gli altri player.
Un’azione di RP prevede sempre una mappatura dei pubblici d’interesse, al fine di comprendere dove concentrare le – spesso insufficienti – risorse disponibili. Un’azione di CSR ha nella mappatura della posizione dell’azienda rispetto ai suoi stakeholder il primo ed irrinunciabile passaggio: non è un “mezzo per”, bensì ha a che fare con la capacità dell’azienda di riflettere sul proprio ruolo nella rete neurale alla quale appartiene.
È ben chiaro che in questo disegno le RP non possono che essere intese come uno strumento della CSR: muovono dalle considerazioni che la CSR fa sullo scenario complesso nel quale l’azienda si muove. La CSR può essere intesa come un’evoluzione delle RP, laddove le RP trascurano spesso un’analisi complessa circa l’identità dell’azienda ed il suo ruolo: le RP indagano i rapporti che l’azienda ha o potrebbe avere, troppo spesso – non me ne vogliano i colleghi – non si soffermano a riflettere a sufficienza su storia e genesi dell’azienda, sul suo ruolo, sui suoi obblighi sociali – se ve ne sono, e quali sono – e su come la società può agire da moltiplicatore o demoltiplicatore dell’identità aziendale. Le RP anche quando “riflettono” hanno un approccio sempre pragmatico: esaminare la situazione, identificare le criticità, elaborare una strategia, attuarla, migliorare la reputazione dell’azienda e la sua capacità di controllare l’area del proprio business ed esserne protagonista. Quando sono più evolute, le RP muovono dalla considerazione che è funzionale prevedere scenari e prepararsi a fronteggiarli efficacemente, piuttosto che subirli ed intervenire per risolvere delle emergenze, ed in tal caso le RP prendono anche le sembianze del crisis-management e si servono delle tecniche proprie di quella disciplina. Ma anche il crisis-management e la crisis-communication sono a mio avviso da intendersi come strumenti “subalterni” alla CSR: banalmente, la CSR utilizza queste metodologie d’indagine, programmazione ed azione allo scopo di tutelare i rapporti con tutti gli stakeholder, e quando assumo un incarico di CSR includo sempre in esso delle azioni di crisis-management, tanto sono convinto che non possa esistere la prima senza implementare gli strumento della seconda. Anche per questo non riesco a comprendere come ci si possa occupare di CSR senza alcun tipo di preparazione sulla comunicazione di crisi: quest’ultima è l’indispensabile “antifurto” che l’esperto di CSR deve utilizzare a migliore difesa degli interessi a lungo termine dell’azienda, che coincidono sempre esattamente con gli interessi degli stakeholder e quindi della società tutta, dal momento che la tutela degli interessi diffusi dei pubblici dell’azienda aumenta alla lunga il valore per gli azionisti dell’azienda stessa.
Alcuni colleghi parlano di “impresa sociale”: rispettando la logica Aristotelica delle contrapposizioni, ciò parrebbe sottendere il fatto che possa esistere un’impresa “non sociale”, il che ci porta a desumere che un’azienda possa non occuparsi di CSR, concetto equivalente a sostenere che la stessa azienda possa non occuparsi dell’impatto ambientale dei propri stabilimenti, o non occuparsi delle normative restrittive che rischiano di colpire il suo business, o non occuparsi della tensione di liquidità che la porterà alla chiusura delle sue linee di credito e magari al fallimento.
La CSR non è “un qualcosa che si fa per”. La CSR è l’azienda, e l’azienda è la propria CSR. Non prestare attenzione alle proprie politiche di CSR, non indagare la propria identità, non cercare di comprendere come essa condiziona il rapporto con i pubblici influenti, non interrogarsi sul ruolo che l’azienda inevitabilmente ricopre – che ne abbia percezione o meno – all’interno della società, significa non governare – e quindi subire – delle dinamiche che interagiscono con l’azienda, che ad essa ciò piaccia o meno.
Non mettere in campo risorse per comprendere i confini di questo spazio, occuparlo e presidiarlo costantemente, significa prima o poi subire passivamente interazioni tanto forti da disorientare a lungo andare l’azienda stessa ed il suo management. Il neurone che cresce in maniera disarmonica, slegato dall’insieme al quale appartiene, diventa cancro, e il cancro può uccidere.
Il che – e concludo – rende probabilmente in parte obsoleta, o perlomeno ridondante, la distinzione tra “pubblici influenti” e “stakeholder”: se parliamo di CSR, non esiste un pubblico di serie A, di prossimità e importante per l’azienda, e un altro tipo di pubblico, se vogliamo di serie B, che necessita di minori attenzioni perché è ancora sotto la soglia di percezione del management. Tutti i pubblici sono vitali ed importanti, come anche sono vitali ed importanti – non smetto mai di sottolinearlo – i pubblici degli stakeholder dell’azienda, ai quali detto per inciso pochi pochi consulenti danno attenzione: azioni e progetti di CSR della nostra Cliente modificano il DNA aziendale dei suoi stakeholder, e quindi anche il loro modo di rapportarsi con ciò che li circonda e i loro codici di comportamento. Con ciò non voglio suggerire una standardizzazione d’approccio, specie con riguardo alla limitate risorse a disposizione delle aziende, che impongono comunque la predisposizione di una road-map capace di dettare priorità. Al contrario: vorrei sottolineare l’importanza di includere in strategie di CSR diversificate e personalizzate pubblici convenzionalmente troppo spesso trascurati, perché ogni area alla quale non dedichiamo attenzione sufficiente è un’area potenzialmente fuori controllo.
La differenza è solo tra essere consapevoli del proprio ruolo all’interno della società e stare in cabina di pilotaggio, dettando la rotta con saggezza e coraggio, oppure farsi guidare dagli eventi come una noce di cocco nell’oceano.
Bibliografia essenziale:
(1) uno dei “padri” delle RP italiane, Past-President della Federazione Relazioni Pubbliche Italiana, esperto di relazioni pubbliche di livello internazionale, Past President della Global Alliance for Public Relations and Communication Management e attualmente consigliere speciale del Presidente, Docente di Global Relations and Intercultural Communication alla New York University e Docente di Relazioni Pubbliche alla Università LUMSA di Roma
(2) Emanuele Invernizzi, “Manuale di relazioni pubbliche 2. Le competenze e i servizi specializzati” (McGraw-Hill)
(3) James E. Grunig, “Excellence public relations and communication management: Contributions to effective organizations” (Hillsdale, NJ, Lawrence Erlbaum Associates)
(4) Giampiero Vecchiato, “Teoria e tecnica delle relazioni pubbliche” (Università di Pavia, master della Facoltà di Lingua e letterature straniere, a.a. 2004/05)
(5) http://it.wikipedia.org/wiki/Pubbliche_relazioni
(6) Beppe Facchetti e Laura Marozzi, “Manuale di Relazioni pubbliche”, edizioni “Il Sole 24 Ore”
(7) Robert Edward Freeman, “Strategic Management: a Stakeholder Approach” (Pitman, London, 1984)
(8) Giancarlo Pallavicini, “Strutture integrate nel sistema distributivo italiano” (Giuffré, Milano, 1968)
(9) Paolo D’Anselmi, “Il barbiere di Stalin. Critica del lavoro (ir)responsabile” (Università Bocconi Editore, 2008)
(10) Saggio “Reti neurali complesse: nuovi strumenti per la CSR” (Ferpi News, gennaio 2009)
(11) Una prima elaborazione di questo nuovo tipo di mappa degli stakeholder è stato pubblicato sul bilancio sociale di GUNA Spa, disponibile on-line sul sito dell’azienda all’indirizzo internet www.guna.it/bilanciosociale2009