CASO WIKILEAKS
Una breve ma necessaria nota di cronaca, prima di sviluppare una riflessione che ritengo possa essere d’interesse per noi relatori pubblici e comunicatori: è terminata poche ore fa, con l’arresto, la fuga del “criminale più pericoloso del mondo”, com’è stato fin troppo enfaticamente definito dalle diplomazie occidentali – quella italiana in testa – l’australiano 39enne Julian Assange, fondatore del sito rivelatore di dossier segreti “Wikileaks”, attualmente stretto d’assedio dagli hackers governativi, ma ancora on-line all’indirizzo web http://213.251.145.96/ (indirizzo provvisorio, potrebbe variare di ora in ora, per un reindirizzamento up-date è bene consultare Google). Una storia complessa, sulle prime pagine della cronaca da settimane: ha portato in carcere Assange un’accusa di molestie sessuali che non poche fonti definiscono come “un artificio dei servizi di intelligence”, dal momento che la principale accusatrice, Anna Ardin, ha lavorato per il governo Svedese guarda caso proprio a Washington.
In ogni caso, avvisa Assange, “l’attività di denuncia di Wikileaks non si fermerà”. Dopo la pubblicazione di 77.000 documenti segreti sulla guerra in Afghanistan, 400.000 documenti sull’Iraq – alcuni dei quali accusano militari USA di aver chiuso gli occhi di fronte a torture e abusi nei confronti di civili compiute da militari iracheni – e centinaia di migliaia di documenti secretati a firma delle più importanti diplomazie occidentali, il sito web più cliccato del momento preavverte di avere altre sorprese in serbo: dossier “bollenti”, inclusi i “segreti inconfessabili” di un importantissimo gruppo bancario internazionale basato in USA. “Wikileaks e’ operativo, stiamo continuando sullo stesso percorso già tracciato”, ha spiegato in tempo reale una portavoce del gruppo, Kristinn Hrafnsson, denunciando l’arresto di Assange come “un attacco alla libertà di informazione” e precisando che “qualsiasi sviluppo riguardante Julian Assange non cambierà i piani riguardo le rivelazioni previste per i prossimi giorni dal sito”, che viene attualmente tenuto in vita da persone estremamente fidate che operano in località segrete, mentre Assange ha nuovamente ribadito in queste ore quella che è la “vision” di Wikileaks, il motivo alla base della loro strategia di “disclosure” di informazioni classificate: “No sono contro le guerre, ci possono anche essere guerre giuste, ma non c’è cosa più sbagliata per un Governo che mentire al suo popolo sulle guerre”.
Al di la della cronaca, quello che è già stato definito “il dossier web del decennio” chiama a mio avviso in causa i professionisti della comunicazione e delle relazioni pubbliche per alcuni motivi, che provo sommariamente ad elencare e che spero stimolino qualche riflessione:
– Wikileaks è uno straordinario caso di crisis management e crisis communication, se consideriamo che il sito è gestito non da una grande azienda, bensì su base volontaristica e da un’organizzazione non a scopo di lucro, ancorché beneficiaria di finanziamenti privati per importi non dichiarati. La capacità di reazione di Wikileaks agli attacchi – mediatici ed informatici – ricorda quella di un’organizzazione governativa strutturata o di una grande multinazionale, più che quella di una piccola no-profit;
– Wikileaks nel contempo è un dossier che chiama prepotentemente in causa il fattore etico nell’amministrazione pubblica, ai più alti livelli, vuoi per il contenuto delle rivelazioni (vizi privati e pubbliche virtù dei cosiddetti “decisori” ai vertici dei Governi di mezzo mondo) ma soprattutto con riguardo alle reazioni univoche di assoluta ed incondizionata condanna da parte di quegli stessi politici sulla cui condotta il sito di Assange aveva tolto ogni riserbo.
Riguardo il primo punto sopra elencato, è anche interessante monitorare alcuni aspetti di quella che si preannuncia essere un’imponente campagna di comunicazione multi-stakeholder: mentre Mastercard, VISA e Paypal hanno bloccato i canali di approvvigionamento finanziario di Wikileaks, diversi intellettuali noti in tutto il mondo, tra cui l’americano Noam Chomsky, hanno firmato una lettera aperta inviata da un docente e da un avvocato australiani al loro premier Julia Gillard, perche’ garantisca “un sostegno forte” ad Assange. Anche i Verdi italiani hanno lanciato la
petizione “Difendiamo Wikileaks” (on-line all’indirizzo ttp://www.verdi.it/politica/29887-difendiamo-wikileaks-firmala-petizione.html ): il partito ecologista sostiene che ”il fenomeno Wikileaks è solo la punta dell’iceberg di ciò che sta succedendo al mondo della comunicazione nell’era digitale. Migliaia di nuovi soggetti, associazioni, movimenti e singoli cittadini oggi trovano nella rete la possibilità di esprimersi in maniera diretta, democratica e senza filtri, accedendo direttamente a documenti e risorse in una maniera che non ha precedenti nella storia. Wikileaks, in questo quadro, rappresenta uno spazio di libertà e democrazia che va tutelato e che consente di attingere a informazioni dirette senza che Governi e gruppi di potere possano influenzare l’opinione pubblica”. Resta anche on-line, con ben un milione di sostenitori iscritti, la fan page di Wikileaks su Facebook: il colosso dei social-network ha preso pubblicamente posizione, esponendosi non poco alle ire della Casa Bianca, e sostenendo che “Wikileaks non viola alcuna regola interna (di Facebook, ndr)”.
Ma in particolare i relatori pubblici sono a mio avviso chiamati in causa nella riflessione sul secondo punto: l’etica nel mondo della pubblica amministrazione e della politica. Il dibattito è aperto sulle più importanti piattaforme web internazionali: è lecito attaccare con ferocia un’organizzazione libertaria che altro non ha fatto se non denunciare comportamenti, strategie e politiche ritenute “dirty” dalla maggior parte della popolazione civile e da una parte non trascurabile degli addetti ai lavori? In questo Assange ha ruffianamente solleticato la “netiquette” più consolidata, con riguardo a valori come la trasparenza, la libertà di informazione, il diritto dell’utente a conoscere la verità, e con questa strategia di comunicazione non convenzionale Wikileaks è uscita vincente sul web ancora prima di iniziare la battaglia. Prova ne sia che la classe politica, orientata al mantenimento di privilegi di casta basati sul controllo dell’informazione – macro, attraverso i mass-media, e micro, all’interno delle burocrazie ministeriali, e che proprio su tale controllo basa parte del proprio potere – è insorta duramente ed in massa contro il giovane australiano ed il suo staff. Senza volerne fare uno specifico giudizio di merito, ma usando una metafora, è un po’ come dire: “se un paese totalitarista ti da la caccia, non hai bisogno di altre conferme per sapere che sei dalla parte della ragione…”. Il Ministro degli Esteri Frattini ha dichiarato contento: “Era ora, l’accerchiamento internazionale ha avuto per fortuna successo. Questo personaggio ha fatto del male alle relazioni diplomatiche internazionali, mi auguro che sia interrogato e che sia processato, come le leggi stabiliscono per reati che mettono a rischio la sicurezza di molte nazioni”. Anche i vertici USA hanno – ovviamente – accolto con molta gioia la notizia dell’arresto di Julian Assange.
Ma il problema è Wikileaks, che rende note notizie riservate tali da imbarazzare i Governi, o sono i Governi stessi che non dovrebbero porsi in condizione di aver nulla da nascondere di così grave da generare tali imbarazzi? Dove inizia il diritto alla libertà d’informazione, e dove esso si scontra contro il diritto alla sicurezza di una Nazione? E qual è la posizione al riguardo dei relatori pubblici impegnati non a rapportarsi con la pubblica amministrazione per conto di privati, bensì a rappresentare le istanze delle istituzioni pubbliche presso altri stakeholder? L’articolo (5) del Codice di Bruxelles per la condotta dei Public Affairs recita che “non bisogna diffondere deliberatamente informazioni false o tendenziose”, proprio l’atteggiamento governativo che Wikilleaks vuole denunciare, ed anche il Codice di Condotta FERPI all’articolo (15) ribadisce che “il relatore pubblico ha un preciso dovere di mantenere l’integrità e la completezza dell’informazione, e non deve compiere alcuna attività che tenda a corrompere l’integrità dei mezzi di comunicazione”, che – è bene richiamarlo per analogia – è invece esattamente quello che i Governi stanno facendo verso Wikileaks. Il sito di Assange ha “commentato” in qualche modo i documenti che ha diffuso? Ha espresso giudizi di merito tesi ad orientare la pubblica opinione? Ha dimostrato parzialità nel sostenere l’azione di questa o quella pubblica amministrazione? Da ciò che è dato sapere, Wikileaks ha semplicemente pubblicato on-line dei dossier, così come gli sono stati trasmessi, e senza entrare nel merito dei contenuti, azione normalmente protetta dalle norme internazionali sul giornalismo e la libertà d’informazione, e che peraltro poniamo in essere ogni giorno anche noi stessi
Valore a lungo termine Versus profitto a breve termine
“Potete avere una Ford model-T di qualunque colore: basta che sia nera!” diceva Mr. Ford, riferendosi al modello di auto che motorizzò gli USA. E’ un po’ quella la sensazione che suscita l’ultimo contributo di Paul Seaman (1) pubblicato sullo scorso numero di Ferpi News: se non fosse per la malizia e l’intelligente provocazione, parrebbe scritto 50 anni fa. Il collega “affonda” – gettando con l’acqua anche il bambino – la teoria degli stakeholder e buona parte dei suoi paradigmi applicativi, riportando la barra al centro sulla teoria degli shareholder: in sintesi, per la sua vision l’unico stakeholder è quello degli azionisti, che rischiano del proprio, ed ai quali il management deve rendere conto.
Inoltre, la teoria degli stakeholder, che generalizza includendo tutti e quindi spogliando ciascuno delle proprie responsabilità, è “una sciocchezza populista di dominio pubblico (…) molto popolare tra gli scrocconi” ed è del tutto inadeguata a vincere le sfide della competizione contemporanea, sostiene Seaman.
Analizziamo brevemente i “bachi” più evidenti del suo discorso.
– “La recessione attuale è stata in parte causata da banchieri irresponsabili che hanno distrutto il valore degli azionisti per perseguire interessi a breve termine”. Vero, peccato che questo è proprio quello che hanno richiesto molti azionisti affamati di dividendi: valore a breve termine. Questo è l’opposto della CSR, che mira invece a costruire valore a lungo termine per gli azionisti fortificando le loro interconnessioni con gli stakeholder. Il fallimento delle imprese è infatti causato da una crisi finanziaria senza precedenti, in buona parte imputabile ad una politica di credito dissennata delle banche (mutui subprime) orientata al profitto a breve termine, e per definizione questa è proprio “carenza di CSR”.
– “Le tecniche di gestione degli stakeholder, se prese sul serio, sono lente. Non hanno la forza di essere tenaci e di stabilire le priorità che producono chiari vincitori e perdenti”. A parte che questa concezione made in USA del business come una guerra con vincitori e perdenti (vi ricordate il film “Wall Strret” di Oliver Stone? Erano gli anni 80 del secolo scorso…) ha davvero stancato, non costruisce nulla ed è anche alla base di buona parte dei disastri contemporanei, non è affatto vero che le tecniche di CSR sono lente: semplicemente, come tutto ciò che costruisce valore sul lungo termine e non sull’effimero, hanno i loro tempi (in meno di due anni di lavoro duro possiamo comunque rivoluzionare un’azienda).
– “La teoria degli stakeholder ha creato ambiguità (…): esattamente a chi e per che cosa il management è responsabile? Se il management è effettivamente responsabile verso tutti, in definitiva non è responsabile verso nessuno”. Frottole: nella CSR il management è responsabile verso gli azionisti nel creare valore attraverso la valorizzazione delle relazioni con gli stakeholder. Quello di Seaman è un approccio riduzionista al concetto di responsabilità: essere responsabili verso tutti (troppi) e quindi verso nessuno non è CSR. La Teoria della CSR – quando correttamente interpretata ed applicata – al contrario prevede un graduale ampliamento della sfera di responsabilità dell’azienda, sempre in un’ottica di creazione di valore: se cresce e si rafforza la rete degli stakeholder, cresce il valore dell’azienda. Come amo dire (scusate la citazione referenziale) “se cresce la società cresce l’azienda, e quindi l’interesse degli azionisti coincide esattamente con quello della comunità”. Quello che Seaman pare non comprendere – o ignorare deliberatamente – è che ogni azienda è parte di una rete neurale complessa (2) e che questo è vero che piaccia o no: possiamo far finta di ignorare di avere un senso dell’olfatto funzionante, ma non per questo gli odori cesseranno di esistere. La differenza allora è tra coloro che s’impegnano per governare questi processi e coloro che fanno finta di ignorarsi, indirizzandosi verso un profilo di aziende di serie B.
– “I sostenitori della teoria degli stakeholder sono dei propagandisti o degli illusi (…) che indeboliscono il concetto di proprietà privata ed i diritti dei proprietari a sfruttarla”. Al contrario: come abbiamo visto, la CSR rafforza l’interesse della proprietà creando basi più solide per espandere il business, e questo è dimostrato dalla minore influenza distruttiva dell’ultima crisi sulle stakeholder company che più genuinamente applicano la Teoria degli Stakeholder a tutta la propria attività (in Italia, cito Illy Caffè, GUNA Spa, Ducati, Roche Diagnostic, e la lista sarebbe lunga).
– “Come sua manifestazione più assurda, la teoria degli stakeholder identifica forze inconciliabili come stakeholder l’una dell’altra: in questo senso, perfino Greenpeace diventa uno stakeholder dell’industria del nucleare”. E vorrei ben vedere il contrario: ricordo la case-history di una catena di negozi di abbigliamento che ha avuto qualche problema quando ha sottovalutato la posizione degli ambientalisti sul tema “colli di pelliccia” sui capi in vendita nei negozi. In questo paradossalmente ha ragione Seaman: tutti potenzialmente sono stakeholder, salvo ovviamente stabilire razionalmente delle priorità d’intervento tali da rendere “sostenibile” per l’azienda stessa l’applicazione di una politica di CSR. Questo ha a che fare con quelle infinite sfumature di grigio che rendono apprezzabile la complessità del pensiero umano.
– “Una delle implicazioni più sorprendenti della teoria degli stakeholder per i professionisti delle Rp è che non siamo rappresentativi dei nostri datori di lavoro: assumiamo il ruolo di broker di diversi gruppi di interesse (…). E’ più probabile che i relatori pubblici vogliano apparire sul lato degli attivisti o dei concorrenti che sul lato del datore di lavoro”. Questa affermazione di Seaman è appunto poco più di una parodia, è assurda e non merita alcuna risposta.
– “Più si è coinvolti, più legittimamente ci si può definire stakeholder”. E il the come noto si fa con l’acqua calda…
Ovvio che si, tanto che esistono strategie di stakeholder engagement finalizzate ad attivare pubblici rilevanti per l’azienda ma fino a quel momento al di sotto della soglia di attenzione, ed altre banalità del genere da 3° anno di Università.
Insomma, con le scuse per il taglio un po’ “spigoloso” di questa replica, ma non fa piacere a nessuna categoria di professionisti essere appellati con termini come “populisti”, “scrocconi”, “propagandisti” ed “illusi”. Seaman ha ragione quando lancia l’appello a concentrarsi sull’essenziale, specie in periodo di crisi, ma per il resto l’impostazione del suo articolo mi pare ritorcerglisi contro: è da propagandisti ed illusi tentare di riportare in auge quel paradigma aggressivo di profitto a tutti i costi che è proprio alla base della recente crisi mondiale, è populista identificare con artifizi la CSR come ragione principale della scarsa competitività delle imprese, ed è da scrocconi pensare di poter privilegiare i dividendi per gli azionisti – legittimi, ci mancherebbe – ignorando sistematicamente i costi ambientali e sociali del proprio business.
La saccente arroganza dei profeti del profitto a tutti i costi si è da tempo infranta contro il muro dei dati statistici, perchè la convenienza va misurata sul lungo periodo, ed è quindi intimamente interconnessa con la sostenibilità. Quale può essere allora il ruolo delle aziende in questo incerto scenario? La risposta, che a Seaman piaccia o no, è proprio nella Responsabilità Sociale d’Impresa, svicolata da un concetto meramente filantropico: strategie di crescita, per costruire solidamente il futuro delle nostre aziende e quello della nostra intera società, in nome di un paradigma differente di sviluppo del pianeta.
(1) L’articolo è nel numero di “Notizie Ferpi” del maggio 2010: http://www.ferpi.it/ferpi/novita/notizie_rp/media/glistakeholder-20-al-centro-del-nuovo-magazine-ferpi/notizia_rp/41367/9
(2) www.ferpi.it/admin/resources/2954