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Berlusconi, il futuro di Mediaset appeso a un filo? I messaggi in codice nel discorso di Pier Silvio

Berlusconi, il futuro di Mediaset appeso a un filo? I messaggi in codice nel discorso di Pier Silvio

Mediaset, i messaggi in codice di Pier Silvio Berlusconi nel discorso ai dipendenti

La fine di un’era rappresenta sempre un nuovo inizio. E, in questo caso, comincia ufficialmente la nuova “vita” di Mediaset senza il suo fondatore Silvio Berlusconi. Ma non è così semplice: il futuro del Biscione rappresenta un tema molto caldo per il panorama economico italiano.

C’è solo una domanda, infatti, che arrovella i grandi analisti e addetti ai lavori in questi ultimi giorni: Mediaset verrà venduta? E nel caso, a chi? Sebbene diverse voci suggeriscano che il destino dell’azienda possa finire lontano dalla famiglia Berlusconi, un segnale della corrente opposta arriva proprio da Pier Silvio, secondogenito del Cavaliere.

Ieri sera, mercoledì 14 giugno, dopo i funerali del padre, il rampollo e Amministratore delegato del Biscione è tornato nei “suoi” studi televisivi trovando, con sorpresa, numerosi dipendenti rimasti oltre l’orario di lavoro per dargli sostegno. E Pier Silvio, con grande tenerezza, ha ringraziato il personale con un discorso da vero leader, lucido (malgrado qualche attimo di commozione) e già proiettato verso il futuro.

“Da domani, noi facciamo ‘click’ e torniamo a essere l’azienda viva ed energica che siamo sempre stati”, ha detto convinto Pier Silvio ai suoi dipendenti. “Da domani cambiamo marcia e guardiamo avanti, lui rimarrà sempre nei nostri cuori. Dobbiamo continuare a fare il nostro lavoro con orgoglio e rispetto. Noi siamo e saremo sempre una prova di libertà”, ha affermato ancora.

“Siamo una società editoriale libera nell’agire in termini imprenditoriali e soprattutto in tutto quello che portiamo nelle case degli italiani, degli spagnoli e speriamo, presto, anche in altri Paesi. Dobbiamo lavorare con ancora più convinzione e decisione, per rendere la nostra carissima Mediaset ancora più forte, viva ed energica di quello che è ora. Dobbiamo essere ambiziosi”, ha detto il numero uno di Mediaset. Infine, il dolce e sentito ringraziamento al suo personale: “Siete un pezzo enorme della mia e della nostra vita. Io vi voglio bene, anzi, vi amo. Grazie”.

Insomma, il discorso di Pier Silvio Berlusconi davanti a centinaia di suoi dipendenti potrebbe far pensare a tutto, tranne che a una cessione nel breve termine della televisione di Cologno Monzese. Anzi, sembrano proprio le parole che anticipano un nuovo inizio per l’azienda, concentrata sul migliorarsi ed espandersi con l’obiettivo di creare un polo panaeuropeo leader dell’informazione e dell’intrattenimento partendo da Mediaset Espana e la partecipazione in ProSiebenSat.1.

Ma siamo sicuri che nell’orazione non ci fossero messaggi in codice, difficili da captare per i meno esperti della comunicazione? Per capirne di più Affaritaliani.it ha interpellato Luca Poma, professore di Reputation management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, oltre che specialista in digital strategy e crisis communication.

“Dalla registrazione dell’intervento”, spiega l’esperto, “non traspare – analizzando il verbale e anche il non verbale – nessun indizio o elemento utile per definire quali siano le strategie di governance future della famiglia Berlusconi riguardo all’azienda, che potrebbero (oppure no) includere cambi di rotta, cessioni in tutto o in parte, diverse alleanze”.

“Se Pier Silvio seguirà la strada tracciata da Giovanni Ferrero (che all’indomani della morte del padre Michele rassicurò tutti circa il fatto che l’azienda non sarebbe stata ceduta “né ora né mai”) è presto per saperlo”, continua Poma. “Ciò che è invece interessante è analizzare con attenzione la semiotica e la mimica del discorso: Pier Silvio è in realtà Silvio. In tutto: scelta degli aggettivi, tono della voce, utilizzo delle “leve” psicologiche sugli interlocutori (in questo caso, le lodi molto enfatizzate ai dipendenti), e via discorrendo”, sostiene.

“Se riascoltate il video calcando leggermente l’accento brianzolo avrete Silvio Berlusconi in tutto e per tutto”, afferma l’esperto. “Il che potrebbe anche suggerire, in effetti, un qualche senso di forte continuità nella gestione dell’azienda… Pur tuttavia, vero è che Berlusconi quando ne ebbe buona occasione vendette anche il “suo Milan“: tutte le opzioni sono quindi, a mio avviso, sul tavolo”, conclude infine Luca Poma.

E come ha spiegato ad Affari Aldo Martinale, Portfolio Manager della Sgr Symphonia, la scelta di vendere Mediaset non sarebbe così lontana dal buon senso. Infatti, il business model sul quale verte l’azienda non avrebbe vita lunga.

Nel dettaglio, il sistema della raccolta pubblicitaria (la quale ha fruttato a Mediaset ben 1,9 miliardi nel 2022 a fronte di 2,8 miliardi di ricavi totali) sta vivendo un periodo di forte crisi. Non solo. Il settore della televisione rientra ormai tra i business più complicati da far stare in piedi vista l’enorme concorrenza dei colossi dello streaming e non solo.

Una situazione non propriamente ottimistica, questa, potenzialmente capace di creare non poche perplessità agli eredi di Silvio. Staremo a vedere.




Crisis Management: come salvare la reputazione di un brand

Crisis Management: come salvare la reputazione di un brand

Se hai avuto un danno alla reputazione della tua azienda e devi rimediare, ecco che ti arriva in aiuto il crisis management! Queste indicano delle strategie fondamentali per superare al meglio un momento di crisi, ma anche evitarle con alcune semplici mosse.

Le organizzazioni contemporanee sono caratterizzate da una maggiore orizzontalità. Al contrario di quelle novecentesche che vedevano all’apice della piramide il leader, al secondo gradino il Consiglio di Amministrazione, e poi tutta la scala degli impiegati. Oggi un brand è supportato da una maggiore diffusione del lavoro in team che rompe gli schemi piramidali.

Se nella fabbrica gran parte delle decisioni erano relegate al direttore, oggi il peso è alleggerito da impiegati esperti. Ognuno di essi concorre a gestire il bene e il male all’interno dell’azienda. Questo implica anche che tutti hanno il compito di sviluppare anche delle soft skills per gestire le tensioni e generare relazioni positive. E’ importante pensare che una crisi aziendale non può averla solo un grande marchio che fattura milioni, ma anche un e-commerce o qualsiasi piccola azienda.

Non solo, può avere bisogno di una strategia di crisis management anche una persona singola che fa si sé un marchio, come ad esempio un cantante, o un personaggio famoso. Spero certamente che chiunque legga l’articolo non debba mai mettere in atto queste tecniche, ma è meglio essere preparati, come si dirà più avanti nell’articolo.

Il primo obiettivo della gestione positiva della crisi è mantenere la cosiddetta reputazione aziendale, ovvero l’insieme di tutte le aspettative e opinioni che clienti, dipendenti, fornitori e investitori hanno di un brand. Il concetto di reputazione è dinamico e stratificato, questo si sviluppa a partire da alcuni comportamenti che l’organizzazione fa nel tempo. Scopri in questo nostro articolo come raccontare al meglio il tuo brand. Perché è importante mantenere una buona reputazione? Potrebbe sembrare una domanda scontata, ma questa è fondamentale per due aspetti:

  1. la reputazione ti permette di ridurre l’incertezza verso gli stakeholders, ovvero investitori e pubblici. Ad esempio si è più propensi a parlare bene di un’azienda che dura negli anni e ha avuto pochi scandali durante la sua vita. Questo ridurrà anche i tempi di decisione se qualcuno vorrà investire sul vostro marchio.
  2. una buona reputazione ti permette di partire da una posizione di vantaggio sui concorrenti. A dirlo è il professor Gianluca Comin, docente del corso in Strategie di comunicazione e tecniche pubblicitarie alla Luiss Guido Carli di Roma, nel suo libro “Tu puoi cambiare il mondo. La reputazione personale: promuovere il talento, condividere il valore“.

Per rendere più chiaro il concetto di reputazione immagina un cono rovesciato. Abbiamo alla base tutti quei comportamenti che: da un lato compongono la narrazione dell’azienda e dall’altro lato ne innescano la fiducia. I comportamenti creano l’immagine. Questa può variare a seconda del punto di vista da cui ci si pone. Se vista dal lato dell’azienda ci si attende un’immagine positiva dopo aver diffuso la propria comunicazione. Questa però può essere uguale o discordante se vista dal lato dai pubblici. Infine tutto confluisce sulla punta del nostro cono che è la reputazione, ovvero il risultato di tutti gli sforzi dell’azienda e tutte le percezioni dei pubblici.

Un calo di reputazione può portare ad un momento di crisi. Questa non accade spesso, è infatti un qualcosa di insolito e gli elementi caratteristici sono eccezionalità e visibilità. Un esempio di crisi nel mondo dello spettacolo può essere quello che è accaduto durante una conferenza stampa di Sanremo 2020. In quell’occasione Amadeus definì la valletta come “capace di stare un passo indietro a un grande uomo”. Immediatamente sui social si sono scatenati commenti sulla presunta frase maschilista. Questo è stato un piccolo momento di crisi scatenato da un errore di comunicazione, ovvero un errore umano. Esistono però diversi tipi di crisi.

Tipi di crisi

I momenti di crisi vengono divisi in base a quanto viene considerata responsabile l’azienda, il sociologo Gianluca Comin le divide in 3 tipi:

1. Crisi di cui l’azienda è vittima. Genera solidarietà da parte di altre aziende e pubblici, come un disastro naturale. Dipende da elementi che vanno al di là della sfera di controllo, ad esempio gli uragani, terremoti, ecc.

2. Crisi accidentali. Hanno un basso rischio di danno alla reputazione perché l’organizzazione aveva la minima possibilità di prevenzione. Solitamente è derivata da un errore umano o un guasto meccanico. Questo tipo non diventa una crisi se non provoca danni ingenti ai clienti o all’azienda. 

3. Crisi prevedibili. Sono derivati da comportamenti scorretti dell’organizzazione solitamente per interessi finanziari. In questo caso ci sono persone che sono a conoscenza di questo comportamento ma non si organizzano per gestire l’eventuale impatto pubblico. Si divide in:

  • Sabotaggio è un’azione di una persona esterna o interna all’organizzazione, che agisce per danneggiare l’azienda. Un esempio eclatante fu quando nel 1982 alcuni slot dell’antinfiammatorio Tachipirina, fu contaminato da un veleno. Questo causò 7 morti per avvelenamento e il ritiro di circa 31 milioni di confezioni. Nonostante il mandante dell’atto fu un ex dipendente come gesto di ripicca verso l’azienda, i rappresentanti assicurarono un’informazione tempestiva e accurata che gli permise di non perdere troppa reputazione. Inoltre per rassicurare i cliente fecero un rebranding del prodotto così da non associare il farmaco all’evento.
  • Degenerazione di un problema trascurato o sottovalutato. Un esempio di questo tipo di crisi è quello che è accaduto alla Toyota nel 2010, quando ritirarono dal mercato oltre un milione di auto negli Stati Uniti per un difetto di fabbrica. Il problema era già noto dalla casa automobilistica giapponese ma tacquero per 10 anni fino a quando non si ritennero responsabili di 4 morti e più di 900 feriti.

Riduci le probabilità che un commento negativo si trasformi in una crisi

I momenti di crisi possono essere innescati anche per un’errata risposta ad un commento negativo. È infatti fondamentale assicurarsi di non peggiorare la situazione mentre si cerca di risolverla.

  1. Niente panico. Vedere una recensione negativa può essere spiacevole, ma non è la fine del mondo. Valuta la portata reale di questa situazione: si tratta di un vero errore o è il risultato della frustrazione momentanea di un utente?
  2. Non farti prendere dalla rabbia. I nostri cervelli reagiscono d’istinto quando la nostra integrità o le nostre competenze professionali vengono messe in discussione. Considerando il clima di ostilità presente nella maggior parte delle discussioni online, uno strumento potente è la serenità. Un atteggiamento tranquillo può aiutare anche i tuoi collaboratori. Non si può gestire efficacemente un commento negativo quando ci sentiamo sopraffatti, quindi è importante trovare un modo sano per rilassarsi. Se anche dopo un grande respiro ti risulta difficile controllare le emozioni, lascia che qualcun altro risponda per primo. E ricorda che la gentilezza è sempre un’arma a tuo favore!
  3. Non “affrontarlo lunedì” o ancora peggio non pensare che la crisi si risolva da sola. Gianluca Comin nel suo manuale, “Comunicazione integrata e reputation management“, afferma quanto sia importante la velocità di risposta. Il sociologo parla di quanto sia fondamentale una comunicazione nelle prime 24 ore per non lasciare che altri facciano la propria narrazione dell’evento. Infine, per quanto siano gravi le minacce alla reputazione, è fondamentale che le comunicazioni siano trasparenti e coerenti. 

Dunque quando ci si trova di fronte davanti ad un momento di crisi ci sono varie emozioni da dover gestire come rabbia e rifiuto. Di seguito segnaliamo quelle che secondo Gianluca Comin sono le 5 fasi di una crisi:

  1. Sorpresa
  2. Rabbia
  3. Rifiuto
  4. Consapevolezza
  5. Ricostruzione della reputazione

Gli ultimi due punti sono le fasi di risposta efficace. E’ fondamentale assumersi le proprie responsabilità e avere un atteggiamento emopatico. Questo significa cogliere le emozioni altrui, e calibrare di conseguenza le comunicazioni per ridurre al massimo eventuali danni e paure, chiedendo scusa se necessario

Come formare i propri dipendenti al crisis management

Ogni dipendente rappresenta il tuo marchio e ha un ruolo da svolgere nella prevenzione e nella gestione delle crisi. Avere uno staff ben preparato è la chiave per evitare crisi, è quello che insegna anche Luca Poma, professore in Reputation Management presso Università LUMSA di Roma, nei suoi corsi di studio. Ogni dipendente dovrebbe avere un certo livello di istruzione in materia di crisis management per:

  1. Individuare i problemi prima che si verifichino. Le tecniche di gestione della crisi prevedono anche una strategia di pre-crisi. Questa include il monitoraggio di quello che dicono gli stakeholder online e offline. Dunque è importante il controllo di commenti negativi sotto un post sui social, ma anche essere spinti da una nota narcisistica e cercare la propria azienda su Google, magari accanto alla parola “recensioni”. Se il vostro marchio sarà abbastanza conosciuto troverete tra i primi link qualche sito con la vostra menzione, e lì potrete trovare i semi che in futuro potrebbero innescare la vostra crisi. Ma anche in questo caso: niente panico. Tenete sempre a mente che in rete oppure offline chiunque potrà avere oggi un commento negativo sul tuo marchio e domani uno positivo. Nel caso in cui le recensioni negative aumentassero è bene che il capo dell’azienda sia informato. Infatti chi svolge un ruolo importante ha la visione quasi totale delle dinamiche e potrà individuare il livello di pericolosità dei commenti. Quindi fai attenzione se gestisci il team, e non lo sei corri a dirlo al tuo superiore! Questo può impedire di allarmare inutilmente tutta l’azienda o di non sottovalutare un problema che può diventare una crisi in piena regola.
  2. Preparare un team con competenze diverse prima che si verifichi una crisi: avvocati, tecnici informatici, comunicatori – anche esterni, come un’agenzia di comunicazione – e tutte le persone che potrebbero servire per un crisis management. Ma anche luoghi secondari dove svolgere il proprio lavoro in caso di evento naturale catastrofico, come un’allagamento dell’edificio. Anche un sito web alternativo potrebbe essere fondamentale in caso di attacco hacker (Intranet). Infine è importante identificare un portavoce ufficiale in caso di crisi avanzata in cui occorrerà rispondere alle richieste mediatiche.
  3. Allena i tuoi dipendenti ad essere critici sull’azienda. Tutti i dipendenti sono rappresentanti del marchio e posso funzionare anche come campanelli di allarme per l’arrivo di una crisi. E’ importante monitorare costantemente il grado di soddisfazione dell’azienda e di come viene percepita. Questo può essere fatto tramite la compilazione anonima di un form di gradimento, che impedirà ai dipendenti di essere riconosciuti nel caso facessero una recezione negativa.

Eppure il rischio reputazionale è sempre dietro l’angolo: un incidente sul lavoro, fughe di notizie, partnership negative etc. possono spesso danneggiare la fama dell’azienda. L’importante però è non averne paura, ma fare un buon crisis management con nervi saldi e strategia. Si può definire solida un’organizzazione se le persone che riconoscono l’importanza degli sforzi di gestione delle crisi e comprendono i loro ruoli durante periodi critici. Questo permetterà di prevenire un maggior numero di eventi negativi e ridurre significativamente la durata di una situazione di crisi rispetto a coloro che non sono preparati. Investire tempo nell’educazione dei dipendenti in questo ambito si rivelerà un investimento prezioso che darà buoni frutti.




«Seguiamo i nostri ragazzi, ma è sbagliato “processare” youtube»

«Seguiamo i nostri ragazzi, ma è sbagliato “processare” youtube»

YouTuber in azione provocano un incidente mortale a Roma. È stato sintetizzato così il grave episodio accaduto ieri a Casal Palocco, dove un suv lanciato a forte velocità ha travolto un’auto con a bordo una giovane mamma con i due figli di tre e cinque anni. Quest’ultimo è deceduto per le gravi ferite riportate. Alla guida della grossa Lamborghini alcuni giovani Youtuber della piattaforma “Bordeline” con più di 600mila follower online. Erano intenti a filmare una “challenge”: stare al volante per cinquanta ore di seguito. L’utilizzo degli strumenti digitali e dei social network può essere demonizzato in relazione all’incidente di mercoledì scorso? Ne abbiamo parlato con Luca Poma, professore in Reputation management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, e specialista in gestione di crisi e in digital strategy. «Il digitale – dice al Dubbio Luca Poma – è come un coltello da cucina: puoi utilizzarlo per tagliare il pane o per uccidere qualcuno. Quindi, nuovamente, il tema è quello della cultura e, di conseguenza, dell’uso consapevole e ragionato dello strumento stesso».

Professor Poma, l’incidente mortale di Roma, provocato da un’auto di grossa cilindrata, ha subito fatto scattare la ferma condanna di YouTube e di chi produce contenuti per la famosa piattaforma. Una semplificazione, come succede spesso in occasione di alcune tragedie?

Purtroppo, sì. Il clamore mediatico che accompagna dolorosissime tragedie di questo tipo non aiuta certamente le analisi razionali. YouTube diventa quindi il brand famoso da mettere sul banco degli imputati, il capro espiatorio per condotte sconvenienti e pericolose che con gli algoritmi e la cibernetica non hanno nulla a che fare e che sono invece più banalmente attribuibili alle miserie di noi esseri umani.

Si fa presto a definire YouTuber quei soggetti che più che contenuti utili sono intenti, come nel caso di Casal Palocco, solo a collezionare like per i loro video. Serve anche una educazione per l’utilizzo delle piattaforme social?

Serve eccome, e stupisce che il ministero dell’Istruzione in tutti questi anni ancora non abbia provveduto, nonostante i numerosissimi solleciti in tal senso da parte della comunità accademica, come anche dei comunicatori professionisti. Occorrono urgentemente corsi di educazione digitale nelle scuole italiane. A tal riguardo faccio appello alla sensibilità del collega professor Giuseppe Valditara. Lo conobbi e apprezzai in occasione della pubblicazione di “Lettera 150”, il documento da lui coordinato nel quale si prendeva costruttivamente posizione sulla gestione non ottimale della pandemia Covid da parte del Governo Conte. Spero che il ministro prenda senza indugi l’iniziativa, colmando un gap che esiste da ormai troppi anni e che espone le nuove generazioni ad un uso non ragionato di quello straordinario strumento che sono i Social network.

Cosa dovrebbero fare, secondo lei, i social media per regolare e approvare la presenza di certi contenuti?

Dovrebbero fare certamente di più. Questo è un dibattito accesissimo tra gli addetti ai lavori: non è più tempo di alzare le mani al cielo dicendo «noi siamo solo piattaforme che ospitano contenuti, se i contenuti sono inappropriati è colpa del singolo utente». I social e, in generale, le piattaforme web macinano utili miliardari grazie a quei contenuti, non sono una terza parte estranea all’equazione, e quindi il ruolo dovrebbe essere rivisto. Le nuove direttive europee sul digitale stanno facendo passi avanti in tal senso, ma anche una iniziativa da parte della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, con i ministeri competenti non sarebbe per nulla fuori luogo. L’Italia in passato è stata precursore si pensi, ad esempio, al dibattito e alle successive iniziative legislative sulla privacy. Perché non potremmo esserlo anche su queste delicate e attualissime tematiche?

Tragedie come quella di Roma rischiano ancora una volta di avviare inutili crociate contro le nuove forme di comunicazione che riguardano soprattutto giovani e giovanissimi?

Si, il rischio è evidente. Ma il digitale è come un coltello da cucina: puoi utilizzarlo per tagliare il pane o per uccidere qualcuno. Quindi, nuovamente, il tema è quello della cultura e, di conseguenza, dell’uso consapevole e ragionato dello strumento stesso. Non dobbiamo metterci il cappello dei luddisti e attaccare e demolire gli strumenti digitali, che hanno cambiato in meglio la nostra vita quotidiana in moltissimi modi, bensì porci il tema di educare i nostri ragazzi. In questo la famiglia ha un ruolo centrale, ma, ribadisco, le istituzioni devono far proprio il tema, sia per coinvolgere attivamente il mondo delle scuole, sia per obbligare le piattaforme ad essere più proattive nel far passare messaggi responsabilizzanti. Mi chiedo ad esempio: quante piattaforme social hanno attivi dei corsi di educazione digitale, rivolti ai giovani mediante tutorial e podcast? Il tempo del Far West online è finito. Ognuno deve fare la propria parte.




Maria Sofia Federico e il dibattito sull’incesto

Maria Sofia Federico e il dibattito sull’incesto

La creator di OnlyFans e attivista Maria Sofia Federico ha scatenato un’ondata di polemiche con le sue dichiarazioni sull’incesto, una pratica che ha tentato di normalizzare attraverso alcuni contenuti postati sui propri canali social. Le sue affermazioni hanno immediatamente scatenato un acceso dibattito pubblico, sollevando domande cruciali sull’etica, la morale e il ruolo della sensibilizzazione in una società che deve fare i conti con i limiti della libertà di espressione e la protezione dei valori fondamentali.

Maria Sofia Federico, già nota per la sua attività sui social media e per la sua presenza su piattaforme come OnlyFans, ha affrontato un argomento tra i più tabù, dichiarando che l’incesto non dovrebbe essere visto come qualcosa di intrinsecamente negativo. Questa posizione ha generato sconcerto e indignazione in molte parti della società, che hanno visto nelle sue parole un tentativo di legittimare una pratica ampiamente condannata sia dal punto di vista morale che legale.

L’incesto, infatti, è considerato nella maggior parte delle culture e delle società come una violazione profonda delle norme etiche e morali. La proibizione di tali rapporti è stata storicamente giustificata non solo per ragioni biologiche, legate alla prevenzione di problemi genetici, ma anche per proteggere le dinamiche familiari e sociali, che rischiano di essere compromesse da relazioni di questo tipo. La promozione dell’incesto come qualcosa di accettabile pone, quindi, una serie di dilemmi etici, spingendo molti a chiedersi fino a che punto la libertà di espressione possa essere esercitata senza mettere a rischio i valori condivisi.

La reazione alle dichiarazioni di Maria Sofia Federico è stata veemente. Da un lato, molte persone hanno criticato aspramente le sue parole, sottolineando il pericolo di normalizzare comportamenti che possono avere gravi conseguenze emotive e psicologiche, specialmente in contesti familiari. Dall’altro, alcuni difensori della libertà di parola hanno argomentato che ogni discussione, anche quelle più controverse, ha il diritto di esistere in una società democratica, sebbene questo non significhi che tutte le opinioni siano ugualmente valide o accettabili.

La questione centrale sollevata da questa vicenda riguarda il confine tra sensibilizzazione e legittimazione. Se da un lato è importante discutere apertamente di temi controversi per promuovere una maggiore comprensione e consapevolezza, dall’altro c’è il rischio che tali discussioni possano sfociare nella legittimazione di pratiche che vanno contro i principi etici fondamentali. In questo contesto, l’influenza esercitata da figure pubbliche e influencer come Maria Sofia Federico diventa particolarmente rilevante. La loro capacità di modellare l’opinione pubblica impone una responsabilità aggiuntiva, poiché le loro parole possono avere un impatto significativo su un pubblico giovane e impressionabile.

In conclusione, il caso di Maria Sofia Federico e la sua normalizzazione dell’incesto ci costringono a riflettere su quanto sia delicato il bilanciamento tra libertà di espressione e responsabilità sociale. Se è vero che la sensibilizzazione può aiutare a smuovere i pregiudizi e ad aprire nuove prospettive, è altrettanto vero che non tutte le cause meritano di essere promosse. Quando si toccano temi che minano i fondamenti stessi della morale e della convivenza civile, è necessario un approccio prudente e riflessivo, che tenga conto delle implicazioni profonde e delle conseguenze potenzialmente dannose per la società nel suo complesso.




Sostenibilità, Solo il 15% delle aziende si sottopone a uno specifico audit interno di rendicontazione

Sostenibilità, Solo il 15% delle aziende si sottopone a uno specifico audit interno di rendicontazione

Una ricerca italiana, finanziata dal Parlamento UE, racconta approcci, metodi e standard utilizzati dalle aziende europee nell’attività di rendicontazione dei criteri ESG. Sette organizzazioni su 10 (70%) che pubblicano i bilanci di sostenibilità convalidati da una società di certificazione esterna, dichiarano che questi si basano solamente sull’analisi di documenti ed evidenze autoprodotte dall’azienda stessa. Anche per questo il grado di fiducia da parte della cittadinanza verso l’impegno delle aziende sulla sostenibilità è basso: quasi un cittadino europeo su due (45%) pensa che le imprese utilizzino il tema green solo per motivi pubblicitari e di marketing

SOSTENIBILITA’: LA RICERCA ITALIANA SUL RATING ESG DELLE IMPRESE

Le imprese europee corrono il rischio di essere percepite dai cittadini come poco trasparenti rispetto al loro reale impegno in tema di sostenibilità. Sono ben 7 su 10 (70%) le aziende del Vecchio Continente che pubblicano bilanci di sostenibilità approvati unicamente sulla base di documenti ed evidenze autoprodotti, senza alcuna verifica da parte di un professionista esterno circa la genuinità e veridicità delle informazioni contenute nei report. Mentre sono solo un quarto (25%) le organizzazioni che affermano di essersi sottoposte a uno specifico audit interno sulla rendicontazione dei criteri ESG (Environmental, Social, Governance).

Criticità di questo tipo si incrociano con i dati rilevati dall’analisi svolta sulla percezione della cittadinanza europea, in cui emerge, come ovvia conseguenza, che il grado di fiducia nelle dichiarazioni di sostenibilità prodotte dalle aziende risulta tra il basso (44,5%) e il bassissimo (19,5%) e che una parte significativa dei cittadini europei ritiene che le aziende utilizzino il tema della sostenibilità solo per motivi pubblicitari e di marketing (45,5%). Sono questi alcuni dei principali dati sul tema della rendicontazione dei criteri ESG nei bilanci aziendali che emergono dalla ricerca “Rating ESG delle imprese, asserzioni etiche aziendali e percezione dei cittadini riguardo alle scelte green delle aziende”, condotta su due diversi campioni, uno di 100 aziende, di vari settori e dimensioni, e un secondo di 500 cittadini rappresentativi di tutte le età, condizioni sociali, promossa dall’On. Tiziana Beghin, eurodeputata (gruppo Non Iscritti) e presentata nel corso di un talk a Bruxelles presso la sede del Parlamento Europeo, anche al fine di elaborare e presentare raccomandazioni utili al legislatore per migliorare le normative in questo settore di enorme importanza e attualità.

L’indagine è stata realizzata da un team di ricerca al 100% italiano e in larga parte femminile: sono donne, infatti, 4 ricercatrici del gruppo su 5, coordinate dalla Dott.ssa Giorgia Grandoni.

COSA DICONO GLI ESPERTI

“Scopo del progetto di ricerca – ha dichiarato Luca Poma, Professore di Reputation management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, referente scientifico dell’indagine – è quello di fotografare lo stato dell’arte sul tema della rendicontazione non finanziaria ed ESG nei bilanci delle aziende europee, al fine di intercettare punti di forza e di debolezza delle prassi attualmente messe in campo e favorire, nel contempo, un miglioramento della qualità informativa di questa forma di rendicontazione, riflettendo anche sulla percezione che i cittadini hanno delle scelte green compiute dalle aziende. Il lavoro si innesta, infatti – conclude Poma – nello sforzo sostenuto dall’Unione Europea di promuovere una cultura della sostenibilità non solo tra cittadine e cittadini comunitari ma anche all’interno delle PMI e dei grandi gruppi aziendali”.

“Lo scenario competitivo mondiale è caratterizzato dalla circolazione sempre più libera di persone, beni e capitali, filiere di fornitura lunghe e frammentate su scala globale e uno spazio geografico degli scambi e degli investimenti sempre più ampio, con una crescente esposizione ai rischi”, ha dichiarato l’On. Beghin.

“Cresce quindi la domanda di informazioni credibili e affidabili sulla reputazione delle imprese, non solo limitate al profilo generale e organizzativo, ai prodotti o servizi e ai relativi prezzi, ma anche a quelli che possono essere i rischi di impatti avversi futuri sull’impresa e i suoi stakeholder e a un’ampia gamma di aspetti di natura non finanziaria (governance, diritti umani e condizioni di lavoro, sicurezza, ambiente ed etica di business), denominati sempre più frequentemente “rischi ESG” – Environmental, Social, Governance. È quindi di assoluta attualità per noi legislatori – ha concluso l’eurodeputata – comprendere come poter rendere più trasparente questo tipo di rendicontazione, garantendo rating appropriati e non fuorvianti agli occhi dei cittadini dello spazio comune europeo”.