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Spiegare il male a una macchina

Spiegare il male a una macchina

Volevo scrivere un post sulla neo-censura che sorge dai goffi tentativi di rilevazione automatica dell’odio nel linguaggio online e nei dataset della IA. Ma mi sono reso conto che c’è un passaggio fondamentale da fare a monte.

Il discorso che ingiuria, calunnia, umilia, è detestabile in quanto fa male. Allora risaliamo alla domanda alla quale ogni “etica” computazionale deve rispondere: si può spiegare a una macchina che cosa vuol dire “fare del male”?

Credo che questa domanda contenga il nòcciolo problematico del rapporto tra umani e macchine. Altro che intelligenza e test di Turing.

Subito viene alla mente la celebre prima “legge della robotica” di Isaac Asimov: «Un robot non farà del male a un essere umano né permetterà che, per la propria inerzia, un essere umano si faccia del male». Il fascino senza tempo di questo comandamento che l’uomo-dio impone alla sua creatura dimostra la maestria dell’Autore. Tuttavia, appena usciamo dall’incantamento della fantascienza e pensiamo sul serio a come metterlo in pratica, la sbornia passa. È dura essere dèi.

Qualunque sia la sua natura, un agente non può obbedire a un comando se non sa o può interpretarlo. Nella fattispecie, una macchina non potrà rispettare quella legge se non capisce che vuol dire “fare del male”. Come spiegarglielo?

Fare del male. Ma a chi, come? “Fare del male” è una possibilità inesauribile, sfaccettata e personale quanto la vita. Ha senso dire “fare del male” così in astratto? Il male è sempre concreto e particolare. La solenne universalità della legge di Asimov non ha riferimento. Ciò che sembrava bello e solido a parole si sbriciola fra le dita.

Eppure noi sappiamo che significa “fare del male”. Il male è il nostro pane quotidiano sin dal primo giorno di vita: la fame, la sete, il distacco. Il nostro corpo soffre se si sbilancia anche solo di poco rispetto alle sue, diciamo così, condizioni normali di esercizio. E i possibili sballi di un organismo tanto complesso non si contano.

Come vive il male in prima persona, così il corpo sa riconoscerne i segni quando affiorano sui corpi degli altri. Basta una smorfia, una lacrima, un lamento, e il loro male-essere si fa strada dentro di noi. Qualcosa dentro si agita, si allarma, si muove in soccorso, o scappa, o talvolta incattivisce.

Questa letterale com-prensione del male altrui è istintiva e automatica. Avviene con intensità che vanno da zero a insopportabile, e variano con gli individui e le circostanze. È una naturale capacità di rispecchiamento del cervello, non solo umano: in noi si attivano schemi motori e stimoli viscerali corrispondenti a quelli attivati nell’altro, mentre lo osserviamo, lo ascoltiamo, o lo immaginiamo soltanto a leggerne le storie ben narrate.

Per spiegare a parole il male che soffriamo c’è da attraversare due oceani in verticale: uno per portare alla coscienza sentimenti reconditi, distinguendone provenienze e sapori come sommelier; un altro per scegliere e combinare le parole adatte a raccontarli. Imprese estreme se non impossibili per la maggioranza di noi.

Eppure al nostro specchio interiore questi sforzi sovrumani non servono. Un cervello normale fa tutto quel lavoro di simulazione senza coinvolgere la coscienza e tanto meno le parole. È così, nell’esperienza da corpo a corpo sedimentata in vissuto, che sappiamo se abbiamo fatto o potremmo “fare del male” a qualcuno.

Ora, facciamo entrare le macchine in questo gioco che va avanti da chissà quante centinaia di migliaia di anni. Niente corpo vivente, niente specchi modellati dall’evoluzione per sintonizzarsi con gli umani. Come imporre a queste macchine la legge di Asimov? Non ci resta che tentare di descrivere esplicitamente, a parole, cosa significa “farci del male”.

Non basterà qualche esempio generico. Bisognerà informarle in dettaglio su ciascuno di noi. E in queste informative soggettive bisognerà annoverare tutte le nostre fragilità fisiche, tutte le nostre paure più profonde, tutti i nostri disturbi e imbarazzi, tutti quei minimi oltraggi che feriscono, tutti i traumi e le frustrazioni, le contrarietà, le delusioni e i sacrilegi. Una confessione totale. Il sogno dell’inquisitore.

Questi inventari del male, frutto di una consapevolezza assoluta e di una verbalizzazione che fa arrossire Dostoevskij, ovviamente non sono che un’altra invenzione letteraria, come le leggi della robotica. Ricordano le “Vendicazioni” di Borges, quelle disperse nella sconfinata Biblioteca di Babele. Sono resoconti ideali, ma nascerebbero già vecchi, presto superati dalle nuove vicende che ci attendono e ci cambieranno ancora.

Il cuore del problema comunque è un altro. Se esistessero questi ritratti testuali, solo altri umani, non tutti, e non certo delle macchine, potrebbero com-prenderne il senso per immedesimazione e approssimazione. Perché senza il terreno comune di un corpo simile, e meglio ancora se c’è memoria condivisa degli eventi che lo hanno plasmato, emozioni e sentimenti sono solo parole fra altre parole. Correlazioni statistiche, operazioni algebriche, e nulla più.

Attraverso questo modello esteriore e matematico del linguaggio c’è ben poca speranza che una macchina informatica possa com-prendere i sentimenti, cioè accoglierli e integrarli dentro i suoi modelli di azione, così da poter obbedire al primo comandamento di Asimov.

Comandamento che di fatto, prima che per i robot, vale per gli umani. È notevole che gli umani non lo rispettino proprio quando manca loro la facoltà dello specchio emotivo, come manca alle macchine. Ma nemmeno agli umani sani si può insegnare il rispetto degli altri con la mera imposizione di parole politicamente corrette. Figuriamoci a una macchina.

Rimane la solita possibile soluzione, quella che ci attende sempre nel rapporto con le macchine: adeguarsi a loro per futili motivi e per volontà di incoscienti, accettare versioni distorte della realtà, e sopportare tutto il male non calcolabile che ce ne verrà.




Molestie ed abusi nel mondo della pubblicità e della comunicazione: è crisi di reputazione?

Molestie ed abusi nel mondo della pubblicità e della comunicazione: è crisi di reputazione?

Nel complesso universo della moderna comunicazione pare emergere una contraddizione: da un lato, la diffusione di narrazioni positive e inclusive, dall’altro un’innegabile dominanza maschile, connotata da rivalità accese e tossiche e tracce di mentalità sessista, spesso – peraltro – negata o minimizzata da chi ne è protagonista. Se in passato l’attenzione si è focalizzata sulla rappresentazione femminile nelle campagne pubblicitarie, oggi – ci raccontano le cronache – molti addetti del settore si trovano immersi in un ambiente dove commenti inappropriati e stress lavorativo sono considerati il costo da sostenere per lavorare nelle rinomate agenzie del settore.

Il fenomeno è salito alla ribalta grazie ad una scoperta shock riguardante l’agenzia We Are Social: una chat sessista, frequentata da numerosi dipendenti maschi, che è diventata il fulcro delle preoccupazioni riguardo a comportamenti inappropriati e molesti: oltre ottanta partecipanti impegnati quotidianamente ad esprimere commenti volgari, pesantemente sessisti e degradanti sulle loro colleghe.

Massimo Guastini, figura di spicco del mondo della pubblicità in Italia, ha contribuito a sollevare il velo: uno dei founder dell’agenzia, Gabriele Cucinella, intervenendo con un suo commento in un thread sulla pagina Facebook di Guastini, ha ammesso l’esistenza della chat, vicenda poi ripresa da Guastini stesso nell’intervista pubblicata online il 9 giugno 2023 e riportata integralmente in questo articolo: Guastini ha illustrato nei dettagli l’esistenza della chat sessista, nella quale le donne venivano oggettivate e declassate solo sulla base del loro aspetto fisico. “Diversi uomini catalogavano e davano i voti chi al culo, chi alle tette, chi alle gambe di queste giovani stagiste che potevano essere le loro figlie”, ha riportato Guastini, ricordando che in quel gruppo Skype, attivo rigorosamente durante l’orario d’ufficio, si trattasse un solo argomento: “Quanto sono scopabili, fighe, ribaltabili o cesse le colleghe”.

We Are Social è, nel suo settore, un colosso con sedi anche all’estero, ed ovviamente a Milano: queste rivelazioni hanno portato a ulteriori scoperte e testimonianze, molte delle quali raccontate da persone che hanno condiviso storie di discriminazione, molestie e comportamento sessista all’interno delle agenzie di pubblicità e comunicazione.

Uno degli aspetti più inquietanti emersi dalle voci delle persone coinvolte è il dettaglio con cui venivano commentate le figure femminili, sia sotto il profilo fisico che professionale. Commenti sprezzanti, volgari e talvolta violenti erano all’ordine del giorno: “È talmente cessa e grassa che le infilerei un sacchetto in testa e me la sc*****i comunque, di prepotenza”, “Glielo infilerei così tanto nel culo da farle uscire le palle dalla gola”, solo per citare – ruvidamente – degli esempi reali confermati da screenshot di quella chat. Ma ancora più sconcertante era come questi comportamenti apparissero estremamente radicati nella cultura aziendale, accompagnati da un’omertà generale, dilagante e prolungata negli anni.

Zahra Abdullahi, ex dipendente di We Are Social, ha condiviso la propria esperienza, illustrando come ha scoperto la chat, e quali furono le sue reazioni. Un dettaglio particolarmente allarmante è che le donne intervistate durante i processi di assunzione diventavano poi oggetto di discussioni in quella chat, spesso da parte delle stesse persone che avevano condotto l’intervista HR. La cultura sessista non si fermava poi ai messaggi: fu scoperto un documento Excel in cui venivano “confrontate” decine di colleghe basandosi solo su criteri fisici degradanti.

Dopo la scoperta della chat, l’agenzia ha trasferito tutte le comunicazioni aziendali su un’altra piattaforma e ha condannato ufficialmente l’intera vicenda, ma molti sostengono che non siano state prese misure concrete contro gli autori delle molestie.

Stesso scenario, stessa agenzia (We Are Social), per quanto riguarda 17 puntate di discutibili Podcast, pubblicati online in 2 anni, dopo la chiusura della famigerata chat e malgrado le asserite “azioni di rieducazione” del team: gli autori dei Podcast “Posso Dire” sono 6 uomini dell’agenzia, i cui nomi sono reperibili online in diversi thread che hanno infiammato i Social nonchè sul profilo Instagram dei podcast stessi, registrazioni prodotte all’interno di WAS, con toni sempre sessisti, volgari e a tratti decisamente pesanti, e accompagnate da uno sconcertante plauso generale da parte di molti colleghi della stessa azienda. Ma i clienti dell’agenzia non hanno commenti da fare?

La reazione di We Are Social e di UNA: ricerca della verità o soltanto fumo negli occhi?

Quando le notizie sulla questione hanno cominciato a dilagare sul web, We Are Social ha deciso di reagire annunciando la sua autosospensione da UNA (Aziende della Comunicazione Unite). Ottavio Nava, co-fondatore della sede italiana dell’agenzia, ha espresso il suo profondo rammarico per la situazione e ha ritenuto necessaria anche un’autosospensione dal proprio personale ruolo di consigliere in seno ad UNA, per garantire piena indipendenza di giudizio e una chiara e completa risoluzione della vicenda. Ha sottolineato l’impegno dell’agenzia contro ogni forma di discriminazione e ha promesso un’indagine indipendente affidata a un ente terzo per esaminare la situazione.

UNA, l’associazione che rappresenta le principali aziende del settore della comunicazione, ha espresso il proprio sostegno alla decisione di We Are Social. Il presidente Davide Arduini ha rilevato l’importanza di tale scelta, non solo per proteggere la reputazione del settore, ma anche per assicurare che ogni membro dell’industria operi con i massimi standard etici.

Arduini ha poi reso noto che, nonostante molte agenzie si dissocino da comportamenti simili, le recenti rivelazioni indicano che questi problemi potrebbero essere più diffusi di quanto si potesse in prima battuta immaginare. Sempre durante il mese di giugno, l’agenzia ha confermato di aver avviato l’indagine per avere maggiore chiarezza su ciò che è accaduto, e che essa verrà gestita da un’entità esterna, garantendo così una certa distanza e oggettività rispetto ai fatti.

Tuttavia, nonostante l’annuncio, molte domande restano attualmente senza risposta. Non è chiaro a chi sia stata affidata l’indagine, chi stia effettivamente conducendo le interviste e le ricerche, se le procedure siano già state avviate, quale sia il razionale del lavoro, e, soprattutto, che tipo di informazioni e risultati stiano venendo alla luce.

Una strategia che potrebbe dimostrarsi non tanto un autentico tentativo di fare chiarezza, quanto piuttosto una strategia per dilazionare i tempi e sperare che l’attenzione pubblica si sposti, nel frattempo, altrove: con il trascorrere del tempo, l’intera vicenda potrebbe gradualmente sfumare e cadere nel dimenticatoio, evitando così possibili ripercussioni negative per le persone coinvolte.

A conferma di un atteggiamento quantomeno di scarsa attenzione, se non addirittura di negazione o ridimensionamento del problema, paiono evidenziarsi alcune dinamiche emerse durante il vertice UNA tenutosi a luglio. Secondo fonti interne all’evento, l’argomento relativo alle molestie sessuali è stato trattato soltanto negli ultimi dieci minuti dell’agenda del vertice. Ancora più inquietante è l’interpretazione di alcuni quadri dirigenziali, che avanzano la tesi secondo cui il problema delle molestie sarebbe “circoscritto esclusivamente a una generazione di dirigenti oltre i 60 anni d’età”, e che pertanto, con il loro imminente pensionamento, il problema si risolverebbe di conseguenza in automatico.

Una prospettiva che, oltre a risultare fortemente riduttiva rispetto alla gravità dei fatti, ignora completamente le evidenze emerse da numerose testimonianze e riscontri. Infatti, le evidenze raccolte indicano che il fenomeno delle molestie sessuali non si limiterebbe a una specifica fascia d’età o a determinati livelli gerarchici: sono state registrate testimonianze provenienti da vari livelli dell’organigramma aziendale, incluse quelle di stagisti in fase iniziale della loro carriera, rivelazioni che contrasterebbero nettamente con la narrativa minimizzatrice proposta da alcuni vertici del settore e sollevano ulteriori interrogativi sulla genuina volontà di affrontare e risolvere il problema, una volta per tutte.

Non solo We Are Social: l’ondata di testimonianze scuote l’intero mondo della pubblicità. I casi di M&C Saatchi, Across e Havas

Lo scandalo che ha coinvolto “la chat degli 80” pare non essere un caso isolato. Si stima che circa 200 agenzie abbiano subito denunce simili, con una netta predominanza di segnalazioni da parte delle donne, e la gravità di queste accuse suggerisce che queste pratiche sono profondamente radicate nella cultura di questo ambiente. La maggior parte delle segnalazioni proviene da Milano, seguita da Torino e Roma.

Un aspetto inquietante è quello relativo al tentativo di normalizzare tali comportamenti. Molti dipendenti vedevano infatti le molestie come un “prezzo da pagare” per lavorare in prestigiose agenzie come – ad esempio – M&C Saatchi o We are social. Gasbarro, fondatore e ceo della M&C Saatchi Milano, ad esempio, era noto per le sue “gasbarrate”, termine gergale che denotava per diffusa convenzione qualcosa di decisamente inappropriato connotato da atteggiamenti spregiudicati, come lanciare oggetti verso le colleghe o fare commenti pesantemente sessisti.

La cultura aziendale nelle agenzie di pubblicità sembra essere stata contraddistinta da un’alternanza di feste opulente spesso caratterizzate da un comportamento scorretto: eventi che rappresentavano occasioni per consolidare rapporti e stringere accordi con i clienti si sono spesso trasformati in terreno fertile per comportamenti del tutto inappropriati. Le grandi feste della Saatchi erano note, riportano testimoni diretti, per le cornici lussuose costruite per garantire a manager e rappresentanti delle aziende clienti momenti di divertimento extra-curriculare che trascendevano decisamente i confini dell’etica.

Da un lato l’industria della pubblicità ha fatto della promozione di messaggi positivi e inclusivi – nelle varie campagne per i propri clienti – ma d’altra parte pare al proprio interno permeata da una cultura aziendale fortemente maschilista e competitiva, considerata – questo è forse ciò che è più grave – la norma. Un altro esempio è quello di Havas Milano: anche in questa agenzia milanese si è fatta strada una cultura analoga, con una chat di soli uomini in cui venivano valutate le colleghe, ossessivamente, in base alla loro attrattività fisica. Non solo era abituale partecipare a cene riservate soltanto a membri maschili eterosessuali appartenenti al quadro dirigenziale, organizzate dall’attuale CEO e da Manfredi Calabrò, che all’epoca ricopriva il ruolo di account director e oggi rappresenta Una, Aziende delle Comunicazione Unite, con 216 agenzie affiliate, al Consiglio generale di Confindustria Intellect; ma durante questi incontri le colleghe diventavano spesso oggetto – nuovamente – di giudizi e commenti inappropriati, venivano assegnate delle categorie alle donne come “la più porca” o “la più scopabile”, e per raccogliere i punti per partecipare al concorso era necessario rispondere a profili tipo “la migliore per fare la pecorina sulle stampanti”.

Atteggiamenti sconcertanti confinati non solo a Milano; anche in Across, agenzia con sede a Torino, pare venissero vissute, secondo le testimonianze, dinamiche analoghe. Nell’agenzia torinese è stata creata una chat, ancora attiva, che si trova su Whatsapp dal nome inequivocabile: “Scopareeee”. Il tono non cambia: è un forum per discutere delle colleghe, condividere immagini di donne quasi nude e scattare foto segrete delle più affascinanti tra le dipendenti.

Nonostante l’apparenza glamour, moderna e inclusiva, l’industria pare dover ancora affrontare e superare vecchi schemi di comportamento, che definire tossici pare riduttivo.

Disuguaglianze, ritmi stressanti, precariato e mobbing: i diritti dei lavoratori continuamente calpestati?

Intere notti in agenzia, e non solo occasionalmente, ma per settimane di fila e tirocinanti retributi con una somma pari a 300 euro a cui viene rinnovato il contratto alla stessa cifra anche per 15 mesi, senza mai essere assunti: una creativa, in un’intervista con il settimanale L’Espresso, ha condiviso un episodio sconcertante in cui, dopo aver detto alla sua responsabile che non poteva lavorare un’altra nottata perché non aveva con se neppure intimo di ricambio, si è vista consegnare dalla stessa un paio di slip nuovi, simbolicamente comunicando l’unica opzione disponibile, restare e lavorare.

Per molti giovani aspiranti pubblicitari, l’ingresso in queste agenzie comincia proprio con le prestigiose scuole milanesi, dove i futuri dirigenti e CEO delineano un quadro chiaro delle sfide che i nuovi arrivati dovranno affrontare: costi di formazione elevati, promesse di recuperare l’investimento una volta entrati nell’agenzia, ma la realtà può rivelarsi poi molto diversa. Non è raro per gli stagisti rimanere bloccati in cicli continui di tirocini mal pagati, a volte per anni, a causa di tecniche come il cambio di agenzia all’interno di grandi gruppi.

Nel 2020, due giovani donne, Claudia Pace ed Erica Mattaliano, hanno avviato un progetto, denominato “Be Okay Creativity”, che ha rivelato ulteriori dettagli sullo stato dell’industria. Attraverso un questionario online, hanno raccolto mille testimonianze: le risposte sono state allarmanti. Infatti, le condizioni lavorative sembrano essere tutt’altro che ideali: l’87% dei lavoratori di Milano che soffrono di stress e burnout, solo il 12% degli straordinari è pagato, al Sud lo stipendio medio è 13 mila euro più basso, le donne, a parità di ruolo, guadagnano il 12% in meno. Ancora più preoccupanti sono le storie di comportamenti inappropriati e molestie: aggressività, frasi sessiste e minacce sono purtroppo standard assai comuni.

Mentre l’industria pubblicitaria produce contenuti brillanti e accattivanti per le masse, coloro che lavorano dietro le quinte potrebbero pagare un prezzo molto più alto di quanto la maggior parte dei cittadini possa immaginare. Per questi motivi, nel novembre del 2022, un gruppo di giovani audaci, sotto il nome “GentilissimaRivolta”, ha deciso di denunciare le loro condizioni di lavoro attraverso un profilo anonimo su Instagram.

La rapidità con cui il profilo ha raggiunto 10.000 follower indica che il loro messaggio ha risonato profondamente: raccontano storie di abusi, di lavorare oltre il dovuto, e della frustrazione di vedere un festival intitolato “La Rivoluzione della Gentilezza” in un mondo noto per la sua . Il loro messaggio è chiaro: amano ciò che fanno, ma odiano le condizioni in cui sono costretti a lavorare. Molti di loro sono giovani professionisti sottopagati, intrappolati in stage infiniti e oberati di lavoro a ritmi impensati.

Tuttavia, il loro appello pare non essere stato accolto con comprensione o volontà di cambiamento dai manager della pubblicità e della comunicazione. Al contrario, è stato registrato con insofferenza, atteggiamento respingente, chiusura e minimizzazione, ne più ne meno come per le reazioni del movimento “#metoo della pubblicità”. Il silenzio che ne è seguito, presumibilmente a causa di minacce di azioni legali da parte delle grandi agenzie, è sconcertante: il grido genuino di aiuto da parte di una generazione che ha sofferto per anni pare essere caduto nel vuoto.

La preoccupazione è ancora maggiore se si considera che il mondo dell’industria pubblicitaria pare vivere queste dinamiche da almeno 15 anni, come raccontato dettagliatamente su LinkedIn da Massimo Guastini.

Da non dimenticare come l’esposizione costante a situazioni di stress elevato e a comportamenti vessatori nel contesto lavorativo può generare gravi ripercussioni sul benessere psicologico degli individui. Queste condizioni ambientali possono contribuire allo sviluppo di atteggiamenti morbosi, manifestazioni comportamentali che si discostano dalla norma e che possono avere effetti negativi sul benessere della persona e sulle sue interazioni sociali (uno degli esempi più evidenti di questa correlazione è l’emergere di atteggiamenti morbosi legati alla sfera sessuale). La necessità di agire per interrompere questo circolo vizioso di mascolinità tossica, sessismo e calpestamento continuo dei diritti degli individui dovrebbe essere acclarato e chiaro a chiunque. Ma pare non essere così.

Nasce il #MeToo della Comunicazione.

Il movimento #MeToo, nato come una rivoluzione globale contro le molestie sessuali nel mondo dello spettacolo, ha ora trovato risonanza nel cuore del settore pubblicitario italiano. Ciò che è iniziato come una singola testimonianza su Instagram si è rapidamente trasformato in una cascata di voci che mettono in luce un problema sistematico e profondamente radicato.

Tania Loschi, professionista della pubblicità, ha aperto la strada a questo tumultuoso movimento digitale attraverso il suo account Instagram, “Taniume”. Dopo aver condiviso la sua esperienza personale di molestie subite all’interno di un’agenzia pubblicitaria, ha creato una piattaforma per altre donne nel settore della comunicazione per condividere le loro storie. Il refrain comune tra queste voci è sconcertante e potente: “E’ successo anche a me”.

Gli aneddoti raccolti sono francamente sconvolgenti. Una donna racconta di come, dopo aver annunciato la sua gravidanza al capo, ricevette una risposta volgare che la degradava pesantemente; un’altra ha condiviso la minaccia ricevuta durante una trasferta di lavoro con un cliente importante, dove il suo capo l’ha invitata ad avere rapporti sessuali con il cliente stesso; commenti inappropriati, insinuazioni e minacce verbali sono emersi da molte testimonianze, suggerendo che tali comportamenti non siano episodi isolati, ma parte di una vera e propria cultura lavorativa: “è così e basta, se si vuole far carriera in questo mondo”, ha riferito un manager del settore.

La stessa Loschi ha condiviso dettagli sconcertanti della sua esperienza, descrivendo commenti degradanti che ha ricevuto dal suo capo mentre era in ufficio fino a tardi, impegnata in ore straordinarie non retribuite. Il riscontro ottenuto dalle testimonianze ha spinto Loschi a creare un modulo online per continuare a raccogliere storie e denunce. Attraverso questo spazio, garantisce l’anonimato e invita altre persone a venire avanti. Il suo messaggio è potente e universale: non è solo una battaglia personale, ma una causa che appartiene a tutti coloro che hanno sperimentato o sono stati testimoni di questi abusi.

L’urgenza è palpabile: come sottolineato da Loschi, “Cosa stiamo aspettando?” Il tempo dell’indifferenza e della complicità silenziosa è definitivamente finito, è ora di agire e di chiedere un cambiamento sistematico e strutturale nel settore della comunicazione e della pubblicità.

Cosa c’è in gioco? La reputazione di un intero comparto

Questi scandali pare abbiano minato in maggiore o minor misura la reputazione non solo di specifiche agenzie ma del settore della comunicazione e della pubblicità. Come ben sappiamo, la reputazione rappresenta il più importante capitale intangibile di ogni organizzazione complessa e di ogni individuo. Nel settore della comunicazione, in particolare, essa non solo influisce sulle percezioni dei clienti e dei partner, ma è anche direttamente legata all’efficacia del messaggio e al credito professionale dell’agenzia stessa.

Nell’era liquida del digitale, la velocità con cui viaggiano le informazioni amplifica l’importanza della gestione di una buona reputazione: una singola controversia può rapidamente propagarsi, influenzando l’opinione pubblica in modo profondo e duraturo. Le aziende non possono più permettersi di ignorare o minimizzare le problematiche interne, poiché queste possono tradursi rapidamente in crisi di reputazione che possono compromettere l’integrità e la qualità dei rapporti con i loro stakeholder.

Un errore di calcolo, la sottostima della crisi, o anche solo una reazione sbagliata, possono non solo amplificare il problema ma anche erodere la fiducia del pubblico in modo permanente. In questo contesto può essere utile analizzare, ad esempio, l’atteggiamento adottato dall’agenzia M&C Saatchi di Milano, che ha scelto di rispondere all’inchiesta pubblicata da L’Espresso affermando che si tratta solo di “totali falsità” e comunicando di “aver dato incarico ai propri avvocati di querelare l’autore dell’articolo e chiunque altro ne divulgherà il contenuto diffamatorio”: una reazione a tratti sguaiata nel tone-of-voice darisultare controproducente. L’obiettivo dell’agenzia milanese parrebbe essere quello di voler testimoniare trasparenza e innocenza, ma – paradossalmente – questo approccio aggressivo potrebbe essere percepito dall’opinione pubblica come un tentativo di intimidire o “silenziare” la stampa e i critici. Alcuni articoli di stampa compiacente sono peraltro venuti sollecitamente in soccorso delle agenzie, con un tentativo di contro-narrazione tanto stucchevole quanto chiaro: “si minimizza l’accaduto e lo si relativizza, si intervistano vecchi guru che non hanno ben chiara la distinzione tra galanteria, ambiente disinibito e viscide molestie sessuali sul luogo di lavoro”, ha dichiarato Massimo Guastini sulle sue pagine Social.

Le questioni relative alla discriminazione e alla parità di genere sono da tempo al centro dell’attenzione, ma diverse altre agenzie coinvolte nello scandalo degli abusi sessuali o dello sfruttamento dei lavoratori del comparto hanno in più occasioni scelto di rispondere allo scenario di crisi con atteggiamenti che hanno dimostrato mancanza di empatia e comprensione, apparendo distanti dai valori contemporanei e dalla posizione che un’azienda dovrebbe assumere per contribuire al cambiamento in meglio della società. Nessuna, per fare un esempio, ha deciso di presentare scuse sincere e incondizionate, passaggio centrale per ogni gestione di crisi reputazionale degna di questo nome.

Questa crisi avrebbe dovuto rappresentare un campanello d’allarme per le organizzazioni, spingendole a prendere decisioni immediate e consapevolmente orientate al bene comune. Invece di adottare una postura difensiva, come dimostrato dalle minacce legali infondate o ancora dall’atteggiamento minimizzatore del vertice UNA, avrebbero dovuto percepire la situazione come un’opportunità preziosa per operare un cambiamento significativo. In effetti, ogni crisi di reputazione, per quanto grave possa apparire, può essere vista come un’opportunità, utile per riallineare i valori alle pratiche aziendali: quando una crisi scuote il fondamento di un’azienda o di un comparto, offre la possibilità di rivedere e riformulare le politiche interne, stimolando un’analisi critica dei comportamenti passati e presenti e condizionando in meglio quelli futuri.

Un approccio proattivo avrebbe ad esempio potuto includere l’implementazione di programmi e piattaforme per monitorare e prevenire gli abusi sessuali. Ma non solo. Sarebbe stato altrettanto importante favorire la creazione di un ambiente in cui i dipendenti si sentissero sicuri nel segnalare qualsiasi forma di molestia o abuso, senza temere ritorsioni. La formazione e l’educazione continuative avrebbero potuto svolgere un ruolo fondamentale, garantendo che ogni individuo all’interno dell’organizzazione fosse consapevole delle conseguenze delle proprie azioni e avesse gli strumenti per riconoscere e bloccare sul nascere comportamenti inappropriati. E ancora, la disponibilità a sottoporsi in qualunque momento a audit da parte di organismi terzi ed esterni all’agenzia, senza alcuna mediazione da parte dei vertici aziendali, avrebbe potuto fare la differenza.

Piuttosto che vedere gli scandali come una minaccia alla loro immagine, le agenzie del settore avrebbero dovuto considerarli come una call-to-action, riconoscendo l’importanza di creare un ambiente di lavoro sicuro, rispettoso e inclusivo; solo così, avrebbero potuto dimostrare un vero impegno nel risolvere il problema alla radice, ristabilendo un rapporto di fiducia con tutti i propri stakeholder, interni ed esterni.

La risposta a queste sfide non può e non deve limitarsi a soluzioni superficiali o a iniziative simboliche: creare eventi di inclusione, giornate dedicate alla parità di genere o campagne di sensibilizzazione che non siano supportate da un impegno concreto all’interno dell’azienda, possono apparire come mere operazioni di facciata. L’opinione pubblica, sempre più informata e critica, sa riconoscere quando le organizzazioni agiscono genuinamente, o quando, al contrario, si limitano al greenwashing.

Pare essere arrivato per questa industry il momento di un deciso cambio di passo, acquisendo la capacità di anticipare e affrontare le questioni etiche prima che diventino delle criticità alle quali potrebbe essere impossibile porre rimedio, ponendosi anche una domanda cruciale: quando il velo sarà definitivamente squarciato, che posizione prenderanno le aziende clienti finali di queste agenzie…? Lasceranno correre, assumendosi loro per proprietà traslativa il rischio reputazionale della black PR generata da questi comportamenti tossici, o – più probabilmente – disdiranno i mandati e getteranno il settore o parte di esso in crisi? 

Trasparenza, assunzione di responsabilità, adozione di misure concrete per promuovere una cultura aziendale davvero inclusiva e rispettosa, abbandono di comportamenti omertosi o minimizzanti nell’attesa che passi la tempesta, impegno genuino e centrato su valori che (a parole) tutti dicono di condividere: queste sono le sfide che queste organizzazioni hanno dinnanzi. Adesso, non domani.




Intervista a Aurora Magni – Blumine

Aurora Magni Blumine

Si parla sempre più spesso di sostenibilità applicata al settore della moda, di controllo della filiera nel settore e dei danni causati dal fenomeno del “fast-fashion”. Blumine è una società di ricerca e consulenza nata 12 anni fa a Milano con l’obiettivo di stimolare il dibattito sulla transizione dell’industria tessile e della moda verso modelli di sostenibilità e supportare le aziende impegnate in questo progetto. L’azienda si è focalizzata sulla sicurezza chimica dei prodotti e dei processi, supportando le imprese impegnate nell’ eliminazione delle sostanze tossiche sulla base di parametri più restrittivi di quelli fissati dal regolamento UE Reach. Oggi Blumine opera su progetti di economia circolare ed ecodesign con imprese italiane e straniere, coordinando il progetto di UNIDO che punta a costruire filiere per il riciclo tessile in aree in cui vi è una presenza di brand italiani, come Egitto, Tunisia e Marocco, oltre ad aver in attivo la realizzazione di libri e studi sul settore tessile e moda sostenibili e a pubblicare mensilmente una newsletter su www.sustainability-lab.net.

Abbiamo intervistato su questi argomenti di estrema attualità Aurora Magni, cofondatrice e presidente di Blumine

Su questa testata ho scritto a più riprese – come molti altri colleghi – dell’impatto del “fast-fashion”: qual è, culturalmente, il vostro pensiero al riguardo?

Il fast fashion è l’elefante nella stanza, per dirla con una metafora. È un sistema industriale e distributivo che occupa centinaia di migliaia di persone nel mondo, generando valore ed occupazione, e che si basa sull’idea che acquistare molti beni a poco prezzo renda felici. Non mi interessa naturalmente dare un giudizio etico su questo, sarebbe inoltre un’arroganza ignorare il valore sociale della democratizzazione della moda, cioè dell’accesso di tutti al godimento di beni materiali e non auspico certo un ritorno alla moda d’elite. Quello che va tenuto presente è l’impatto ambientale di questo fenomeno che si regge su consumi esasperati di materie prime e di risorse e che genera volumi enormi di rifiuti a causa dalla sovraproduzione e dalla stessa scarsa qualità dei materiali, caratteristica che condanna i beni alla rapida obsolescenza e li rende difficilmente riusabili e riciclabili. Sono inoltre note le problematiche sociali di questo modello economico basato sullo sfruttamento di manodopera a basso prezzo e che accetta che i lavoratori lavorino in condizioni di scarsa sicurezza come tragedie come il Rana Plaza ci hanno ben mostrato. La Commissione UE ha avviato una vera e propria campagna contro il fast fashion nell’ambito di proposte lanciate nel marzo del 2022 e riformulate quest’anno che ridisegnano il modello generale del sistema moda dall’ecodesign alla circolarità, proposte che un pezzo alla volta dovrebbero trasformarsi in leggi e regolamenti. E’ un approccio corretto: inserire progressive azioni volte a trasformare un modello negativo in un fenomeno accettabile. Vanno in questa direzione il divieto ad esportare rifiuti tessili in Paese poveri, coprendo con la falsa bandiera della solidarietà l’abitudine di trasformare aree del mondo lontane dai nostri occhi in discariche a cielo aperto o la Corporate Sustainability Reporting Standard Directive sulla responsabilità sociale delle imprese. Sul fronte della circolarità qualcosa si sta muovendo con l’avvio dei consorzi e con la definizione della responsabilità estesa del produttore -per quanto la sua applicazione sia ancora in discussione nel nostro paese. Inoltre crescono i modelli di business alternativi basati sulla vendita di articoli di seconda mano e sulla valorizzazione creativa di scarti fino a poco fa giacenti nei magazzini delle aziende. Saremo pronti nel 2025 a gestire correttamente i rifiuti tessili come previsto dalla Direttiva UE? Speriamo, considerato che il DL 116 impegnava già tre anni fa a raggiungere questo obiettivo nel 2022.

Periodicamente, notiamo iniziative di comunicazione e CSR (genuina o meno questo è un altro discorso) centrate sul tema dell’impatto ambientale, da parte di giganti della moda a basso prezzo. Può esistere un’anima sostenibile dentro aziende “insostenibili” dal punto di vista ambientale, o e una contraddizione?

Che esistano green e social-washing è indubbio. La moda è un’industria che costruisce una quota importante del suo valore con la comunicazione e i messaggi emozionali. Finalmente si abbina l’idea del lusso alla sostenibilità a conferma di come questi temi caratterizzino il nostro tempo e le sensibilità dei consumatori. E i brand non possono certo perdere questa opportunità, pena l’esclusione da uno dei driver culturali dominanti. Detto questo, va riconosciuto lo sforzo che i marchi stanno mettendo in campo per darsi una nuova reputazione, mettersi al riparo da attacchi di movimenti ecologisti, umanitari e animalisti ma anche per inserire la moda in una narrazione di responsabilità sociale e ambientale. Nei bilanci di sostenibilità dei grandi attori della moda possiamo leggere (suggerisco di farlo per capire dove và la moda) obiettivi alti come la riduzione dei GHG cioè dei gas responsabili dell’effetto serra e che essere raggiunti richiedono modalità di misurazione dell’impatto ambientale proprio e della supply chain -dai produttori di fibre ai nobilitatori fino ai confezionisti. Un salto di qualità considerando che fino a poco tempo fa le strategie di sostenibilità si identificavano con qualche capsule a tema green. Tutti i brand dispongono ormai di uffici per la sostenibilità, adottano metodologie di lavoro ispirate all’ecodesign, non disdegnano di ricorrere ai sistemi di certificazione, collaborano con università e start up. Del resto la moda non è un universo isolato e questi cambiamenti riguardano tutto il sistema industriale seppur con punte avanzate e aree più restie.

La moda in generale tra 20 anni: cosa vedreste nel futuro se disponeste di una sfera di cristallo, e (soprattutto) cosa c’è da fare per ottenerlo concretamente?

Difficile dirlo. Aziende e centri di ricerca ma anche start up stanno lavorando molto sui materiali: dal riciclo ai biopolimeri, dalle fibre da agricoltura rigenerativa alla plastica ottenuta da fonte biologica anziché da petrolio. E c’è già chi ottiene polimeri dai gas di scarico, cioè dal sequestro della CO2. La stampa 3D sta entrando anche nella moda quindi forse avremo tessuti fatti senza tessitura e forse a minor impatto ambientale. Nuovi materiali oppure al contrario tradizionali e riscoperti in una logica di valorizzazione dei territori, robotica nei processi produttivi e riscoperta di artigianalità. Insomma, questo settore continuerà a divertirci con le sue molteplici anime. Una raccomandazione: va bene parlare di moda ma volumi di materiali e di prodotti ancora più significativi riguardano quelli gli addetti ai lavori chiamano tessili tecnici, cioè la componente fibrosa dell’automotive, delle tecnologie e dei processi industriali, i tessili usati nel comparto medicale e nell’assorbenza, ma anche nell’edilizia, in agricoltura e naturalmente nel packaging e nell’arredo. Ci si interroga poco sul carico ambientale di questo lato dell’industria tessile eppure, per fare un esempio, è più difficile riciclare un composito che un paio di jeans. Cosa fare quindi? Innanzitutto, non smettere di studiare e fare ricerca, sia a cura delle aziende che delle università e delle istituzioni pubbliche. Queste sono le vere sfide per il futuro.




Fake Reputation: tutela della reputazione o manipolazione della percezione?

Fake Reputation: tutela della reputazione o manipolazione della percezione?

“Sicari reputazionali” senza scrupoli pronti manipolare il percepito di cittadini e pubblici di riferimento, e una cornice, quella della pubblica informazione, sempre più “corruttibile”, in cui il prezioso asset della fiducia viene sacrificato all’altare della convenienza economica, e in cui la linea di separazione tra verità e menzogna appare sempre più sottile.

Per anni, nel settore ci siamo dati un gran da fare parlando di “Responsabilità Sociale”, del valore, economico e sociale generato dall’inserimento di preoccupazioni di carattere etico all’interno del business e abbiamo insegnato alle aziende che “essere etici conviene”, abbiamo riempito il nostro vocabolario professionale con parole come autenticità, trasparenza, sincerità.

È giunto il momento di fare quello che nell’ultimo ventennio abbiamo insegnato ai nostri clienti: guardarci allo specchio, fare analisi e assumerci le nostre responsabilità. Ed è qui che entra in gioco l’etica. Non come un concetto astratto, ma come un pilastro solido e inamovibile, una pietra angolare sulla quale costruire ogni nostra azione di supporto professionale a brand, imprenditori, decisori politici.

A seguito di queste riflessioni, il 21 settembre, in un webinar organizzato da FERPI, il panorama del settore delle relazioni pubbliche e della comunicazione è stato analizzato sotto una lente critica, mettendo in luce insidie e responsabilità deontologiche che i professionisti del settore si trovano a dover affrontare e gestire nell’attuale e preoccupante scenario di un mercato dominato sempre più dalla pressione per mantenere buona – spesso a qualunque costo – la reputazione dei propri mandanti.

Nel corso del webinar, si sono alternate in un acceso e vivace dibattito le le voci di esperti ed esperte del calibro di Daniele Chieffi, Arturo Di Corinto, Giovanna Cosenza, Matteo Flora, Elisa Giomi, Nicola Menardo e Luca Poma.

Un primo confronto necessario, fortemente voluto e promosso dal Presidente Filippo Nani, che ha colto l’appello di Luca Poma e Daniele Chieffi di analizzare e approfondire un tema sempre più urgente in un’ottica di presa in carico strategica del futuro della professione.

Cosa è emerso nelle due ore di dibattito tra professioniste e professionisti?

Gli ideatori dell’evento, Luca Poma e Daniele Chieffi hanno aperto il dibattito offrendo un’analisi penetrante delle attuali dinamiche di gestione (e a volte manipolazione) della reputazione, che come sappiamo è l’asset immateriale più prezioso per qualunque organizzazione, e hanno evidenziato come la fragilità del panorama attuale possa rendere la professione vulnerabile a minacce e derive deontologiche allarmanti, tali da nuocere non solo al singolo professionista bensì all’intero comparto. La loro conclusione è stata chiara e assertiva: è essenziale concentrarsi sull’etica, prendendo in carico queste preoccupazioni mettendo a terra soluzioni concrete tali da perimetrare meglio gli ambiti e gli strumenti di intervento dei professionisti, levando ogni ambiguità.

Giovanna Cosenza, ha disegnato un quadro delle radici del concetto di “fake” analizzandone gli aspetti semiotici, psicologici e antropologici. Ha evidenziato come, nell’era dell’Intelligenza Artificiale, discernere tra verità e menzogna sia diventato un compito sempre più arduo.

Arturo Di Corinto ha offerto una prospettiva storica, guidandoci in un breve viaggio attraverso la storia della disinformazione, dalle astuzie dell’antica Grecia fino alle moderne tecniche di manipolazione mediatica.

Parallelamente, Elisa Giomi, in qualità di commissaria dell’AGCOM, ha delineato il panorama normativo attuale, fornendo un’analisi dettagliata sul diritto all’oblio e le sue implicazioni nel contesto contemporaneo.

Dal punto di vista legale, Nicola Menardo ha esplorato le oscure profondità delle “lavanderie reputazionali” e della “macchina del fango”, termini che evocano vividamente le tattiche utilizzate per alterare e manipolare la percezione pubblica, e le ricadute che questo genere di malepratiche possono avere sotto il profilo legale, inclusi gli eventuali strumenti di tutela.

Infine, Matteo Flora ha sottolineato l’importanza crescente dell’Intelligenza Artificiale nel settore della comunicazione specie digitale. Ha anche posto l’accento sulla crisi di autorevolezza che affligge i principali attori informativi, anche con riguardo alla disponibilità dei gruppi editoriali a porsi in modo acritico al servizio del brand (a pagamento, ovviamente) e ha sollevato domande cruciali sul futuro della professione del relatore pubblico e del comunicatore.

Ogni contributo ha – da angolazioni differenti – rafforzato l’appello per una sollecita presa in carico di queste criticità: le sfide alle quali i professionisti del mondo della comunicazione, delle relazioni pubbliche e del reputation management sono dinnanzi, ben centrate nel dibattito tra gli esperti coinvolti nel panel, evidenziano la necessità di un cambio di passo anche da parte delle associazioni di categoria.

In conclusione, nell’attesa di riorganizzare un secondo momento di confronto alla presenza anche del decano delle relazioni pubbliche italiane Toni Muzi Falconi, è emerso dunque un imperativo urgente, necessario, sfidante: occorre agire, anche immaginando la redazione di un codice di condotta e di autoregolamentazione che possa guidare l’azione dei professionisti del settore in questo complesso, delicato e mutevole panorama.

L’intero evento è visibile, su Youtube, a questo link:

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IL TORMENTONE DELLA “PESCA” DI ESSELUNGA: DALLA (TROPPA) COMUNICAZIONE ALLA (POCA) REPUTAZIONE

IL TORMENTONE DELLA “PESCA” DI ESSELUNGA: (TROPPA) COMUNICAZIONE, (POCA) REPUTAZIONE

Ne hanno scritto e parlato tutti: esperti di comunicazione e sedicenti tali, relatori pubblici, digital strategist, Presidente del Consiglio, associazioni di genitori e di divorziati, partiti politici, financo filosofi e psicoterapeuti, impegnati a discettare, niente meno, sul significato metafisico della pesca, che nell’antica tradizione cinese richiama la durata e i legami forti, quelli che permangono, in contrapposizione alla mela, il frutto della rottura, del tradimento, dell’allontanamento (da Dio e non solo): un tale profluvio di articoli, di analisi più o meno dotte, di commenti, che neppure un feuilletton estivo sarebbe stato in grado di regalarci.

Anch’io vi dico la mia, in breve, ponendo alcune domande, e abbozzando una risposta alla fine di questo articolo.

È bello lo spot? Dal punto di vista pubblicitario, niente da dire, è impeccabile. Ha tutto: non è per nulla sguaiato, il racconto scorre bene, il brand è presente ma non è invasivo, e soprattutto emoziona (e le neuroscienze ci insegnano, da sempre, quanto le emozioni, negative o positive non importa, aiutino a fissare i ricordi nella memoria a lungo termine). Insomma, bravi i ragazzi di Small, l’agenzia con cuore italiano ma nata a New York 4 anni fa: promossi a pieni voti (pur perdonandogli il fatto che uno spot assai simile, seppur più cupo e triste, l’aveva ideato Ikea nel 2016).

È (troppo) lungo lo spot? Per favore, quelle cretinate assurde sulla curva dell’attenzione che dura pochi secondi ce le siamo per fortuna lasciate alle spalle da tempo, sono almeno 10 anni che, con altri colleghi, promuoviamo i long-form, perché è così evidente: il tema non è la lunghezza del messaggio, ma la qualità dello stesso, le persone ascoltano volentieri Podcast da 20 minuti, il tempo lo trovano eccome, e disdegnano (giustamente) messaggi molto più brevi ma banali e privi di significato. I cittadini paiono dire: dammi qualità, e io ti darò attenzione. Come dargli torto?

È divisivo lo spot? Un po’ si, è tautologico sottolinearlo, visto quanto ha diviso l’opinione pubblica tra fan della famiglia tradizionale, realisti della famiglia non convenzionale, e via discorrendo. Che bella questa scoperta dell’acqua calda, quasi bollente: in comunicazione, se si vuole fare hype è utile essere divisivi. E pensate: se si lancia un sasso in uno stagno si aumenta l’entropia e si ottiene movimento. Wow, benvenuti nel 2023.

Prende posizione, lo spot? Si, quindi? I precedenti certo non mancano (guardateli, questi brevi video, alcuni sono davvero magnifici): Che mondo sarebbe, splendido spot con correlata campagna multicanale di Telecom con protagonista il Mahatma Ghandi, sul tema del potere delle tecnologie di comunicazione come amplificatori mondiali di messaggi di pace, ed era il 2004; Where the hell is Matt, clip sponsorizzata dell’azienda di gomme da masticare USA Stridegum, centrato sul valori dei rapporti tra i popoli, anno 2008, un crescendo narrativo e musicale commovente; Dare è la migliore forma di comunicazione, eccezionale spot di un’azienda di telecomunicazioni Thailandese, centrato sul valore della generosità e del ritorno moltiplicato delle buone azioni, era se ben ricordo il 2011; Thank You Mom, altro potentissimo messaggio emozionale sul ruolo delle madri e sul rapporto con i figli come valori centrali per crescere nella vita e vincere le proprie sfide, prodotto da Procter&Gamble in occasione delle Olimpiadi 2012; e poi, avvicinandoci al presente, gli esempi davvero si sprecano, a decine, a centinaia, specie in termini di Brand Activism, tendenza in ossequio alla quale le aziende – giustamente – prendono posizione su tematiche di carattere sociale che interessano la comunità (e i loro stakeholder). Spot lunghi/film brevi, alcuni più riusciti, altri meno, altri ancora piccoli spettacolari capolavori: ma anche qui, qual è la novità?

Eppure, pare che in Italia, improvvisamente, a fine settembre del 2023, tutti – cittadini, analisti, esperti, comunicatori, docenti… – abbiano (ri)scoperto il valore dirompente dello storytelling. Una vera epifania…

Diversi colleghi che stimo hanno osservato come “Esselunga dovesse comunicare, dopo alcune beghe giudiziarie che l’hanno coinvolta”. Corretto, impeccabile: in questo mondo superficiale nel quale con uno spot su una famiglia divorziata (ve ne sono milioni) e su una pesca regalata si riescono (o si desiderano) far dimenticare pesanti accuse di frode fiscale “monstre” (ferma restando la presunzione di innocenza, secondo la Procura, che ha sequestrato al colosso della grande distribuzione oltre 47 milioni di euro, “sarebbe stata realizzata da Esselunga una complessa frode fiscale caratterizzata dall’utilizzo di fatture per operazioni giuridicamente inesistenti e dalla stipula di fittizi contratti di appalto per la somministrazione di manodopera”), l’apparenza ha la meglio sulla sostanza, e la comunicazione commerciale e quella politica si allineano armonicamente e trovano finalmente una sintesi, in una nobile gara a chi riesce a costruire la più efficace delle armi di “distrazione” di massa.

La reputazione, però è tutt’altra cosa – ben più complessa – rispetto alla comunicazione tout-court: è saper costruire relazioni autentiche con tutti i propri pubblici sul medio-lungo periodo; è non nascondere la polvere sotto al tappeto, fare auto-analisi e saper chiedere scusa; è anche generare fiducia con/tra i propri stakeholder mediante una rendicontazione trasparente, non solo sui plus, ma anche sulle criticità dell’azienda; ed è molto altro ancora, pilastri alla base della costruzione di valore nei quali credo e che chi mi legge da più tempo ben conosce. E chi pretende di costruire buona reputazione affidandosi ai comunicatori, ai creativi della pubblicità, agli esperti di immagine, e via discorrendo, ha davvero sbagliato strada ed è – credetemi – fuori dal tempo.

Chissà se delle vicende relative alla frode fiscale di Esselunga si parlerà con schiettezza sul loro bilancio di sostenibilità 2023, quando il documentone verrà pubblicato: son davvero curioso.

Nel frattempo, accontentiamoci, e parliamo di pesche.

AGGIORNAMENTO DEL 12/10/2023 h 19:06: mi hanno segnalato un interessante articolo (pubblicato peraltro già da tempo, mi scuso quindi con i lettori per non averlo rintracciato prima online) che confermerebbe la richiesta di Esselunga, autorizzata dal Tribunale di Milano, di accedere in via eccezionale a un inedito “contraddittorio al fine di monitorare i progressi di legalizzazione”, ovvero un procedimento in base al quale, anticipando gli sviluppi dell’inchiesta, Esselunga si impegnerebbe ad assumere direttamente 3.000 lavoratori, reinternalizzando attività sinora affidate all’esterno. Un buon segno, che non sana l’assoluta carenza di rendicontazione sui canali digitali di Esselunga riguardo a questa spiacevolissima vicenda, ma sicuramente un primo passo concreto verso la soluzione della vertenza. To be continued…