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Media relations: nella relazione coi giornalisti non dimentichiamo il corretto uso di tecniche e strumenti operativi

Media relations: nella relazione coi giornalisti non dimentichiamo il corretto uso di tecniche e strumenti operativi

Se è vero che le media relations nascono dal giornalismo – The Publicity Bureau, la prima società specializzata in relazioni pubbliche fondata a Boston nel 1900, era composta interamente da ex giornalisti – e, ancora oggi, ad occuparsene sono spesso giornalisti (pubblicisti o professionisti), questi sono “mestieri diversi per finalità, valori, abilità e competenze richieste” e, tuttavia, tra essi “esiste un rapporto che, per quanto difficile, è di stretta interdipendenza” (Toni Muzi Falconi).

Da un lato, infatti, divergono le loro finalità – la soddisfazione dell’interesse del lettore per il giornalista e il raggiungimento degli obiettivi dell’organizzazione per il professionista di media relations – dall’altro sono profondamente interrelati, poiché le media relations sono tra le fonti principali dell’informazione giornalistica. La relazione con i giornalisti, quindi, è una relazione complessa – che si situa nel punto di incontro tra potere economico (l’azienda), potere mediatico (l’editore) e potere politico (che, spesso, è in relazione con i primi due) – ed è assolutamente necessario fondarla sulla fiducia reciproca.

Quanto contano, però, le abilità tecniche – le skill operative dei professionisti – per rendere sempre più proficuo questo rapporto tra operatori della comunicazione? Quanto sono efficaci gli strumenti operativi a supporto di questa relazione tradizionalmente “dialettica”?

Dai primi dati emersi dalla ricerca “Giornalisti e uffici stampa: una relazione complicata” – effettuata da Eco della Stampa e Mediaddress su un campione di circa 400 giornalisti italiani che operano in testate sia tradizionali che online – il comunicato stampa rimane uno strumento fondamentale per i professionisti dell’informazione: l’89,6% dei giornalisti, infatti, utilizza abitualmente i comunicati come fonte per scrivere un articolo e l’82,2% li considera “attendibili”. Questo nonostante il giudizio sulla completezza e sulla qualità dei contenuti non sia troppo lusinghiero (il 33,9% pensa che siano “poco” esaustivi, a fronte di un 58,2% che li ritiene “abbastanza” – e solo un 6,3% “molto” – esaustivi), soprattutto perché spesso sono privi dei tradizionali materiali a corredo (fotografie, contatti diretti dell’ufficio stampa, testi di approfondimento e link alla press room online sono quelli più richiesti dai media).

Il volume dei comunicati che arrivano in redazione, però, è decisamente elevato e poco gestibile: più del 90% dei giornalisti, infatti, riceve – ogni giorno – oltre 10 comunicati stampa e oltre il 40% più di 50, mentre alcuni giornalisti ricevono addirittura più di 300 email al giorno (verosimilmente i capiredattori, soprattutto della cronaca territoriale, più esposti alle segnalazioni di eventi e manifestazioni di ogni tipo). Una volta letti, però, la maggioranza dei giornalisti scopre che questi comunicati non sono di loro interesse (l’83%) o che – pur essendo pertinenti – non risultano utili al loro lavoro (il 52%). La ragione? I comunicati vengono spesso inviati dai professionisti senza un’accurata segmentazione dei destinatari o a media list vecchie che non tengono conto dell’alto turnover nelle redazioni. Il risultato è che 4 comunicati su 5, purtroppo, finiscono nel cestino dopo una rapida lettura (anche del solo titolo).

Tra i canali che i giornalisti prediligono per essere contattati l’email rimane lo strumento principe (scelto da più del 95% degli intervistati), mentre il telefono – pur ritenuto necessario – è poco amato, così come i social network (Whatsapp compreso), che non vengono considerati un mezzo di contatto utile per ricevere i comunicati stampa (al netto, ovviamente, della tipologia di relazione personale che si ha col giornalista).

Piuttosto sorprendente, infine, il dato sulle conferenze stampa: i giornalisti, infatti, dichiarano di frequentarle ancora “regolarmente” (il 90% degli intervistati, metà dei quali lo fa addirittura “spesso”) e oltre 3 su 4 le ritengono utili occasioni di incontro e networking. Un fenomeno che si spiega tenendo presente che oggi molte press conference sono in streaming e possono, quindi, essere seguite in remoto e che, probabilmente, nella fase post-Covid molti giornalisti hanno scelto di ritornare a coltivare le relazioni “in presenza”.

Quali sono i suggerimenti che – come professionisti delle relazioni pubbliche – possiamo, quindi, ricavare da questa fotografia? Gli ampi margini di miglioramento che lo studio evidenzia nei “fondamentali” della professione – maggiore qualità nella redazione del testo dei comunicati stampa, presenza di recapiti e allegati e, soprattutto, accurata segmentazione dei destinatari nella fase di disseminazione – lasciano intravvedere la necessità di offrire percorsi formativi di carattere operativo (con spazi dedicati anche all’utilizzo di database digitali come Mediaddress o Medias), alle nuove generazioni ma non solo. Inoltre, si devono incrementare gli investimenti nelle nuove tecnologie a supporto della professione, sfruttando anche le potenzialità dell’intelligenza artificiale: circa il 75% dei giornalisti intervistati, ad esempio, dichiara di essere interessato a uno strumento che permetta di aggregare tutti i comunicati stampa e di poterli organizzare secondo i propri interessi, evitando così il rischio di perdersi le notizie. Un “aggregatore” che dovrebbe contenere anche un calendario delle conferenze stampa, i press kit aziendali e un database dei contatti dei responsabili media relations di aziende, enti e istituzioni.

Insomma, senza dimenticare l’approccio strategico della professione e il valore fondamentale delle relazioni, forse è opportuno ritornare a presidiare con maggiore attenzione anche le tecniche e gli strumenti operativi che le supportano. Il tutto, possibilmente, sempre in dialogo con i diretti interessati: i giornalisti.




Perché sarebbe meglio spendere soldi in esperienze e non in beni materiali

Perché sarebbe meglio spendere soldi in esperienze e non in beni materiali

Il paradosso del possesso dei beni

Uno studio condotto per 20 anni dal Dr. Thomas Gilovich, professore di psicologia alla Cornell University, ha raggiunto una conclusione certa: non spendere soldi per le cose. Il problema con le cose è che la felicità che forniscono sfuma rapidamente. Ci sono tre ragioni per questo:

  • Ci abituiamo ai nuovi oggetti che possediamo. Ciò che prima sembrava nuovo ed eccitante diventa ben presto la normalità.
  • Continuiamo ad alzare l’asticella. I nuovi acquisti portano a nuove aspettative. Non appena ci abituiamo al nuovo, cerchiamo qualcosa di meglio.
  • I Joneses stanno sempre nelle vicinanze. Il possesso, per natura, favorisce i confronti. Compriamo una nuova auto e ne siamo entusiasti fino a quando un amico ne acquista una migliore e c’è sempre qualcuno che ne ha una migliore.

“Uno dei nemici della felicità è l’adattamento”, ha detto Gilovich. “Compriamo cose per renderci felici e ci riusciamo. Ma solo per un po’. All’inizio le cose nuove sono eccitanti, ma poi ci adattiamo a loro”.

Il paradosso dei beni materiali è che supponiamo che la felicità ottenuta dall’acquisto di qualcosa duri quanto la cosa stessa. Sembra intuitivo che investire in qualcosa che possiamo vedere, ascoltare e toccare su base permanente fornisca il miglior valore. Ma è sbagliato.

Il potere delle esperienze

Gilovich e altri ricercatori hanno scoperto che le esperienze – per quanto fugaci possano essere – offrono felicità più duratura delle cose materiali. Ecco perché:

Le esperienze diventano parte della nostra identità. Non siamo i nostri beni, ma siamo l’accumulo di tutto ciò che abbiamo visto, delle cose che abbiamo fatto e dei posti in cui siamo stati. Comprare un Apple Watch non cambierà chi sei; prendersi una pausa dal lavoro per percorrere l’Appalachian Trail dall’inizio alla fine quasi sicuramente lo farà.

“Le nostre esperienze sono una parte più grande di noi stessi rispetto ai nostri beni materiali”, ha detto Gilovich. “Puoi davvero apprezzare le tue cose materiali, puoi persino pensare che parte della tua identità sia connessa a quelle cose, ma rimangono comunque separate da te, al contrario, le tue esperienze sono davvero parte di te. Siamo la somma totale delle nostre esperienze”.

I confronti contano poco. Non paragoniamo le esperienze nello stesso modo in cui confrontiamo le cose. In uno studio di Harvard, quando veniva chiesto alle persone se preferivano avere uno stipendio alto ma inferiore a quello dei loro coetanei o uno stipendio basso ma superiore a quello dei coetanei, le risposte erano incerte. Ma quando è stata fatta la stessa domanda sulla durata di una vacanza, la maggior parte delle persone ha scelto una vacanza più lunga, anche se era più breve di quella dei loro coetanei. È difficile quantificare il valore relativo di due esperienze, il che le rende molto più piacevoli.

L’attesa conta. Gilovich ha anche studiato l’attesa e ha scoperto che in una esperienza provoca eccitazione e divertimento, mentre l’attesa di ottenere un possesso di un bene provoca impazienza. Le esperienze sono piacevoli dai primi momenti della pianificazione, fino ai ricordi che amerai per sempre.

Le esperienze sono fugaci (che è una buona cosa). Hai mai comprato qualcosa che non era poi così bello come pensavi sarebbe stato? Una volta acquistato, è proprio lì a ricordarti la tua delusione. E anche se un acquisto soddisfa le tue aspettative, il rimorso del compratore può essere questo: “Certo, è bello, ma probabilmente non ne valeva la pena”. Non lo facciamo invece con le esperienze. Il fatto stesso che durino solo per poco tempo fa parte di ciò che ce le fa apprezzare così tanto, e quel valore tende ad aumentare col passare del tempo.

Mettere tutto insieme

Gilovich e i suoi colleghi non sono gli unici a credere che le esperienze ci rendano più felici delle cose. Anche Elizabeth Dunn dell’Università della British Columbia ha studiato l’argomento e fa ricadere la felicità temporanea ottenuta acquistando cose in quello che lei chiama “pozzanghere di piacere”. In altre parole, quel tipo di felicità svanisce rapidamente e ci lascia con la “voglia di avere di più”. Le cose possono durare più a lungo delle esperienze, ma i ricordi che persistono sono ciò che importa di più.




Cristina Seymandi si affida al reputation manager Luca Poma. «Così tutelo la mia immagine»

Cristina Seymandi si affida al reputation manager Luca Poma. «Così tutelo la mia immagine»

«Ci vogliono 20 anni per costruire una reputazione, ma bastano 5 minuti per distruggerla». L’adagio «dell’Oracolo di Omaha», il finanziere miliardario Warren Buffet, comincia a fare scuola nella Torino dei salotti buoni, un tempo adusi solo al chiacchiericcio e oggi alle prese con le bordate degli tsunami mediatici. Così corre al riparo anche Cristina Seymandi, finita suo malgrado nell’occhio del ciclone per il video in cui l’ex compagno Massimo Segre manda all’aria il matrimonio e la accusa di vari tradimenti, ingaggiando nella sua squadra, oltre a un avvocato, il noto penalista Claudio Strata, un esperto di reputazione. 

Nel team che affianca la 47enne imprenditrice torinese è arrivato anche Luca Poma, professore di Reputation Management alla Lumsa di Roma. Poma è uno specialista in corporate social responsibility, digital strategy e crisis communication, ha pubblicato 11 libri ed oltre 150 tra saggi ed articoli, è stato consulente alla Farnesina dell’ex ministro degli Esteri Giulio Terzi
Nel 2016 è stato il primo in Italia a occupare una cattedra universitaria in management della Reputazione. 

Se Claudio Strata si occuperà della tutela legale di Cristina Seymandi, Luca Poma avrà il compito di tutelarne l’immagine. Nell’era digitale, quella in cui tutti dobbiamo convivere da una decina d’anni a questa parte, dalla diffusione dei dispositivi mobili in poi, la reputazione non rappresenta solo il buon nome di qualcuno, ma tende a sovrapporsi all’idea di persona. Da qui il valore sociale che si trasforma anche in valore economico. Tanto più sei si tratta di manager, imprenditori a capo di un’azienda. Come nel caso di Seymandi che da novembre è ceo di Savio. La web reputation è ormai un asset aziendale e vale un giro d’affari, secondo Digitalia 21, di circa 10 miliardi l’anno. Nel suo libro Il reputation management spiegato semplice, Luca Poma firma un decalogo su come risolvere le crisi aziendali, appunto, partendo, dalla reputazione. Al primo posto figura la qualità del prodotto, al secondo l’autenticità, a seguire l’ascolto, la mappatura, saper prevedere scenari. E soprattutto sapere chiedere scusa.




Luca Poma, chi è il reputation manager di Cristina Seymandi: vita privata, carriera, libri

Luca Poma, chi è il reputation manager di Cristina Seymandi: vita privata, carriera, libri

Chi è Luca Poma, reputation manager di Cristina Seymandi. Giornalista, autore e professore universitario, ha preso in mano il caso dell’imprenditrice dopo la gogna pubblica per la rottura pubblica con il fidanzato Massimo Segre.

Il nome di Cristina Seymandi ha fatto il giro del web nell’estate del 2023 dopo la rottura pubblica con Massimo Segre, che l’ha accusata pubblicamente di averlo tradito alla festa prematrimoniale dell’ormai ex coppia. Per far fronte alla gogna mediatica e ai gravi danni alla sua immagine, l’imprenditrice si è affidata ad un team di esperti, guidato dal reputation manager Luca Poma. Professore di Management di Reputazione all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, Poma è una delle principali autorità del settore. Ha scritto undici libri e oltre cento articoli sull’argomento, evidenziando l’importanza della comunicazione strategica nella società odierna. Nel corso della sua carriera ha lavorato anche alla Farnesina, come consulente dell’ex Ministro degli Esteri Giulio Terzi. Ha inoltre lavorato a progetti di comunicazione e relazioni pubbliche ed istituzionali in ben 23 paesi in tutto il mondo.

L’importanza della reputazione: “Identità ed autenticità più che apparenza”

Poma ha concesso diverse interviste in cui spiega nel dettaglio l’importanza dei suoi studi e del suo lavoro. “La reputazione è la licenza di operare e di compiere una nostra mission all’interno di una comunità.” -spiega il manager al Corriere della Sera– “Se viene danneggiata per un motivo o per un altro si rischia di perdere questa licenza. Non è cambiato il modo di percepire la reputazione, ma è tutto più veloce e bruciante. E questo non è un bene. Chiaramente è un fenomeno che va governato”.

Uno dei suoi lavori più noti è Il reputation management spiegato semplice, volume in cui Poma e la sua collega Giorgia Grandoni spiegano come risolvere crisi aziendali partendo proprio dalla reputazione di un’impresa. Intervistato da GreenRetail.news, ha spiegato: “L’impegno mio e del mio team di ricerca è, da decenni, quello di far comprendere l’importanza, per la costruzione di valore, dell’identità e dell’autenticità, più che dell’effimera apparenza. In un’epoca come la nostra, caratterizzata da un sovraccarico d’informazioni, connessioni e relazioni, la necessità di sentirsi accettati, rispettati e riconosciuti, in un’unica parola, la reputazione, è considerata un bisogno fondamentale da soddisfare. Ecco perché oggi le imprese sono chiamate a nuove responsabilità, in cui si può e si deve lavorare per definire il perimetro reputazionale di un’organizzazione, che sia azienda, ministero, ONG o anche un singolo opinion-maker”. 




La controversia di Maria Sofia Federico: isolamento e critiche alla Rocco Siffredi Academy

La controversia di Maria Sofia Federico: isolamento e critiche alla Rocco Siffredi Academy

Clamoroso episodio nel mondo dell’intrattenimento e del sociale con la controversia che ha coinvolto Maria Sofia Federico, una giovane influencer e creator di OnlyFans di cui abbiamo già avuto modo di parlare. La Federico è stata al centro di una polemica dopo essere stata isolata durante la sua partecipazione alla Rocco Siffredi Academy, un programma che ha attirato molta attenzione mediatica. Rocco Siffredi Academy, condotta dal noto pornostar italiano, ha guadagnato popolarità per la sua proposta unica di formazione e intrattenimento nel settore del porno.

Il motivo dell’isolamento di Maria Sofia Federico è emerso attraverso le dichiarazioni di Valentina Nappi, una collega e critica della Federico. Nappi ha affermato che Maria Sofia Federico non è riuscita a partecipare alle registrazioni del programma a causa di un accordo preesistente tra Rocco Siffredi e il padre della Federico che – noto per le posizioni conservatrici – aveva già espresso un forte disaccordo riguardo alle scelte professionali e personali della figlia, causando una controversia che ha influenzato la partecipazione al programma.

Questo caso solleva interrogativi significativi sul ruolo e sull’influenza dei genitori, specialmente in situazioni che coinvolgono minorenni e la loro carriera professionale. Sebbene Maria Sofia Federico sia stata coinvolta in un contesto pubblicamente discusso e le sue scelte siano state sotto i riflettori, il ruolo del padre rimane un aspetto centrale. In Italia, come in molte altre giurisdizioni, i genitori hanno un’influenza importante sul futuro professionale dei loro figli minorenni, ma la questione si complica quando i giovani cercano di seguire carriere non convenzionali o controverse.

La domanda che emerge è se un padre, in quanto figura autoritaria e protettiva, possa legittimamente influenzare la partecipazione di un figlio a progetti mediatici o professionali, soprattutto quando la figlia è minorenne. Questo solleva questioni legali ed etiche riguardo alla libertà individuale e al diritto di autodeterminazione, rispetto ai diritti e alle preoccupazioni dei genitori.

L’episodio ha portato a un acceso dibattito pubblico, con molti che sostengono che, sebbene il ruolo dei genitori sia cruciale, il diritto del giovane di scegliere la propria strada dovrebbe essere rispettato, specialmente quando si tratta di carriere e scelte personali. Altri, invece, ritengono che le preoccupazioni dei genitori debbano essere considerate, specialmente in contesti che possono avere un impatto significativo sulla reputazione e sul futuro del minore.

La controversia di Maria Sofia Federico alla Rocco Siffredi Academy, quindi, non solo evidenzia le tensioni tra aspirazioni personali e aspettative familiari, ma anche le complesse dinamiche di un settore che continua a sfidare norme e convenzioni sociali.