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Vito Loiacono e il ritorno sui social: etica e giudizio pubblico dopo un evento tragico

Vito Loiacono e il ritorno sui social: etica e giudizio pubblico dopo un evento tragico

Vito Loiacono, uno dei membri del gruppo YouTube “The Borderline”, è tornato sui social media circa due mesi dopo un tragico incidente che ha scosso l’Italia. Il gruppo, noto per le sfide estreme e spesso pericolose, è stato coinvolto in un incidente mortale che ha portato alla morte di un bambino. Al momento dell’incidente, i membri del gruppo erano sotto l’effetto di sostanze, e questo tragico evento ha generato un’ondata di indignazione e dolore in tutto il paese.

Il ritorno di Loiacono sui social, in cui appare con una ragazza e adotta un tono vittimistico, ha sollevato numerose domande etiche. È davvero appropriato, e soprattutto etico, tornare a esibirsi pubblicamente su piattaforme social dopo essere stati coinvolti in un evento così deplorevole? La questione diventa ancora più delicata quando si considera il modo in cui Loiacono ha scelto di gestire il suo ritorno, apparentemente cercando di suscitare simpatia e comprensione in un contesto che, per molti, richiederebbe invece silenzio, riflessione e rispetto per la vittima e la sua famiglia.

La rapidità con cui Loiacono è tornato alla vita pubblica solleva dubbi sulla sua consapevolezza e comprensione della gravità delle sue azioni. In un momento in cui ci si aspetterebbe pentimento e un comportamento discreto, il ritorno sui social con un atteggiamento che potrebbe essere percepito come una mancanza di rispetto per la gravità della situazione potrebbe essere visto come una dimostrazione di insensibilità. In un contesto come questo, la scelta di Loiacono di riapparire sui social può sembrare più orientata al mantenimento della propria notorietà che alla vera introspezione e pentimento.

D’altra parte, la questione dell’etica nei social media non riguarda solo i comportamenti di chi è al centro della vicenda, ma anche le reazioni del pubblico. Dopo eventi tragici come questo, è comune vedere un’ondata di rabbia e insulti diretti verso i “carnefici” da parte degli utenti. Ma quanto è legittimo che queste persone vengano insultate e demonizzate a vita? Il desiderio di punizione e di giustizia può essere comprensibile, soprattutto quando è coinvolta la vita di un bambino innocente, ma l’incitamento all’odio e alla violenza verbale può portare a una spirale di negatività che non aiuta né le vittime né la società nel suo complesso.

La questione etica qui è duplice: da un lato, il comportamento di chi ha causato il danno, e dall’altro, la reazione collettiva a questo comportamento. Mentre è giusto che la società esiga responsabilità e giustizia, è altrettanto importante che le reazioni rimangano all’interno di un quadro di civiltà e rispetto. L’odio perpetuato sui social media, per quanto possa sembrare giustificato, non porta mai a una vera risoluzione o guarigione.

In conclusione, il ritorno di Vito Loiacono sui social media a seguito di un evento così tragico solleva questioni importanti riguardo all’etica del comportamento online. È davvero opportuno cercare di tornare alla ribalta in queste circostanze, e a quale costo? Allo stesso tempo, la risposta pubblica a tale comportamento deve essere ponderata, equilibrando la giusta indignazione con il rifiuto di perpetuare ulteriormente la violenza e l’odio. La vicenda di Loiacono ci ricorda che i social media, pur essendo un potente strumento di comunicazione, richiedono un uso responsabile e consapevole, soprattutto quando la posta in gioco è così alta.




INFLUENCER: la reputazione e la visibilità si costruiscono (solo) a colpi di like?

INFLUENCER: l’autenticità uccisa a colpi di like

Nell’epoca dei Social, il culto dell’immagine e della popolarità ha generato schiere di personaggi pubblici disposti a tutto pur di ottenere like, condivisioni, visibilità e “soldi facili”. Youtuber, Stremear o Content creator, tutte figure collocabili dentro il grande e variegato mondo degli influencer, che spesso tradiscono ipocritamente la loro identità in cambio di successo temporaneo e fugace notorietà: “sono quello che tu desideri, purché tu mi segua e faccia hype su di me”, paiono dire questi personaggi. Un esasperato desiderio di restare costantemente sotto i riflettori, che ha generato il declino della loro autenticità: sorridenti, felici, sexy e perfetti, e (seppur raramente) impegnati in battaglie legate al mondo sociale o della politica, nascondono un realtà soffocata dalla pressione di sembrare ciò che il pubblico pagante richiede. In non poche occasioni, questa strategia si è rivelata assolutamente controproducente: la mancanza di genuinità li trasforma in maschere vuote, incapaci di costruire solidi legami attraverso i quali connettersi con il proprio pubblico in modo realmente significativo.

Non è difficile incontrare sui vari social influencer che propongono sponsorizzazioni su come ottenere guadagni facili a Dubai con improponibili e inverosimili sistemi finanziari, o mental coach che spiegano quanto studiare a scuola o all’università sia ormai del tutto inutile, poiché sarebbe sufficiente seguire i loro consigli per conoscere le mosse giuste con le quali costruirsi un futuro radioso e prospero; personaggi pubblici focalizzati esclusivamente su se stessi e sul raggiungimento del successo personale, che trasmettono un pericoloso messaggio di individualismo esasperato al quale si ispira anche chi li segue, consolidando la ricerca ossessiva di un’approvazione virtuale in una società narcisistica orientata solo all’autocelebrazione, in cui il senso di comunità e solidarietà sono ridotti solo a spettacolo e apparenza.

Tuttavia, oggi gli influencer non sono solo playmaker in grado di muovere e condizionare i bisogni degli utenti, all’interno di un mercato dominato da brand che sfruttano sempre di più – e spregiudicatamente – i volti di questi personaggi per vendere prodotti e alimentare un consumismo spasmodico: restano anche veri e propri punti di riferimento a cui, specialmente le nuove generazioni, si rivolgono per costruire opinioni e pianificare ambizioni, e questo dovrebbe (in teoria) investirli di una ulteriore responsabilità. Disattesa, nella maggior parte dei casi.

Al netto di queste riflessioni, quanto è complesso diventare – ma soprattutto restare – influencer? Celebrità, al netto dell’assonanza, non è necessariamente sinonimo di capacità, e innumerevoli epic fail sono li a dimostrarlo: il crisis managament – che permette di prevedere, anticipare e gestire efficacemente scenari di crisi reputazionale – resta purtroppo una scienza sociale pressoché sconosciuta, sia ai singoli influencer che – purtroppo – alle agenzie che le gestiscono.

Non in ordine cronologico né per importanza e impatto, è certamente utile esaminare qualche caso di studio.

IMEN JANE: influcencer brillante e talentuosa… o ipocrita e classista?  

Imen Jane è una giovane influencer di origine marocchina, con una consolidata presenza sui Social, in particolare su Instagram. Ha guadagnato popolarità per la sua capacità di spiegare argomenti economici e politici in modo accessibile attraverso brevi video. Grazie al suo talento comunicativo, ha raggiunto un vasto pubblico, guadagnandosi una reputazione di divulgatrice esperta.

Jane è co-fondatrice di “Will Ita”, una startup di giornalismo online di successo, che ha catalizzato importanti investimenti ed è stata elogiata per la propria capacità di fare innovazione nel proprio settore. La reputazione di Imen ha subito un duro colpo quando è emerso un dettaglio sconcertante riguardo alla sua formazione accademica: aveva dichiarato di essersi laureata in Economia e amministrazione d’impresa presso l’Università Bocconi, ma il sito “Dagospia” ha rivelato che in realtà non aveva mai completato gli studi universitari. Questa scoperta ha suscitato sconcerto e forte delusione tra i suoi follower e il pubblico, poiché le sue false dichiarazioni mettevano in dubbio, in senso più generale, la sua credibilità e autenticità.

Dopo lo shit-storm generato dall’accusa di aver mentito, Imen ha ammesso di non aver mai completato gli studi, spiegando quali sarebbero stati gli impegni personali e lavorativi che glielo avrebbero impedito. Molte persone hanno trovato le sue scuse poco sincere e fuori contesto: nessuno l’aveva accusata di essere incapace per non aver conseguito una laurea, ma piuttosto ciò che era in discussione era la mancata coerenza per le bugie raccontate relativamente alla sua formazione.

Come se non bastasse, la situazione si è ulteriormente complicata quando durante un viaggio a Palermo, Imen e una sua amica, Francesca Mapelli, sono state coinvolte in un altro epic fail. Impegnate in un evento ambientalista, hanno assunto un comportamento arrogante e sprezzante nei confronti delle persone locali, dimostrando atteggiamenti snob e lievemente sprezzanti nei confronti dei residenti e dell’ambiente circostante.

In particolare, Francesca Mapelli ha raccontato di aver avuto un’interazione negativa con una commessa di un negozio di Palermo, e Imen ha commentato sarcasticamente sul fatto che la commessa avrebbe potuto “guadagnare di più facendo la guida turistica”, ironizzando sui bassi stipendi pagati dalle imprese in meridione d’Italia e sugli spazi di miglioramento che – a suo dire – avrebbe l’accoglienza in quella regione. Dichiarazioni di natura classista, con una buona dose di arroganza e umorismo di cattivo gusto, che hanno giustamente scatenato indignazione tra il pubblico.

Imen ha cercato di scusarsi pubblicamente attraverso dei video, ma le sue giustificazioni sono state accolte con freddezza e molto scetticismo. Molte persone hanno trovato il suo comportamento, a posteriori, poco convincente, ritenendo che avesse mancato di sincerità e di autenticità: i dislike da parte di una fetta dei suoi follower sono stati estremamente significativi.

DEMICHELIS: l’avvocata influencer che vorrebbe “i poveri bruciati all’inferno”

L’avvocata e “influencer” Alessandra Demichelis, nota per l’esibizione sui Social di uno stile di vita improntato al lusso più sfrenato, Insieme a un’altra avvocata, Federica Cau, ha aperto un profilo Instagram chiamato “DC Legal Show”, in cui combinano consigli legali con immagini glamour e a tratti “sopra le righe”. Dopo aver ricevuto vibranti segnalazioni da parte di colleghi all’Ordine degli avvocati, le due colleghe sono prima state licenziate dal loro studio legale e, di recente, la Demichelis anche sospesa dall’Ordine.

Demichelis è stata anche invitata a una trasmissione televisiva per spiegare e difendere il suo approccio sui Social, che da un lato ha contribuito a aumentare la sua popolarità e il numero di follower, dall’altro l’ha esposta ad attacchi e critiche.

Un video condiviso con un amico imprenditore, Franco Morando, ha però poi scatenato un vero e proprio scandalo: nella breve clip i due hanno espresso opinioni denigratorie nei confronti delle persone meno abbienti, in relazione a un graffio o danno che sarebbe stato arrecato alla Porche dell’imprenditore, affermando, niente meno, che i “poveri dovrebbero bruciare all’inferno”.

L’indignazione del pubblico – inclusi molti ristoratori e imprenditori colleghi di Morando – non si è fatta attendere, con alcuni di essi che hanno anche dichiarato di voler boicottare i prodotti della sua casa vinicola. Le scuse superficiali non hanno placato la rabbia: Demichelis ha cercato di giustificarsi dicendo che si riferiva ai “poveri di spirito” (!) ma le sue spiegazioni sono state considerate non genuine e assolutamente poco convincenti. Invece di affermare di sentirsi dispiaciuta e di essere consapevole di aver offeso la sensibilità altrui, ha invece puntato il dito contro chi si è permesso di accendere la polemica: “Voi che cosa avreste detto alle 2 di notte, presi dalla rabbia per un graffio alla macchina? È una reazione normale!”.

L’ennesima dimostrazione di quanto la visibilità sia relativamente facile da ottenere ma assai difficile da mantenere, in un ambiente complesso come quello che viviamo: la gestione della reputazione è un abilità che richiede spiccate competenze tecniche, e che gli influencer – sportivi, politici o persone dello spettacolo – danno troppo spesso per scontato, in modo assai dilettantesco.

STARDUST: lo scandalo che travolse una ragazza, con una shitstorm di insulti sessisti

Le “Collab-house” di TikTok Italia – grandi case prese in affitto da gruppi di tiktoker che decidono di convivere per stimolare la creatività e l’idea di community – hanno creato un ambiente stimolante per influencer provenienti da diversi settori. Nel 2022 una di queste realtà, la celebre Stardust House, realtà di punta di questo genere in Italia, è stata coinvolta in uno scandalo che ha scosso la comunità di TikTok.

Samara Tramontana e Lady Giorgia, membri della “casa”, sono state protagoniste di un furibondo litigio: Giorgia ha accusato Samara di avere una relazione con il suo ex-fidanzato e con altri sette coinquilini, pubblicando delle storie in cui raccontava questi episodi (utilizzando lo pseudonimo “Sara” per non far capire di chi si stesse parlando). Dopo qualche tempo la community di TikTok ha scoperto che la ragazza a cui si faceva riferimento era Samara e questa rivelazione ha scatenato una reazione a catena, con hashtag contro e a favore di “Sara” e un notevole hype, purtroppo molto aggressivo e negativo.

Il caso ha ha sollevato dibattiti sulla privacy, sul giudizio online e sul cyberbullismo: Samara è stata infatti coinvolta in una shitstorm di insulti e forti critiche, tanto da spingerla a lasciare, perlomeno temporaneamente, la Stardust House. È assurdo pensare che vi possano essere polemiche legate al numero di persone con cui una ragazza maggiorenne decide di avere liberamente rapporti sessuali reciprocamente consenzienti, ed è ancora più doloroso e preoccupante se pensiamo a quanto questa linea di pensiero sia ancora molto diffusa.

Il futuro delle “collab-house” italiane potrebbe essere influenzato da questa vicenda, in quanto Stardust house non si è dimostrata adeguata nel gestire questa delicata situazione e lo scenario di crisi in cui venivano coinvolte le protagoniste della casa: nessuna dichiarazione in merito a ciò che stava accadendo nei primi giorni della crisi reputazionale (che ha investito non solo la influencer ma anche l’agenzia, sempre citata nei post pubblicati sulla vicenda), quasi come se far finta di nulla potesse essere il giusto atteggiamento per calmare le acque e risolvere la situazione. E non è una dinamica legata solo a questo episodio: molto spesso le agenzie di management che “guidano” i comportamenti e le decisioni degli influencer non sono minimamente preparate su come gestire gli scandali e gli scenari di crisi. È importante iniziare a riflettere sul fatto che le modalità di gestione delle crisi reputazionali, che scoppiano sempre più frequentemente e repentinamente sul web, possono fare la differenza per tutte le persone coinvolte, allo scopo di mettere sotto controllo la furia di messaggi estremamente critici e negativi, come quelli pubblicati nel caso “Sara-gate”.

ICONIZE: trash e bugie fanno perdere credibilità

Tutto inventato per fare hype: Iconize, al secolo Marco Ferrero, era stato ripreso da giornali e TV nazionali dopo aver raccontato di essere stato vittima di un aggressione omofoba. Ferrero aveva postato un video dove mostrava un occhio nero dovuto, secondo quanto riferiva, ad un pugno ricevuto per strada da un gruppo di tre ragazzi. «Aggredito perché gay»: così denunciava Ferrero sul suo canale Instagram: ma all’interno della Casa del GF qualcuno raccontò una versione differente dell’accaduto. È stata la modella Dayane Mello a contribuire a far chiarezza, raccontando a Tommaso Zorzi – altro influencer, conduttore televisivo ed ex fidanzato di Ferrero – che Iconize avrebbe detto all’amica Soleil Stasi di essersi colpito da solo e di aver inventato la storia dell’aggressione. «Le accuse che mi hanno fatto sono davvero gravi. Hanno insinuato che mi sia tirato un pugno da solo per inscenare una rissa, un attacco da parte di omofobi per avere visibilità. Io rispondo dicendo che solamente un deficiente, un decerebrato possa fare una cosa del genere (…)», fu la prima risposta online di Iconize. Decerebrato o no, le scuse (tardive) e l’ammissione di colpa poi arrivò di li a poco, dopo l’esplosione del caso nel “salotto” TV di Barbara D’Urso, che aveva ospitato l’influencer dopo la presunta aggressione omofoba: vari collegi di Iconize hanno confermato i dubbi, riferendo di messaggi privati su Whatsapp dello stesso influencer che ammetteva la “truffa”, e che sarebbe stato tutto falso, inventato, appunto, per fare hype sui Social, con la D’Urso arrabbiatissima per essere stata strumentalizzata e Iconize che cercò di cavarsela con un video auto-ironico sul web, dichiarando di essere vittima di un periodo “particolarmente buio” per se stesso. Al di la della generale approssimazione della vicenda e del sapore di trash che lascia in bocca, con battibecchi, scontri, smentite e accuse degne del mercato del pesce, ecco un’ennesima dimostrazione di quanto i Social siano un arma a doppio taglio, se maneggiati con poca cura e scarsa professionalità.

LOGAN PAUL: la spettacolarizzazione come strumento (improprio) per fare hype

Logan Paul, famoso per la sua presenza sui Social e per la creazione di contenuti spettacolari, ha visitato quella che viene definita la Foresta dei Suicidi in Giappone, insieme a un gruppo di amici. Durante la sua esplorazione ha incontrato un cadavere appeso a un albero: invece di segnalare l’accaduto alle autorità e rispettare la privacy della vittima, ha deciso di girare un video mostrando il corpo senza vita, all’evidente scopo di generare attenzione sul suo profilo.

La reazione del pubblico è stata immediata, e – purtroppo per l’influencer – furiosa. Logan Paul è stato giustamente condannato per la sua mancanza di sensibilità e rispetto verso la vittima e la sua famiglia, e molti l’hanno accusato (comprensibilmente) di essere teso solo a ottenere visualizzazioni e attenzione, sfruttando una tragedia per aumentare la propria popolarità online.

Dopo la tempesta di critiche, Logan Paul si è scusato, sostenendo di aver girato il video con l’intento di sensibilizzare sul problema del suicidio (sic). Ipotesi alquanto bizzarra, dato che è entrato nella foresta vestito da Pokemon (!): difficile pensare che la sua intenzione fosse stata quella di sensibilizzare su una tematica così delicata , complessa e profonda ridacchiando in gruppo vestiti come se fosse carnevale. Questa scusa maldestra, carente dei più elementari requisiti di autenticità, ha aumentato ulteriormente l’attenzione dei follower sul suo profilo, in chiave evidentemente critica.

La questione dei suicidi in Giappone è una problematica seria e complessa: secondo l’OMS, circa 11 persone ogni 100.000 si tolgono la vita ogni anno nel paese, con oltre 20.000 casi segnalati solo nella Foresta dei Suicidi. La tragedia richiede rispetto, comprensione e azioni mirate alla sensibilizzazione e alla prevenzione, e la fama di un Influencer non dovrebbe essere usata maldestramente per sfruttare tematiche come quella del suicidio a scopo di lucro o attenzione. Regole che appartengono ai fondamentali del reputation management, ma evidentemente ancora ignorate e oscure per molti influencer.

Perchè perdere valore (e denaro) a causa della scarsa professionalità?

Gli influencer sono una imprescindibile realtà, nel mondo del digitale, come ben illustrato nell’ultimo volume pubblicato dal Prof. Luca Poma e dal suo team, edito da Lupetti. Lungi demonizzare un’intera categoria, anzi; sono numerosi i personaggi pubblici che invece sono in grado di attivare e alimentare circoli virtuosi dal punto di vista sociale, culturale ed educativo (un esempio tra tutti, l’eccezionale profilo Instagram di Luca Venturelli, ragazzo autistico che si è dato come missione quella di sensibilizzare altri cittadini sulla sua condizione).

Tuttavia, è fondamentale avere sempre chiaro in mente che il potere decretato dalla visibilità può essere uno strumento tanto utile quanto anche un’arma con cui far del male a se stessi e alle persone che seguono l’influencer stesso. La reputazione non è qualcosa di statico: una volta acquisita, può essere rapidamente distrutta, se non coltivata e protetta costantemente. Un’influenza positiva e duratura sul pubblico può essere raggiunta solo attraverso la credibilità, la coerenza e l’autenticità, specie quando il personaggio pubblico sceglie di esprimersi su tematiche importanti per la vita e il benessere della comunità. Il grande pubblico desidera seguire persone che dimostrano competenza e che possono offrire contenuti di valore, non maschere che semplificano o annacquano gli argomenti con atteggiamenti e affermazioni ipocrite, opportunistiche, vuote, inutilmente polemiche, e che fanno del glamor un valore fine a se stesso.

È incredibile notare quanto lavoro ancora ci sia da fare per professionalizzare l’approccio dei protagonisti di un mercato miliardario come quello degli influencer, e di quanto spazio di miglioramento vi sia anche per le stesse agenzie che si occupano professionalmente di questo settore, come dimostra la recente (e comprensibile) shit-storm seguita alle rivelazioni circa l’esistenza di una chat pesantemente sessista e tossica creata all’interno dell’agenzia leader in Italia in strategie digitali, WAS – We Are Social: evidentemente, la capacità di surfare brillantemente sul web non determina, di per se, l’attitudine di saper gestire efficacemente le crisi reputazionali.

La speranza è, soprattutto, che le agenzie di management abdichino alla dinamica dilettantesca del “se mi capiterà, gestiremo…” e si pongano in ascolto di queste nuove sensibilità, decidendo di far tesoro di competenze afferenti la previsione e gestione del rischio che sono da tempo date per scontate in qualunque strategia di brand-management, ma evidentemente sono ancora colpevolmente ignorate da chi il redditizio mercato dell’influenza online lo governa realmente.




Lucky John e la diretta nella casa abbandonata: la sottile linea tra intrattenimento e legalità

Lucky John e la diretta nella casa abbandonata: la sottile linea tra intrattenimento e legalità

Il creator Lucky John ha attirato l’attenzione del pubblico con una diretta streaming alquanto controversa, trasmessa dall’interno della casa abbandonata nota come “Pericolo 81”. L’evento, inizialmente pubblicizzato come una classica esplorazione urbana, si è rapidamente trasformato in un episodio drammatico quando la polizia ha fatto irruzione nell’edificio, interrompendo la trasmissione e scatenando un acceso dibattito online.

Durante la diretta, Lucky John ha continuato a filmare anche mentre veniva scoperto dalle forze dell’ordine. Invece di interrompere la registrazione, il creator ha scelto di documentare l’intera sequenza, sostenendo che gli agenti lo stessero inseguendo e quasi aggredendo. Le sue dichiarazioni hanno immediatamente sollevato domande sulla legittimità dell’intervento della polizia e sul comportamento stesso di John.

La questione cruciale da esaminare è se l’azione della polizia sia stata giustificata. In primo luogo, va considerato che l’ingresso in proprietà abbandonate è spesso vietato per motivi di sicurezza. Questi edifici possono presentare pericoli strutturali, oltre a essere talvolta utilizzati per attività illegali o non autorizzate. In tali contesti, l’intervento delle forze dell’ordine è non solo legittimo, ma necessario per prevenire potenziali incidenti e garantire la sicurezza pubblica.

Lucky John, nel decidere di filmare all’interno della “Pericolo 81”, potrebbe aver infranto la legge entrando in un luogo dove l’accesso è vietato. Inoltre, continuare a registrare mentre veniva scoperto, e scappare, non ha fatto altro che aggravare la situazione. Se un individuo ignora gli avvertimenti della polizia e tenta di fuggire, le forze dell’ordine hanno il dovere di intervenire per fermarlo, utilizzando la forza necessaria e proporzionata alla situazione.

Dal punto di vista legale, il comportamento della polizia appare dunque giustificato. Gli agenti hanno il compito di far rispettare la legge e proteggere sia i cittadini che il patrimonio pubblico o privato. Se un creator come Lucky John decide di spingersi oltre i limiti per ottenere contenuti sensazionali, deve essere consapevole delle conseguenze legali e dei rischi che ciò comporta.

Questa vicenda solleva anche una riflessione più ampia sulla responsabilità dei creator digitali. Con la crescita esponenziale delle piattaforme di streaming e dei social media, si è affermata la tendenza a cercare contenuti estremi per attirare visualizzazioni e follower. Tuttavia, l’intrattenimento non dovrebbe mai prevalere sul rispetto delle leggi e della sicurezza. I creator hanno una responsabilità non solo verso se stessi, ma anche verso il loro pubblico, che può essere influenzato dalle loro azioni.

In conclusione, mentre Lucky John potrebbe aver guadagnato attenzione mediatica per la sua diretta ad alto tasso di adrenalina, è fondamentale che episodi come questo servano da monito. L’intrattenimento non giustifica il rischio e l’illegalità, e chi decide di sfidare le norme deve essere pronto ad affrontare le conseguenze. La vicenda di “Pericolo 81” ci ricorda che, in un’epoca in cui i confini tra realtà e spettacolo sono sempre più sfumati, il rispetto delle regole rimane un principio fondamentale, anche nel mondo digitale.




Aeroporto di Catania: “serve un piano di crisis management aggiornato”

Aeroporto di Catania: “serve un piano di crisis management aggiornato”

Ci dispiace moltissimo per quanto accaduto sia in termini di danni alla struttura che iper i disagi arrecati ai viaggiatori. Lo scalo catanese rappresenta uno degli aeroporti con maggiore traffico di passeggeri, soprattutto nel periodo estivo e purtroppo il resto delle infrastrutture dedicate alla mobilità a disposizione di noi isolani è a dir poco insufficiente e strutturalmente non adatta ad un paese civile. Noi relatori pubblici ci occupiamo, tramite strategie e piani di crisis management, di organizzare, gestire e pianificare il flusso di comunicazione in caso, per l’appunto, di crisi, verso – ha concluso la Toscano – tutti i pubblici di riferimento e stakeholders dell’organizzazione (enti, imprese, p.a.).

Spesso si crede che un manuale di safety management possa assolvere anche ai fabbisogni informativi e comunicativi che si attivano durante la crisi, ma non è così. In questo caso, i pubblici coinvolti nella gestione dei flussi di comunicazione sono davvero molti, con caratteristiche, aspettative e motivazioni del tutto diverse: ci sono i viaggiatori in arrivo e in partenza con differenti provenienze linguistiche; le compagnie aeree, il personale interno, i fornitori, i responsabili dell’emergenza, gli altri aeroporti siciliani che hanno dovuto assorbire un flusso di passeggeri non previsto, e così fino a considerare tutti i possibili interlocutori del caso. Il piano di crisis management consente di programmare, sulla base di una previsione varia e differenziata, le possibili cause di crisi e definire i protocolli di azione in termini di comunicazione interna ed esterna. Il personale e i fornitori sono formati ad intervenire secondo un preciso protocollo, prevedendo anche azioni di formazione e training (esercitazioni) che devono essere ripetute nel tempo al fine di validarne l’efficacia e verificarne la comprensione. In sintesi uno strumento utile e funzionale che consente di intervenire in modo efficace. 

“Il grande punto di debolezza di moltissimi enti pubblici e privati in Italia – ha precisato Luca Poma, professore di Reputation & Crisis management all’università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino – è soprattutto quello della preparazione alle crisi. La fase del pre-crisi, che include formazione al personale, ipotesi di scenari negativi e relative simulazioni, stress-test, e check su tutti gli strumenti indispensabili per poi gestire concretamente la crisi, viene sempre colpevolmente trascurata, in quanto il nostro, tradizionalmente, è un Paese a bassa sensibilità sotto il profilo della previsione e gestione degli scenari di crisi. Da noi vale sempre il detto “semmai mi capiterà, me ne occuperò”, ma così facendo – ha concluso il professore – si distrugge valore sia per gli azionisti che per i cittadini” .




La sufficienza di Standard Ethics a Rheinmetall. Anche in Italia?

La sufficienza di Standard Ethics a Rheinmetall. Anche in Italia?

Una ventata “sufficiente” di sostenibilità per Rheinmetall AG, grazie al rating non-finanziario assegnatole da Standard Ethics. La prima, con sede a Düsseldorf, è la produttrice tedesca di armamenti che, attraverso il proprio sito, presenta questi numeri: 27.700 dipendenti, 132 insediamenti di varia natura nel mondo, 6,4 miliardi di euro di fatturato, 138 Paesi acquirenti. Valori di massima, però, in continua oscillazione. La seconda, con sede a Londra, analizza aziende top, per assegnare loro rating che compongono l’Open Free Sustainability Index, utilizzabile come benchmark. In questo caso, la valutazione è del 6 luglio scorso, nell’ambito Corporate. Ed assegna al marchio tedesco la “EE-”, ovvero “adequate”, cioè “sufficiente”.

L’abc della Self-Regulated Sustainability Rating Agency

Come ricorda Standard Ethics, che si definisce “Self-Regulated Sustainability Rating Agency”, il suo Standard Ethics Rating (Ser) rappresenta un’opinione. Essa fotografa «la distanza tra un ente (o una emissione) e le indicazioni internazionali sulla sostenibilità». Ragione dell’internazionalismo? L’algoritmo, che è «uniformato alle indicazioni e linee guida dell’Unione Europea, dell’Ocse e delle Nazioni Unite».

La tipologia valutativa agisce su quattro gambe: “solicited”, “standard”, “independent” e “unsolicited”. Quest’ultima emessa per «mantenere o aggiornare indici o per aggiornare il ranking delle nazioni Ocse». In questa chiave, Standard Ethics interpreta il proprio approccio “ethically neutral”.

Rheinmetall AG: la mission sustainability si palesa ad aprile

Sono trascorsi quattro mesi dai primi passi della tedesca delle armi verso il look sostenibile. Infatti, il marchio fa già capolino nello Standard Ethics German Index Review – April 2023. Appare in fondo all’elenco, con l’Isin DE0007030009 (International Securities Identification Number, codice identificativo degli strumenti finanziari sui mercati e nelle transazioni, ndr). È nel limbo del rating, indicato con “pending”, cioè in attesa di essere definito. Dal 6 luglio, invece, la crisalide diventa farfalla: “adequate”, sufficiente. Resta da capire se il cliente che ha chiesto la valutazione sia la stessa Rheinmetall AG. Se ciò fosse, rientrerebbe tranquillamente nel recente dinamismo della sua dirigenza.

Accordi su accordi, colpo su colpo, da mesi e mesi

Dirigenza che viaggia sulle ali del conflitto russo-ucraino. L’ultimo fiore all’occhiello risale al 13 luglio scorso, quando Rheinmetall AG annuncia l’ennesimo accordo di cooperazione: è con Ukroboronprom State Concern, produttore strategico di armi e hardware in Ucraina, controllato direttamente dall’esecutivo di Volodymyr Zelensky. Il gruppo di Kiev, in logica unitaria, concentra aggregati aziendali e statali, vantando 67mila lavoratori.

Dopo un paio di montagne russe in Borsa, verso la fine di giugno, il marchio tedesco fila dritto alla meta. Punta ad essere tra i principali produttori di armamenti del Vecchio Continente, per ora in chiave anti-Mosca. Necessaria, quindi, un’eccellente comunicazione per garantirsi una buona reputazione.

Esportare la reputazione da Düsseldorf a Roma: con l’avallo Ue

Questo coinvolge anche l’Italia, dove il gruppo annovera la filiale RWM, base a Ghedi, in provincia di Brescia, stabilimenti in località Matt´ è ContiDomusnovas, provincia di Carbonia-Iglesias. Qui, una recentissima sentenza del Tar Sardegna (ordinanza n. 00147/2023 – 21 giugno u.s. – prima Sezione) continua a stoppare l’avvio di nuovi impianti della RWM. Nel novembre 2021, era stato il Consiglio di Stato ad impedirne l’apertura, dedicando due sentenze distinte. In sostanza – si afferma – l’ampliamento dello stabilimento è stato realizzato con modalità ritenute illegittime. Di più: si richiede anche lo smantellamento dei manufatti ed il ripristino dello stato dei luoghi esistente. Dulcis in fundo, e sullo sfondo, presso il Tribunale di Cagliari un processo penale ancora in corso, contro i dirigenti del marchio tedesco. Un bel problema di reputazione.

Intanto, con l’Act in support of ammunition production (ASAP)l’Unione europea spinge però per la produzione di munizioni e, se richiesto, anche di missili. Da parte sua, con circa 400 lavoratori, il centro di produzione italiano calza perfettamente alla bisogna. Avrebbe commesse per oltre 500 milioni di euro (bilancio 2022, ndr): dai proiettili di artiglieria di diversi calibri ai droni-killer, questi ultimi in sinergia con gruppo israeliano.

Ce n’è da fare, insomma, nonostante qualche piccolo problema burocratico e di reputazione. Meno male che c’è guerra alle porte di casa, e quella dose “sufficiente” di sostenibilità di Standard Ethics: sembra proprio una manna dal cielo, altro che bombe.