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#Metoo, la parola pubblica è un atto trasformativo della società

#Metoo, la parola pubblica è un atto trasformativo della società

In questi giorni il mondo della comunicazione è attraversato da quello che i giornalisti hanno già definito il #MeToo della pubblicità. Il riferimento è alla campagna lanciata sui social nel 2017 in sostegno alle artiste di Hollywood abusate dal regista Harvey Weinstein, come rivelato dal New York Times a ottobre di quell’anno. In soli due giorni, oltre dodici milioni di donne, in ogni parte del mondo, condivisero con lo stesso hashtag – talvolta adattato e tradotto in lingue diverse – le proprie storie di molestie e violenza spesso taciute, puntando il dito contro un sistema che limitava la libertà delle donne e giustificava la prevaricazione degli uomini. In Italia, il testimone del #MeToo venne raccolto inizialmente dalla campagna #quellavoltache, lanciata dall’attivista e autrice Giulia Blasi, che diventò anche un libro, intitolato #quellavoltache – storie di molestie, pubblicato dalla casa editrice del Manifesto e grazie al quale vennero raccolte molte testimonianze. Successivamente, 124 attrici e lavoratrici dello spettacolo firmarono un documento, dal titolo “Dissenso comune”, per contestare “un intero sistema di potere e non (solo) il potente di turno”. Spiragli di un dibattito che tuttavia, in Italia, non ha mai prodotto una vera e propria reazione, come ha ricordato in questi giorni Nadia Somma attivista presso il Centro antiviolenza Demetra: distinguo, delegittimazione delle testimonianze, paura di generalizzazioni a danni di innocenti (#notallmen) hanno impedito un’assunzione di responsabilità radicale e collettiva. Almeno, finora. Il caso di oggi nasce dalle dichiarazioni di un uomo, e questa è una novità: Massimo Guastini, pubblicitario, due volte presidente dell’Art Directors Club Italiano, che da anni conduce la sua battaglia contro le molestie sulle donne. Intervistato su Facebook da Monica Rossi (pseudonimo di un editor), risponde a 33 domande raccontando e denunciando comportamenti sessisti e discriminatori nei confronti delle donne, ma anche violenze e abusi. Pochi giorni e il caso è su tutti i media nazionali. Anche noi, all’interno della comunità FERPI, ne abbiamo parlato e abbiamo avvertito subito l’urgenza di prendere una posizione chiara e netta. In FERPI, il 55% delle socie è donna, ma soprattutto molte socie sono anche attiviste in associazioni che di violenza di genere si occupano con competenza e serietà ogni giorno. La cultura si trasmette da persona a persona, così sia io sia molte altre socie abbiamo avuto un ruolo pedagogico nei confronti della nostra comunità, ben disposta – va detto – ad assorbirlo. Non solo, tra di noi ci sono professionisti e professioniste dediti allo studio della responsabilità d’impresa, oggi declinata nelle attività ESG, che contemplano – alla voce “Diversity & Inclusion” – anche la parità di genere. Recentemente, ho partecipato alla presentazione dell’indagine “Asserzioni etiche e di sostenibilità delle aziende e false ESG” finanziata dal Parlamento Europeo, da cui sono emerse criticità sui rating delle imprese e in generale sulle asserzioni etiche aziendali. Coloro che credono profondamente nel percorso di sostenibilità dell’imprese come parte di un cammino per rendere il mondo un posto migliore, chiedono a gran voce che tale adesione sia autentica, anzi che si sanzioni il falso in bilancio sociale. Di fronte alle notizie che si rincorrevano sui giornali, anche quel mondo ha reagito, perché a fare la parte del green o pink washing non ci sta. Ed ecco come siamo arrivati, come comunità, a quella posizione cui seguiranno una serie di azioni che saranno proposte al prossimo direttivo.

Intanto, qualche considerazione che spero sia utile al dibattitto di questi giorni. La violenza di genere accomuna tutte le donne del mondo, è persistente non soltanto rispetto alle epoche storiche, ma anche rispetto a culture e a geografie diverse; ed è, come sancito dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1993, “una manifestazione delle relazioni di potere storicamente disuguali tra uomini e donne”. Si tratta di un concetto ribadito anche dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, detta anche Convenzione di Istanbul (2011). Sebbene sia corretto e doveroso distinguere tra molestie e violenza sessuale, è importante riconoscerne la radice culturale comune e adoperarsi insieme, uomini e donne, per cambiarla. Come ricorda la giudice Paola Di Nicola, nel suo bellissimo libro “La mia parola contro la sua”, nessuna donna si sognerebbe di mettere la mano sul ginocchio di un uomo durante una riunione. Chiediamoci perché.

Seconda considerazione, che è soprattutto un dato. Le donne non denunciano le molestie, tantomeno le violenze. Non solo, non ne parlano nemmeno all’interno della loro cerchia di amicizie. Secoli e secoli di storia, ci hanno insegnato che in fondo, se succede, la colpa è anche un po’ la nostra e alla violenza si accompagna la solitudine. A ciò si aggiunge che quando una donna denuncia una violenza, spesso viene archiviata e l’autore assolto. Qui andrebbe aperto un capitolo a parte, e non ne abbiamo il tempo, ma ha ancora a che fare con la cultura in cui siamo cresciuti tutti e tutte. Ben vengano quindi survey di clima, whistleblowing e codici etici, nella piena consapevolezza che ad essi vanno affiancati percorsi di conoscenza del fenomeno della violenza, possibilmente erogati da chi se ne occupa ogni giorno.

Da ultimo, come ci ricorda la Di Nicola, sono stati pochissimi i nomi degli aggressori rivelati durante e dopo il primo #MeToo, perché il punto non era quello di accusare il singolo, ma un sistema di potere disuguale che sta dalla parte di chi fa del male, di chi copre, di chi rende tutto questo la norma. La presa di parola pubblica, conclude Di Nicola, apre a una fase nuova che non deve essere vissuta come contrapposizione, ma come trasformazione della cultura e dei comportamenti, anche quelli dei nostri figli e delle nostre figlie. 

Come FERPI daremo il nostro contributo, insieme a tutti coloro che vorranno affrontare la questione in maniera profonda e radicale.




Media relations: nella relazione coi giornalisti non dimentichiamo il corretto uso di tecniche e strumenti operativi

Media relations: nella relazione coi giornalisti non dimentichiamo il corretto uso di tecniche e strumenti operativi

Se è vero che le media relations nascono dal giornalismo – The Publicity Bureau, la prima società specializzata in relazioni pubbliche fondata a Boston nel 1900, era composta interamente da ex giornalisti – e, ancora oggi, ad occuparsene sono spesso giornalisti (pubblicisti o professionisti), questi sono “mestieri diversi per finalità, valori, abilità e competenze richieste” e, tuttavia, tra essi “esiste un rapporto che, per quanto difficile, è di stretta interdipendenza” (Toni Muzi Falconi).

Da un lato, infatti, divergono le loro finalità – la soddisfazione dell’interesse del lettore per il giornalista e il raggiungimento degli obiettivi dell’organizzazione per il professionista di media relations – dall’altro sono profondamente interrelati, poiché le media relations sono tra le fonti principali dell’informazione giornalistica. La relazione con i giornalisti, quindi, è una relazione complessa – che si situa nel punto di incontro tra potere economico (l’azienda), potere mediatico (l’editore) e potere politico (che, spesso, è in relazione con i primi due) – ed è assolutamente necessario fondarla sulla fiducia reciproca.

Quanto contano, però, le abilità tecniche – le skill operative dei professionisti – per rendere sempre più proficuo questo rapporto tra operatori della comunicazione? Quanto sono efficaci gli strumenti operativi a supporto di questa relazione tradizionalmente “dialettica”?

Dai primi dati emersi dalla ricerca “Giornalisti e uffici stampa: una relazione complicata” – effettuata da Eco della Stampa e Mediaddress su un campione di circa 400 giornalisti italiani che operano in testate sia tradizionali che online – il comunicato stampa rimane uno strumento fondamentale per i professionisti dell’informazione: l’89,6% dei giornalisti, infatti, utilizza abitualmente i comunicati come fonte per scrivere un articolo e l’82,2% li considera “attendibili”. Questo nonostante il giudizio sulla completezza e sulla qualità dei contenuti non sia troppo lusinghiero (il 33,9% pensa che siano “poco” esaustivi, a fronte di un 58,2% che li ritiene “abbastanza” – e solo un 6,3% “molto” – esaustivi), soprattutto perché spesso sono privi dei tradizionali materiali a corredo (fotografie, contatti diretti dell’ufficio stampa, testi di approfondimento e link alla press room online sono quelli più richiesti dai media).

Il volume dei comunicati che arrivano in redazione, però, è decisamente elevato e poco gestibile: più del 90% dei giornalisti, infatti, riceve – ogni giorno – oltre 10 comunicati stampa e oltre il 40% più di 50, mentre alcuni giornalisti ricevono addirittura più di 300 email al giorno (verosimilmente i capiredattori, soprattutto della cronaca territoriale, più esposti alle segnalazioni di eventi e manifestazioni di ogni tipo). Una volta letti, però, la maggioranza dei giornalisti scopre che questi comunicati non sono di loro interesse (l’83%) o che – pur essendo pertinenti – non risultano utili al loro lavoro (il 52%). La ragione? I comunicati vengono spesso inviati dai professionisti senza un’accurata segmentazione dei destinatari o a media list vecchie che non tengono conto dell’alto turnover nelle redazioni. Il risultato è che 4 comunicati su 5, purtroppo, finiscono nel cestino dopo una rapida lettura (anche del solo titolo).

Tra i canali che i giornalisti prediligono per essere contattati l’email rimane lo strumento principe (scelto da più del 95% degli intervistati), mentre il telefono – pur ritenuto necessario – è poco amato, così come i social network (Whatsapp compreso), che non vengono considerati un mezzo di contatto utile per ricevere i comunicati stampa (al netto, ovviamente, della tipologia di relazione personale che si ha col giornalista).

Piuttosto sorprendente, infine, il dato sulle conferenze stampa: i giornalisti, infatti, dichiarano di frequentarle ancora “regolarmente” (il 90% degli intervistati, metà dei quali lo fa addirittura “spesso”) e oltre 3 su 4 le ritengono utili occasioni di incontro e networking. Un fenomeno che si spiega tenendo presente che oggi molte press conference sono in streaming e possono, quindi, essere seguite in remoto e che, probabilmente, nella fase post-Covid molti giornalisti hanno scelto di ritornare a coltivare le relazioni “in presenza”.

Quali sono i suggerimenti che – come professionisti delle relazioni pubbliche – possiamo, quindi, ricavare da questa fotografia? Gli ampi margini di miglioramento che lo studio evidenzia nei “fondamentali” della professione – maggiore qualità nella redazione del testo dei comunicati stampa, presenza di recapiti e allegati e, soprattutto, accurata segmentazione dei destinatari nella fase di disseminazione – lasciano intravvedere la necessità di offrire percorsi formativi di carattere operativo (con spazi dedicati anche all’utilizzo di database digitali come Mediaddress o Medias), alle nuove generazioni ma non solo. Inoltre, si devono incrementare gli investimenti nelle nuove tecnologie a supporto della professione, sfruttando anche le potenzialità dell’intelligenza artificiale: circa il 75% dei giornalisti intervistati, ad esempio, dichiara di essere interessato a uno strumento che permetta di aggregare tutti i comunicati stampa e di poterli organizzare secondo i propri interessi, evitando così il rischio di perdersi le notizie. Un “aggregatore” che dovrebbe contenere anche un calendario delle conferenze stampa, i press kit aziendali e un database dei contatti dei responsabili media relations di aziende, enti e istituzioni.

Insomma, senza dimenticare l’approccio strategico della professione e il valore fondamentale delle relazioni, forse è opportuno ritornare a presidiare con maggiore attenzione anche le tecniche e gli strumenti operativi che le supportano. Il tutto, possibilmente, sempre in dialogo con i diretti interessati: i giornalisti.




Perché sarebbe meglio spendere soldi in esperienze e non in beni materiali

Perché sarebbe meglio spendere soldi in esperienze e non in beni materiali

Il paradosso del possesso dei beni

Uno studio condotto per 20 anni dal Dr. Thomas Gilovich, professore di psicologia alla Cornell University, ha raggiunto una conclusione certa: non spendere soldi per le cose. Il problema con le cose è che la felicità che forniscono sfuma rapidamente. Ci sono tre ragioni per questo:

  • Ci abituiamo ai nuovi oggetti che possediamo. Ciò che prima sembrava nuovo ed eccitante diventa ben presto la normalità.
  • Continuiamo ad alzare l’asticella. I nuovi acquisti portano a nuove aspettative. Non appena ci abituiamo al nuovo, cerchiamo qualcosa di meglio.
  • I Joneses stanno sempre nelle vicinanze. Il possesso, per natura, favorisce i confronti. Compriamo una nuova auto e ne siamo entusiasti fino a quando un amico ne acquista una migliore e c’è sempre qualcuno che ne ha una migliore.

“Uno dei nemici della felicità è l’adattamento”, ha detto Gilovich. “Compriamo cose per renderci felici e ci riusciamo. Ma solo per un po’. All’inizio le cose nuove sono eccitanti, ma poi ci adattiamo a loro”.

Il paradosso dei beni materiali è che supponiamo che la felicità ottenuta dall’acquisto di qualcosa duri quanto la cosa stessa. Sembra intuitivo che investire in qualcosa che possiamo vedere, ascoltare e toccare su base permanente fornisca il miglior valore. Ma è sbagliato.

Il potere delle esperienze

Gilovich e altri ricercatori hanno scoperto che le esperienze – per quanto fugaci possano essere – offrono felicità più duratura delle cose materiali. Ecco perché:

Le esperienze diventano parte della nostra identità. Non siamo i nostri beni, ma siamo l’accumulo di tutto ciò che abbiamo visto, delle cose che abbiamo fatto e dei posti in cui siamo stati. Comprare un Apple Watch non cambierà chi sei; prendersi una pausa dal lavoro per percorrere l’Appalachian Trail dall’inizio alla fine quasi sicuramente lo farà.

“Le nostre esperienze sono una parte più grande di noi stessi rispetto ai nostri beni materiali”, ha detto Gilovich. “Puoi davvero apprezzare le tue cose materiali, puoi persino pensare che parte della tua identità sia connessa a quelle cose, ma rimangono comunque separate da te, al contrario, le tue esperienze sono davvero parte di te. Siamo la somma totale delle nostre esperienze”.

I confronti contano poco. Non paragoniamo le esperienze nello stesso modo in cui confrontiamo le cose. In uno studio di Harvard, quando veniva chiesto alle persone se preferivano avere uno stipendio alto ma inferiore a quello dei loro coetanei o uno stipendio basso ma superiore a quello dei coetanei, le risposte erano incerte. Ma quando è stata fatta la stessa domanda sulla durata di una vacanza, la maggior parte delle persone ha scelto una vacanza più lunga, anche se era più breve di quella dei loro coetanei. È difficile quantificare il valore relativo di due esperienze, il che le rende molto più piacevoli.

L’attesa conta. Gilovich ha anche studiato l’attesa e ha scoperto che in una esperienza provoca eccitazione e divertimento, mentre l’attesa di ottenere un possesso di un bene provoca impazienza. Le esperienze sono piacevoli dai primi momenti della pianificazione, fino ai ricordi che amerai per sempre.

Le esperienze sono fugaci (che è una buona cosa). Hai mai comprato qualcosa che non era poi così bello come pensavi sarebbe stato? Una volta acquistato, è proprio lì a ricordarti la tua delusione. E anche se un acquisto soddisfa le tue aspettative, il rimorso del compratore può essere questo: “Certo, è bello, ma probabilmente non ne valeva la pena”. Non lo facciamo invece con le esperienze. Il fatto stesso che durino solo per poco tempo fa parte di ciò che ce le fa apprezzare così tanto, e quel valore tende ad aumentare col passare del tempo.

Mettere tutto insieme

Gilovich e i suoi colleghi non sono gli unici a credere che le esperienze ci rendano più felici delle cose. Anche Elizabeth Dunn dell’Università della British Columbia ha studiato l’argomento e fa ricadere la felicità temporanea ottenuta acquistando cose in quello che lei chiama “pozzanghere di piacere”. In altre parole, quel tipo di felicità svanisce rapidamente e ci lascia con la “voglia di avere di più”. Le cose possono durare più a lungo delle esperienze, ma i ricordi che persistono sono ciò che importa di più.




Cristina Seymandi si affida al reputation manager Luca Poma. «Così tutelo la mia immagine»

Cristina Seymandi si affida al reputation manager Luca Poma. «Così tutelo la mia immagine»

«Ci vogliono 20 anni per costruire una reputazione, ma bastano 5 minuti per distruggerla». L’adagio «dell’Oracolo di Omaha», il finanziere miliardario Warren Buffet, comincia a fare scuola nella Torino dei salotti buoni, un tempo adusi solo al chiacchiericcio e oggi alle prese con le bordate degli tsunami mediatici. Così corre al riparo anche Cristina Seymandi, finita suo malgrado nell’occhio del ciclone per il video in cui l’ex compagno Massimo Segre manda all’aria il matrimonio e la accusa di vari tradimenti, ingaggiando nella sua squadra, oltre a un avvocato, il noto penalista Claudio Strata, un esperto di reputazione. 

Nel team che affianca la 47enne imprenditrice torinese è arrivato anche Luca Poma, professore di Reputation Management alla Lumsa di Roma. Poma è uno specialista in corporate social responsibility, digital strategy e crisis communication, ha pubblicato 11 libri ed oltre 150 tra saggi ed articoli, è stato consulente alla Farnesina dell’ex ministro degli Esteri Giulio Terzi
Nel 2016 è stato il primo in Italia a occupare una cattedra universitaria in management della Reputazione. 

Se Claudio Strata si occuperà della tutela legale di Cristina Seymandi, Luca Poma avrà il compito di tutelarne l’immagine. Nell’era digitale, quella in cui tutti dobbiamo convivere da una decina d’anni a questa parte, dalla diffusione dei dispositivi mobili in poi, la reputazione non rappresenta solo il buon nome di qualcuno, ma tende a sovrapporsi all’idea di persona. Da qui il valore sociale che si trasforma anche in valore economico. Tanto più sei si tratta di manager, imprenditori a capo di un’azienda. Come nel caso di Seymandi che da novembre è ceo di Savio. La web reputation è ormai un asset aziendale e vale un giro d’affari, secondo Digitalia 21, di circa 10 miliardi l’anno. Nel suo libro Il reputation management spiegato semplice, Luca Poma firma un decalogo su come risolvere le crisi aziendali, appunto, partendo, dalla reputazione. Al primo posto figura la qualità del prodotto, al secondo l’autenticità, a seguire l’ascolto, la mappatura, saper prevedere scenari. E soprattutto sapere chiedere scusa.




Luca Poma, chi è il reputation manager di Cristina Seymandi: vita privata, carriera, libri

Luca Poma, chi è il reputation manager di Cristina Seymandi: vita privata, carriera, libri

Chi è Luca Poma, reputation manager di Cristina Seymandi. Giornalista, autore e professore universitario, ha preso in mano il caso dell’imprenditrice dopo la gogna pubblica per la rottura pubblica con il fidanzato Massimo Segre.

Il nome di Cristina Seymandi ha fatto il giro del web nell’estate del 2023 dopo la rottura pubblica con Massimo Segre, che l’ha accusata pubblicamente di averlo tradito alla festa prematrimoniale dell’ormai ex coppia. Per far fronte alla gogna mediatica e ai gravi danni alla sua immagine, l’imprenditrice si è affidata ad un team di esperti, guidato dal reputation manager Luca Poma. Professore di Management di Reputazione all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, Poma è una delle principali autorità del settore. Ha scritto undici libri e oltre cento articoli sull’argomento, evidenziando l’importanza della comunicazione strategica nella società odierna. Nel corso della sua carriera ha lavorato anche alla Farnesina, come consulente dell’ex Ministro degli Esteri Giulio Terzi. Ha inoltre lavorato a progetti di comunicazione e relazioni pubbliche ed istituzionali in ben 23 paesi in tutto il mondo.

L’importanza della reputazione: “Identità ed autenticità più che apparenza”

Poma ha concesso diverse interviste in cui spiega nel dettaglio l’importanza dei suoi studi e del suo lavoro. “La reputazione è la licenza di operare e di compiere una nostra mission all’interno di una comunità.” -spiega il manager al Corriere della Sera– “Se viene danneggiata per un motivo o per un altro si rischia di perdere questa licenza. Non è cambiato il modo di percepire la reputazione, ma è tutto più veloce e bruciante. E questo non è un bene. Chiaramente è un fenomeno che va governato”.

Uno dei suoi lavori più noti è Il reputation management spiegato semplice, volume in cui Poma e la sua collega Giorgia Grandoni spiegano come risolvere crisi aziendali partendo proprio dalla reputazione di un’impresa. Intervistato da GreenRetail.news, ha spiegato: “L’impegno mio e del mio team di ricerca è, da decenni, quello di far comprendere l’importanza, per la costruzione di valore, dell’identità e dell’autenticità, più che dell’effimera apparenza. In un’epoca come la nostra, caratterizzata da un sovraccarico d’informazioni, connessioni e relazioni, la necessità di sentirsi accettati, rispettati e riconosciuti, in un’unica parola, la reputazione, è considerata un bisogno fondamentale da soddisfare. Ecco perché oggi le imprese sono chiamate a nuove responsabilità, in cui si può e si deve lavorare per definire il perimetro reputazionale di un’organizzazione, che sia azienda, ministero, ONG o anche un singolo opinion-maker”.