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Avvocati, è ora di aggiornare il legal marketing

Avvocati, è ora di aggiornare il legal marketing


Il movimento ESG nasce anche con l’ossessione di essere trasparente sui risultati attesi e quelli effettivamente conseguiti; e il vero impatto è provocato da azioni concrete e pratiche, possibilmente misurabili. Solo in questo modo, tutte le entità produttive che si fregiano di includere i valori ESG nei loro processi possono evitare il “greenwashing”, quella cattiva pratica di raccontare quello che…non si fa realmente.
Detto questo, però, non ci diffonderemo tanto sul tema di come gli studi legali possano impostare un piano strategico di sviluppo e di comunicazione delle proprie practice nei temi ESG; né sulla comunicazione della propria strategia ESG, anche in funzione di posizionamento sul mercato (potete leggere
 Avvocati di ”buon” impatto, l’ESG dello studio legale).
Ci occuperemo piuttosto di come è possibile conciliare la propria comunicazione, finalizzata anche alla visibilità in funzione di business developement, utilizzando tutti i canali social e  sti loro strumenti, con una motivazione più profonda, che non risiede nel proprio “ego” ma nel contributo alla sana divulgazione del diritto e della rule of law.
Parto da una ipotesi: la “buona” comunicazione degli avvocati può ascriversi ai pilastri “S” e “G” dell’acronimo ESG (che, ricordiamo, sta per Enviromental- Social- Governance).
Impostare piani editoriali parlando di diritto invece che (solo) di sé stessi, provoca un salto di qualità anche al legal marketing, traslandolo sul campo degli interessi collettivi, distraendolo dal conseguimento del solo profitto e lavorando su una reputazione più solida e duratura. Permette, infine, al legal marketing di uscire dalla secche di una cattiva reputazione, perché lo trasla nel più ampio movimento del “nuovo” marketing, ossia del “brand activism”.
Cerco di spiegare perché e come fare.
Buona lettura!


È arrivata l’ora di aggiornare il legal marketing e la comunicazione dello studio legale.

Le nuove sfide sono il legal brand activism, la comunicazione socialmente responsabile e il legal design!

Avete mai pensato che l’avvocato può essere “socialmente responsabile” anche adottando una “buona” comunicazione social del diritto? Basta aggiornare i parametri della propria visibilità: meno autoreferenziale e più utile socialmente.

I tempi sono ormai maturi e alcuni fattori convergono.

Nel 2019 la Commissione del Consiglio d’Europa per l’efficienza della Giustizia, il Cepej, ha approvato una comunicazione

Guide on communication with the media and the public  for courts and prosecution authorities”.

Nel dare alcune linee guida pratiche, il Cepej spiegava perché fosse utile sdoganare una comunicazione esterna della Giustizia.

In un mondo totalmente comunicativo, (“a world of communication) la giustizia non può, come era nel passato, limitarsi più a lungo in una torre d’avorio, emettere giudizi senza tener conto di come questi saranno ricevuti e compresi, e guardare l’attenzione popolare e mediatica con distacco e diffidenza”; senza contare che “la tendenza alla comunicazione è anche legata alla crescente necessità di trasparenza per tutte le attività statali. La trasparenza è vitale per un efficiente funzionamento del sistema giudiziario, poiché conferisce potere ai tribunali e ai pubblici ministeri con fiducia e rispetto del pubblico, e allo stesso tempo promuove un’immagine positiva. La fiducia del pubblico nella giustizia dipende anche dalla comprensione dell’attività giudiziaria. Questa comprensione è anche una condizione per l’accesso dei cittadini alla giustizia”.

In altre parole – evidenzia il Cepej – la comunicazione è necessaria anche per restituire una reputazione alla Giustizia e rinnovare il patto di fiducia tra cittadini e istituzioni.
In un altro documento, questa volta della Commissione Ue, si mette in luca la crisi attuale della “rule of law”, quella emergenza dei diritti che va ad aggiungersi alle emergenze più note, quelle climatica, sociale ed economica (2022 Rule of law report – Communication and country chapters).

In terzo luogo, il DESI – l’Indice europeo di misurazione della penetrazione del digitale nella vita degli Stati membri, ci dice che l’Italia ha tuttora un gap consistente nelle digital skills, mentre il report 2023 Future of the job del World economic forum evidenzia elementi drammatici ed esaltanti allo stesso tempo: per lavorare da qui ai prossimi cinque anni serviranno qualità quali leadership e capacità di social influence, analytic e creative thinking.

In quarto luogo, ma certamente molto rilevante per questa riflessione che vi sottopongo, lo stesso marketing tradizionale commerciale sta cambiando pelle, anche per ragioni collegate alla  rivoluzione digitale che sta modificando i grafi delle relazioni a causa della comunicazione social, e sta evolvendo verso il purpose marketing e il brand activism.

DEFINIZIONE DI BRAND ACTIVISM
ll brand activism è un modello di business nel quale il perseguimento degli obiettivi economici è correlato o subordinato all’impegno dell’impresa in cause di rilevanza sociale, politica e ambientale. In questa prospettiva, l’azienda e la marca non operano solamente come attori del mercato ma, grazie al ruolo attivo assunto in iniziative volte a favorire il bene comune, come promotori dei processi di cambiamento che le più impellenti problematiche del nostro tempo richiedono.
Il brand activism si pone quindi come naturale evoluzione dei programmi di corporate social responsibility: mentre tuttavia questi vincolano l’attività dell’azienda al rispetto di standard normativi o principi etici adottati su base volontaria che ne regolano l’impatto sociale e ambientale, ma sempre entro un’ottica di massimizzazione del profitto, nel brand activism l’intervento dell’azienda è finalizzato in primo luogo al soddisfacimento di esigenze sociali esterne alla produzione e al commercio.
Si distingue inoltre da pratiche affini quali il cause marketing, per la maggiore continuità delle iniziative a sfondo sociale e loro più profonda integrazione nella politica aziendale, e il brand purpose, in virtù di una maggiore enfasi sull’operatività rispetto alla semplice dichiarazione d’intenti.

La crescente attenzione ricevuta in ambito professionale e accademico si è tuttavia avuta con la pubblicazione del volume “Brand activism. Dal purpose all’azione” di Philip Kotler e Christian Sarkar. Gli autori distinguono peraltro tra un attivismo “progressivo”, teso a migliorare il benessere della collettività, e un attivismo “regressivo”, nel caso di aziende che tendono a nascondere o minimizzare gli effetti negativi dei propri prodotti su salute o ambiente.

Fonte: Wikipedia

Dal legal marketing al legal purpose marketing e al legal brand activism

Ecco la mia risposta: la “buona” comunicazione del diritto e delle innovazioni nel diritto sono un campo di “attivismo” social per gli avvocati, che possono così contribuire a) all’interesse collettivo a conoscere meglio il diritto, inserendo la divulgazione tra le attività della “S” di ESG; b) favorire il recupero della reputazione della professione; c) garantire una “buona” visibilità del professionista, al riparo da addebiti deontologici; e) aggiornare il proprio purpose e immettersi “nello spirito del tempo”, che richiede partecipazione e mobilitazione, sui diritti e sulle nuove tecnologie applicate al diritto.

Questo comporta, per gli avvocati che “stanno sui social” e per i manager partner delle law firm, una nuova presa di coscienza del potenziale impatto collettivo di una “buona” comunicazione; per i comunicatori significa aggiornare con decisione la propria offerta, non limitandola agli awards.

Come può allora la comunicazione dello studio legale essere socialmente sostenibile? La risposta immediata è piuttosto semplice: spostando il suo focus dall’io al noi e anche al voi.

Finora infatti il legal marketing ha indirizzato e indirizza la comunicazione dello studio legale/avvocato esclusivamente al mercato, limitando l’oggetto della comunicazione ad alcuni specifici aspetti della propria realtà produttiva. Aspetti che possiamo individuare in: servizi offerti – prezzi – nomi clienti – track record (tramite gli awards; questi ultimi, infatti, oltre agli aspetti glamour delle serate in smoking rappresentano una via indiretta di segnalazione dei fatturati).

Indubbiamente l’intento di trasparenza sul mercato della legl industry è positivo; ma ha completamente omesso la comunicazione di quella che possiamo definire la “responsabilità sociale” dell’avvocato.

In alcuni casi, in verità pochi e quasi mai di qualità, la comunicazione ha “scimmiottato” la pubblicità: claim accattivanti, immagini di impatto, messaggio emozionale. Scatenando i rilievi deontologici.

Se ci pensiamo bene, le critiche al legal marketing e le sanzioni deontologiche (per una panoramica vedi Avvocati, Comunicazione e Deontologia) sono venute per l’eccessivo appiattimento della comunicazione di marketing sulle esigenze del mercato e della promozione dei servizi.

Ma di maggior efficacia è invece la comunicazione che definisco social(mente) responsabile: quella che si occupa del “bene comune” giuridico e che si tramuta, come insegna l’esperienza pratica, in visibilità e in reputazione.

Nella versione di legal brand activism, la comunicazione si trasforma in partecipazione agita alla rule of law, ai diritti e al diritto.

Correlato al movimento ESG, il brand activism è un “modo di essere” dei brand e anche un modello di business che proietta lo studio legale in una dimensione multi stakeholder: si parla non solo ai clienti, non solo ai prospects; ma si parla (e soprattutto si agisce) a vantaggio di più ampie comunità, interessate al buon funzionamento della rule of law.

Business as a Force for Good

La comunicazione del diritto finalizzata ad una sua ampia comprensione, la divulgazione di novità normative tramite i social, secondo me, sono una buona articolazione sia della “S” di ESG che del brand activism formato legal.

Gli stessi Kotler e Sarkar, autori del volume “Brand activism. Dal purpose all’azione” hanno inserito il settore “giuridico” tra quelli azionabili, guarda caso per incoraggiare le normative che incidono positivamente sull’occupazione, sulle condizioni di lavoro e sulla sicurezza sul posto di lavoro, sull’inclusione e sulla trasparenza della comunicazione (!). A questi obiettivi, potremmo aggiungercene “n”, e in teoria tutti i temi del diritto, proprio per il loro indiscutibile impatto sociale.

Esempi di azioni concrete sono, per esempio, la produzione di contenuti, video, documentari per la sensibilizzazione sulle tematiche giuridiche; la partecipazione a progetti di volontariato nei tribunali o con associazioni locali o  con gli stessi Ordini forensi (anche per loro vale quello che stiamo dicendo) per favorire l’accesso alla giustizia di categorie deboli o la fruizione più completa dei servizi di giustizia; il coinvolgimento dei colleghi “più giovani” o le colleghe in specifici processi di governance; il sostegno, economico o in natura, a iniziative specifiche che hanno l’obiettivo di espandere l’area della consapevolezza del diritto; la presa di posizione su temi sensibili nella comunità giuridica (per esempio, cosa pensano all’interno degli studi legali o delle law firm della bozza del decreto ministeriale che introduce limiti redazionali agli atti giudiziari?); il supporto concreto alle legal tech eticamente orientate…in realtà, la creatività anche in questo campo non ha limiti se non quello di provocare un impatto positivo e di miglioramento attorno alla propria realtà, che vada oltre il proprio interesse specifico.

Come realizzare piani di legal brand activism? Impostando una strategia chiara e partendo dal purpose, una indicazione chiara, e scritta, di quale è la motivazione profonda che spinge ad essere avvocati o ad aver creato uno studio legale. Come per le auto il tagliando, anche la definizione della mission e del purpose dovrebbe essere una attività che gli studi legali dovrebbero ciclicamente rinverdire, per stare al passo con i tempi e con la crescita del proprio brand. I piani di legal brand activism poi avranno bisogno di essere sostenuti dall’interno; sarà quindi strategica una efficace comunicazione interna, inclusiva e motivante, anche per sottoporre eventualmente il piano di legal brand activism al gradimento interno.

Il piano editoriale dello studio legale socialmente responsabile e gli strumenti utili

Se ci limitiamo al legal brand activism nella comunicazione e divulgazione dei diritti e del diritto, fondamentale è una pianificazione editoriale che distragga dal racconto di sé stessi, ma che intercetti i temi giuridici di interesse più generale e “prenda posizione”.

Definito il campo di interesse e magari incrociandolo con quello della propria clientela, sarà opportuno individuare i temi più caldi partendo dai pain points di settore.

Facciamo un esempio, traendolo da un settore meno intuitivo nel campo dei diritti: quello delle imprese.

Un piano editoriale legale improntato al legal brand activism e destinato alle imprese potrebbe riguardare tutte le iniziative normative e le decisioni giurisprudenziali utili per una impresa che voglia accedere al campo ESG, partendo – per esempio – alla tutela dei suoi lavoratori.

È evidente che un piano editoriale di legal brand activism può funzionare nella misura in cui lo stesso studio legale integri gli obiettivi ESG nella sua governance.

Fatto questo, ogni canale può servire: la company page su Linkedin, i profili personali dei managing partner, la creazione di community orizzontali; e poi la creazione di post, di content marketing dedicato, le newsletter di Linkedin; video; podcast.

Il decalogo della comunicazione sostenibile del giurista

Se non volete spingervi nel legal brand activism, anche un piano di comunicazione social(mente) sostenibile è un buon punto di partenza.

E allora, per chiudere questa carrellata sulla necessità di rinnovare anche il purpose della comunicazione legale, vorrei sottolineare altri due altri aspetti.

Il primo riguarda i criteri ai quali ispirarsi per la definizione di un piano editoriale dello studio legale che sia social(mente) responsabile. Li ho raccolti proprio nel Decalogo della comunicazione social(mente) responsabile del giurista, che potete trovare qui: La comunicazione sostenibile del giurista social.

Troverete suggerimenti che appaiono ovvi; ma non lo sono. La comunicazione infatti non dovrà riguardare esclusivamente voi stessi o il vostro studio legale, i vostri successi e i premi.

La comunicazione social(mente) responsabile è destinata infatti a creare un impatto positivo nell’eco sistema degli stakeholder e si avvale dunque di una rete di contatti e collegamenti social che non esaurisce nei prospects.

I consigli  del Decalogo riguardano dieci aspetti che occorre presidiare nella definizione del piano editoriale: occorre sempre chiedersi qual è l’impatto sociale di ogni dichiarazione pubblica, anche quando è volta alla promozione del proprio brand; i Piani di Comunicazione sono basati su azioni concrete e non su annunci; occorre verificare qualsiasi informazione e/o affermazione; occorre modulare il linguaggio, optando se necessario per un linguaggio semplice e divulgativo, e così via.

Occorre impostare un piano di Crisis Communication, ossia un sistema di gestione delle comunicazioni critiche, che attentano alla reputazione del brand. Il caso tipico sui social è il cosiddetto “shitstorm”, ossia una valanga di critiche da cui si può essere subissati magari per aver espresso una propria opinione.

Nel Decalogo troverete altri consigli utili per affinare la vostra consapevolezza su ciò che occorre presidiare quando si comunica nel digitale e si voglia fare in maniera responsabile e anche…efficace in termini di engagment, ossia di capacità di coinvolgimento dei followers, diretti ma anche indiretti (ossia i collegamenti dei vostri collegamenti).

Il legal design come social purpose

C’è poi un altro strumento che può essere integrato in piani di legal brand activism e di comunicazione social(mente) sostenibile, ed è il legal design. Se pianifichiamo piani editoriali per la comunicazione efficace del diritto e dei diritti, la realizzazione dei contenuti tramite i criteri del legal design saranno più efficaci.

È evidente che per fare tutto questo serve un investimento; ma credetemi, è più di volontà che di risorse.

>> Le precedenti puntate del viaggio nella sostenibilità della legal industry:




La nuova frontiera tra brand e consumatori: gli Nft

La nuova frontiera tra brand e consumatori: gli Nft

In un mercato sempre più competitivo, la costruzione di un forte rapporto tra brand e consumatori diventa essenziale per il successo a lungo termine. Con l’avvento delle criptovalute e delle tecnologie blockchain, è emersa una nuova soluzione affinché questo rapporto possa consolidarsi: gli Nft (Non-Fungible Token), un tipo speciale di “token” che rappresenta un’immagine, un video o qualsiasi altra cosa digitale, unica e irripetibile e che le persone possono comprare e vendere.

Un po’ di numeri

Solo l’anno scorso il mercato degli Nft ha generato un totale di 24,7 miliardi di dollari di volume, in leggero calo rispetto ai 25,1 miliardi di dollari registrati nel 2021 (Fonte: “Behavior report – What Do Consumers Want from Nft?” – Dappradar). Considerando il significativo calo del 60% del prezzo di Eth (criptovaluta maggiormente scambiata nel mercato degli Nft: Ethereum), questo indica una resilienza significativa dell’attività del mercato. Sono arrivati ad essere 10,6 milioni gli utenti che scambiano Nft, con un incremento dell’87,7% rispetto all’anno precedente. Ciò suggerisce che il mercato è stato in grado, nonostante il momento negativo, di attirare nuovi partecipanti e rappresenta sicuramente un ottimo segno per il futuro del settore. Lato aziende, nel 2022 sono più di 240 i brand che sono entrati nel mondo degli Nft. NikeAdidas e Gucci sono solo alcuni dei brand che si sono immersi nel mondo di web3 (terza evoluzione del web, che utilizza tecnologie decentralizzate per creare un ecosistema più sicuro, aperto e inclusivo) e hanno dimostrato come la tecnologia possa arricchire i punti di contatto con i consumatori finali.

Quali sono i vantaggi per i brand? Il primo riguarda l’attenzione da parte dei media: sfruttando ancora un mercato di cui tutt’ora si parla e si conosce poco, i brand che entrano nel mercato vengono percepiti come innovativi e progressivi con la conseguente possibilità di rafforzare la loro immagine e generare Pr positive. Inoltre, punto ben più importante, gli Nft possono essere utilizzati per creare un senso di appartenenza tra i consumatori e il brand, attraverso l’emissione di pezzi unici e limitati. In questo modo, i brand lover possono dimostrare la loro fedeltà possedendo un pezzo esclusivo. Allo stesso tempo, gli investitori possono utilizzare gli Nft come strumento di investimento, acquistando opere d’arte, oggetti rari e collezionabili digitali associati al brand. Ma gli Nft non sono solo un modo per rafforzare il rapporto tra marca e consumatori; possono anche rappresentare una nuova fonte di guadagno per i brand stessi, aumentando la visibilità e generando un’entrata finanziaria extra. E il prezzo? Maggiore l’esclusività del brand, più elevato il prezzo a cui gli Nft possono essere proposti. Gli Nft possono essere quindi una soluzione vincente per costruire e consolidare il rapporto tra brand e consumatori, creare nuove opportunità di investimento e aumentare la visibilità della marca sul mercato.

Il caso Porsche

Pur essendoci grandi opportunità e potenziale per la creazione di business con gli Nft, non sempre raggiungere risultati positivi è semplice. Ne è un esempio Porsche nella gestione del suo progetto legato agli Nft. Nel novembre del 2022 ha annunciato la sua prima collezione ufficiale di Nft, aprendo conseguentemente il canale Discord e il profilo Twitter dedicato (@eth_porsche). Il prezzo (0.911 ETH circa 1.500 euro) per una supply di 7.500 Nft, è risultato probabilmente troppo alto e non in linea con l’attuale situazione di mercato. Vedendo la risposta della community, la casa automobilistica si è trovata costretta a ridurre la quantità di Nft data l’impossibilità di vendere. Il progetto di Porsche ha un potenziale immenso e questa può essere un’occasione per ascoltare i propri fan e risolvere gli eventuali problemi emersi imparando a conoscere il target e costruire valore nel futuro. Occorre però mettere a punto una strategia di mercato che parta dai bisogni dei propri clienti.

Per una buona riuscita di un progetto bisogna tenere presente di dover identificare correttamente il target (essere un grande brand non è garanzia di successo nel web3, per farlo devi parlare con il pubblico giusto). Ma non solo: una comunicazione errata crea bad reputation (ascoltare/considerare tardi la community indebolisce il progetto) e, infine, occorre considerare lo stato del mercato e le aspettative risposte della marca.

Il caso Nike

Altre volte, invece, i grandi brand possono fare bene anche sul web3. È il caso di Nike, il marchio che ha performato meglio finora sul mercato e ha generato più di 185 milioni di dollari. I ricavi negli Nft sono generati sia dalle vendite dirette che dal mercato secondario, cioè dalla trattenuta di royalties quando l’attività è scambiata tra i clienti stessi (in altre parole, il mercato dell’usato). Quindi più tempo passa, più gli Nft aumenteranno di valore e più royalties entreranno nelle casse dell’azienda in modo completamente passivo. Gli Nft rappresentano dunque un’opportunità interessante per i brand per creare valore e connessione con la propria audience. Il potenziale è enorme e sta solo aspettando di essere sfruttato.

to-do list

Cosa devono considerare i brand per avere successo nel mondo degli Nft:

  1. Valutare il Fit – consistenza con la marca: gli Nft sono la cosa giusta per il tuo brand?
  2. Posizionamento: un corretto posizionamento è di cruciale importanza per portare vantaggi immediati e duraturi nel tempo e deve essere considerato in tutte le espressioni che la marca attiva.
  3. Analisi di mercato: la comprensione del mercato e della categoria è fondamentale per capire cosa funziona e cosa no.
  4. Comprendere i need e sviluppare un piano di lancio: partendo dai bisogni che si vogliono soddisfare e dal valore che si può offrire ai potenziali investitori fino ad arrivare a quali Nft si portano sul mercato e qual è la roadmap del progetto.
  5. Community: è uno dei capisaldi degli Nft; affinché il tutto funzioni, è necessario creare entusiasmo e interesse intorno al progetto.

Fonte: Nft Behavior Report – DappRadar x Alsomine, febbraio 2023




I dati sulla rendicontazione Esg nei bilanci delle aziende europee: solo una su 4 si sottopone a verifiche e audit affidabili e indipendenti

ESG E BILANCI: SOLO UN'AZIENDA SU 4 SI SOTTOPONE A VERIFICHE

Sette organizzazioni su 10 (70%) che pubblicano i bilanci di sostenibilità convalidati da una società di certificazione esterna, dichiarano che questi si basano solamente sull’analisi di documenti ed evidenze autoprodotte dall’azienda stessa. Anche per questo il grado di fiducia da parte della cittadinanza verso l’impegno delle aziende sulla sostenibilità è basso: quasi un cittadino europeo su due (45%) pensa che le imprese utilizzino il tema green solo per motivi pubblicitari e di marketing.

Le imprese europee corrono il rischio di essere percepite dai cittadini come poco trasparenti rispetto al loro reale impegno in tema di sostenibilità. Sono ben 7 su 10 (70%) le aziende del Vecchio Continente che pubblicano bilanci di sostenibilità approvati unicamente sulla base di documenti ed evidenze autoprodotti, senza alcuna verifica da parte di un professionista esterno circa la genuinità e veridicità delle informazioni contenute nei report. Mentre sono solo un quarto (25%) le organizzazioni che affermano di essersi sottoposte a uno specifico audit interno sulla rendicontazione dei criteri ESG (Environmental, Social, Governance). Criticità di questo tipo si incrociano con i dati rilevati dall’analisi svolta sulla percezione della cittadinanza europea, in cui emerge, come ovvia conseguenza, che il grado di fiducia nelle dichiarazioni di sostenibilità prodotte dalle aziende risulta tra il basso (44,5%) e il bassissimo (19,5%) e che una parte significativa dei cittadini europei ritiene che le aziende utilizzino il tema della sostenibilità solo per motivi pubblicitari e di marketing (45,5%). Sono questi alcuni dei principali dati sul tema della rendicontazione dei criteri ESG nei bilanci aziendali che emergono dalla ricerca “Rating ESG delle imprese, asserzioni etiche aziendali e percezione dei cittadini riguardo alle scelte green delle aziende”, condotta su due diversi campioni, uno di 100 aziende, di vari settori e dimensioni, e un secondo di 500 cittadini rappresentativi di tutte le età, condizioni sociali, promossa dall’On. Tiziana Beghin, eurodeputata (gruppo Non Iscritti) e presentata nel corso di un talk a Bruxelles presso la sede del Parlamento Europeo, anche al fine di elaborare e presentare raccomandazioni utili al legislatore per migliorare le normative in questo settore di enorme importanza e attualità.

L’indagine è stata realizzata da un team di ricerca al 100% italiano e in larga parte femminile: sono donne, infatti, 4 ricercatrici del gruppo su 5, coordinate dalla Dott.ssa Giorgia Grandoni. “Scopo del progetto di ricerca – ha dichiarato Luca Poma, Professore di Reputation management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, referente scientifico dell’indagine – è quello di fotografare lo stato dell’arte sul tema della rendicontazione non finanziaria ed ESG nei bilanci delle aziende europee, al fine di intercettare punti di forza e di debolezza delle prassi attualmente messe in campo e favorire, nel contempo, un miglioramento della qualità informativa di questa forma di rendicontazione, riflettendo anche sulla percezione che i cittadini hanno delle scelte green compiute dalle aziende. Il lavoro si innesta, infatti – conclude Poma – nello sforzo sostenuto dall’Unione Europea di promuovere una cultura della sostenibilità non solo tra cittadine e cittadini comunitari ma anche all’interno delle PMI e dei grandi gruppi aziendali”.

“Lo scenario competitivo mondiale è caratterizzato dalla circolazione sempre più libera di persone, beni e capitali, filiere di fornitura lunghe e frammentate su scala globale e uno spazio geografico degli scambi e degli investimenti sempre più ampio, con una crescente esposizione ai rischi”, ha dichiarato l’On. Beghin. “Cresce quindi la domanda di informazioni credibili e affidabili sulla reputazione delle imprese, non solo limitate al profilo generale e organizzativo, ai prodotti o servizi e ai relativi prezzi, ma anche a quelli che possono essere i rischi di impatti avversi futuri sull’impresa e i suoi stakeholder e a un’ampia gamma di aspetti di natura non finanziaria (governance, diritti umani e condizioni di lavoro, sicurezza, ambiente ed etica di business), denominati sempre più frequentemente “rischi ESG” – Environmental, Social, Governance. È quindi di assoluta attualità per noi legislatori – ha concluso l’eurodeputata – comprendere come poter rendere più trasparente questo tipo di rendicontazione, garantendo rating appropriati e non fuorvianti agli occhi dei cittadini dello spazio comune europeo”.




I dubbi sulla rendicontazione Esg nei bilanci aziendali

ESG E BILANCI: SOLO UN'AZIENDA SU 4 SI SOTTOPONE A VERIFICHE

Le imprese europee corrono il rischio di essere percepite dai cittadini come poco trasparenti rispetto al loro reale impegno in tema di sostenibilità. Sono ben sette su dieci (70 per cento) le aziende del Vecchio Continente che pubblicano bilanci di sostenibilità approvati unicamente sulla base di documenti ed evidenze autoprodotti, senza alcuna verifica da parte di un professionista esterno circa la genuinità e veridicità delle informazioni contenute nei report. Mentre sono solo un quarto (25 per cento) le organizzazioni che affermano di essersi sottoposte a uno specifico audit interno sulla rendicontazione dei criteri ESG (Environmental, Social, Governance). 

Criticità di questo tipo si incrociano con i dati rilevati dall’analisi svolta sulla percezione della cittadinanza europea, in cui emerge, come ovvia conseguenza, che il grado di fiducia nelle dichiarazioni di sostenibilità prodotte dalle aziende risulta tra il basso (44,5 per cento) e il bassissimo (19,5 per cento) e che una parte significativa dei cittadini europei ritiene che le aziende utilizzino il tema della sostenibilità solo per motivi pubblicitari e di marketing (45,5 per cento). 

Sono questi alcuni dei principali dati sul tema della rendicontazione dei criteri ESG nei bilanci aziendali che emergono dalla ricerca “Rating ESG delle imprese, asserzioni etiche aziendali e percezione dei cittadini riguardo alle scelte green delle aziende, condotta su due diversi campioni, uno di 100 aziende, di vari settori e dimensioni, e un secondo di 500 cittadini rappresentativi di tutte le età, condizioni sociali, promossa dall’onorevole Tiziana Beghin, eurodeputata (gruppo Non Iscritti) e presentata nel corso di un talk a Bruxelles presso la sede del Parlamento Europeo, anche al fine di elaborare e presentare raccomandazioni utili al legislatore per migliorare le normative in questo settore di enorme importanza e attualità.

L’indagine è stata realizzata da un team di ricerca al 100% italiano e in larga parte femminile: sono donne, infatti, quattro ricercatrici del gruppo su cinque, coordinate da Giorgia Grandoni. 

“Scopo del progetto di ricerca – spiega Luca Poma, professore di Reputation management all’Università Lumsa di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, referente scientifico dell’indagine – è quello di fotografare lo stato dell’arte sul tema della rendicontazione non finanziaria ed ESG nei bilanci delle aziende europee, al fine di intercettare punti di forza e di debolezza delle prassi attualmente messe in campo e favorire, nel contempo, un miglioramento della qualità informativa di questa forma di rendicontazione, riflettendo anche sulla percezione che i cittadini hanno delle scelte green compiute dalle aziende. Il lavoro si innesta, infatti – conclude Poma – nello sforzo sostenuto dall’Unione Europea di promuovere una cultura della sostenibilità non solo tra cittadine e cittadini comunitari ma anche all’interno delle PMI e dei grandi gruppi aziendali”.

“Lo scenario competitivo mondiale è caratterizzato dalla circolazione sempre più libera di persone, beni e capitali, filiere di fornitura lunghe e frammentate su scala globale e uno spazio geografico degli scambi e degli investimenti sempre più ampio, con una crescente esposizione ai rischi – dichiara l’onorevole Beghin“Cresce quindi la domanda di informazioni credibili e affidabili sulla reputazione delle imprese, non solo limitate al profilo generale e organizzativo, ai prodotti o servizi e ai relativi prezzi, ma anche a quelli che possono essere i rischi di impatti avversi futuri sull’impresa e i suoi stakeholder ea un’ampia gamma di aspetti di natura non finanziaria (governance, diritti umani e condizioni di lavoro, sicurezza, ambiente ed etica di business), denominati sempre più frequentemente “rischi ESG” – Environmental, Social, Governance. È quindi di assoluta attualità per noi legislatori – ha concluso l’eurodeputata – comprendere come poter rendere più trasparente questo tipo di rendicontazione, garantendo rating appropriati e non fuorvianti agli occhi dei cittadini dello spazio comune europeo”.




Sostenibilità, scatta l’allarme sulla rendicontazione Esg nei bilanci delle aziende europee: solo una su 4 si sottopone a verifiche e audit affidabili e indipendenti

ESG E BILANCI: SOLO UN'AZIENDA SU 4 SI SOTTOPONE A VERIFICHE

Le imprese europee corrono il rischio di essere percepite dai cittadini come poco trasparenti rispetto al loro reale impegno in tema di sostenibilità. Sono ben 7 su 10 (70%) le aziende del Vecchio Continente che pubblicano bilanci di sostenibilità approvati unicamente sulla base di documenti ed evidenze autoprodotti, senza alcuna verifica da parte di un professionista esterno circa la genuinità e veridicità delle informazioni contenute nei report. Mentre sono solo un quarto (25%) le organizzazioni che affermano di essersi sottoposte a uno specifico audit interno sulla rendicontazione dei criteri ESG (Environmental, Social, Governance). Criticità di questo tipo si incrociano con i dati rilevati dall’analisi svolta sulla percezione della cittadinanza europea, in cui emerge, come ovvia conseguenza, che il grado di fiducia nelle dichiarazioni di sostenibilità prodotte dalle aziende risulta tra il basso (44,5%) e il bassissimo (19,5%) e che una parte significativa dei cittadini europei ritiene che le aziende utilizzino il tema della sostenibilità solo per motivi pubblicitari e di marketing (45,5%). Sono questi alcuni dei principali dati sul tema della rendicontazione dei criteri ESG nei bilanci aziendali che emergono dalla ricerca “Rating ESG delle imprese, asserzioni etiche aziendali e percezione dei cittadini riguardo alle scelte green delle aziende”, condotta su due diversi campioni, uno di 100 aziende, di vari settori e dimensioni, e un secondo di 500 cittadini rappresentativi di tutte le età, condizioni sociali, promossa dall’On. Tiziana Beghin, eurodeputata (gruppo Non Iscritti) e presentata nel corso di un talk a Bruxelles presso la sede del Parlamento Europeo, anche al fine di elaborare e presentare raccomandazioni utili al legislatore per migliorare le normative in questo settore di enorme importanza e attualità.

L’indagine è stata realizzata da un team di ricerca al 100% italiano e in larga parte femminile: sono donne, infatti, 4 ricercatrici del gruppo su 5, coordinate dalla Dott.ssa Giorgia Grandoni. “Scopo del progetto di ricerca – ha dichiarato Luca Poma, Professore di Reputation management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, referente scientifico dell’indagine – è quello di fotografare lo stato dell’arte sul tema della rendicontazione non finanziaria ed ESG nei bilanci delle aziende europee, al fine di intercettare punti di forza e di debolezza delle prassi attualmente messe in campo e favorire, nel contempo, un miglioramento della qualità informativa di questa forma di rendicontazione, riflettendo anche sulla percezione che i cittadini hanno delle scelte green compiute dalle aziende. Il lavoro si innesta, infatti – conclude Poma – nello sforzo sostenuto dall’Unione Europea di promuovere una cultura della sostenibilità non solo tra cittadine e cittadini comunitari ma anche all’interno delle PMI e dei grandi gruppi aziendali”.

“Lo scenario competitivo mondiale è caratterizzato dalla circolazione sempre più libera di persone, beni e capitali, filiere di fornitura lunghe e frammentate su scala globale e uno spazio geografico degli scambi e degli investimenti sempre più ampio, con una crescente esposizione ai rischi”, ha dichiarato l’On. Beghin. “Cresce quindi la domanda di informazioni credibili e affidabili sulla reputazione delle imprese, non solo limitate al profilo generale e organizzativo, ai prodotti o servizi e ai relativi prezzi, ma anche a quelli che possono essere i rischi di impatti avversi futuri sull’impresa e i suoi stakeholder e a un’ampia gamma di aspetti di natura non finanziaria (governance, diritti umani e condizioni di lavoro, sicurezza, ambiente ed etica di business), denominati sempre più frequentemente “rischi ESG” – Environmental, Social, Governance. È quindi di assoluta attualità per noi legislatori – ha concluso l’eurodeputata – comprendere come poter rendere più trasparente questo tipo di rendicontazione, garantendo rating appropriati e non fuorvianti agli occhi dei cittadini dello spazio comune europeo”.