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Molestie e abusi sulle donne, Guastini vs. Diaferia: un caso reputazionale?

Un’intervista choc rilasciata da Massimo Guastini sta facendo discutere – fin qui dietro le quinte, e vedremo perché – l’intero mondo della pubblicità italiana, e non solo: esiste oggi, post #Metoo, un tema relativo agli abusi e violenze sessuali nel mondo glamour dei creativi pubblicitari italiani? E ancora: come reagire, se le stesse interessate non denunciano? E più nello specifico: c’è qualche noto protagonista del settore che si è reso impunemente “colpevole” di questo genere di abusi, tacitati da parte delle stesse vittime per paura di ritorsioni? Il terreno – come mi ha ben rappresentato un amico e stimato collega – è assai sdrucciolevole, quindi andiamo per passi, e vediamo nel dettaglio cosa è successo.

I protagonisti

Massimo Guastini è un pubblicitario dal 1983, ed è l’artefice di moltissime campagne pubblicitarie nazionali di successo, tra cui quelle di eBay, Jaguar, PayPal, EasyJet, Siemens, Il Sole 24 Ore, Badedas, Champion, Abbey National Bank, Yamaha. È stato per due mandati il Presidente dell’Art Directors Club Italiano (ADCI), che è l’associazione che da quasi 40 anni riunisce i migliori professionisti nel campo della comunicazione pubblicitaria in Italia.

Pasquale Diaferia – analogamente – è un altrettanto famoso pubblicitario, conosciuto nell’ambiente e in generale dal pubblico per la famosa campagna “Toglietemi tutto, ma non il mio Breil”, ma anche per essere l’ideatore di altre campagne nazionali per noti marchi come Barilla, Moschino, Olivetti, Panorama: insomma, che esista il presupposto dell’esistenza di un interesse del pubblico alla conoscenza dei fatti, allo scrivente pare assodato.

Perché secondo Guastini, Diaferia – che, è bene subito specificarlo, non è stato mai condannato per un reato del genere, e pare, per quanto pubblicamente noto, neppure indagato o denunciato – sarebbe un molestatore e abusatore seriale di giovani e meno giovani colleghe pubblicitarie o tirocinanti. E Guastini questo non lo confida nel silenzio delle sacre stanze delle agenzie dei creativi, ma lo dice forte e chiaro, in un’intervista pubblicata online ieri sui Social, a firma di Monica Rossi, nom de plume di un personaggio noto nel mondo dell’editoria che intervista scrittori, giornalisti e persone di un certo spessore intellettuale.

I fatti, per come sono raccontati

L’autrice dell’intervista a un certo punto chiede a Guastini (riporto verbatim): “Veniamo alla domanda personale. Io ho intuito che nel Vostro mondo, il mondo della pubblicità, attualmente ci sia un problema di molestie sessuali. È così?”

E Guastini risponde convinto: “Sì, è proprio così” . Ma aggiunge, sorprendentemente:

E di uno di questi molestatori seriali conosciamo bene il nome e il cognome: Pasquale Diaferia. E la questione è tornata d’attualità recentemente visto che è stato nuovamente invitato dall’ADCI (il Club dei pubblicitari, ndr) a fare il mentore, vale a dire incontrare giovani professioniste del settore pubblicitario per valutarne il talento ed eventualmente favorirne l’ingresso nel mondo del lavoro.Ruolo e funzione per i quali servirebbero, secondo me, requisiti morali estranei a Diaferia. Perché nel ruolo di mentore dovremmo mostrare il meglio del nostro lavoro e non il peggio dell’essere umano.

L’intervistatrice aggiunge: “Ma è un caso isolato?”

“No, non lo è”, dice Guastini, che precisa a sua volta:

Potrei parlarti di una famosa chat in cui diversi uomini catalogavano e davano i voti chi al culo, chi alle tette, chi alle gambe di queste giovani stagiste che potevano essere le loro figlie. Agenzia di pubblicità molto famosa, molto potente, molto importante. Una sera a cena con due colleghi che sono divenuti anche amici, le due ragazze scoprono di una chat tra maschi e chiedono di cosa parlino. Uno dei due ragazzi mostra loro la chat. Comprende almeno 80 uomini. Quasi tutti quelli che lavorano nell’agenzia, dagli stagisti ai capi reparti. Manca solo il grande capo. Restano agghiacciate. Decine e decine di messaggi ogni giorno. Un solo argomento: quanto sono scopabili, fighe, ribaltabili o cesse le colleghe. Una chat che si svolge in ambiente di lavoro, durante l’orario di ufficio, con una sfilza infinita di messaggi espliciti, degradanti e umilianti. Si va da un capo Team che parlando di una sua sottoposta (con il suo nome e cognome) scrive: “glielo infilerei così tanto nel culo da farle uscire le palle dalla gola” a un nuovo arrivato nel Team, nemmeno da due settimane, che parla così di una collega: “è talmente cessa e grassa che le infilerei un sacchetto in testa e me la scoperei comunque, di prepotenza.” Il tutto in una chat, vale la pena ricordarlo, lavorativa in cui i membri più attivi sono i capi dei vari Team di lavoro. Arrivano a scoprire anche l’esistenza di foglio Excel che non contiene numeri e voti ma i nomi delle proprietarie dei più bei culi femminili in azienda.

“Tu credi veramente che Pasquale Diaferia sia un molestatore?”, incalza a quel punto l’intervistatrice… E Guastini:

Cercherò di essere chiaro. Io non so se Pasquale Diaferia sia attualmente un molestatore sessuale. So per certo che lo è stato tra il 2007 e il 2016. Perché me l’hanno raccontato una dozzina di ragazze (…) Io sino al 2011 ignoravo questo suo “vizietto”. Le cose cambiarono appunto quando una stagista che lavorava nella mia agenzia mi raccontò la sua esperienza diretta. Ed era letteralmente scioccata. Si erano incontrati in un’occasione pubblica e avevano cominciato a parlare della professione comune: la scrittura per la pubblicità. Lei aveva 20 anni e lui 50. Si offrì di accompagnarla a casa. Invece parcheggiò in una zona isolata e tentò approcci sessuali inopportuni dal momento che lei continuava a respingerlo. Non ci fu stupro, ma decisamente quelle furono molestie sessuali.

L’intervistatrice pressa Guastini, gli chiede come fa lui a sostenere questa accusa, e lui risponde convinto:

Temendo che non le credessi, mi mostrò una lunga chat avvenuta su Skype, tra le 22 e le 23 dell’otto gennaio. Anche quella conversazione era una molestia sessuale reiterata. Lei alla fine decise di rinunciare alla denuncia perché sarebbe stata la sua parola contro quella di lui nonostante quell’aberrante conversazione telematica.

E ancora: “Ti risulta solo quest’episodio?”. Risposta di Guastini:

Solo quell’episodio? Purtroppo quella è solo una delle storie ignobili in cui mi sono imbattuto. Ad esempio verso la fine del 2016 due socie dell’ADCI mi segnalarono la storia di una ragazza che aveva subito molestie sessuali chiedendomi se potessi dare visibilità alla vicenda anche senza fornirmi il nome della ragazza. Lessi la testimonianza della vittima. Feci una domanda alle due socie ADCI: “le iniziali di questo professionista sono P.D.?” Sì, mi risposero è Pasquale Diaferia. Poi il 27 settembre pubblicai un post e il giorno dopo mi arrivarono tre testimonianze da delle ragazze che l’avevano riconosciuto dal modus operandi. E mi contattò anche un uomo, amministratore delegato di un’agenzia, la cui moglie gli aveva raccontato di aver subito un’esperienza analoga sempre con lo stesso soggetto: Pasquale Diaferia. Andiamo avanti. Una sera, che per me fu drammatica, mi contattò una giovane donna, sui 30 anni. La sua è sicuramente la storia peggiore tra quelle di cui ho avuto una testimonianza diretta.

Qui la versione di Guastini si fa disturbante, molto forte:

La incontrai il 30 settembre 2016, in un bistrot. Si era portata dietro anche un block-notes dove aveva annotato tutto. Piangeva e parlava, parlava e piangeva. La sua storia oltre a essere la peggiore era molto recente, e ben lungi dalla prescrizione. Mi raccontò di aver preso un caffè shakerato con Pasquale Diaferia e poi di essersi ritrovata a letto con lui che dormiva, stordita e confusa. Soprattutto non poteva capacitarsi di avere trascorso la notte con un uomo che aveva sempre percepito come viscido e sgradevole. Ricordava benissimo il caffè shakerato ma nebbia totale sul come da quello si fosse arrivati al letto. “È folle pensare che mi abbianarcotizzata e violentata?” mi chiese la donna. Ebbene, tutte queste ragazze sono delle povere pazze? Perchè la storia non è mica finita. In seguito mi contattò una donna, una certa Annita Lucrezia Barberi, che aveva delle informazioni su quella e altre vicende. E questa donna è l’ex moglie (di Diaferia, ndr). A un certo punto della nostra conversazione, dopo che mi raccontò delle cose agghiaccianti, pensò bene di salutarmi con queste parole: “Sono stata la moglie di Pasquale per 34 anni fino ad agosto dello scorso anno. Con lui ho avuto quattro figli e un nipote. Ti dico solo questo: tre su quattro dei suoi figli mi hanno chiesto di non informarli quando lui morirà.

“Eppure sulla sua bacheca sembra che lui continui a scrivere che contro la Sua ex moglie in Tribunale abbia vinto lui tutto quello che c’era da vincere”, richiama l’intervistatrice.

E Guastini:

(…) Vuoi sapere i fatti? Pasquale Diaferia ha perso il processo in primo grado (sentenza del 15 marzo 2020). Poi ha perso anche in appello (sentenza 9 giugno 2021 esattamente due anni fa).  È anche importante sapere perché ha perso. Ecco, di seguito riporto pari pari le motivazioni delle due sentenze: “…rilevanti i ripetuti episodi di violenza e di maltrattamento, perpetrati dal Signor Diaferia ai danni della Signora Barberi, come peraltro emerso dalle testimonianze dei tre figli maggiorenni, dai verbali del Pronto Soccorso e dalle innumerevoli denunce sporte” (…). Come vedi, Pasquale Diaferia scrive menzogne su menzogne. Tra l’altro con che coraggio proprio non lo so.

L’ultima domanda dell’intervistatrice a Guastini apre il tema dell’omertà generata dalla paura di ritorsioni, salito agli onori delle cronache mondiali con il #Metoo: “A proposito di denunce: sai dirmi perché a oggi Pasquale Diaferia non è, ad esempio, in galera?” Guastini risponde netto:

Banalmente? Perché tutte le vittime hanno avuto e hanno paura di denunciare. Uno, perché non vogliono rivivere quel trauma, due perché hanno bisogno di lavorare e gravitano nel medesimo ambiente, tre per la vergogna, quattro per la paura di ritorsioni e cinque per il terrore di non essere credute e tutelate. Tu però Monica puoi dire che ti ho fatto vedere una dozzina di testimonianze firmate con nomi e cognomi? Lo puoi dire per favore?

L’intervista si chiude quindi con l’ammissione dell’intervistatrice: “Si, confermo che ho letto molte di queste testimonianze. Di mio, aggiungo che ho contattato alcune persone per avere una conferma diretta, e tutte hanno confermato. Pasquale Diaferia non è un personaggio moralmente idoneo al ruolo di mentore di giovani pubblicitarie. E chi gli offre visibilità, che sia un ruolo di portfolio reviewer, di speaker, di insegnante o di articolista su testate di settore, alla luce di tutto ciò, dovrebbe – almeno – dichiarare che Pasquale Diaferia è completamente estraneo alle vicende sopra riportate. Altrimenti si chiama complicità”

L’intervistatrice riferisce anche di aver contattato ripetutamente Pasquale Diaferia, via Facebook, per ottenere un commento o una smentita rispetto al contenuto delle dichiarazioni di Guastini, proponendo anche a lui un’intervista con le stesse modalità e dello stesso ingombro, ma che lo stesso ha rifiutato.

La reputazione, al di la del merito

Pasquale Diaferia è colpevole di aver molestato e abusato di giovani donne e colleghe? Secondo Guastini, confortato dalle sue fonti di prima mano, si, ma in realtà l’accusato non solo non è mai stato condannato, ma – come abbiamo premesso in apertura – da ciò che risulta, ad oggi, neppure indagato o denunciato.

Il grado di colpevolezza – vera, presunta, accertata, o per contro completamente inesistente o inventata – di Diaferia, però, non riduce di una piuma il peso della vicenda sotto il profilo squisitamente reputazionale.

Come ben sappiamo – e come abbiamo scritto centinaia di volte nelle nostre analisi, che si intendono qui integralmente richiamate – al giorno d’oggi la reputazione è (quasi) tutto, e va ben oltre il “parlar bene o parlar male”: come insegnano i fondamentali del reputation management, reputazione è eguale a valore, orienta i comportamenti di acquisto e può fare la fortuna (o la distruzione) di un brand. E il personal branding è altresì incluso in questo perimetro: il profilo di ogni singolo professionista, in quest’epoca così fluida e disintermediata, è condizionato pesantemente dalla licenza di operare che gli viene concessa dalla comunità, che è a sua volta condizionata dalla sua (buona o cattiva) reputazione. Anche per questi motivi, le buone prassi di crisis communication suggerirebbero all’accusato una chiara e inequivoca presa di posizione (che non esiteremmo ad ospitare anche in questa rivista, con la giusta enfasi), che trovi nella tempestività uno dei suoi punti di forza: nel XXI secolo il banalizzante “no comment” non trova decisamente più spazio (letteratura pacifica).

Anche se tutte le accuse a Diaferia fossero state completamente inventate di sana pianta, e chi lo accusa fosse solo un “diffamatore”, la querelle Guastini versus Diaferia esce quindi – per entrambi, beninteso – da un perimetro relativo alla “morale”, al giusto e allo sbagliato, allo scontro personale, e diventa fin da ora un caso di studio sotto il profilo reputazionale, del tutto a prescindere da cosa possa essere realmente successo a quelle ragazze e a quelle donne. Nulla, spero, per loro, ma… to be continued.

AGGIORNAMENTO del 11/06/23 h 17:15: a seguito molto probabilmente del pubblico dibattito sollevato negli ultimi giorni sul Suo caso, Pasquale Diaferia è stato espulso – con votazione all’unanimità – dall’ADCI – Art Director Club Italiano.

AGGIORNAMENTO del 15/06/23 h 11:58: pare che l’agenzia pubblicitaria della quale si parla nell’articolo (quella della chat misogina e sessista) sia stata individuata, con conseguente sviluppo di un acceso thread di discussione su Facebook. Crisi reputazionale d’impatto nazionale alle porte…?




Imprese, è allarme sulla rendicontazione ESG nei bilanci delle aziende Ue

Aziende green o greenwashing? Solo 1 su 4 si sottopone a controlli indipendenti

Le imprese europee corrono il rischio di essere percepite dai cittadini come poco trasparenti rispetto al loro reale impegno in tema di sostenibilità. Sono ben 7 su 10 (70%) le aziende del Vecchio Continente che pubblicano bilanci di sostenibilità approvati unicamente sulla base di documenti ed evidenze autoprodotti, senza alcuna verifica da parte di un professionista esterno circa la genuinità e veridicità delle informazioni contenute nei report. Mentre sono solo un quarto (25%) le organizzazioni che affermano di essersi sottoposte a uno specifico audit interno sulla rendicontazione dei criteri ESG (Environmental, Social, Governance).

Criticità di questo tipo si incrociano con i dati rilevati dall’analisi svolta sulla percezione della cittadinanza europea, in cui emerge, come ovvia conseguenza, che il grado di fiducia nelle dichiarazioni di sostenibilità prodotte dalle aziende risulta tra il basso (44,5%) e il bassissimo (19,5%) e che una parte significativa dei cittadini europei ritiene che le aziende utilizzino il tema della sostenibilità solo per motivi pubblicitari e di marketing (45,5%). Sono questi alcuni dei principali dati sul tema della rendicontazione dei criteri ESG nei bilanci aziendali che emergono dalla ricerca “Rating ESG delle imprese, asserzioni etiche aziendali e percezione dei cittadini riguardo alle scelte green delle aziende”, condotta su due diversi campioni, uno di 100 aziende, di vari settori e dimensioni, e un secondo di 500 cittadini rappresentativi di tutte le età, condizioni sociali, promossa dall’On. Tiziana Beghin, eurodeputata (gruppo Non Iscritti) e presentata nel corso di un talk a Bruxelles presso la sede del Parlamento Europeo, anche al fine di elaborare e presentare raccomandazioni utili al legislatore per migliorare le normative in questo settore di enorme importanza e attualità.

L’indagine è stata realizzata da un team di ricerca al 100% italiano e in larga parte femminile: sono donne, infatti, 4 ricercatrici del gruppo su 5, coordinate dalla Dott.ssa Giorgia Grandoni. “Scopo del progetto di ricerca – ha dichiarato Luca Poma, Professore di Reputation management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, referente scientifico dell’indagine – è quello di fotografare lo stato dell’arte sul tema della rendicontazione non finanziaria ed ESG nei bilanci delle aziende europee, al fine di intercettare punti di forza e di debolezza delle prassi attualmente messe in campo e favorire, nel contempo, un miglioramento della qualità informativa di questa forma di rendicontazione, riflettendo anche sulla percezione che i cittadini hanno delle scelte green compiute dalle aziende. Il lavoro si innesta, infatti – conclude Poma – nello sforzo sostenuto dall’Unione Europea di promuovere una cultura della sostenibilità non solo tra cittadine e cittadini comunitari ma anche all’interno delle PMI e dei grandi gruppi aziendali”.

“Lo scenario competitivo mondiale è caratterizzato dalla circolazione sempre più libera di persone, beni e capitali, filiere di fornitura lunghe e frammentate su scala globale e uno spazio geografico degli scambi e degli investimenti sempre più ampio, con una crescente esposizione ai rischi”, ha dichiarato l’On. Beghin. “Cresce quindi la domanda di informazioni credibili e affidabili sulla reputazione delle imprese, non solo limitate al profilo generale e organizzativo, ai prodotti o servizi e ai relativi prezzi, ma anche a quelli che possono essere i rischi di impatti avversi futuri sull’impresa e i suoi stakeholder e a un’ampia gamma di aspetti di natura non finanziaria (governance, diritti umani e condizioni di lavoro, sicurezza, ambiente ed etica di business), denominati sempre più frequentemente “rischi ESG” – Environmental, Social, Governance. È quindi di assoluta attualità per noi legislatori – ha concluso l’eurodeputata – comprendere come poter rendere più trasparente questo tipo di rendicontazione, garantendo rating appropriati e non fuorvianti agli occhi dei cittadini dello spazio comune europeo”.




Allarme rendicontazione ESG nei bilanci delle aziende europee

ESG E BILANCI: SOLO UN'AZIENDA SU 4 SI SOTTOPONE A VERIFICHE

Una ricerca italiana, finanziata dal Parlamento UE, racconta approcci, metodi e standard utilizzati dalle aziende europee nell’attività di rendicontazione dei criteri ESG. Sette organizzazioni su 10 (70%) che pubblicano i bilanci di sostenibilità convalidati da una società di certificazione esterna, dichiarano che questi si basano solamente sull’analisi di documenti ed evidenze autoprodotte dall’azienda stessa. Anche per questo il grado di fiducia da parte della cittadinanza verso l’impegno delle aziende sulla sostenibilità è basso: quasi un cittadino europeo su due (45%) pensa che le imprese utilizzino il tema green solo per motivi pubblicitari e di marketing.

Le imprese europee corrono il rischio di essere percepite dai cittadini come poco trasparenti rispetto al loro reale impegno in tema di sostenibilità. Sono ben 7 su 10 (70%) le aziende del Vecchio Continente che pubblicano bilanci di sostenibilità approvati unicamente sulla base di documenti ed evidenze autoprodotti, senza alcuna verifica da parte di un professionista esterno circa la genuinità e veridicità delle informazioni contenute nei report.

Mentre sono solo un quarto (25%) le organizzazioni che affermano di essersi sottoposte a uno specifico audit interno sulla rendicontazione dei criteri ESG (Environmental, Social, Governance). Criticità di questo tipo si incrociano con i dati rilevati dall’analisi svolta sulla percezione della cittadinanza europea, in cui emerge, come ovvia conseguenza, che il grado di fiducia nelle dichiarazioni di sostenibilità prodotte dalle aziende risulta tra il basso (44,5%) e il bassissimo (19,5%) e che una parte significativa dei cittadini europei ritiene che le aziende utilizzino il tema della sostenibilità solo per motivi pubblicitari e di marketing (45,5%).

Sono questi alcuni dei principali dati sul tema della rendicontazione dei criteri ESG nei bilanci aziendali che emergono dalla ricerca “Rating ESG delle imprese, asserzioni etiche aziendali e percezione dei cittadini riguardo alle scelte green delle aziende”, condotta su due diversi campioni, uno di 100 aziende, di vari settori e dimensioni, e un secondo di 500 cittadini rappresentativi di tutte le età, condizioni sociali, promossa dall’Tiziana Beghin, eurodeputata (gruppo Non Iscritti) e presentata nel corso di un talk a Bruxelles presso la sede del Parlamento Europeo, anche al fine di elaborare e presentare raccomandazioni utili al legislatore per migliorare le normative in questo settore di enorme importanza e attualità.

L’indagine è stata realizzata da un team di ricerca al 100% italiano e in larga parte femminile: sono donne, infatti, 4 ricercatrici del gruppo su 5, coordinate dalla Dott.ssa Giorgia Grandoni. “Scopo del progetto di ricerca” ha dichiarato Luca Poma, Professore di Reputation management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, referente scientifico dell’indagine “è quello di fotografare lo stato dell’arte sul tema della rendicontazione non finanziaria ed ESG nei bilanci delle aziende europee, al fine di intercettare punti di forza e di debolezza delle prassi attualmente messe in campo e favorire, nel contempo, un miglioramento della qualità informativa di questa forma di rendicontazione, riflettendo anche sulla percezione che i cittadini hanno delle scelte green compiute dalle aziende. Il lavoro si innesta, infatti” conclude Poma “nello sforzo sostenuto dall’Unione Europea di promuovere una cultura della sostenibilità non solo tra cittadine e cittadini comunitari ma anche all’interno delle PMI e dei grandi gruppi aziendali”.

“Lo scenario competitivo mondiale è caratterizzato dalla circolazione sempre più libera di persone, beni e capitali, filiere di fornitura lunghe e frammentate su scala globale e uno spazio geografico degli scambi e degli investimenti sempre più ampio, con una crescente esposizione ai rischi”, ha dichiarato Beghin. “Cresce quindi la domanda di informazioni credibili e affidabili sulla reputazione delle imprese, non solo limitate al profilo generale e organizzativo, ai prodotti o servizi e ai relativi prezzi, ma anche a quelli che possono essere i rischi di impatti avversi futuri sull’impresa e i suoi stakeholder e a un’ampia gamma di aspetti di natura non finanziaria (governance, diritti umani e condizioni di lavoro, sicurezza, ambiente ed etica di business), denominati sempre più frequentemente “rischi ESG” – Environmental, Social, Governance. È quindi di assoluta attualità per noi legislatori” ha concluso l’eurodeputata “comprendere come poter rendere più trasparente questo tipo di rendicontazione, garantendo rating appropriati e non fuorvianti agli occhi dei cittadini dello spazio comune europeo”.




Asserzioni etiche e di sostenibilità delle aziende e “false ESG”: emergono criticità dall’indagine, appena conclusa, finanziata dal Parlamento UE sui rating delle imprese, sulle asserzioni etiche aziendali e sulla percezione dei cittadini riguardo alle scelte “green”

Asserzioni etiche e di sostenibilità delle aziende e “false ESG”


Se ne è discusso in un evento al Parlamento Europeo

Lo scenario competitivo mondiale è caratterizzato dalla circolazione sempre più libera di persone, beni e capitali, filiere di fornitura lunghe e frammentate su scala globale e uno spazio geografico degli scambi e degli investimenti sempre più ampio, con una crescente esposizione ai rischi: cresce quindi la domanda di informazioni credibili e affidabili sulla reputazione delle imprese, non solo limitate al profilo generale e organizzativo, ai prodotti o servizi e ai relativi prezzi, ma anche relative ai rischi di impatti avversi futuri sull’impresa e i suoi stakeholder ea un’ampia gamma di aspetti di natura non finanziaria (governance, diritti umani e condizioni di lavoro, sicurezza, ambiente ed etica di business) denominati sempre più frequentemente “rischi ESG” (Environment, Social, Governance).

Su queste premesse è nato un ambizioso progetto di indagine, promosso dall’On. Tiziana Beghin, Deputata al Parlamento Europeo (Non Iscritti) e realizzato da un team di ricerca al 100% italiano e in larga parte al femminile – sono donne 4 ricercatrici del gruppo su 5, coordinate dalla Dott. sa Giorgia Grandoni.Scopo del progetto – ha dichiarato Luca Poma, Professore di Reputation management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, referente scientifico dell’indagine – è di fotografare lo stato dell’arte su questi argomenti, al fine di intercettare punti di forza e di debolezza delle prassi attualmente messe in campo dalle aziende nell’attività di rendicontazione non finanziaria ed ESG, e nel contempo per favorire – stimolando un dibattito centrato sull’analisi dei risultati della ricerca – un miglioramento della qualità informativa di questa forma di rendicontazione, riflettendo anche sulla percezione che i cittadini hanno delle scelte green delle aziende. Il lavoro si innesta, infatti, nello sforzo sostenuto dall’Unione Europea di promuovere una cultura della sostenibilità non solo tra cittadine e cittadini comunitari ma anche conclude il docente – all’interno delle PMI e dei grandi gruppi aziendali.

Dalla ricerca emerge come il 70% delle aziende con bilanci di sostenibilità convalidati da una società di certificazione abbiano indicato che il lavoro di quest’ultima si è basato solo sull’analisi di documenti ed evidenze auto-prodotte dall’azienda stessa: questo espone le valutazioni a una serie di criticità dal punto di vista formale come anche sostanziale, in quanto parrebbe non esservi stato alcun audit da parte di uno specialista che abbia verificato la genuinità e veridicità delle affermazioni ed evidenze prodotte (solo il 25,00% del campione ha affermato di essersi sottoposta a uno specifico audit svolto di persona in azienda). Criticità di questo tipo si incrociano con i dati rilevati dall’analisi svolta sulla percezione della cittadinanza, in cui emerge – come ovvia conseguenza – che il grado di fiducia nelle dichiarazioni di sostenibilità da parte delle aziende risulta tra il basso (44,44%) e il bassissimo (19,55%) e che una parte significativa di cittadini ritiene che le aziende utilizzino il tema della sostenibilità più che altro per motivi pubblicitari e di marketing (45,47%) e non per genuino interesse. “I dati emersi dalla ricerca sono preoccupanti – ha commentato l’On. Beghin – sia perché l’assenza di norme stringenti sull’attribuzione dei rating ESG e la conseguente facilità con la quale vengono rilasciati rischia di svilire l’impegno delle tante aziende davvero virtuose, sia perché evidenziano una crescente crisi di sfiducia da parte dei cittadini UE”.

Nel corso dell’evento tenuto al Parlamento Europeo di Bruxelles si è presentata la ricerca, con un talk tra il team di ricercatori e alcuni specialisti e accademici di chiara fama, durante il quale si è analizzato lo stato dell’arte sul tema della rendicontazione non finanziaria e della percezione della cittadinanza sulle scelte green delle aziende, dibattendo sulle migliori prassi in materia e concludendo con alcune preziose raccomandazioni al Legislatore, utili per stimolare possibili interventi indirizzati al miglioramento di questi aspetti di stringente attualità per la vita delle aziende nello spazio economico Europeo.

Hanno partecipato all’evento

Tiziana Beghin, capo-delegazione M5S al Parlamento Europe
Luca Poma, Professore di Reputation managament all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino
Col. Massimiliano Corsano, Comandante Nuclei Operativi Ecologici dell’Arma dei Carabinieri
Stefano Zambon, Professore all’Università di Ferrara e Segretario Generale Fondazione OIBR
Daniela Poggio, Vice-Presidente nazionale FERPI – Federazione Relazioni Pubbliche Italiana, delegata ai rapporti con l’UE
Cesare Saccani, Presidente dell’Associazione Diligentia ETS
Ilaria Barone Responsabile comunicazione Yamamay
Giorgia Grandoni, Centro studi della start-up innovativa Reputation Management
Luca Yuri Toselli, giornalista esperto in sostenibilità ambientale e sociale

Il video integrale dell’evento:


Il testo integrale della ricerca, in lingua italiana, è disponibile a questo link

La ricerca è anche disponibile in lingua inglese a quest link

Si possono anche consultare le slides usate per presentare i dati salienti della ricerca

A questo link, invece, il testo dell’intervento del Prof. Luca Poma




Musk è il nuovo cattivo. I giganti digitali cercano di arruffianarsi i governi, mentre i nani scavano sotto i loro piedi

Musk è il nuovo cattivo. I giganti digitali cercano di arruffianarsi i governi, mentre i nani scavano sotto i loro piedi

Il fronte digitale si sta sfrangiando: i capitani coraggiosi delle grandi piattaforme stanno uscendo dai propri confini e cercano supporto dalle istituzioni, e qualcuno pensa addirittura di diventare egli stesso istituzione.

Nella cosiddetta Camelot della Silicon Valley, dove tutti sembravano buoni e progressisti, siede ora un sir Mordred, il traditore di Re Artù. Il cattivo della tavola rotonda sarebbe ora Elon Musk, che dopo aver addirittura promosso petizioni e lettere sulla necessità di imbrigliare l’intelligenza artificiale, con una delle sue proverbiali capriole, si è sfilato dal novero dei proprietari responsabili degli algoritmi, professando una linea di liberismo sfrenato.

Musk si è ormai collocato alla testa degli imprenditori digitali reazionari, affiancando il governatore del Messico De Sanctis nella proibitiva gara a essere più intollerante e oltranzista di Donald Trump per le primarie repubblicane in vista delle prossime presidenziali. Si anticipa così un possibile campo di battaglia fra Usa ed Europa nel caso in cui i democratici di Biden dovessero perdere la corsa alla Casa Bianca. Infatti, mentre la destra americana ha imboccato, sia sul big tech ma anche ormai sull’ambiente, la strada del negazionismo di ogni regola o responsabilità pubblica, nell’Unione Europea si è ormai affermata la strada di una normativa pubblica che orienti e delimiti le modalità di gestione delle nuove potenze di calcolo. Ma anche i buoni sono furbacchioni. E devono essere attentamente seguiti nelle loro manovre attorno alle norme europee.

Proprio in queste settimane infatti il Digital Service Act, approvato dalla Commissione Europea, impone alle piattaforme di rendere riconoscibili i contenuti prodotti e gestiti automaticamente. Un obbligo che, se combinato con le nuove regole del prossimo AI Act (che sta per essere approvato dal parlamento  dell’Unione) costringe i service provider della Silicon Valley a rendere più trasparente e responsabile la gestione dei propri servizi.

In questa prospettiva appare sempre più inspiegabile l’ennesima lettera che un gruppo di questi invincibili proprietari, diciamo i buoni se rimaniamo alla metafora di Camelot, come Google, Facebook, il discusso Tik Tok, e talentuoso Altman CEO di OpenAI, promotore di ChatGPT, che si candida al ruolo di Lancillotto nella nomenclatura dei cavalieri di Artù, il paladino dei buoni propositi, che si sta sperticando a sollecitare vincoli precisi per i nuovi dispositivi di intelligenza artificiale, quali quelli che lui produce.

“Le aziende i cui servizi hanno il potenziale di disseminare disinformazione generata dall’AI dovrebbero mettere in campo una tecnologia che la individui e segnali  in modo chiaro”, scrive Altman nel testo che ha raccolto le adesioni di 44 fra i principali brand digitali. Una richiesta che risulta singolare proprio perché proviene dai titolari di queste funzioni che sono anche i responsabili di queste deviazioni, come Google e Facebook sanno bene.

Se andiamo a vedere nel merito degli interventi sollecitati dai firmatari della nuova lettera ai governanti del mondo, appare evidente la contraddizione: da una parte infatti il documento sollecita interventi su funzioni che riguardano proprio i poteri dei proprietari, dall’altra si tratta di garanzie già previste dalle norme europee in gestazione.

Sembra che questo gruppo di cavalieri senza macchia e senza paura voglia usare l’allarme che i loro stessi prodotti e servizi inducono, grazie alla loro intelligenza artificiale, da loro stessi addestrata e guidata, per acquisire benemerenze agli occhi delle autorità politiche che si stanno visibilmente innervosendo alla viglia delle relative consultazioni elettorali. Negli Usa, in vista della prossima battaglia del 2024, il ricordo dell’irruzione sulla scena di Cambridge Analytica è ancora fresco, e le autorità americane stanno stringendo i controlli per non farsi ancora una volta surrogare da gruppi esterni che, utilizzando potenti data base e una capacità di calcolo sempre più estesa, riescono ormai a individuare e a bersagliare con i propri messaggi subliminali milioni di elettori nei collegi contendibili.

Lo stesso sta accadendo in Europa, in vista delle prossime elezioni comunitarie della primavera del prossimo anno. Dunque si sta irrigidendo il fronte relazionale delle grandi piattaforme con i decisori politici. Ma c’è un altro elemento che spinge i monopolisti digitali a richiedere interventi e controlli da parte dei poteri pubblici: il mercato dell’intelligenza artificiale sta diventando sempre più un terreno di competizione dove il pulviscolo dell’open source, proprio in virtù della propria flessibilità e massa critica, sta diventando un insidioso concorrente. Google e Microsoft in particolare stanno comprendendo come i gravosi costi dell’addestramento dei sistemi intelligenti vengono, invece, facilmente abbattuti dai modelli aperti, dove la collaborazione di milioni di ricercatori riduce sia i tempi che gli investimenti nella formazione degli agenti intelligenti.

Siamo dunque a una nuova svolta, in cui il mercato digitale torna sui suoi passi e ripropone l’open source come un modello originale e diverso dagli assetti proprietari verticali, tipici del fordismo industriale. Tocca all’Europa cogliere l’opportunità diventando non solo il paladino delle regole, ma il partner di un modello più veloce e innovativo di sviluppo tecnologico riportando a casa, nel vecchio continente dove nacque, l’incubazione dei sistemi intelligenti trasparenti e condivisibili.