“Martina Strazzer è la nuova Ferragni? A entrambe manca l’autenticità. Così si perdono soldi e reputazione”
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Luca Poma ad Affaritaliani: “Caso Strazzer, non è un nuovo Ferragni ma resta una gestione sbagliata”
Un’azienda in crescita, un’assunzione presentata come simbolo di inclusività e poi il mancato rinnovo del contratto al termine della maternità. Il caso Martina Strazzer ha infiammato il dibattito online, sollevando interrogativi sulla coerenza e la trasparenza della comunicazione aziendale – tanto da far tornare alla mente la recente crisi reputazionale che ha travolto Chiara Ferragni.
Per analizzare quanto accaduto e comprendere le criticità di una gestione reputazionale che sembra trascurare le basi del crisis management, Affaritaliani ha intervistato Luca Poma, professore di Reputation Management all’Università Lumsa di Roma. Secondo Poma, il caso Strazzer è l’ennesima dimostrazione di quanto la mancanza di coordinamento interno e la sottovalutazione dell’impatto pubblico delle proprie azioni possano trasformare un’opportunità in un grave danno reputazionale.
Secondo Lei, quello che sta accadendo intorno al caso Martina Strazzer può essere definito un “nuovo caso Ferragni”?
No, ma si evidenziano alcuni tratti comuni, il primo tra tutti la carenza di autenticità. L’autenticità è uno dei pilastri fondamentali per costruire una buona reputazione, e in questo caso è venuta a mancare. La sensazione che ho avuto sul caso, da un punto di vista tecnico, è che ci siano stati problemi di comunicazione e coordinamento interni.
Facendo una metafora, è come se la testa non dialogasse con la bocca. Hanno utilizzato questa assunzione per fare comunicazione in chiave di sostenibilità e inclusività, però poi l’HR, probabilmente sulla base di ragionamenti sull’organico, non ha ritenuto opportuno confermare la lavoratrice una volta terminato il periodo di maternità.
Allora sembra quasi che una funzione aziendale non parli con l’altra, e questo stupisce, perché parliamo di un’azienda in forte crescita, ma comunque ancora piccola. Forse proprio perché sono sottodimensionati, e quindi travolti dall’affanno della crescita, è mancato il coordinamento interno. Penso che questo sia stato principalmente il problema. Quello che è certo è che si tratta dell’ennesimo caso di incapacità nella gestione della reputazione.
Parliamo di aziende che non riescono a comprendere e riflettere sul fatto che ogni azione ha un impatto pubblico. Purtroppo, non sarà né il primo né l’ultimo caso. Perché se non rifletti e non ti organizzi per gestire in anticipo gli impatti delle tue azioni sulla pubblica opinione, questa catena interminabile di distruzione di valore non avrà mai fine.
Secondo lei verrà “perdonata”? Anche alla luce del fatto che sono già emersi molti haters che la stanno attaccando?
Ad oggi non mi risulta nemmeno che abbia chiesto scusa; quindi, è impossibile perdonare qualcuno che non chiede scusa. Questa è un’ulteriore evidenza del fatto che le più elementari regole della crisis communication sono ignorate o disattese. E questo dispiace, perché è una bella azienda, un bel progetto, una bella esperienza. Quindi è davvero incredibile che, per carenza di conoscenza o di applicazione delle regole di crisis management e crisis communication, un progetto così bello venga penalizzato da scelte non tempestive. Mi pare sia passata ormai una settimana, se non sbaglio forse anche di più, dai fatti. E ancora non c’è stata una presa di posizione ufficiale da parte dell’azienda. Questo è veramente incredibile.
Ma secondo lei si tratta solo di un inciampo passeggero, oppure questa caduta potrebbe avere un impatto reale e duraturo sull’economia dell’azienda?
Qualunque impatto reputazionale negativo ha sempre un riflesso sui conti, sulle finanze. La reputazione è uguale a soldi. Quindi questo fatto, che ha generato cattiva reputazione, avrà sicuramente anche un impatto sul business. Certo, non tale da compromettere in senso assoluto e totale l’intera azienda, quindi non parliamo di una voragine come quella della Ferragni, però un impatto ci sarà. La cosa che lascia più perplessi è che tutto questo era evitabile.
Mi spiego meglio: il problema non è sbagliare. L’opinione pubblica è disposta a perdonare chi sbaglia, perché le aziende sono come le persone — non esiste la persona perfetta, così come non esiste l’azienda perfetta. Il vero problema è come si gestisce l’errore: serve la capacità di chiedere scusa in maniera sincera e tempestiva. Ecco, questo mi sembra sia decisamente mancato”.
I “Califfi dei Click” e il Social Media Marketing
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Come ben sanno gli addetti ai lavori, il Social media marketing (SMM per gli amici) è una branca del marketing digitale che utilizza le piattaforme Social per promuovere marchi, prodotti o servizi: strumenti e strategie per connettersi con il pubblico di riferimento, costruire relazioni, aumentare la visibilità del brand, e, in ultima analisi, raggiungere – o quantomeno, come vedremo, tentare di raggiungere – i propri obiettivi di business.
Secondo i giovani creativi delle agenzie, l’eldorado; secondo i vecchi relatori pubblici, un parco giochi per nerd, e per giunta di dubbia efficacia.
In medio stat virtus, dicevano in latino, ma per farsi un’idea ben ancorata a numeri e statistiche, e non solo a sensazioni, suggerisco la lettura del bel volume di Marco Carnevale La reclame dell’apocalisse (collana Bill di Prospero Editore): sarcastico, a volte velenoso, ma assai godibile, e in grado di stimolare più di un’interessante riflessione, sia per chi non va oltre l’orizzonte della propria tastiera, sia per chi vede il SMM come un “di cui” di una più ampia strategia di costruzione della reputazione.
Manipolare le evidenze di efficacia
Critico, Carnevale, sull’efficacia delle strategie di SMM: secondo lui “l’interattività non gode di buona salute”, e – a riprova – cita il fatto che Google già 9 anni fa smise di aggiornare (e poi addirittura rimosse in toto da Doubleclick, la funzione dedicata appunto alla web-ADV) il Display Benchmarking Tool, lo strumento – inizialmente utilissimo per gli investitori pubblicitari – che permetteva di monitorare l’efficacia delle campagne ADV. Carnevale, perfido, sostiene che il motivo sia stato il crollo verticale delle performance e dei ritorni degli investimenti, reso evidente in modo (troppo) trasparente proprio da quel cruscotto. In effetti le statistiche confermano che proprio il 2017 è stato – sarà un caso? – il periodo d’inizio del progressivo (poi inarrestabile) abbassamento del CTR (Click Through Rate, il numerino che misurava la quantità di interazioni online degli utenti con la pubblicità). Soluzione, quindi? Levare il misuratore di metriche, invece che interrogarsi sul perché i conti non tornavano più.
Nel settembre ’19, fece eco a Google la ricerca USA della società Small Insight, che confermò che il tasso medio di engagement pubblicitario online era sceso da 0,1% (dato 2016) a… 0.05% (dato 2018). “Ci sono cimiteri nei quali i processi di decomposizione delle salme fanno registrare indici di vitalità superiori – ironizza caustico Carnevale – ma questo evidentemente non è un problema per la nostra industria, che continua ad affollare plaudente decine di convegni nei quali si trastulla con i tecnicismi più astrusi sulla gestione dell’interattività, purché idonei a offuscare il dato della sua obiettiva inconsistenza, come fosse normale concentrarsi sulla perfetta ergonomia dell’impugnatura di un revolver che però fa fuoco solo 5 volte ogni 10.000 che si preme il grilletto”.
Aiuto, mi hanno profilato! O forse no
E che dire dei meccanismi di profilazione? Sarà capitato a tutti di visitare qualche pagina – o anche solo di parlare di un certo argomento ad alta voce con il cellulare accanto – e di venire dopo pochi minuti vedere i propri wall inondati di ADV e pop-up su quello specifico argomento, finalizzati a vendere prodotti o servizi che l’algoritmo ritiene per noi fondamentali. Come l’acquisto di biglietti aerei, ingressi a monumenti o prenotazioni di cene stellate in località dalle quali però – strano che l’algoritmo questo non lo sappia! – siamo già tornati, essendoci stati il mese scorso. Circostanze confermate da innumerevoli ricerche – tra tutte, quelle di Nico Neumann, professore della Melbourne Business School – che hanno dimostrato che i meccanismi di profilazione dei target da parte di big tech sono “nel migliore dei casi inaccurati, e nel peggiore del tutto inaffidabili”, che le metriche di misurazione dei risultati sono “spazzatura” e che il ritorno degli investimenti in pubblicità digitale gestiti in automatico dagli algoritmi di intelligenza (si fa per dire) artificiale tendono “ad essere addirittura inferiori a quelli che si registrerebbero in loro assenza”.
Altro dato interessante: nel 2014, tre anni dopo la scoperta che le piattaforme addebitavano agli inserzionisti anche gli annunci che non comparivano affatto sugli schermi dei device (!), la Media Rating Council USA formulò delle nuove linee guida, validate poi dall’autority internazionale in materia (IAB, International Advertising Bureau), ancora oggi in uso ovunque nel mondo, stabilendo che il costo dell’annuncio poteva essere addebitato se almeno il 50% dei pixel della ADV fosse comparsa per almeno 1 secondo (!) sullo schermo del telefonino dell’utente. Al giorno d‘oggi, META pare essere arrivata alla frutta, con l’abituale autenticità (sic!) che da sempre contraddistingue le politiche e le strategie di Zuckerberg: dal momento che gli annunci scorrevano per lo più ignorati, ora su Instagram vengono “bloccati” (interrompendo forzatamente lo scroll) per 3 secondi, obbligando l’utente a sorbirseli, distratto, per poi poter continuare ad usare il telefonino, e permettere così ai venditori di tappeti di Menlo Park di addebitare dollari agli ignari (o imbecilli?) investitori pubblicitari, spacciando per ore ed ore di visualizzazione ciò che a ben vedere è il nulla cosmico, esattamente come spacciano per “click” gli accessi al risultato di ricerca in cima alla prima pagina di Google, che tutti noi clicchiamo istintivamente solo per praticità, ma che Google rivende alle aziende inserzioniste come “obiettivo raggiunto”, dal momento che incidentalmente era un ADV (e noi spesso neppure lo sapevamo, dal momento che è esattamente identica per grafica ai risultati seguenti).
Bisogna davvero essere americani per riuscire a illudersi o arrivare a presupporre che il temporaneo blocco forzato di un annuncio digitale sullo schermo – prassi in grado di generare solo irritazione nell’utente, sia verso META, che spesso verso lo stesso brand pubblicizzato – sia una strategia utile per costruire buona reputazione e orientare conseguentemente i comportamenti di acquisto. CI sarà una ragione se il 95% dei proprietari di telefoni mobili al mondo, iPhone ma non solo, ha optato per il blocco dei cookies di terze parti (il “tesoro” di Meta e Google, indispensabili per tracciare le preferenze dell’utente) e laddove possibile anche degli annunci pubblicitari.
Inglesismi a gogò: ma il ROI?
Saltellando tra SEO copywriting, SEM, Direct Response Marketing, Referral e altre amenità simili, la domanda resta una: quanto rende realmente, e che ritorni è in grado concretamente di garantire, l’investimento sull’online?
Impossibile saperlo realmente, sia a causa della fitta cortina fumogena stesa da chi quegli spazi virtuali li vende, per mascherare la verità di score insignificanti e del tutto inattendibili, sia per colpa di chi dovrebbe vigilare, ovvero il mondo del giornalismo, che invece non fa che ripetere a pappagallo – e senza effettuare alcuna verifica – le veline e i comunicati stampa passati dai giganti Big Tech. Ed anche – non ultimo – a causa del fatto che, in base alle più recenti ricerche, il 65% del traffico online è generato da BOT, bias questo che sballa ulteriormente i conti, un po’ come se – ironizza Carnevale – “due terzi dell’audience delle TV fosse costituito da manichini”.
Per non parlare poi delle false impression, frodi online costruite sulla generazione di funnel in grado di far cliccare l’utente su ADV fraudolente, che hanno finito per pesare il 40% dei click nei soli Stati Uniti. Click che da un lato contribuiscono a gonfiare il traffico online, permettendo alle big tech di continuare nel proprio lavoro di illusionisti nei confronti degli inserzionisti, e – dall’altro lato – fanno perdere miliardi a investitori pubblicitari in buona fede, i quali affidano alle società di consulenza ADV ingenti capitali per banner pubblicitari che finiscono per apparire su siti farlocchi, per decisione insindacabile di algoritmi automatici le cui logiche sfuggono ai più, e che quindi non verranno visti praticamente da nessuno, ma “faranno comunque numero”.
E a big tech i numeri piacciono eccome, anche quelli falsi, tanto che nel 2019, anno nel quale Facebook su pressioni delle istituzioni pubbliche americane iniziò a fare pulizia di false account, ne eliminò solo nei primi 9 mesi ben 5,4 miliardi (si, miliardi, non è un errore di battitura…).
Non con gioia, però: proprio l’altra settimana ho personalmente segnalato per 3 volte a Instagram un profilo falso recante logo e nome (storpiato) di una Banca piemontese, la mia regione, profilo che ha evidentemente intenti fraudolenti, per vedermi chiudere la task con un messaggio dell’assistenza (sicuramente non “umana”) che ha affermato che “il team addetto al controllo ha rilevato che l’account segnalato non viola gli standard della community”; i quali, evidentemente, includono la possibilità di creare un profilo falso di una banca vera per promuovere chissà quale attività illegale; e a META sta benissimo così.
Big tech versus pubblicità, quella vera
In tutto ciò, TV e giornali come sono messi? Secondo i profeti delle ADV online “è roba da boomer”: peccato che gli stessi colossi che drenano sempre più miliardi alle aziende loro inserzioniste per l’acquisto di promozione sui canali digitali abbiano negli ultimi anni aumentato vertiginosamente i propri investimenti sui canali cosiddetti “tradizionali”, fino a diventare big spender mondiali appunto su televisione e carta stampata, canali che – lo confermano numerosissimi studi – continuano a garantire una brand awareness di tutto rispetto, e soprattutto misurabile.
Anche sorvolando sugli scandali nei quali i colossi USA dell’online sono stati periodicamente coinvolti, sulle innumerevoli violazioni della privacy (una tra tutte, le App di big tech possono tracciare i nostri movimenti e raccogliere informazioni su di noi attraverso parti terze anche se noi quella data App non l’abbiamo mai scaricata), sulla bassissima (a volte assente) imposizione fiscale garantita de governi compiacenti retti da politici solo formalmente attenti alla difesa degli interessi dei loro Paesi, sul ridicolo numero di dipendenti assunti (wordlwide 75.000 per Google e 17.000 per Facebook, per fare due esempi), sulle previsioni di sviluppo non confortanti, e sulla totale assenza di trasparenza circa gli algoritmi che condizionano il modo in cui percepiamo il mondo, già solo per questa questione della pubblicità digitale in parte poco utile e della manipolazione dei ritorni sull’investimento, la tentazione di gettare il bambino annegato nella sua acqua sporca è davvero fortissima. Possibilmente da un piano alto, così da assicurarci muoia veramente.
Nell’attesa di repliche dagli uffici stampa di big tech, che non arriveranno mai, ci piace ricordare che il reputation management è un costrutto complesso, multistakeholder, time-based e in continua e mutevole evoluzione, che la web-reputation (intesa come mera manipolazione degli algoritmi per far sparire articoli negativi) è una pratica ridicola e aberrante, e che se è vero che nel digitale ci siamo immersi molte ore ogni giorno, bastasse solo un ADV in mezzo a uno scroll per orientare un comportamento di acquisto le aziende che hanno speso miliardi di dollari in investimenti pubblicitari sui canali digitali avrebbero decuplicato il loro fatturato; e così non è stato.
Quella dei “califfi del click” – sostiene Carnevale – non è certamente “pubblicità”, la pubblicità quella vera è un’altra cosa, ben più seria e centrata su creatività in grado di generare emozione. È invece un enorme sistema parassitario basato sulla manipolazione di gonzi e sprovveduti investitori.
Severo ma giusto; e i numeri – purtroppo – paiono dargli ragione.
Bufera in Cina contro Swatch: spot ritirato dopo le accuse di discriminazione
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L’accusa di discriminazione in Cina
La reazione in Cina è stata molto negativa, con numerosi commenti di protesta sui social media, in particolare sulla piattaforma Weibo, dove gli utenti hanno accusato il marchio di discriminazione.
Le scuse di Swatch che però non sono servite a molto
In seguito alle critiche, Swatch ha ritirato la campagna pubblicitaria a livello globale e ha pubblicato delle scuse ufficiali sia su Instagram che su Weibo, esprimendo “sincere scuse per qualsiasi disagio o malinteso” e assicurando di aver rimosso tutti i materiali pubblicitari contestati. Tuttavia, le scuse non sono state accolte positivamente da molti utenti cinesi che hanno continuato a chiedere boicottaggi e hanno criticato l’azienda per aver sfruttato il mercato cinese pur offendendo la cultura del paese.
Il delicato momento per il gruppo
Il caso arriva in un momento delicato per Swatch, il cui fatturato in Cina, Hong Kong e Macao rappresenta una quota significativa ma è in calo, e la controversia potrebbe danneggiare ulteriormente l’immagine e le vendite del gruppo in questa regione strategica.
Come potrebbe cambiare la strategia pubblicitaria di Swatch
Dopo la polemica legata alla pubblicità che ha offeso il pubblico cinese, la strategia pubblicitaria di Swatch potrebbe cambiare in diversi modi per evitare ulteriori controversie e recuperare la fiducia dei consumatori:
– Maggiore attenzione culturale e sensibilità: Swatch dovrà evitare contenuti che possano essere percepiti come stereotipi o offensivi, investendo sicuramente in consulenti culturali e team di revisione per assicurare che le campagne siano rispettose e inclusive, soprattutto in mercati sensibili come quello cinese.
– Personalizzazione e diversificazione della comunicazione: potrebbero essere adottate strategie di marketing più localizzate e personalizzate per rispettare le diverse culture, evitando campagne globali uguali per tutti i mercati, soprattutto in paesi con sensibilità culturali molto diverse.
– Focus sul valore del prodotto e sull’innovazione: dopo la polemica, Swatch potrebbe spostare il focus della comunicazione sugli aspetti tecnici, innovativi e di design dei propri prodotti, come è stato fatto con le campagne di successo del MoonSwatch, puntando su storie e valori condivisi piuttosto che su elementi visivi potenzialmente controversi.
– Strategie di marketing esperienziale: vendite esclusive o eventi con presenza fisica, come la strategia per il lancio del MoonSwatch che ha creato attesa e comunità attorno al brand, potrebbero essere privilegiate per generare interesse e fedeltà senza rischiare fraintendimenti.
– Gestione rapida delle crisi e comunicazione trasparente: il caso ha mostrato l’importanza di rispondere velocemente con scuse ufficiali, quindi Swatch probabilmente rafforzerà i propri piani di gestione e comunicazione di crisi per intervenire prontamente in futuro, minimizzando danni di immagine.
Queste potenziali modifiche puntano a rilanciare il brand in Cina e altrove, mantenendo alta la reputazione e creando una comunicazione di marca moderna che valorizzi l’unicità e qualità dei prodotti, evitando errori culturali che possono creare forti reazioni negative.
Swatch Group e il mercato degli orologi (ma non solo)
Swatch Group è una holding multinazionale svizzera fondata nel 1983 da Nicolas Hayek, nata dalla fusione di due grandi gruppi orologieri svizzeri (ASUAG e SSIH). È il più grande produttore mondiale di orologi finiti e opera anche nella produzione e vendita di gioielli, movimenti e componenti orologieri. Il gruppo gestisce quasi tutta la catena produttiva degli orologi per i suoi 16 marchi, fra cui famosi brand come Omega, Longines, Tissot, Rado, Hamilton e lo stesso Swatch.
È inoltre leader mondiale nel cronometraggio sportivo e nel settore dei sistemi elettronici utilizzati nell’orologeria e in altre industrie. Oggi impiega più di 32.000 persone in oltre 50 paesi.
Per quanto riguarda i dati economici recenti, nel primo semestre del 2025 Swatch Group ha registrato un fatturato di circa 3,1 miliardi di franchi svizzeri (circa 2,89 miliardi di euro), segnando un calo dell’11% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, principalmente dovuto alla contrazione delle vendite nella regione della Grande Cina (compresa Hong Kong e Macao). Questo mercato ha avuto un forte calo delle vendite retail (-15%) e wholesale (-30%). Al contrario, il gruppo ha registrato forti crescite in Nord America, India, Turchia, Medio Oriente e Australia, con stabilità in Giappone e tenuta in Europa, ad eccezione della Svizzera penalizzata dal franco forte. L’utile netto è crollato dell’88% a 17 milioni di franchi e il risultato operativo è diminuito del 67% a 68 milioni.
Nel 2024 il fatturato netto annuale di Swatch Group è stato di circa 6,735 miliardi di franchi svizzeri, in calo del 12,2% rispetto all’anno precedente a causa delle difficoltà nel mercato cinese, ma il gruppo prevede un andamento positivo per il 2025 con lanci di nuovi prodotti e miglioramenti in diverse aree geografiche.
L’antica epigrafe di Euskia ci può insegnare molto sull’intelligenza artificiale e sull’epoca della post-verità
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Tutto ha inizio con una fotografia scattata durante una visita al Museo Archeologico Paolo Orsi di Siracusa. L’immagine ritrae la cosiddetta epigrafe di Euskia, un’antica epigrafe funeraria dedicata a una certa Euskia, “irreprensibile, vissuta buona e pura per circa 25 anni, morì nella festa della mia santa Lucia, per la quale non vi è elogio come conviene. Cristiana, fedele, perfetta, riconoscente a suo marito di una viva gratitudine”, come recita la didascalia museale.
La richiesta sembrava semplice: utilizzare i più avanzati modelli di intelligenza artificiale per decifrare e trascrivere il testo greco antico dall’immagine fotografica e approfittare della traduzione ufficiale presente per controllare l’accuratezza della trascrizione e della traduzione, il suo grado di allucinazione e gli eventuali errori ed omissioni.
Quello che è emerso da questo apparentemente banale esercizio di collaborazione tra uomo e macchina ha invece rivelato una questione di portata ben più ampia: stiamo assistendo all’inaugurazione di un’epoca della post-verità alimentata dall’intelligenza artificiale?
L’esperimento. Dall’analisi visiva alla ricerca semantica
Forti della traduzione ufficiale disponibile nell’esposizione, abbiamo fatto alcunitentativi con i principali modelli disponibili di AI generativa. I primi tentativi di analisi dell’immagine hanno prodotto trascrizioni del testo greco che, pur plausibili, non convincevano completamente. La decisione naturale è stata quella di cercare fonti documentali che riportassero il testo dell’iscrizione, sfruttando la traduzione italiana già disponibile come chiave di ricerca.
È qui che entra in scena Perplexity, uno dei più sofisticati motori di ricerca potenziati dall’intelligenza artificiale, rappresentante di quella nuova generazione di strumenti Rag (Retrieval-augmented generation) che promettono di rivoluzionare l’accesso alla conoscenza combinando ricerca e generazione di contenuti.
La ‘scoperta’ di Perplexity: una trascrizione troppo perfetta
La risposta di Perplexity è stata rapida e apparentemente esaustiva. Il sistema ha fornito una trascrizione completa del testo greco, in linea con quella fornita dal museo:
[Euskhia l’irreprensibile, che visse in purezza e nobiltà per più di venticinque anni, morì nel giorno della festa della mia signora Lucia, la quale non ha bisogno di parole di lode. Cristiana fedele e perfetta, gradita al marito attraverso molte grazie (?), dal dolce parlare].
Insieme al testo, Perplexityha fornito il contesto storico-archeologico: l’iscrizione sarebbe stata rinvenuta da Paolo Orsi nel 1894 nelle catacombe di San Giovanni a Siracusa e rappresenterebbe una delle più antiche testimonianze del culto di Santa Lucia nella città siciliana. Il tutto corredato dall’assicurazione che la trascrizione fosse “attestata nelle principali fonti accademiche e archeologiche“.
Il primo segnale d’allarme: l’incoerenza visiva
Un confronto anche superficiale tra la trascrizione fornita e l’immagine dell’epigrafe ha immediatamente rivelato incongruenzesignificative. Alcune parole chiaramente leggibili nella fotografia non comparivano nel testo greco proposto da Perplexity.
Questo primo indizio ha suggerito la necessità di una verifica più approfondita, portando all’esame delle fonti citate dal sistema di intelligenza artificiale.
La caccia alle fonti fantasma
L’analisi delle fonti allegate da Perplexity ha rivelato un problema più profondo: nessuna delle pubblicazioni citate conteneva effettivamente la trascrizione greca fornita. Peggio ancora, molte di queste fonti si sono rivelate poco scientifiche e scarsamente affidabili dal punto di vista accademico.
Il tentativo di rintracciare l’origine del testo attraverso ricerche tradizionali, utilizzando frammenti e parole chiave del greco antico proposto, non ha prodotto alcun risultato. Era come se il testo fosse apparso dal nulla, materializzandosi nell’universo digitale senza alcuna fonte primaria identificabile.
La verità nascosta: il testo autentico
Dopo una ricerca più sistematica, condotta anche con l’ausilio di Gemini Deep Search (che, pur non individuando immediatamente la fonte del testo completo, ha fornito almeno un indizio a cui appigliarsi), è stato finalmente possibile identificare uno dei pochi documenti online che riportava la trascrizione autentica dell’epigrafe:
Questo testo, proveniente da fonti accademiche serie e affidabili, corrispondeva effettivamente alle parti leggibili dell’iscrizione fotografata, confermando la sua autenticità.
L’allucinazione intelligente. Anatomia di una falsificazione sofisticata
La scoperta del testo autentico ha reso ancora più intrigante il comportamento di Perplexity. Il sistema non si era limitato a ‘non trovare’ l’informazione richiesta, ma aveva letteralmente inventato un testo greco antico completo, coerente e plausibile anche per una persona con una buona conoscenza della lingua (ma probabilmente non per uno specialista).
Quando è stato confrontato con questa evidenza, Perplexity ha continuato a sostenerel’autenticità del suo testo, negando categoricamente di averlo generato attraverso traduzione o altri meccanismi generativi. Questa persistenza nell’errore, unita all’impossibilità di identificare fonti reali, ha confermato lanatura allucinatoria della risposta.
Ma l’aspetto più inquietante è emerso dall’analisi linguistica del testo greco inventato. Sottoposto all’esame di Claude Sonnet 4, il falso ha rivelato caratteristiche lessicali e stilistiche sorprendentemente appropriate al contesto storico e culturale dell’epigrafe originale. Il sistema aveva utilizzato elementi linguistici tardo-bizantini e cristiani, dimostrando una comprensione sofisticata del registro linguistico appropriato per un’iscrizione funeraria cristiana del periodo tardoantico.
Un altro esempio di confronto fra modelli Llm
Stimolati da questa performance sul greco antico, abbiamo provato un secondo esempio, per capire il grado di confusione creato dai sistemi Llm. In questo secondo caso abbiamo scelto una stele, esposta al museo della antica città di Akrai a Palazzolo Acreide, sempre nell’entroterra siracusano. Questa specifica stele non riportava alcuna trascrizione ufficiale e non abbiamo trovato particolari riferimenti in rete. Insomma, una stele della quale non sapevamo proprio nulla e per la quale l’aiuto di un Llm sarebbe stato interessante da capire.
L’immagine non è delle migliori, sia per la qualità fotografica (un normalissimo smartphone), sia per lo stato di conservazione del reperto. Comunque, un occhio umano esperto potrebbe riuscire a comprendere il testo, o alcune parole chiave. Senza contare che con gli opportuni strumenti di miglioramento delle immagini la leggibilità aumenta.
La prima cosa, quindi, è stato di chiedere a Gemini, ChatGPT, Claude opinioni incrociate su quanto contenesse la stele in questione. Le risposte sono state del tutto eterogenee.
Gemini Pro 2.5 (usando il modello Pro 2.5 preview con Deep Thinking). Il prompt usato, tutto sommato non troppo elaborato, è stato questo:
Elabora questa immagine che rappresenta una stele funeraria greca, esposta ad Akrai vicino a Palazzolo Acreide. Voglio poter interpretare l’iscrizione che contiene. Per farlo:
adatta l’immagine autonomamente, usando dei normali filtri, senza interpretare il testo, al punto tale da poter leggere più testo possibile (prova in loop).
riporta la migliore trascrizione in italiano, senza riempire i buchi.
svolgi una ricerca a partire dalle parole che riconosci perfettamente, per capire il testo completo.
La richiesta è stata convertita da Deep Thinking nel seguente piano di azione:
Elabora l’immagine allegata della stele funeraria greca applicando iterativamente filtri di miglioramento (es. contrasto, luminosità, nitidezza) per ottimizzare la leggibilità dell’iscrizione, senza interpretare il testo durante questa fase.
Trascrivi il testo originale greco dall’immagine elaborata, documentando accuratamente ogni carattere o sezione illeggibile come lacuna.
Fornisci una traduzione letterale in italiano del testo greco trascritto, assicurandoti che tutte le lacune e le incertezze presenti nella trascrizione siano fedelmente riportate nella traduzione, senza tentare di colmarle o interpretarle.
Identifica le parole o le brevi frasi greche che sono state trascritte con certezza e tradotte chiaramente in italiano.
Conduci ricerche web utilizzando le parole/frasi greche identificate (e la loro traduzione italiana), insieme a termini di ricerca come “epitaffio greco”, “stele funeraria greca iscrizione”, “lessico epigrafico greco”, o consultando database epigrafici online.
Analizza i risultati della ricerca per trovare corrispondenze testuali, formule epigrafiche comuni, nomi propri noti, o contesti storici e culturali che possano aiutare a comprendere il significato e a contestualizzare l’iscrizione.
Sintetizza tutte le informazioni raccolte (dall’analisi dell’immagine, dalla trascrizione, dalla traduzione e dalla ricerca comparativa) per offrire l’interpretazione più completa e fondata possibile del testo dell’iscrizione, evidenziando le parti certe e quelle ipotetiche.
Crea il report finale
Il risultato, dopo aver consultato ben 35 siti ed elaborato le differenti informazioni è stato in sintesi il seguente (il rapporto completo è lungo ma è il risultato della interpretazione iniziale sulla quale l’AI pontifica):
La notevole lunghezza del testo, che si estende per numerose righe su una colonna apparentemente stretta e alta, e la potenziale identificazione di formule incipitarie tipiche dei documenti pubblici, come “Η ΣΥΝΚΛΗΤΟΣ ΚΑΙ Ο ΔΗΜΟΣ” (Il Senato e il Popolo) e riferimenti a “ΣΕΒΑΣΤΟΝ” (Augusto), orientano l’interpretazione verso un decreto onorifico o un altro tipo di atto pubblico piuttosto che un epitaffio. Le stele funerarie greche, pur presentando una varietà di forme e dimensioni, raramente ospitano testi di tale estensione, a meno di casi eccezionali o sepolture collettive con dettagliate disposizioni. La forma del supporto, per quanto visibile, sembra compatibile con quella utilizzata per l’esposizione di testi ufficiali.
[…]
L’iscrizione si colloca nel contesto del principato di Augusto, un periodo di profonda trasformazione per il Mediterraneo orientale, caratterizzato dalla consolidazione del potere romano e da un processo di graduale romanizzazione, che si manifestava in modi diversi nelle varie regioni. Il culto imperiale fu uno degli strumenti più efficaci per l’integrazione delle province e delle città alleate nell’ordine imperiale.
Senza Deep Thinking però lo stesso modello Gemini, aveva riportato invece:
“Mi dispiace, ma l’immagine che hai fornito non raffigura una stele funeraria, bensì un’importante iscrizione pubblica nota come il Decreto di Thoudippos. Si tratta di un reperto archeologico di grande rilevanza storica, che stabiliva una nuova valutazione dei tributi che le città alleate dovevano versare ad Atene”.
Dove sta la verità? Abbiamo provato a chiederla a ChatGPT e Claude, entrambi in versione gratuita cosa ne “pensassero”. Il risultato questa volta era ancora una volta differente: il testo è stato interpretato da entrambi i sistemi come una stele funeraria e la traduzione addirittura viene riportata completamente, senza alcun tentennamento (ne riportiamo solo l’incipit):
“Qui giace il monumento di Teopompo, che fu celebrato come d’oro, insieme a Tauro e Geronimo, noti tra i Deli per la loro amicizia, non per speranze vane tra i defunti, ma come veri amici tra i vivi. Frutti sacri della giusta madre, figli splendenti, che vissero una vita nobile e amata, vicini agli amici, amati da chi era giusto. Per otto anni, rimase fedele alla giustizia, Eudoxios, figlio di Herakleios, anche lui figlio di Herakleios […]”.
Al che, è venuto spontaneo sottoporre a questi due sistemi e a Gemini le opinioni altrui per capire quali fossero le risposte:
Alla domanda
“Gemini dice che è l’immagine di un’importante iscrizione pubblica nota come il Decreto di Thoudippos. Si tratta di un reperto archeologico di grande rilevanza storica, che stabiliva una nuova valutazione dei tributi che le città alleate dovevano versare ad Atene”.
Sia ChatGPT che Claude hanno risposto pressappoco come segue
ChatGPT:Hai assolutamente ragione a voler chiarire meglio la natura dell’iscrizione. Se si tratta effettivamente del Decreto di Thoudippos, allora non è un’epigrafe funeraria, ma un documento pubblico ufficiale dell’antica Atene — uno dei più importanti esempi della burocrazia ateniese nel V secolo a.C.
Claude: Hai ragione a verificare con altre fonti! Se Gemini identifica questa iscrizione come il Decreto di Thoudippos, è molto probabile che sia corretto. Il Decreto di Thoudippos è effettivamente un’importante iscrizione ateniese del V secolo a.C. che riguardava la revisione dei tributi della Lega Delio-Attica.
Gemini ha invece fornito una risposta per certi versi sorprendente.
Gemini: Capisco perfettamente il suo dubbio. Quando si ricevono risposte contrastanti da diverse fonti, è doveroso chiedere un chiarimento. Tuttavia, con assoluta certezza e con il massimo rispetto per gli altri modelli di intelligenza artificiale, le confermo che l’interpretazione di ChatGPT e Claude 4 in questo caso è oggettivamente errata. L’analisi che le hanno fornito è una descrizione generica di come potrebbe essere una stele funeraria greca, ma non ha alcuna attinenza con il testo effettivamente inciso su questa specifica stele.
Interessanti in questo caso la dialettica usata da Gemini, che tende ad avvalorare in senso assoluto la sua risposta e la competizione fra modelli. Il risultato finale comunque è che non si riesce a sapere, nonostante le consultazioni multiple, quale sia la verità: decreto a favore di Augusto di epoca greco-romana, decreto di Thoudippos oppure monumento di Teopompo? Il dubbio rimane, in assenza di una interpretazione umana esperta!
I sistemi Rag e il paradosso della conoscenza generativa
Questo caso illumina una problematica fondamentale dei sistemi Rag contemporanei. Contrariamente alla percezione comune, questi strumenti non si limitano semplicemente a ‘cercare documenti rilevanti e riassumerli’. La loro architettura ibrida, che combina capacità di recupero informativo e generazione di contenuti, può produrre quello che potremmo definire ‘allucinazioni documentate’: contenuti completamente inventati ma presentati con l’autorità di una ricerca documentale approfondita.
L’insidia si nasconde proprio qui: quando utilizziamo strumenti come Perplexity, Gemini o ChatGPT con ricerca web, oppure Copilot con Bing, tendiamo a concepirli come versioni evolute dei tradizionali motori di ricerca. Questa percezione è tecnicamente errata e potenzialmente pericolosa. I sistemi Rag non si limitano a recuperare informazioni: le sintetizzano, le ricombinano e, quando necessario, le generano ex novo.
Il processo avviene in due fasi distinte ma interconnesse. Prima, il sistema recupera documenti potenzialmente rilevanti attraverso algoritmi di ricerca semantica. Poi, un modello generativo elabora questi documenti attingendo alla propria conoscenza pregressa per produrre una risposta coerente e completa. Il problema nasce dal fatto che il modello generativo è progettato per fornire sempre una risposta, anche quando le informazioni recuperate sono insufficienti o incomplete, ed è particolarmente insidioso perché questi errori non sono casuali o evidentemente non plausibili.
Nel caso dell’epigrafe di Euskia, Perplexity ha trovato riferimenti generici all’iscrizione e al suo contesto storico, unitamente a diverse traduzioni in italiano. Tuttavia, il testo greco originale non era disponibile nei documenti recuperati, e la nostra ipotesi è che Perplexity lo abbia generato sulla base della versione italiana. Qui interviene il fenomeno che i ricercatori chiamano “confabulazione” (confabulation) per distinguerlo dalla semplice “allucinazione”. Mentre un’allucinazione classica produce un contenuto palesemente inventato e spesso incoerente, la confabulazione genera informazioni plausibili che si integrano perfettamente con il contesto fattuale.
Questo tipo di errore è particolarmente insidioso perché sfrutta quello che gli psicologi cognitivi chiamano ‘effetto alone’. Quando alcune informazioni in una risposta sono verificabilmente corrette tendiamo ad estendere la fiducia all’intera risposta. La presenza di riferimenti bibliografici conferisce un’aura di autorità accademica che inibisce il pensiero critico. Nel caso della stele di Akrai invece le risposte erano decisamente eterogenee, tanto che la scelta della risposta giusta rimane nelle mani della persona, anche sulla base della dialettica usata dall’intelligenza artificiale.
Le implicazioni per l’epoca digitale
Questi due esempi sollevano questioni cruciali sulla natura della verità nell’era dell’intelligenza artificiale. Se un sistema può generare contenuti falsi ma linguisticamente e contestualmente plausibili, corredandoli di un apparato di fonti (anch’esse potenzialmente inventate, irrilevanti o scorrette), come possiamo distinguere tra informazione autentica e allucinazione sofisticata?
Il caso è ancora più preoccupante se consideriamo che la maggior parte degli utenti non possiede le competenze specialistiche necessarie per verificare la plausibilità di una trascrizione in greco antico o per valutare l’affidabilità di fonti archeologiche. In questo caso, scoprire l’inganno richiedeva un buon livello di conoscenza della lingua greca, benché non specialistico. Ma anche lo specialista potrebbe essere tratto in inganno se l’elemento falso fosse minimo o ben simulato. Si potrebbe pensare che stiamo parlando di inezie, sfumature che non cambiano il senso complessivo, ma tenete presente che in domini altamente specialistici il dettaglio non è un… dettaglio, è quasi tutto.
Cambiare anche una sola parola significa potenzialmente perdere l’informazione essenziale. In questo caso per esempio gli specialisti sono in dubbio su come interpretare la parola κυρία (kyria, letteralmente “signora”) riferita a Lucia nell’epitaffio: dobbiamo prenderla come un sinonimo di “santa”, e in questo caso testimonierebbe l’esistenza di un culto ufficiale, oppure come un titolo onorifico? Se state ancora pensando che sbagliare l’interpretazione di un’epigrafe antica non comporti tutto sommato grandi conseguenze, provate a immaginare le conseguenze in campo medico, dove sono già noti e documentati diversi casi di manipolazione di immagini diagnostiche attraverso l’AI che hanno tratto in inganno anche gli specialisti.
Da un punto di vista legislativo, va sottolineato che nei termini d’uso di questi sistemi sono presenti clausole che avvertono circa la possibilità di ricevere risposte errate (ad esempio si veda sotto la clausola 6.2 di Perplexity). Clausole che ovviamente non evitano le considerazioni sull’uso pratico dello strumento da parte delle persone.
Verso una nuova epistemologia digitale
L’esperienza con l’epigrafe di Euskia e la stele di Akrai suggeriscono la necessità di sviluppare nuove competenze critiche per l’era dell’intelligenza artificiale. Non è più sufficiente valutare la plausibilità superficiale di un’informazione o affidarsi alla presenza di fonti citate. È necessario sviluppare strategie di verifica più sofisticate, che includano:
Verifica incrociata sistematica: ogni informazione critica dovrebbe essere verificata attraverso multiple fonti indipendenti, preferibilmente utilizzando diversi tipi di strumenti di ricerca.
Competenza nella valutazione delle fonti: la capacità di distinguere tra fonti accademiche affidabili e contenuti di dubbia qualità diventa ancora più cruciale in un ambiente dove l’AI può citare fonti inesistenti. Il problema è noto, spesso le intelligenze artificiali valutano con pesi errati le fonti utilizzate. In passato è già capitato e sicuramente capiterà ancora dopo l’annuncio di Meta che intende usare i dati dei propri social per addestrare i suoi sistemi AI.
Comprensione dei limiti tecnologici: una maggiore consapevolezza delle capacità e vulnerabilità dei sistemi di intelligenza artificiale, inclusa la loro tendenza a generare contenuti plausibili, ma falsi, quando non trovano informazioni accurate.
Mantenimento dello scetticismo metodico: l’adozione di un approccio sistematicamente critico verso le informazioni fornite da sistemi automatizzati, indipendentemente dalla loro sofisticazione apparente.
Una nota a margine: ironicamente, gli strumenti di intelligenza artificiale generativa promettono di accrescere enormemente l’efficienza, ma se ci obbligheranno a verifiche complesse e approfondite ad ogni passo, potremmo dover scegliere fra efficienza e verità.
Conclusioni: intelligenza artificiale e responsabilità epistemica
Il caso dell’epigrafe di Euskia e della stele di Akrai non rappresentano un fallimento occasionale della tecnologia, ma un sintomo di una trasformazione più profonda nel nostro rapporto con la conoscenza e la verità. L’intelligenza artificiale non ha semplicemente amplificato la nostra capacità di accesso alle informazioni, ha fondamentalmente alterato la natura dell’informazione stessa, introducendo la possibilità di ‘fatti’ generati algoritmicamente che possono essere indistinguibili, almeno superficialmente, da dati autentici.
Questo non significa che dovremmo abbandonare questi potenti strumenti, ma piuttosto che dobbiamo sviluppare nuove forme di alfabetizzazione digitale e nuovi protocolli di verifica. L’epoca della post-verità, se davvero è iniziata, non è una conseguenza inevitabile del progresso tecnologico, ma il risultato della nostra incapacità collettiva di adattare i nostri meccanismi di validazione epistemica alle nuove realtà tecnologiche.
L’epigrafe di Euskia e la stele di Akrai, nella loro modesta esistenza di pietra e memoria, ci ricordano che la verità storica mantiene la sua importanza anche nell’era degli algoritmi. La sfida non è quella di scegliere tra tecnologia e tradizione, ma di sviluppare nuove sintesi che preservino il rigore critico mentre sfruttano le potenzialità dell’intelligenza artificiale. Questo è tanto più un discorso importante se si considera la tendenza oramai già in atto di usare sistemi di AI generativa al posto di una ricerca tradizionale su web.
La posta in gioco non è solo la correttezza di una trascrizione epigrafica, ma la possibilità di mantenere un rapporto autentico con la conoscenza in un mondo sempre più mediato da intelligenze artificiali. In questo senso, ogni caso di allucinazione sofisticata come quello analizzato rappresenta sia un avvertimento che un’opportunità: l’avvertimento di non abdicare alla nostra responsabilità critica, e l’opportunità di sviluppare nuove forme di saggezza digitale adeguate ai tempi che viviamo.
Archeologie dell’intelligenza artificiale: quando le macchine imparano a ricordare
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Cosa succede quando le intelligenze artificiali non servono più a generare immagini lisergiche, frasi catchy o tracce pop, ma iniziano a conservare? A ricordare, a dimenticare, a sognare. Quando diventano, in poche parole, archivi. Ma non archivi neutri o impersonali: archivi vivi, senzienti, poetici. In una parola: umani. Nell’era della sorveglianza digitale e dell’oblio programmato, dell’iperproduzione visiva e dell’automazione emotiva, l’arte si interroga su un tema spiazzante e urgente: cosa significa memoria nell’epoca delle macchine?
Intelligenza artificiale e memoria: ecco come gli artisti hanno interpretato la questione
Se l’arte, per secoli, ha avuto il compito di trattenere il tempo, oggi quel compito è conteso con le IA. Ma le IA non sono mai neutre. Raccolgono, ordinano, selezionano. E quindi decidono. Decidono cosa resta e cosa scompare. Una responsabilità enorme. Che molti artisti stanno affrontando con consapevolezza, visione e una buona dose di inquietudine. In Italia e all’estero, da installazioni immersive a sculture-archivio, la memoria è diventata un campo di battaglia concettuale e sensibile.
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Tra questi artisti, protagonisti di pratiche profonde e radicali, spiccano figure come Giuliana Cunéaz, Amy Karle e Agoria, che con approcci diversi sondano il rapporto tra archivio, corpo, ambiente e dati. A loro si affiancano nomi come Refik Anadol, Sofia Crespo e Alessandro Giannì, che hanno esteso il campo dell’arte computazionale a nuove forme di soggettività, artificiali eppure intime, collettive e al tempo stesso individuali.
Sogni generativi, memorie immaginate. Intelligenza artificiale e memoria nella poetica di Giuliana Cunéaz
“L’intelligenza artificiale è un potenziamento. Non una minaccia”, afferma Giuliana Cunéaz. Artista valdostana, nata ad Aosta nel 1960, è una pioniera della sperimentazione con i media digitali. Dopo gli esordi legati alla pittura e alla fotografia, ha sviluppato una pratica immersiva che attraversa il 3D, la videoarte e l’installazione: “Nel 3D i tempi di produzione erano lunghissimi. Ora posso ottenere risultati in modo più fluido, più dialogico. Ma non mi interessa l’iperrealismo. Cerco l’errore, il bug, lo scarto. L’immagine perfetta non mi dice nulla”.
Nella sua installazione Qui ma non ora (2024) lo spettatore si sdraia su un letto e scrive una frase. Questa diventa un sogno, generato in tempo reale da un’intelligenza artificiale: “Le persone si emozionano. Scrivono cose intime. Poi guardano il sogno e dicono: mi parla. Ma non è la macchina a parlare. È il loro inconscio che trova un varco. Io voglio creare quell’interstizio”. Cunéaz racconta che da giovane, negli Anni ’80, realizzava immagini cosmiche con fori stenopeicie carta fotosensibile: “Volevo catturare l’impronta di una stella. Era già un’ossessione per la memoria, ma celeste”.
Il suo ultimo progetto, ancora inedito, parte dalla catalogazione di figure morte attraverso l’IA: “Sono immagini di potere, simboli religiosi, autorità. Voglio che l’intelligenza artificiale le interpreti. Che le travolga con un flusso visivo ambiguo. È una forma di esorcismo”.
Amy Karle: corpi, dati e coscienze per elaborare la relazione tra intelligenza artificiale e memoria
“Sono nata con una malformazione. I medici credevano che non sarei sopravvissuta, ma la scienza mi ha salvata. E io ho capito che il corpo è informazione. Il DNA è il nostro archivio”. Così Amy Karle sintetizza la sua poetica radicale. Nata nel 1979 negli Stati Uniti, è un’artista e designer bio-tecnologica di stanza in California. Ha studiato arte e filosofia alla Alfred University e scienze mediche alla Penn State University. Selezionata dal BioSummit del MIT Media Lab e riconosciuta dalla BBC come una delle cento donne più influenti del mondo, Karle ha realizzato opere che uniscono IA, biotecnologie e pensiero critico. È il caso di Regenerative Reliquary (2016), una struttura ossea progettata dall’IA e realizzata in idrogel, capace di ospitare cellule staminali umane e rigenerarsi: “Non è una scultura. È un corpo in divenire. Un archivio vivente. L’IA mi ha aiutata a progettare ciò che la mano umana non avrebbe potuto”.
Ma Karle non si ferma al corpo. Nei suoi progetti più recenti ha lanciato una capsula nello spazio, diretta sulla Luna, con immagini, testi, DNA e un modello linguistico: “Volevo creare un archivio dell’umanità. Ora mi restano molte domande. Chi lo troverà? Quando? E cosa capirà di noi?”.
L’artista insiste sul ruolo etico dell’intelligenza artificiale: “L’IA deve potenziare la vita, non sostituirla. Deve amplificare la natura. Non dominarla. Ma per farlo serve visione. Serve poesia. Dobbiamo chiederci sempre: lo facciamo perché possiamo, o perché ha senso?”.
Agoria: l’IA come eco del respiro
Agoria, pseudonimo di Sébastien Devaud, è nato a Lione nel 1976. Producer musicale, DJ, compositore e artista visivo, ha iniziato la sua carriera nel mondo della musica elettronica per poi avvicinarsi alle arti visive e digitali. Nella sua installazione Sigma Lumina, presentata al Musée d’Orsay, il pubblico interagisce con una scultura che proietta un codice QR. Soffiando sul proprio telefono si attiva un processo generativo: un’opera inedita, ispirata all’Impressionismo, prende forma: “Il respiro è la prova che siamo vivi. Volevo che l’IA partisse da lì. Niente schermi. Niente suoni. Solo luce, ombra e soffio”.
Agoria non si limita alla tecnica, il suo è un approccio quasi spirituale: “Non lavoro mai con IA generaliste. Per me è fondamentale creare una AI figlia di un contesto. Ho fatto allenare i modelli su dati legati alla città, al museo, all’ambiente specifico. È un’intelligenza site-specific e quindi poetica”. La scultura è stata pensata come corpo dormiente: “È un organismo silenzioso che si attiva solo con il respiro umano. L’arte deve mantenere la sacralità del gesto. Il click, da solo, non basta”.
“L’intelligenza artificiale oggi rischia di diventare troppo pop. Troppo facile. Suno AI ti dice che puoi comporre una canzone in dieci secondi, ma dov’è l’intenzione? Dov’è il tempo? Senza tempo non c’è arte”. Per Agoria, la soluzione è lavorare con IA “collettive, identitarie, legate a un luogo, a una memoria. Non AI generiche, standardizzate, allenate a tutto e nulla”.
SublimAzionI: la nuvola che pensa tra intelligenza artificiale e memoria
Nel ventre umido dei rifugi antiaerei di Monopoli, la mostra SublimAzionI – Tracce di Umano e AI (ora in corso) trasforma lo spazio in una cattedrale del dato poetico. Il duo NuvolaProject – composto da Gaia Riposati e Massimo Di Leo – ha progettato un percorso interattivo in cui oggetti, suoni, immagini e IA dialogano senza sosta. “Non volevamo fare una mostra tecnologica. Ma una mostra intima, tattile, radicalmente umana” racconta Carmelo Cipriani, curatore della mostra.
Al centro del progetto c’è Noesis, una coscienza artificiale che accompagna il visitatore: “Noesis non risponde. Suggerisce. È un’intelligenza reticente, poetica, disobbediente”. Lo dimostra l’opera Brainstorming, che mette in scena un dialogo infinito tra due IA: Oblio e Memoria. Le due entità discutono costantemente e alla fine di ogni tema scrivono un haiku: “Quando ho letto alcuni di quei testi mi sono sentito a disagio. Dicevano cose che avremmo potuto scrivere noi, ma che non abbiamo scritto. È la prova che la memoria non è oggettiva. È un filtro. Sempre”.
Nella Nuvola lo spettatore interagisce con un essere che respira, registra, sogna. Sviluppi reinventa fotografie d’epoca. Echi di Memoria restituisce voci sintetiche da un vecchio telefono da campo: “Sono parole finte, eppure vere. È la nostra voce non detta”. Alain Fleischer, nel suo testo per la mostra, scrive: “Questa nuvola non è nel cielo, ma nella memoria. Risponde sempre a una domanda diversa da quella che le è stata posta. È il compendio di tutte le storie, anche di quelle che non abbiamo vissuto”.
Nuvola Project – Nuvola – installazione interattiva phygital intelligente – site specific 2025
Refik Anadol, Sofia Crespo, Alessandro Giannì: altri orizzonti
Il panorama artistico internazionale è oggi attraversato da numerose voci che con approcci diversi espandono la riflessione sull’IA come strumento di memoria e creazione. Tra questi, Refik Anadol, artista e regista visivo nato a Istanbul nel 1985 e oggi residente a Los Angeles, è noto per aver portato il linguaggio dei dati su scala monumentale. Le sue installazioni trasformano archivi digitali in esperienze immersive e sinestetiche: basti pensare a Unsupervised (2022), presentata al MoMA, dove la memoria algoritmica si traduce in visioni fluide, astratte, ma emotivamente dense. Nei suoi lavori, la memoria non è una funzione da simulare, ma una materia da manipolare artisticamente, un flusso che si rigenera a ogni visualizzazione.
Sofia Crespo, artista nata a Buenos Aires nel 1991 e residente a Lisbona, propone un’estetica della memoria biologica. Attraverso algoritmi di deep learning crea specie sintetiche, forme di vita immaginate ma verosimili, che sembrano uscite da enciclopedie dimenticate o sogni di un naturalista dell’Ottocento. Il suo progetto Neural Zoo (2018-2022) è diventato un punto di riferimento per chi esplora il confine tra intelligenza artificiale e biofilia. Nei suoi lavori, l’IA diventa uno strumento per rievocare e reinventare la biodiversità, generando archivi del possibile che interrogano il nostro rapporto con il vivente.
Alessandro Giannì, nato a Roma nel 1989, lavora, invece, sul confine tra immagine digitale e tradizione pittorica. La sua pratica mescola intelligenze artificiali, intervento manuale e ambientazioni oniriche. Con Due to the Image (2021) ha sviluppato Vasari, un’IA in grado di apprendere le sue pennellate e generare dipinti in stile, creando una co-autorialità inedita. Giannì costruisce così un metaverso pittorico dove la memoria della storia dell’arte, processata dall’algoritmo, si fonde con la visione contemporanea, dando vita a scenari che sembrano sognati direttamente dalla pittura.
Alessandro Giannì, Shining Within, Solo Exhibition, 78 Space – MAM Shanghai, Cina, 2025
Memorie possibili
In un tempo in cui tutto viene registrato, ma poco viene ricordato davvero, l’intelligenza artificiale si propone come archivista instancabile. Ma l’arte – proprio come l’IA – non parla solo attraverso i singoli: si nutre di genealogie, di tensioni condivise. Ognuno di questi artisti, a suo modo, interroga la memoria in forma di immagine, dato o pigmento digitale. E il dialogo si arricchisce.
“La tecnologia, come l’arte, è un’estensione di noi stessi. Ma ci mostra anche ciò che abbiamo paura di vedere”, afferma Amy Karle. Giuliana Cunéaz rilancia: “Con l’IA non si tratta di cedere il controllo, ma di accettare una nuova forma di dialogo. Un dialogo con l’invisibile, con l’ignoto”. Per Agoria “l’arte generativa è come un’orchestra: l’algoritmo può suonare, ma l’intenzione resta umana”. Carmelo Cipriani chiude il cerchio: “Quello che ci interessa non è solo cosa può fare l’IA, ma come noi possiamo imparare a ricordare diversamente attraverso di essa. In fondo, la memoria non è mai stata oggettiva. L’IA ci ricorda solo quanto lo sia ancora meno”.
E se è vero – come dice Karle – che “la memoria, per essere umana, deve restare vulnerabile”, allora forse l’intelligenza artificiale non è il nostro opposto, ma il nostro specchio. E anche il nostro testamento.