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Comunicare la scienza: una nuova era?

Comunicare la scienza: una nuova era?

Nel contesto attuale dove le conoscenze scientifiche progrediscono rapidamente, come dimostrano innovazioni quali l’intelligenza artificiale o nuove tecnologie di modifica genetica, è indispensabile che anche la comunicazione della scienza evolva per affrontare le sfide del nostro tempo. Mai come oggi, è cruciale chiedersi come rendere la scienza – e  la tecnologia – comprensibile, poiché solo se compresa essa può essere accettata e avere un impatto concreto sulle decisioni individuali e sulle politiche pubbliche.

Questo è uno dei messaggi centrali del lavoro di Druckman et al. (2025), pubblicato dalla National Academy of Science, che esplora i limiti e le potenzialità di due approcci alla comunicazione: il modello tradizionale di diffusione “top-down” e quello partecipativo, incentrato sull’ascolto e il dialogo e che porta alla luce una riflessione molto profonda sul ruolo della comunicazione della scienza.

Entrambi i modelli presentano vantaggi e sfide significative. Il modello “top-down” si scontra con un ecosistema informativo ipercompetitivo, che amplifica voci pseudo-scientifiche e politicizza la conoscenza. Al contempo, il modello partecipativo, pur ideale per affrontare incertezze e costruire fiducia, si scontra con una polarizzazione del pensiero attuale che ostacola la fiducia e  impone un intenso impegno ai comunicatori. Questi infatti devono non solo tradurre la scienza, ma anche comprendere le preoccupazioni, le esigenze e i valori delle diverse comunità. È un processo impegnativo che richiede dialogo, collaborazioni interdisciplinari e ingaggio sistematico con stakeholder diversificati, oltre che di capacità di anticipare le esigenze del pubblico, evitando le reattività tipiche di momenti di crisi.

Come sottolineano gli autori, la complessità della scienza si riflette nella complessità della sua comunicazione. Non esistono soluzioni semplici. Esiste, però, una “scienza della comunicazione scientifica”, un settore che merita ricerca continua e applicazioni informate per garantire che il sapere scientifico possa essere recepito e utilizzato efficacemente. È il momento di investire in strategie proattive e partecipative per colmare il divario tra scienza e società, affinché la conoscenza non sia solo prodotta, ma compresa e adottata, contribuendo al benessere individuale e collettivo. E che il ruolo di chi comunica la scienza sia rivalutato al pari di chi produce la scienza in una sorta di alleanza per un obiettivo comune: il progresso.

(Fonte: Druckman J.N. et al., An agenda for science communication research and practice, PNAS, Vol 122, No 27, 2025)




Un piano nazionale per la formazione all’AI: USA, Cina, UK e Germania hanno avviato programmi per la formazione all’AI. E l’Italia?

Un piano nazionale per la formazione all’AI: USA, Cina, UK e Germania hanno avviato programmi per la formazione all’AI. E l’Italia?

L’Intelligenza Artificiale sta provocando nei Paesi avanzati lo sviluppo di piani nazionali per la formazione in ambito scolastico e per la riqualificazione professionale. Una esigenza che nasce dalla consapevolezza dei governi dell’impatto potenziale dell’AI sull’occupazione, sulle competenze e sulla produttività. Parliamo quindi di progetti strategici per il sistema Paese. Proviamo allora ad analizzare alcuni casi internazionali per trarre delle valutazioni utili soprattutto nell’ottica di avviare una riflessione sullo sviluppo di un piano nazionale in Italia.

UK: il piano Starmer

Il premier Keir Starmer ha annunciato la partnership con undici Big Tech globali per formare 7,5 milioni di lavoratori all’Intelligenza Artificiale entro il 2030. Il focus viene posto sugli strumenti tecnologici, forniti dalle stesse aziende produttrici. Verrà sviluppata una piattaforma per la formazione permanente dei lavoratori all’AI. Nella scuola viene annunciato il programma TechFirst da 187 milioni di sterline, focalizzato su nuovi laboratori tecnologici, competenze digitali richieste dalle aziende, formazione dei docenti.

Cina: l’AI nelle scuole

Pechino ha lanciato il suo primo piano nazionale per trasformarsi in una “potenza educativa” entro il 2035.  Il programma del Ministero dell’Istruzione Cinese, rivolto sia agli studenti che al corpo docente, prevede l’inclusione dell’IA nei materiali didattici, nei programmi di studio e nelle attività di insegnamento.  L’introduzione sistematica dell’AI nella scuola punta a generare capitale umano ad alta specializzazione, elemento fondamentale per lo sviluppo di settori strategici quali robotica, biotecnologie, semiconduttori, difesa e cybersicurezza. Questa visione posiziona l’educazione come uno degli assi centrali della nuova sovranità tecnologica cinese.  Il Ministero ha inoltre sottolineato che le tecnologie AI renderanno le lezioni più dinamiche e coinvolgenti, incentivando un approccio più creativo all’apprendimento.  Nelle università cinesi sono stati aperti numerosi corsi sulla Intelligenza Artificiale. L’integrazione dell’intelligenza artificiale nei programmi scolastici cinesi rappresenta molto più di una riforma educativa: è una scelta di politica industriale, tecnologica e geopolitica.

USA: investimenti, task force, concorsi

Il presidente Trump ha avviato una Task Force per l’Educazione all’Intelligenza Artificiale, e firmato un ordine esecutivo ad aprile, invitando le scuole a integrare l’AI nelle classi di tutti i livelli scolastici “per garantire che gli Stati Uniti rimangano leader globali in questa rivoluzione tecnologica”.

Viene lanciato anche il Presidential Artificial Intelligence Challenge, un concorso che metterà in risalto i risultati ottenuti da studenti e insegnanti in tutto il Paese.

Vengono potenziati anche i programmi di apprendistato e formazione permanente.

Negli USA anche i privati si muovono: è stato siglato un accordo tra Microsoft, OpenAI e Anthropic, per finanziare la formazione dei docenti all’uso dell’Intelligenza artificiale, con un investimento di 23 milioni di dollari a favore dell’American Federation of Teachers.

Germania: focus sui settori economici e sulla tecnologia nazionale

Il piano da 20 miliardi annunciato dal Cancelliere Mertz ha come obiettivo una Germania leader dell’AI, in particolare nei settori chiave dell’economia. L’aumento della concorrenza da parte di nazioni come Cina e Stati Uniti richiede una strategia chiara che non solo investa in ricerca e sviluppo, ma che favorisca anche l’educazione e la formazione di talenti nel campo dell’AI.  

La Germania si sta rendendo conto che la competitività futura non dipenderà solo dal suo patrimonio industriale, ma anche dalle nuove tecnologie e metodologie emergenti, sulle quali il paese ha accumulato un ritardo.

Il piano si basa anche sulla collaborazione tra start-up, fondamentali per creare un tessuto industriale innovativo, e istituti di ricerca, e intende implementare programmi di formazione per riqualificare la forza lavoro.  

Alcune osservazioni sui piani internazionali

Occorre ora analizzare queste strategie internazionali per poter sviluppare una progettualità alternativa, adatta al contesto italiano e possibilmente migliorativa. Nel caso inglese il coinvolgimento delle Big Tech USA configura un potenziale conflitto di interesse, oltre che una minaccia per la sovranità tecnologica di quel Paese. Farsi raccontare dall’oste (le Big Tech) quanto è buono il vino (l’AI) è una scelta discutibile, specie per un governo europeo. Si prospetta, sempre per lo stesso motivo, una potenziale sottovalutazione dei rischi connessi all’AI (atrofia mentale, dipendenza, Bias, allucinazioni e molto altro). Si prospettano addirittura alcune situazioni paradossali, come nel caso delle “politiche di supporto psicologico per chi vive il cambiamento come una minaccia”, che potrebbero trasformarsi in campagne di persuasione occulta di massa a favore di prodotti di aziende private. Peraltro, anche voler porre gli strumenti AI al centro del contenuto della formazione è per certo riduttivo: questi, infatti, evolveranno rapidamente rendendo obsolete le competenze acquisite, diventeranno inoltre sempre più facili e semplici da utilizzare, in certi casi vanificando l’utilità della formazione stessa. Il modello cinese risulta più solido essendo finalizzato alla costruzione di asset e competenze nazionali, anche se rischia di avere un approccio fortemente tecno-centrico. Analogamente, la Germania punta a recuperare il ritardo sulle tecnologie digitali, inserendo la formazione all’AI nel quadro di un colossale investimento per l’innovazione della economia tedesca, in tutti i settori. Negli USA, infine, il piano istituzionale presenta alcune idee innovative (concorso, task force) e risulta separato da quello dei privati, che peraltro investono direttamente anche nell’ottica di aprirsi futuri mercati pensando alle nuove generazioni.

Per un piano nazionale italiano

Il contesto italiano presenta alcuni aspetti problematici: la debolezza dei player tecnologici nazionali, l’elevata età dei docenti e il ritardo annoso nella alfabetizzazione digitale: fattori che rendono la nostra strategia più complessa. Tuttavia, i recenti investimenti del PNRR hanno introdotto – almeno nella scuola – molti dispositivi tecnologici, che possono essere valorizzati in un piano di formazione all’AI purché si agisca tempestivamente. Da qui una serie di spunti di riflessione indirizzati al disegno di un possibile piano nazionale italiano di formazione all’AI.

AI Act e tavolo europeo

Un piano nazionale italiano non può prescindere dal contesto europeo. In particolare, occorre tenere conto, così come già avviene in Germania, delle linee guida dell’AI Act di Bruxelles, che pone alcuni vincoli – in termini di rispetto della privacy, conservazione dei dati presso data center in Europa, rispetto del copyright – piuttosto difficili da accettare per le Big Tech americane o cinesi. Ci sono anche indicazioni di natura etica che pongono il settore educativo tra quelli ad alto rischio, e ciò va considerato. Alcune strategie, soprattutto anche di politica industriale e occupazionale, dovrebbero quindi essere condivise a livello europeo. In conclusione, l’idea di un tavolo europeo potrebbe consentire all’Europa di promuovere sia una risposta competitiva, capace di ridurne l’artificial divide, sia una cornice di norme e valori a presidio di una cultura dei diritti che appare sempre più minacciata.

Monopoli e facoltà discrezionale 

Un ulteriore aspetto, sempre in coerenza con le indicazioni europee, riguarda i monopoli digitali. Deve essere combattuta quella dipendenza da singoli player, specie se extraeuropei, che si è conosciuta in passato con i motori di ricerca (Google), il software e i sistemi operativi (Microsoft), i social (Meta), l’e-commerce (Amazon). Pur non escludendo il ricorso a strumenti offerti dalle Big Tech, va abilitata e presidiata la facoltà discrezionale tra tools diversi, anche attraverso sistemi tecnologici che permettano ad esempio di passare agevolmente da un modello AI all’altro, anche semplicemente per cogliere le opportunità che si affacciano con una continua evoluzione tecnologica e la specializzazione funzionale (es: traduzione automatica, sintesi vocale, AI multimodale, operativa, creativa, organizzativa…).

Le intelligenze artificiali – al plurale

Come indicato dal Rapporto Draghi per la competitività europea, nel vecchio continente è fondamentale collegare l’AI ai diversi settori economici e della ricerca. Anche in tema di formazione occorre quindi superare la metafora dell’unica Intelligenza Artificiale, magari antropomorfica, per analizzare e trattare, invece, le diverse tecnologie AI applicate nei settori del sapere e dell’industria. La visione artificiale per la diagnostica medica non va, ad esempio, confusa con l’AI conversazionale dei servizi, e neppure con quella predittiva applicata alla meccatronica. Una corretta alfabetizzazione all’AI quindi non si basa banalmente sull’uso popolare di ChatGPT; al contrario, passa attraverso una analisi funzionale delle diverse tecnologie e dei relativi obiettivi e contesti.

Open Source e AI come commodity

Ogni 18 ore, nel mondo, viene rilasciato un nuovo modello AI Open Source, utilizzabile gratuitamente da sviluppatori – per creare nuove applicazioni di alto livello -, e da utenti. Questa risorsa si unisce alle tecnologie di distillazione, che già hanno permesso, ad esempio, al modello cinese Deepseek di riprodurre, in tempi e costi limitati, le prestazioni dei grandi modelli USA. Si può cominciare a intravedere uno scenario in cui l’AI potrebbe diventare una commodity, una merce disponibile a basso costo da diversi fornitori, capace quindi anche di un’ampia gamma di soluzioni per la formazione e lo sviluppo di nuovi strumenti.

Il ruolo dei docenti

Come indicato dal Ministro Valditara, il ruolo dei docenti dovrà comunque essere cruciale. Nel saggio “Conoscenza o barbarie, storia e futuro dell’Educazione”, Jacques Attali disegna un quadro e una prospettiva difficili per il mondo dei docenti, che stanno vivendo una contrastata fase identitaria, motivazionale e anche di autorevolezza, rispetto alle informazioni e funzioni offerte dalle piattaforme digitali. Il docente va pertanto riposizionato nel contesto di un nuovo ecosistema dove l’AI entra in classe e nei dispositivi dei docenti, i quali, ora, interpretano nuovi ruoli: quelli, ad esempio, del controllo critico o della mediazione culturale digitale.

Una nuova mediazione culturale digitale

La comunità educativa ha quindi di fronte a sé un nuovo ruolo strategico: trasformare il web e l’AI da rischio in risorsa.

Attualmente gli smartphone e i social sono considerati vere e proprie armi di “distrazione di massa” che hanno ridotto il Quoziente Intellettivo delle nuove generazioni. L’AI può fare ancora peggio, soprattutto se abbandonata all’attuale fai-da-te degli studenti che genera forme di atrofia mentale. Ecco che allora ai docenti spetta il compito di una nuova rilevante sfida: quella di farsi mediatori tra la sfera digitale e gli studenti. In quest’ottica sarà importante adottare piattaforme di aggregazione e content curation, in grado di valorizzare e potenziare i contenuti positivi presenti in rete, e occorrerà rispettare nell’AI il principio di trasparenza delle fonti, per distinguere quelle autorevoli dall’universo fake.

Controllo critico e autorale

Gli strumenti di formazione con AI devono alimentare e mantenere attivo il controllo critico di docenti e studenti. Occorre andare quindi oltre le “scatole nere” che contraddistinguono l’AI odierna, per rendere disponibili sistemi in grado di trattare documentazioni specifiche, compresi video o altri contenuti multimediali, ma anche di impostare facilmente il ruolo e il comportamento degli agenti AI, e di progettare interfacce creative per raggiungere determinati obiettivi. In sostanza, strumenti che sviluppano il senso critico e la creatività autorale nell’AI. 

Personalizzazione

La personalizzazione dell’apprendimento, auspicata anche dal Ministro Valditara, è sicuramente una opportunità offerta dall’AI che ci aiuta a superare l’approccio omologante dei sistemi educativi tradizionali, specie se si realizza sotto il controllo della funzione docente e della comunità educativa che allontanano il rischio di un rapporto uno-a-uno tra studente e piattaforma.

Ciò comporta strumenti didattici diversi dalle piattaforme di massa come Google, Meta o ChatGPT, basate sulla disintermediazione verso gli utenti finali: bisogna invece sviluppare soluzioni che introducano il docente nel processo di personalizzazione dell’apprendimento.

Tecno-metodologie

La pedagogia tradizionale non è più sufficiente nel contesto dell’apprendimento con l’AI: occorre pensare a nuove tecno-metodologie. Quali ad esempio:

  • l’Innovation Design, che consiste in una metodologia di ricerca applicata che adotta le tecnologie emergenti per realizzare sperimentazioni e prototipi di nuovi servizi e prodotti nella scuola, anticipandone la successiva diffusione nella società e nelle aziende;
  • la workplace simulation, che è invece la riproduzione di ambienti e processi lavorativi, realizzata con realtà virtuale e Intelligenza Artificiale;
  • la didattica incrementale, infine, che prevede fasi crescenti di interazione: dalla fruizione di contenuti esistenti alla rielaborazione e creazione di nuovi contenuti.

Scuola e lavoro: laboratori con AI

La didattica della formazione all’AI può prendere la forma di attività laboratoriali realizzate anche con l’AI. Vanno progettati laboratori per le discipline umanistiche e per gli indirizzi tecnici e professionali. Ad esempio, è importante abilitare la competenza nelle microlingue specializzate dei diversi settori, simulare attività professionali, arrivare a progettare il futuro di aziende e comparti, sviluppare competenze manageriali già pensate per essere “estese” dall’Intelligenza Artificiale.

Umanesimo e Homo Extensus

L’umanesimo nasce in Italia e contraddistingue la nostra cultura e sensibilità. Un tratto italiano dell’Intelligenza Artificiale può e deve nascere da questa nuova visione umanistica, nella quale la persona è posta al centro, ma in una forma evoluta: la visione dell’Homo Extensus. Una prospettiva che parte dal presupposto che già in passato l’intelligenza umana ha compiuto dei salti evolutivi interagendo con tecnologie cognitive. Ciò è avvenuto infatti con la scrittura alfabetica, con gli strumenti di osservazione scientifica, con la stampa, con nuovi media, e oggi con l’Intelligenza Artificiale. La sfida progettuale che dobbiamo affrontare è quindi quella di immaginare le future forme di quella che chiamiamo “intelligenza estesa”. Homo Extensus allude, pertanto. ad un modello antropologico emergente, necessario per orientare anche la formazione. Se rinunciamo a immaginare che tipo di persona dobbiamo formare per il futuro, se non ne abbiamo idea, la triste conseguenza è che non disponiamo della base pedagogica per impostare un piano di formazione su vasta scala.

Per una formazione alla “intelligenza umana estesa”

Per tutto quanto si è fin qui detto la formazione dovrebbe essere più centrata sul lato umano e professionale: sul ruolo delle persone e dei professionisti nel contesto dell’AI, e su come questa può potenziare la loro competenza ed efficienza. 

Oltre a focalizzare gli strumenti AI, che – si badi – invecchiano dopo soli 6 mesi, dobbiamo evidenziare le competenze umane “estese”. In ogni campo va quindi immaginata la forma futura dell’intelligenza umana estesa dall’interazione con l’AI: dal docente al giornalista, dal manager all’artista.

Non è scontato né facile saper progettare le nuove forme dell’intelligenza estesa, ma è questa la prossima sfida entusiasmante che attende la comunità educativa. E noi siamo pronti ad affiancarla.

Per approfondimenti: AI-Book “Homo Extensus” di Gualtiero e Roberto Carraro – https://homo-extensus.ai-book.it/category/leducazione-estesa/




INTERVISTA A ALESSANDRA FAZIO, HEAD OF QUALITY DI NESTLÉ ITALIA

INTERVISTA A ALESSANDRA FAZIO, HEAD OF QUALITY DI NESTLÉ ITALIA

Alessandra Fazio è un’esperta di sicurezza alimentare, qualità, compliance e materiali per imballaggio, ha oltre vent’anni di esperienza di lavoro in grandi aziende multinazionali, ed è attualmente Head of Quality di Nestlé Italiana. A questo ruolo, affianca la presidenza dell’Istituto Italiano Imballaggio e della Fondazione Carta Etica del Packaging, realtà impegnate nella promozione della cultura del packaging responsabile e sostenibile. Leader pragmatica e appassionata, ha un’attenzione particolare alla valorizzazione delle nuove generazioni, alla diversità e alla parità di genere. Vive a Milano ed è mamma di due bambini: l’abbiamo intervistata sul suo appassionante lavoro, sullo stato dell’arte del riciclo in Italia, e sul futuro degli imballaggi…

Il suo ingresso in Nestlé: quando, come e perché…

Nel 2010, nello stabilimento di Moretta, vicino a Cuneo, con l’incarico di occuparmi dei processi di qualità nello stabilimento. Accettare il passaggio da un ruolo su più siti – quello che ricoprivo nella mia precedente azienda, una multinazionale B2B – a una posizione legata a uno stabilimento specifico è stata una scelta ragionata. Mi ha motivata la possibilità di confrontarmi con la produzione di prodotti alimentari destinati ai clienti finale, misurarmi nella gestione della qualità di alimenti freschi, con tutte le complessità che comportano, e anche approfondire nuovi prodotti, processi e tecnologie. Non ultimo, la possibilità di entrare nella prima multinazionale alimentare al mondo. La scelta non è stata facile, comportava anche un trasferimento che ha avuto un impatto sulla mia vita privata, ma ho deciso di scommettere su questa esperienza convinta del suo altissimo potenziale per la mia crescita. Col senno di poi, posso dire che è stata una scommessa vinta.

Tra i tanti, il più riuscito progetto della Fondazione Carta Etica del Packaging?

Uno dei progetti più riusciti e rappresentativi è senza dubbio Packaging: che fantastica avventura!, un’iniziativa educativa rivolta alle scuole primarie italiane. Il progetto nasce con l’obiettivo di far scoprire ai bambini, e attraverso di loro a insegnanti e famiglie, il valore culturale, ambientale e sociale del packaging. Si articola in lezioni in classe, laboratori creativi e un contest finale, che premia la capacità delle classi di reinterpretare l’imballaggio come oggetto di cultura e responsabilità. In pochi anni ha coinvolto centinaia di scuole in tutta Italia, raccogliendo entusiasmo, idee originali e un’inaspettata partecipazione emotiva. Crediamo che il cambiamento culturale inizi proprio dai più piccoli, e questo progetto dimostra come l’educazione possa diventare motore di trasformazione collettiva.

L’Italia come si posiziona rispetto agli altri Paesi UE sul fronte dell’attenzione all’impatto ambientale degli imballaggi?

Tra i Paesi europei più virtuosi nella gestione degli imballaggi e nel riciclo. I dati più recenti parlano chiaro: nel 2024 il nostro Paese ha riciclato oltre il 76% degli imballaggi immessi al consumo, pari a circa 10,7 milioni di tonnellate. Un risultato che non solo supera la media europea, ma anticipa gli obiettivi fissati dall’UE per il 2030, che prevedono un riciclo del 70%. Questi traguardi sono stati raggiunti grazie all’efficacia del sistema consortile italiano, che coinvolge la quasi totalità dei comuni e coordina l’intera filiera – dalla raccolta differenziata al trattamento, fino al riciclo vero e proprio. Anche le singole filiere registrano risultati significativi: oltre il 77% per il vetro, più del 68% per l’alluminio, oltre il 50% per la plastica e oltre il 70% per il legno. Tutti questi numeri raccontano un’Italia che ha saputo fare sistema, mettendo in rete istituzioni, imprese e cittadini. Un modello di economia circolare che funziona, e che può essere d’esempio a livello europeo.

La plastica ha cambiato la vita di tutti noi, in meglio, ma nel contempo costituisce uno dei più evidenti pericoli per l’ambiente, in particolare per gli oceani. Come conciliare queste due verità?

La plastica è stata – ed è tuttora – una grande innovazione. È grazie a questo materiale se possiamo garantire sicurezza alimentare, sterilità in ambito medico, leggerezza nei trasporti, riduzione degli sprechi e accessibilità a moltissimi beni. La plastica ha trasformato in meglio molti aspetti della nostra vita quotidiana. Il vero problema non è il materiale in sé, ma come lo usiamo e lo gestiamo. Quando progettata responsabilmente e raccolta correttamente, la plastica può essere riciclata e mantenuta all’interno di un’economia circolare, riducendo al minimo gli impatti sull’ambiente. Al contrario, quando viene abbandonata o dispersa, diventa una minaccia per ecosistemi preziosi, in particolare per gli ambienti marini. Conciliare i vantaggi della plastica con la necessità di proteggere l’ambiente è possibile, e passa da un approccio integrato: progettazione intelligente, sistemi efficienti di raccolta e riciclo, ricerca su nuovi materiali, educazione dei cittadini e responsabilità condivisa lungo tutta la filiera. La plastica, se inserita in un sistema virtuoso di progettazione, raccolta e riciclo, rappresenta una risorsa preziosa e sostenibile.

Il PHA ed altre bioplastiche, seppure più costose della plastica sintetica, promettono molto bene sotto il profilo delle performance e ovviamente della compatibilità ambientale, essendo a impatto zero e biodegradabili senza necessità di compostaggio. A suo avviso, c’è resistenza all’adozione di queste soluzioni, e se sì, perché?

Le bioplastiche come il PHA rappresentano un importante fronte di innovazione e possono offrire soluzioni interessanti in determinati contesti applicativi. Tuttavia, non sono la risposta unica e definitiva. Le resistenze alla loro adozione derivano da diversi fattori: costi ancora elevati rispetto ai materiali convenzionali, prestazioni non sempre equivalenti, incertezze normative e difficoltà legate alla gestione a fine vita. A tutto questo si aggiunge un ulteriore elemento da considerare: la complessità dei termini tecnici legati a questi materiali, come “biodegradabile”, “compostabile” o “biobased”, che spesso richiedono una spiegazione più accurata per essere compresi correttamente. È quindi fondamentale fare chiarezza per orientare scelte davvero responsabili. Biodegradabile, per essere chiari, significa che un materiale può essere decomposto da microrganismi presenti in natura, ma questo processo può richiedere tempi lunghi e condizioni specifiche. Compostabile, invece, implica che il materiale si degradi entro tempi definiti e in ambienti controllati – come quelli degli impianti di compostaggio industriale – senza lasciare residui tossici. Non tutti i materiali biodegradabili sono compostabili, e non tutti i compostabili si degradano efficacemente nell’ambiente naturale. Per questo motivo, ogni materiale va valutato lungo l’intero ciclo di vita: dalla produzione al fine vita, considerando l’impatto ambientale complessivo, le infrastrutture disponibili e le reali modalità d’uso. L’innovazione è fondamentale, ma deve essere accompagnata da conoscenza, responsabilità e trasparenza. La Fondazione promuove questo tipo di approccio, basato su dati scientifici, etica progettuale e una comunicazione chiara e rigorosa: solo così possiamo fare scelte davvero sostenibili.

La vita ideale di un imballaggio spiegata “for dummies”

Inizia ben prima della sua realizzazione, ovvero nella fase di progettazione. È qui che si definisce il materiale più adatto alla funzione, si progetta la forma per garantire protezione e praticità, si valuta il modo in cui faciliterà il trasporto, l’utilizzo e la comunicazione verso il consumatore. In questa fase si tiene conto anche della normativa vigente, per assicurare la conformità in termini di sicurezza, sostenibilità e informazione.
Un buon progetto è anche attento all’efficienza: riduce il consumo di risorse, limita i materiali non necessari e prevede fin da subito un fine vita sostenibile. Durante il suo utilizzo, l’imballaggio deve essere funzionale, sicuro, resistente, leggero e facilmente gestibile: deve proteggere il contenuto da contaminazioni, urti o deterioramenti, garantire un’esperienza d’uso affidabile per chi lo maneggia e comunicare in modo chiaro tutte le informazioni necessarie al consumatore. Alla fine del suo ciclo, deve poter essere riutilizzato, riciclato o correttamente avviato alla raccolta differenziata, a seconda delle sue caratteristiche e del sistema di gestione dei rifiuti disponibile. Un imballaggio ben progettato non è solo un contenitore tecnico: è una risorsa che accompagna e valorizza il prodotto lungo tutta la sua vita, contribuendo alla sostenibilità economica, ambientale e sociale. In sintesi: un imballaggio efficace genera valore prima, durante e dopo il suo utilizzo.

Le direttive europee in diversi casi tentano di stimolare non solo il riciclo, ma anche il riutilizzo, in un’ottica di economia circolare. Cosa ne pensa?

Le politiche europee stanno tracciando una rotta sempre più ambiziosa verso l’economia circolare, spingendo il riutilizzo accanto – e in certi casi sopra – il tradizionale riciclo. Il Regolamento (UE) 2025/40 sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio introduce obiettivi vincolanti per la prevenzione, la riduzione, il riutilizzo e il riciclo, con l’obiettivo di armonizzare le regole in tutta l’Unione Europea e stimolare un’evoluzione concreta della filiera. È una direzione a nostro avviso estremamente positiva, che richiede rigore e realismo. Il riutilizzo deve essere parte di sistemi progettati sin dal principio, che considerino logistica, sicurezza dei materiali, efficacia ambientale e i comportamenti degli utenti. Non tutto ciò che è tecnicamente “riutilizzabile” è automaticamente sostenibile: serve un’analisi approfondita del ciclo di vita, caso per caso. Per sostenere le imprese e i professionisti in questo passaggio normativo e culturale, la Fondazione Carta Etica del Packaging ha avviato, in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari di Venezia, il corso di alta formazione Packaging Waste Expert, un percorso che mira a preparare figure competenti e multidisciplinari, in grado di interpretare le sfide poste dal regolamento, coniugando innovazione, etica progettuale e sostenibilità.

Tentando di predire il futuro: cosa succederà, lato imballaggi tra 10 anni? E tra 100?

Tra 10 anni vedremo imballaggi sempre più intelligenti: più leggeri, performanti, facilmente separabili nei materiali, tracciabili, e con una forte integrazione di componenti digitali per garantire trasparenza e sicurezza. La progettazione sarà guidata non solo da esigenze di marketing e protezione, ma da criteri ambientali, normativi e sociali. Tra 100 anni – se avremo lavorato seriamente sul piano culturale e tecnologico – l’imballaggio sarà diventato un ingranaggio perfetto dell’economia circolare: disegnato per essere riutilizzato, rigenerato o riciclato a zero sprechi, sarà percepito non più come uno scarto, bensì come “valore in transito”: un elemento vivo parte di un ecosistema sostenibile. Il lavoro della Fondazione, oggi, è proprio quello di gettare le basi per questo futuro: promuovere responsabilità, conoscenza e visione per costruire un domani in cui l’imballaggio sia parte della soluzione, non parte del problema.

Il suo personale più grande successo professionale… e il suo più grande fallimento

Il mio più grande successo è essere riuscita ad affermarmi come professionista, conquistando stima e autorevolezza nei ruoli che ricopro, senza rinunciare a essere una moglie e una mamma felice. Il mio più grande fallimento è non aver avuto, in alcune occasioni, la prontezza di denunciare con la giusta forza situazioni di discriminazione che purtroppo ho vissuto anch’io personalmente. Con il tempo, ho capito che il silenzio, a volte, è una forma di complicità.

Se potesse esprimere un desiderio, e vederlo realizzato, sul lavoro ma anche nella vita, cosa chiederebbe?

Mi piacerebbe un mondo senza pregiudizi, senza bias, senza più discriminazioni di alcun tipo: questo desiderio vale tanto per il lavoro quanto per la vita personale, perché non può esistere vera innovazione senza giustizia, inclusione e rispetto della dignità di ogni persona.




Nato il Codice FERPI per proteggere la reputazione di persone e aziende

MANIPOLAZIONE DELLA REPUTAZIONE, FERPI APPROVA IL NUOVO CODICE DI AUTOREGOLAMENTAZIONE

In un mondo sempre più assediato da fake news e avatar virtualii professionisti della comunicazione rischiano di veder naufragare la loro reputazione, con conseguenze negative anche per le persone e le aziende coinvolte loro malgrado nelle attività manipolatorie. Un potente antidoto a fenomeni del genere è il nuovo Codice di Autoregolamentazione ideato dalla Federazione Relazioni Pubbliche Italiana (FERPI), con la collaborazione di autorevoli esperti esterni.

Coordinatore del gruppo di lavoro che lo ha materialmente redatto, è Luca Poma, professore di Reputation Management all’Università LUMSA di Roma, che ne ha spiegato origini e obiettivi in questo modo: «La letteratura scientifica conferma che la reputazione è uno dei maggiori vantaggi competitivi di cui un’organizzazione possa disporre, nonché il più importante dei suoi asset intangibili», oltretutto capace di generare denaro. Per questo motivo, è a forte rischio manipolazione da parte di «liberi professionisti di dubbia integrità», prosegue Poma che, magari, lavorano per agenzie spregiudicate «che non esitano ad aggredire e distruggere la reputazione di realtà competitor o comunque sgradite ai propri assistiti». La tecnologia li favorisce, come dimostrano la diffusione di fake news, bot e fake account e altre operazioni informatiche come «il data forging o data deletion», aggiunge il docente.

Tutte queste ragioni hanno spinto FERPI a dare vita al Codice di Autoregolamentazione, che quindi ha l’ambizione di influenzare virtuosamente i comportamenti e le pratiche degli addetti ai lavori, sollecitandoli a rifiutare di collaborare con clienti che richiedono l’attuazione di pratiche manipolative o ingannevoli a danni di terzi.

In merito ha detto Filippo Nani, il presidente nazionale della Federazione: «Il Codice è un documento impegnativo da subito per tutti gli iscritti FERPI, ma è anche un progetto aperto al dibattito e confronto con altre associazioni di categoria e gruppi di interesse, che immagino non mancheranno di dare il proprio contributo di idee».




MANIPOLAZIONE DELLA REPUTAZIONE, FERPI APPROVA IL NUOVO CODICE DI AUTOREGOLAMENTAZIONE

MANIPOLAZIONE DELLA REPUTAZIONE, FERPI APPROVA IL NUOVO CODICE DI AUTOREGOLAMENTAZIONE

Nato grazie all’impegno di un gruppo di lavoro interno alla Federazione Relazioni Pubbliche Italiana(FERPI), affiancato da esperti esterni di grande competenza, il Codice di Autoregolamentazione per la gestione etica della reputazione nella professione dei relatori pubblici e dei comunicatori entra a pieno titolo nel patrimonio valoriale e normativo di FERPI. A sottolinearne il significato è Luca Poma, professore di Reputation Management all’Università LUMSA di Roma e coordinatore del gruppo di lavoro che ha redatto il Codice, che afferma: “La letteratura scientifica conferma che la reputazione è uno dei maggiori vantaggi competitivi di cui un’organizzazione possa disporre, nonché il più importante dei suoi asset intangibili e orienta i comportamenti di acquisto del pubblico, quindi genera denaro. E come tutto ciò che è generatore di valore, diventa sempre più oggetto di attenzione, e in alcuni casi, purtroppo, di manipolazione”.

“L’arena della comunicazione è diventata infinitamente complessa e insidiosa: agenzie e aziende sempre più spregiudicate, così come liberi professionisti di dubbia integrità, forniscono servizi di vera e propria costruzione ad hoc della reputazione. Ma non solo, denuncia Poma: quelle stesse agenzie non esitano ad aggredire e distruggere la reputazione di realtà competitor o comunque sgradite ai propri assistiti. Diffusione ad arte di fake news, uso di bot e fake account, e operazioni informatiche di data forging o data deletion, permettono oggi a comunicatori spregiudicati di influenzare il pubblico ma soprattutto gli algoritmi che regolano i meccanismi di visibilità nelle varie piattaforme social e nei principali motori di ricerca, alterando in modo malizioso le informazioni relative all’organizzazione target, distruggendo valore, pregiudicando la business continuity, e, nei casi più gravi, portando al fallimento di un’azienda o alla rovina di un personaggio pubblico”.

“Per questi motivi – conclude Poma – è imperativo che i professionisti delle relazioni pubbliche e della comunicazione si dotino di codici di regole condivisi per agire con integrità, trasparenza e responsabilità, realmente, non solo a parole. Perché in presenza di manipolazione, crolla la fiducia; e la costruzione di rapporti basati sulla fiducia è un elemento fondamentale per garantire il buon funzionamento delle istituzioni democratiche, per la competitività del sistema economico e per la coesione del tessuto sociale”.

Con il nuovo Codice di Autoregolamentazione FERPI ha anche l’ambizione di influenzare virtuosamente i comportamenti e le pratiche degli addetti ai lavori, sollecitandoli a rifiutare di collaborare con clienti che richiedono l’attuazione di pratiche manipolative o ingannevoli a danni di terzi.

“Il Codice è un documento impegnativo da subito per tutti gli iscritti FERPI – ha dichiarato Filippo Nani, presidente nazionale della Federazione – ma è anche un progetto aperto al dibattito e confronto con altre associazioni di categoria e gruppi di interesse, che immagino non mancheranno di dare il proprio contributo di idee”.