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Aurora Baruto lancia il suo brand, ma viene criticata la banalità dei prodotti

Aurora Baruto lancia il suo brand, ma viene criticata la banalità dei prodotti

L’influencer Aurora Baruto ha lanciato il suo nuovo brand di abbigliamento, generando una notevole attenzione sui social media. Tuttavia, il debutto del marchio non è stato accolto senza controversie. Le t-shirt del nuovo brand sono state oggetto di critiche per la loro apparente semplicità, con molti utenti che le hanno paragonate a prodotti simili trovabili nei negozi a basso costo, come quelli delle catene di abbigliamento cinesi.

Il lancio di un brand da parte di un influencer è diventato sempre più comune negli ultimi anni. Con il crescente successo delle personalità sui social media, molti di loro hanno visto il potenziale di diversificare le fonti di guadagno attraverso la creazione di linee di prodotti, specialmente nel settore della moda. Aurora Baruto si inserisce in questo trend, tentando di capitalizzare la sua popolarità per avviare un’impresa che riflette il suo stile personale e il suo brand.

La creazione di un marchio da parte di un influencer può avere una serie di vantaggi, tra cui l’indubbia praticità di attingere a una base di fan già esistente potenzialmente pronta a sostenere e acquistare i prodotti facilitandone il successo iniziale. Tuttavia, la semplice popolarità non garantisce automaticamente il successo del brand, soprattutto sul medio e lungo termine.

Nel caso di Aurora Baruto, le critiche sulla semplicità delle sue t-shirt mettono in luce un aspetto cruciale della creazione di un brand. Se da un lato la visibilità di un influencer può fornire una spinta iniziale significativa, la qualità e l’unicità del prodotto sono determinanti per il successo sostenibile. I commenti negativi sugli articoli troppo simili a quelli economici di altre catene suggeriscono che, nonostante la visibilità dell’influencer, il prodotto deve avere caratteristiche distintive che giustifichino il suo prezzo e la sua proposta di valore.

Il processo di creazione e lancio di un brand richiede attenzione non solo al marketing e alla promozione, ma anche alla progettazione e alla qualità del prodotto. La semplicità del design può essere una scelta stilistica valida, ma deve essere accompagnata da un valore aggiunto che risuoni con il pubblico target. Se le t-shirt di Aurora Baruto risultano percepite come poco distintive, potrebbe essere necessario rivedere la proposta del brand per migliorare l’unicità e l’appeal.

In sintesi, mentre la creazione di un brand da parte di un influencer è una strategia sempre più comune e può beneficiare enormemente della popolarità del creatore, il successo di lungo termine dipende dalla capacità di offrire prodotti che si distinguano per qualità e innovazione. La sfida per Aurora Baruto e per molti altri influencer che intraprendono questa strada è quella di tradurre la loro visibilità in un valore reale e percepito dai consumatori, superando le critiche iniziali e costruendo una reputazione solida e distintiva nel mercato.




Moda, tessile, sostenibilità, greenwashing: in Europa l’Italia non ha voce

Moda, tessile, sostenibilità, greenwashing: in Europa l’Italia non ha voce

Si chiama SAC (Sustainable apparel coalition) il comitato a cui l’Unione Europea ha affidato il compito di formulare i criteri che consentiranno ai produttori del comparto tessile-abbigliamento di dichiarare su base volontaria la sostenibilità dei loro prodotti. Si tratta di una delle ultime tessere mancanti all’European Green Deal in gran parte già elaborato dalla Commissione europea per rendere le politiche climatiche dei Paesi membri idonee a ridurre le emissioni di gas a effetto serra, entro il 2030, di almeno il 55% rispetto ai livelli del 1990.

MODA E SOSTENIBILITÀ: LA RELAZIONE SUI PRODOTTI TESSILI

Il SAC però non è l’unico dei comitati al lavoro. Lo scorso maggio a Bruxelles è stata pubblicata la Relazione sui prodotti tessili sostenibili e circolari prodotta dalla Commissione per l’ambiente, la sanità pubblica e la sicurezza alimentare. Si tratta di un’inquietante sequenza di rilievi sullo stato del tessile mondiale, dove viene sottolineato come sia in particolare il tessile europeo (di cui quello italiano costituisce da solo quasi la metà) a essere sotto attacco. Di paragrafi che iniziano con “Considerando che…”, nel documento, ce ne sono diciannove. Ma già nel primo viene evidenziato come la produzione tessile mondiale tra il 2005 e il 2015 sia quasi raddoppiata, mentre nello stesso periodo la durata di utilizzo degli indumenti è diminuita del 36%. Entro il 2030, il consumo di indumenti e calzature è destinato a crescere da 62 a 102 milioni di tonnellate. Le diciotto considerazioni seguenti assegnano al tessile il quarto posto come responsabile in termini di effetto serra, inquinamento chimico, perdita di biodiversità, utilizzo di risorse idriche e terrestri, microplastiche immesse negli oceani. Per giungere alla seguente conclusione: la necessaria transizione verso la neutralità climatica rende impossibile mantenere pratiche e tendenze di consumo come sono attualmente.

I NUMERI DEL SISTEMA TESSILE EUROPEO

Nei suggerimenti, corposo è il numero di righe dedicato a temi come la Gestione dei rifiuti (92 milioni di tonnellate ogni anno), l’Innovazione (un imprescindibile tool per uscire dalla situazione attuale), il Greenwashing (che indica il 53% delle dichiarazioni ecologiche in circolazione come vaghe e fuorvianti). Di grande rilievo sono i passaggi dedicati alla difesa del tessile europeo: fatturato annuo 147 miliardi di euro, esportazioni per 58 miliardi, importazioni per 104. Il sistema è costituito da 143mila PMI che danno lavoro a 1,3 milioni di unità: per l’88,8% microimprese, con meno di 10 dipendenti. Un sistema fragile che deve far fronte alla sempre più intensa concorrenza di Paesi dell’area asiatica. I dati sono allarmanti: il 73% dei capi di abbigliamento e tessili per la casa consumati in Europa arriva da Paesi in cui tanto le norme ambientali che quelle sociali (a fronte di paghe da povertà, restrizione indebita dei diritti sindacali, lavoro minorile e di soggetti fragili, mancanza di sicurezza) sono quasi inesistenti. “La commissione rileva che l’onere normativo che colpisce direttamente e indirettamente l’industria tessile dell’UE, sommato alla pandemia di COVID-19, alla guerra di aggressione russa contro l’Ucraina, all’aumento dei prezzi dell’energia e alle conseguenze dell’inflazione sull’industria, sta minacciando la competitività̀ delle imprese dell’UE”. Anche per questo viene sottolineata l’urgenza di normative che garantiscano che i prodotti tessili in circolazione sul mercato europeo siano durevoli, riutilizzabili e privi di pericoli per la persona: almeno 60 sostanze chimiche presenti attualmente in questi prodotti sono cancerogene, mutagene o tossiche per la riproduzione.

“Perché nessuno è qui a difendere gli interessi delle 43mila PMI italiane che costituiscono da sole il 45% dell’intero comparto europeo?”

LA LOBBY DEL FAST FASHION E L’ASSENZA DELL’ITALIA

Sembrerebbero decisi passi avanti. Ma quel che sta accadendo è assai più complesso e pericoloso di quanto appare. Perché tra le commissioni al lavoro la SAC è decisamente la più autorevole: da sola raccoglie oltre il 50% delle aziende del settore abbigliamento e calzature, riunendo marchi, rivenditori, produttori, associazioni di fibre e altre importanti parti del sistema. E tuttavia tra queste solo 15 hanno diritto di voto. Vale la pena di elencarle. La spagnola Inditex ( Zara e Zara Home, Bershka, Pull&Bear, Massimo Dutti, tra gli altri), la svedese H&M (H&M, H&M Home, Cos, Monki tra gli altri), la danese C&A e la francese Decathlon. A seguire Nike, VF_Corporation (Eastpack, North face, Timberland, Vans tra gli altri) e produttori di sintetico come Gore-Tex (americana) e Sympatex (tedesca). Insomma aziende leader del fast fashion e dell’outdoor. È pur vero che sono presenti i francesi di Ademe (per la transizione ecologica pulita) e la Federation de la Haute Couture. E pure un paio di rappresentanze internazionali: per la lana il WTO (Belgio), per il cotone Cotton Incorporate.

Le bandiere dell'Unione Europea

Le bandiere dell’Unione Europea

PERICOLO GREENWASHING

Nel panorama brilla l’assoluta mancanza di una qualsiasi rappresentanza italiana: nessuna azienda grande o piccola, nessuna associazione di categoria, nessuna fondazione milanese, romana o fiorentina ha qui diritto di voto. Perché nessuno è qui a difendere gli interessi delle 43mila PMI italiane che costituiscono da sole il 45% dell’intero comparto europeo? Perché mai devono prevalere nella SAC i colossi del fast fashion, gli stessi che la Relazione sui prodotti tessili sostenibili e circolari indica come i principali responsabili del disastro ambientale connesso tessile? È dunque logico, lecito e allarmante ritenere che le lobby all’interno della SAC a Bruxelles potranno partorire indicazioni verbalmente rassicuranti, ma in realtà utili a difendere innanzitutto il loro interesse. Un greenwashing al quadrato, insomma.




Greenwashing: si stringe la morsa in Europa e anche in Italia

Greenwashing: si stringe la morsa in Europa e anche in Italia

A un anno dalla prima sentenza per pubblicità ingannevole e greenwashing, che ha coinvolto un’azienda italiana che attribuì impropriamente a propri prodotti la caratteristica “verde” (precedente giurisprudenziale assai interessante, anche perché l’azienda in questione è finita in Tribunale su denuncia di una concorrente, desiderosa di “far pulizia” di dichiarazioni ingannevoli sul mercato), la ricerca sui “false ESG” presentata al Parlamento Europeo di Bruxelles la scorsa settimana evidenzia come il grado di fiducia dei cittadini nelle dichiarazioni di sostenibilità da parte delle aziende risulta tra il basso (44,44%) e il bassissimo (19,55%), e che una parte significativa del pubblico ritiene che le aziende utilizzino il tema della sostenibilità più che altro per motivi pubblicitari e di marketing (45,47%) e non per genuino interesse. L’assenza di norme stringenti sull’attribuzione dei rating ESG e la conseguente facilità con la quale vengono rilasciati, rischia di svilire l’impegno delle aziende davvero virtuose, e – soprattutto – evidenzia una crescente sfiducia da parte dei cittadini UE su queste importanti e attualissime tematiche.

Ora, una nuova tempesta si staglia all’orizzonte dei promotori della sostenibilità non genuina.

Cosa è successo? L’ASA prende posizione contro il greenwashing

La potente e rispettata autorità inglese sulla pubblicità (ASA – Advertising Standards Authority) ha vietato nel Paese, con una delibera, la diffusione di una campagna pubblicitaria – digitale, TV, radio e cartellonistica – della multinazionale del petrolio Shell, perché giudicata ingannevole. Fin qui, ci sarebbe poco di nuovo: le istituzioni nel mondo anglosassone sono da sempre molto sensibili sul tema della genuinità delle comunicazioni dirette al pubblico. La novità risiede però nella motivazione.

Non è, infatti, la campagna di per sé ad essere ingannevole (Shell Energy UK, che si occupa di energia elettrica a basse emissioni di carbonio, investe in rinnovabili, è impegnata nella costruzione di una delle più grandi reti pubbliche di punti di ricarica per veicoli elettrici, e si sta impegnando attivamente nella transizione ‘verde’ del Regno Unito), bensì il fatto che contemporaneamente a queste pur lodevoli iniziative, la capogruppo SHELL nei primi tre mesi del 2023 ha prodotto un milione e mezzo di barili di petrolio al giorno mediante sistemi di estrazione tradizionale a medio o alto impatto ambientale.

La pubblicità quindi “non s’ha da fare” perché sponsorizza esclusivamente alcuni degli investimenti dell’azienda – quelli in energie rinnovabili – tacendo per contro su tutto il resto delle attività inquinanti che quotidianamente promuove, e che di fatto – incidentalmente – sono la principale fonte di incassi della multinazionale stessa. Semplificando, è una delle prime delibere finalizzate a colpire gli specchietti per le allodole, ovvero le “foglie di fico verdi” utilizzate dalle grandi aziende per distorcere la percezione che il mercato ha delle loro attività, spesso inquinanti.

Non bastasse, la stessa ASA ha anche deciso di bloccare – sostanzialmente per le stesse identiche ragioni – anche le campagne della società spagnola Repsol, attiva in quasi 30 Paesi del mondo nei settori del petrolio e del gas naturale, e della Petronas, altro colosso petrolifero, Malaysiano; stesso dicasi per una campagna di Etihad Airways, la compagnia aerea di bandiera degli Emirati Arabi Uniti, e una della tedesca Lufthansa, accusate entrambe di scarsa chiarezza nel dichiarare il vero impatto ambientale dei voli aerei. In tutti questi casi, la pubblicità è stata giudicata colpevole di enfatizzare la (presunta) vocazione “verde” delle multinazionali, violando – aggiungo io – uno dei fondamentali del reputation management, il pilastro dell’autenticità, indispensabile – com’é noto sia in letteratura che in pratica professionale – per costruire buona reputazione.

Una storia già vista all’epoca per BP, British Petroleum, che  effettuò il rebranding del proprio logo, trasformandolo in una margherita verde, con il payoff “Beyond Petroleum” (oltre il petrolio, ndr): al netto della mia incredulità verso “i macellai che si predicano vegani”, pochi mesi dopo l’operazione d’immagine di BP avvenne la tragica vicenda del Golfo del Messico, con il collasso della piattaforma Deepwater Horizont e il più grande disastro ambientale di tutti i tempi, costato agli azionisti di BP decine di miliardi di euro in richieste danni e sanzioni.

Greenwashing: reputazione (e valore) sempre più a rischio, anche in Italia

Anche in Italia si stanno promuovendo approfondimenti sempre più stringenti: un’assoluta eccellenza investigativa dell’Arma dei Carabinieri, l’alto ufficiale Massimiliano Corsano, segue con sempre maggiore attenzione, in stretta collaborazione con l’autorità giudiziaria, diversi filoni di indagine sulle dichiarazioni etiche aziendali non genuine, che – come ha dichiarato anche recentemente in occasione di un suo intervento al Parlamento Europeo – “dovrebbero essere sanzionate penalmente al pari del falso in bilancio, in quanto sono manipolative del mercato, fuorvianti, ed anche offensive dell’impegno di quelle aziende che fanno della sostenibilità un driver di sviluppo autentico”.

Ora, la Commissione europea ha proposto una Direttiva per stabilire criteri comuni per contrastare il fenomeno delle asserzioni ambientali ingannevoli, iniziativa assai apprezzabile: chissà se arriveranno prima le direttive UE o le sentenze giudiziarie, con le relative sanzioni e con l’inevitabile e conseguente danno reputazionale per le aziende coinvolte.




Il paese dei boicottaggi

Il paese dei boicottaggi

L’estate scorsa un articolo della Reuters riportava un dato sorprendente: uno statunitense su quattro stava boicottando un prodotto o un’azienda che aveva comprato o finanziato in passato. C’erano anche numeri più dettagliati su quali fossero le persone più inclini a partecipare ai boicottaggi: quelle che guadagnano almeno un milione di dollari all’anno (37 per cento); chi fa parte della generazione Z, cioè i nati a partire dalla metà degli anni novanta (32 per cento); i millennials, nati tra l’inizio degli anni ottanta e la metà dei novanta (28 per cento); gli elettori democratici (31 per cento) un po’ più di quelli repubblicani (24 per cento).

Ho ripensato a quei dati di recente, leggendo articoli sul boicottaggio contro la Bud Light, la più famosa birra statunitense. L’iniziativa è cominciata all’inizio di aprile, quando si è saputo che il marchio stava per lanciare una collaborazione con l’influencer transgender Dylan Mulvaney. I consumatori conservatori, che costituiscono una buona fetta del target di quella birra, hanno smesso di comprare Bud Light, fomentati dagli influencer di destra. Celebrità come il cantante Kid Rock e l’ex giocatore di football Trae Waynes hanno pubblicato online dei video in cui sparavano a delle casse di Bud Light. Non bere quella birra è diventata una sorta di dimostrazione di fedeltà ai valori tradizionali. In poche settimane le vendite sono crollate. La destra americana, quella del Make America great again, ha ottenuto il risultato paradossale di portare la Modelo Especial, una birra prodotta in Messico, in cima alle classifiche delle birre più vendute negli Stati Uniti.

Al di là delle sue implicazioni economiche e politiche, questa vicenda è interessante perché può aiutare a capire il rapporto degli americani con i boicottaggi, quindi anche con il consumo e l’attivismo politico. Come ha scritto lo storico Lawrence Glickman, i boicottaggi fanno parte della storia e della cultura americana quanto la torta di mele. Gli statunitensi hanno cominciato a usare le tattiche di consumo nell’ambito delle loro lotte politiche ancora prima di potersi veramente definire statunitensi. Negli anni sessanta del settecento le colonie cominciarono a boicottare i prodotti commerciati dalle aziende britanniche (in particolare il tè proveniente dalla Cina e venduto dalla Compagnia britannica delle Indie orientali), in risposta all’aumento delle tasse stabilito dal parlamento del Regno Unito. Quelle iniziative contribuirono ad accelerare gli eventi che portarono alla guerra rivoluzionaria e all’indipendenza.

Dopo la nascita degli Stati Uniti emerse un sentimento ambivalente nei confronti dei boicottaggi come forma di protesta: da un lato venivano esaltati per aver contribuito alla conquista della libertà di un popolo oppresso, dall’altro erano considerati una pratica destabilizzante e pericolosa. Il motivo è facile da immaginare: in un paese che andava rapidamente verso un’economia basata sulla libera impresa e il consumo ma era ancora molto disuguale, i gruppi subordinati potevano cercare di colpire le aziende – smettendo di comprare i loro prodotti – per combattere i potentati economici e politici. In questa visione l’acquisto di beni non era una decisione privata, ma un atto fondamentalmente sociale con conseguenze di vasta portata.

Di fronte a questa dinamica, i gruppi di potere temevano quello che poteva succedere nell’immediato (perdere soldi) e ancora di più nel lungo periodo (cambiamenti sociali radicali). Glickman riporta molti commenti critici di giornali e industriali contro i boicottaggi in varie epoche storiche: “Nel 1887 Philip D. Armour, imprenditore del settore della carne di Chicago, bersaglio di un boicottaggio, disse che ‘questa pratica non è un’istituzione americana’, riferendosi al gran numero di lavoratori immigrati che partecipavano alla protesta”. Qualche anno dopo anche il Los Angeles Times scrisse che il boicottaggio è un’“istituzione antiamericana”. Durante il movimento per i diritti civili, negli anni sessanta del novecento, i boicottaggi organizzati dagli afroamericani furono denunciati non solo come una forma di terrorismo economico, ma anche come un’arma di guerra interrazziale.

Una cultura politica

Gli sforzi per definire l’attivismo dei consumatori come una pratica aliena alla cultura americana spesso non funzionavano, proprio perché in realtà era molto radicata nella storia nazionale. Nel corso degli anni i boicottaggi sono stati usati in molte lotte sociali e hanno fondamentalmente plasmato la cultura politica nazionale, collegando gli individui a cause lontane. Gli esempi più importanti riguardano il razzismo. Ci vengono subito in mente i boicottaggi degli anni sessanta del novecento, ma in realtà ce ne erano stati molti, altrettanto dirompenti, nei decenni precedenti. Dopo la guerra rivoluzionaria e prima dell’abolizione della schiavitù, nacque un movimento chiamato “free produce”, che incoraggiava i consumatori a boicottare i prodotti fabbricati dagli schiavi.

Attingendo all’umanitarismo del tempo, gli attivisti cercavano di far passare l’idea che i consumatori non potessero considerarsi innocenti rispetto al crimine della schiavitù. Al contrario, erano più colpevoli dei proprietari di schiavi, che avrebbero abbandonato la schiavitù se non avessero avuto un mercato per i beni prodotti con quella forza lavoro. “In quest’ottica”, spiega Glickman, “gli acquirenti dovevano essere intesi come datori di lavoro responsabili delle condizioni di chi produceva i beni che, di fatto, commissionavano. I sostenitori del movimento promossero anche una nuova concezione dei consumatori come forza politicamente potente. Si basavano sul presupposto introdotto dall’economista Adam Smith, secondo cui ‘il consumo è l’unico fine di tutta la produzione’ e prendevano sul serio le rivendicazioni morali alla base di questa visione”. In sostanza cercavano di appropriarsi del concetto di libertà in campo economico (il consumatore ha il diritto di comprare quello che vuole) e di farlo coincidere con una rivendicazione sociale collettiva.

Molto tempo dopo, negli anni sessanta e settanta del novecento, una strategia simile fu usata dalla United farm workers union, il sindacato che si batteva per i diritti degli immigrati che lavoravano nei campi dell’ovest del paese. Disse la leader sindacale Dolores Huerta: “Ogni vera espressione di solidarietà deve essere accompagnata dal tentativo di punire gli industriali del settore agroalimentare”. Poiché ai lavoratori agricoli venivano negati i diritti e le tutele di cui godevano gli altri lavoratori in base alla legge, i boicottaggi non solo erano legali ma erano anche una delle poche armi potenti a loro disposizione. Quelle azioni, in particolare quella contro i produttori d’uva, portarono risultati importanti.

Boicottaggio organizzato dai lavoratori del settore agricolo in California, settembre 1968. - Denver Post/Getty Images
Boicottaggio organizzato dai lavoratori del settore agricolo in California, settembre 1968. (Denver Post/Getty Images)

Questa ricostruzione storica aiuta a capire perché i boicottaggi sono ancora frequenti e perché in molti casi funzionano ancora. Brayden King della Kellogg school of management ha studiato i casi di 133 boicottaggi avvenuti tra il 1990 e il 2005. E ha scoperto che un quarto delle aziende boicottate ha effettivamente modificato il proprio comportamento in risposta alle proteste. King ha spiegato anche che i boicottaggi oggi ottengono risultati in modo diverso rispetto al passato: “Quelli efficaci in genere hanno avuto successo non facendo diminuire le vendite di un prodotto ma concentrando l’attenzione dei mezzi d’informazione sulle aziende, danneggiando la loro immagine pubblica e facendo scendere il prezzo delle loro azioni”.

Ci sono altre differenze importanti tra i boicottaggi di oggi e quelli del passato, e capirle può aiutare anche a comprendere come sono cambiate le dinamiche sociali e politiche negli Stati Uniti. Facendo un confronto tra le campagne attuali (comprese quella contro la Bud) e quelle del passato citate in precedenza, si nota che le prime sembrano avere obiettivi limitati, cioè si esauriscono nel momento in cui riescono a infliggere un danno, mentre le seconde erano concepite come iniziative di trasformazione sociale. Questa discrepanza è dovuta probabilmente a una serie di fattori. Oggi grazie ai social network è molto più facile diffondere un invito a boicottare un marchio (bastano i post di poche persone molto influenti) e non serve un’organizzazione sindacale e politica nel mondo reale; di conseguenza la campagna raggiunge subito un grande pubblico, si esaurisce altrettanto in fretta e chi vi ha partecipato si concentra verso nuovi obiettivi (nel caso dei conservatori le tante aziende statunitensi considerate troppo “woke”).

Anche la polarizzazione politica potrebbe aver dato un contributo. Sia a destra sia a sinistra, i boicottaggi sembrano diventati un modo per segnare una piccola vittoria nell’ambito di una più ampia guerra culturale. L’ingresso in politica di Donald Trump potrebbe aver accelerato questo meccanismo. Glickman ha scritto che i boicottaggi sono aumentati dopo la sua vittoria, nel 2016. Non solo perché Trump è un imprenditore che nella sua carriera ha provato a inserirsi praticamente in ogni settore commerciale, ma anche perché la sua strategia politica è stata fondamentalmente il tentativo di vendere un marchio, il marchio Trump. “Questo tentativo di monetizzare la presidenza e di convincere i consumatori a sostenerlo politicamente ha anche dato ai suoi critici una possibilità per attaccarlo, come dimostra la campagna #grabyourwallet, il boicottaggio contro i prodotti della Trump Organization lanciato nel 2016”.




Imprese, indotto della Germania in allarme sulle forniture green

Imprese, indotto della Germania in allarme sulle forniture green

«In Italia non se ne sta parlando affatto, ma la legge entrata in vigore quest’anno in Germania che impone l’obbligo di diligenza sulle catene di approvvigionamento, anche al di fuori dai confini tedeschi, avrà un impatto enorme sul nostro territorio, perché dovrà essere rispettato da tutti i fornitori di marchi tedeschi. Che si parli di meccanica, penso nell’automotive e ai gruppi Volkswagen, Bmw, Deimler o di agroalimentare, con big della grande distribuzione come Lidl e Aldi, ma anche di chimica o tessile sono migliaia le nostre imprese che dovranno adeguarsi alle nuove regole sul rispetto dei lavoratori e dell’ambiente».

È Michele Bulgarelli, segretario della Cgil di Bologna, a lanciare l’allarme per il preoccupante silenzio che regna sulla legge LkSG (Lieferkettensorgfaltspflichengesetz, meglio nota come “Supply chain due diligence act”), che dallo scorso gennaio si applica a tutte le imprese tedesche sopra i 3mila dipendenti, ma che dal 1° gennaio 2024 sarà estesa anche alle aziende dai mille addetti in su. Che impone loro di gestire le questioni sociali e ambientali delle filiere di fornitura e di risponderne, con multe fino al 2% del fatturato globale nel caso di violazioni. Significa che tutte le aziende che lavoreranno direttamente con partner tedeschi dovranno predisporre report per documentare ogni anno che non inquinano, non usano lavoro minorile, non discriminano, pagano salari equi.

L’Export dell’Emilia Romagna

A guardare i numeri dell’interscambio con la Germania e degli intrecci societari tra i due versanti alpini è chiaro che non sono sole le Pmi emiliano-romagnole a doversi preoccupare di essere tagliate fuori da clienti tedeschi per questioni reputazionali: la Germania è il primo partner della via Emilia con il 13% dell’export totale e sono oltre 4mila imprese regionali che vendono in terra alemanna. Ma quote ancora più alte si registrano in Lombardia (il 13,6% dell’export regionale è in Germania), Veneto (13,7%), Piemonte (14,1%) per arrivare al 25% in Trentino-Alto Adige.

«La Germania sta scomponendo le leggi moloch europee in pezzi più semplici per arrivare preparata ai traguardi di sostenibilità del 2030 e del 2050. La norma LkSG è una declinazione della CSRD-Corporate Sustainability Reporting Directive (oggi in vigore per grandi imprese e quotate, ndr) e anticipa un’analoga direttiva ora al vaglio del Parlamento europeo, cui le imprese italiane saranno costrette presto ad adeguarsi. Per rispondere alle policy sulla due diligence le uniche azioni coerenti sono le certificazioni etiche e sociali come SA 8000, ISO 14001, ISO 14044, che non si improvvisano, richiedono mesi di assesment e risorse», spiegano i tecnici di Confindustria Emilia che avranno un incontro la prossima settimana con la Camera del commercio italo-tedesca per discutere dell’impatto del “due diligence act”.

«È la cooperazione ormai decennale tra la Fiom bolognese (18mila iscritti) e la Ig Metall (80mila iscritti) che ci rende particolarmente sensibili a questo tema. Siamo rientrati la scorsa settimana dall’incontro annuale a Wolfsburg (quartier generale di VW, ndr) che è stato dedicato proprio alla legge sul dovere di diligenza dei fornitori», spiega Bulgarelli che nella missione ha coinvolto anche le altre sigle della Camera del lavoro bolognese, perché non ci sono settori esentati. La filiera del gruppo Volkswagen, dove è già in vigore la Carta sociale, non avrà problemi ad applicare la LkSG, «ma in un contesto di recessione in Germania, di riorganizzazione delle supply chain e di passaggio all’elettrico il rischio che le nostre imprese meccaniche siano tagliate fuori dalle forniture è concreto», rimarca il segretario Cgil. Che proprio per accorciare le distanze tra Emilia e Germania ha lanciato con Ig Metall una sorta di “Erasmus” dei sindacalisti «per formare una nuova generazione sindacale internazionalizzata: dalla seconda metà del 2023 delegazioni da Wolfsburg verranno a Bologna per una settimana di formazione e di incontri con aziende e istituzioni e viceversa, da Bologna a Wolfsburg».

Smorza i timori Cna Emilia-Romagna, che ancora non ha ricevuto segnalazioni dalle aziende associate di problemi con partner tedeschi: «Non siamo preoccupati – riferiscono – ma attenti. I temi Esg sono in cima alla nostra agenda di lavoro. E siamo convinti che i tedeschi non rinunceranno alla qualità di lavorazioni e prodotti italiani, si troveranno strumenti e indicatori adatti per salvaguardare le due parti».