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The Patagonia Connection’s and The three wise monkeys: un caso di studio?

The Patagonia Connection’s and The three wise monkeys: un caso di studio?

Un articolo del sito di giornalismo investigativo Follow the Money (FTM.eu), a firma di Yara Van Heugten, pare aver creato forte disagio in casa Patagonia.

Il noto marchio di abbigliamento, che ha fatto della sostenibilità ambientale e sociale il proprio principale driver di sviluppo, ha saputo costruire negli anni un’immagine molto diversa da marchi del mondo fast-fashion come H&M, Asos e Primark (sulle cui evidenti criticità avevo scritto qui).

FTM ha aggiunto la parola “apparentemente”, sostenendo e scrivendo che l’abbigliamento prodotto da Patagonia sia in realtà prodotto esattamente nelle stesse fabbriche in Paesi in via di sviluppo e nelle stesse deplorevoli condizioni per i lavoratori. In buona sostanza, secondo la tesi dei giornalisti, non vi sarebbe differenza – in termini di sostenibilità e di controllo della filiera – tra un capo Patagonia e un capo marchiato Zara (l’azienda spagnola non è certo un campione ESG).

Vero è che il codice di condotta di Patagonia stabilisce che i lavoratori non possano lavorare più di 60 ore a settimana: ma, si sa, i codici di condotta sono spesso scritti per far contenti cittadini, ambientalisti e soprattutto fondi di investimento, più che per essere realmente applicati. FTM sostiene quindi di aver visitato un fornitore di Patagonia in Sri Lanka e di aver parlato con lavoratori e dirigenti sindacali, che hanno affermato che il carico di lavoro nelle fabbriche è elevato e che i lavoratori vengono vessati dai dirigenti.

E ancora: Patagonia punterebbe a pagare a tutti coloro che lavorano sui loro vestiti un “salario dignitoso” entro il 2025. Attualmente, però, questo accade solo nel 40% delle sue fabbriche. Un fornitore di Patagonia nello Sri Lanka – peraltro recentemente approvato – ha dichiarato di pagare ai suoi dipendenti solo un quarto del salario minimo.

Patagonia avrebbe affermato di non avere alcuna autorità su quanto vengono pagati i lavoratori tessili, in quanto il marchio non è in alcun modo e forma datore di lavoro diretto di questi lavoratori. E siamo al punto: roboanti dichiarazioni di principio ad uso rendicontazione integrata e marketing, e – in realtà – scarsi controlli reali sulla filiera di fornitura (perlomeno questa è la tesi di FTM).

La Van Heugten racconta nel suo articolo che quando Yvon Chouinard – fondatore di Patagonia – ha iniziato a creare attrezzature da arrampicata nel cortile dei suoi genitori a Burbank, in California, ha usato l’acciaio, e ben presto si guadagnò la reputazione di fabbricare la migliore attrezzatura da arrampicata in America. Ma l’acciaio – unico materiale usato all’epoca – danneggiava le rocce, man mano distruggendole: Chouinard allora– non senza dubbi e titubanze per il rischio di modificare un’abitudine consolidata tra gli scalatori – decise di passare all’alluminio. La strategia di comunicazione fu molto aggressiva, per una piccola azienda quale era all’epoca, e nel contempo schietta e coraggiosa: il dilemma morale era secondo il fondatore una ragione sufficiente per attuare il cambiamento, prendendosi cura in modo più adeguato dell’ecosistema. Fu un successo planetario: nel giro di appena un anno, il 40% della comunità alpinistica statunitense smise di usare l’acciaio.

Chouinard ha applicato questa esperienza quando ha fondato il marchio outdoor Patagonia, nel 1973: voleva realizzare solo abbigliamento di alta qualità che durasse nel tempo e limitare il più possibile l’impatto sull’ambiente. Nel 1996, il marchio è passato al cotone organico al 100%, solo per sostituirlo sempre più con materiali riciclati. Ma la responsabilità che Chouinard attribuiva all’azienda si estendeva ulteriormente.

Nel 2002 ha deciso di donare ogni anno l’uno per cento delle vendite alle organizzazioni ambientaliste. Nel 2011, Patagonia ha pubblicato un annuncio a tutta pagina sul New York Times invitando i consumatori a “non comprare questa giacca” per attirare l’attenzione sulla natura problematica del consumo eccessivo nell’industria dell’abbigliamento.

Inoltre, l’abbigliamento doveva essere fabbricato in modo equo: nel 2012, i vertici dell’azienda hanno reso il pagamento di un salario dignitoso a tutti coloro che producono capi Patagonia “una priorità”. Nel 2020, Patagonia ha lanciato una campagna che incoraggia i consumatori a chiedere di più ai marchi di abbigliamento: “domanda organico, richiedi prodotti del commercio equo e solidale”, così Patagonia ha esortati i clienti, già acquisiti e potenziali.

Nel 2022, l’allora 84enne Chouinard ha suscitato stupore in tutto il mondo, quando ha donato il 98% delle sue azioni a una ONG, Holdfast Collective, che è “impegnata nella lotta contro la crisi ambientale e nella protezione della natura”. Da li in avanti, i profitti dell’azienda non sarebbero più andati a lui o ai suoi figli, ma a favore della lotta per il clima. “La Terra è ora il nostro unico azionista”, ha detto Chouinard, ripreso da giornali come The New York Times, The Washington Post e The Guardian.

In ogni caso, il fatturato dell’azienda – la sua sede europea è ad Amsterdam, e la direzione operativa è affidata a un Trust della famiglia Chouinard – è cresciuto di oltre il 50% quell’anno, fino a raggiungere circa 1,5 miliardi di dollari, e queste strategie hanno fatto guadagnare a Patagonia l’immagine di leader sostenibile per eccellenza. Ad aprile, Time Magazine ha nominato Chouinard una delle 100 persone più influenti al mondo: “Patagonia è un’azienda che le persone guardano con soggezione”, ha scritto la rivista.

L’esatto contrario di Patagonia è un’azienda come Primark, riferisce la Van Heugten: la catena di vendita al dettaglio irlandese è nota per la vendita di abiti di tendenza di bassa qualità a prezzi egualmente bassi, e il suo modello di fatturato è basato sulla massa, ovvero volumi elevati con bassi. Primark crea continuamente nuove collezioni di capi progettati per essere indossati solo poche volte, dopodiché si rompono. L’azienda utilizza pubblicità, svendite e influencer per sollecitare i consumatori a continuare ad acquistare il più possibile, in una specie di bulimia consumistica che di sostenibile ha ben poco.

I media riferiscono regolarmente sulle vicende collegate all’azienda: “Fornitore Primark accusato di aver rinchiuso gli operai durante le proteste in Myanmar”, si leggeva in un titolo del Guardian nel 2021, e nello stesso anno la ONG The Clean Clothes Campaign scriveva: “Primark usa la pandemia per esercitare ulteriore pressione sugli operai nei paesi manifatturieri”. Patagonia e Primark paiono quindi due esatti opposti, secondo l’inchiesta di FTM: eppure hanno qualcosa in comune, dal momento che alcuni dei loro capi sarebbero prodotti, sorprendentemente, nelle stesse fabbriche.

Una di queste di chiama Regal Image e si trova in Sri Lanka, nella Free Trade Zone di Katunayake, a meno di due chilometri dall’aeroporto internazionale. La zona industriale è sorvegliata 24 ore su 24, 7 giorni su 7, dalla polizia dello Sri Lanka, e l’accesso è possibile solo con un pass speciale. Asics, Dechatlon, Primark e Patagonia: basta spostarsi di banco in banco, cambia il brand, ma non le condizioni di lavoro.

“Finora, non abbiamo notato alcuna differenza tra lavorare con Patagonia e lavorare con Primark o Decathlon”, afferma Kevin Fernando, il responsabile della fabbrica, che tinge, e ricama loghi e stampe sui tessuti. Regal Image è stata recentemente approvata come fornitore di Patagonia, un processo che ha richiesto ben nove mesi di analisi. Fernando mostra i disegni per la collezione estiva 2024: il tessuto azzurro presenta la scritta “Patagonia” in lettere rosa e un arcobaleno è stampato su tessuto arancione.

Sul sito web di Patagonia esiste uno statement su questi aspetti, ma appare davvero debolissimo, se consideriamo che è stato scritto da un’azienda che ha fatto della sostenibilità un mantra: “Come la maggior parte delle aziende di abbigliamento, non produciamo i nostri prodotti, né possediamo nessuna delle fabbriche che lo fanno. Progettiamo, testiamo, commercializziamo e vendiamo abbigliamento Patagonia. Queste sono le nostre aree di forza. Paghiamo altre aziende […] per produrre tessuti e fare il taglio e il cucito vero e proprio”

Patagonia promette di collaborare solo con fabbriche che la pensano allo stesso modo e che condividono la loro “filosofia”, e ha trovato sessantuno fabbriche adatte: due negli Stati Uniti, una in Portogallo e le restanti in dodici diversi paesi a basso salario (la maggior parte dei prodotti è realizzata in Vietnam e Sri Lanka).

Un giorno le persone realizzano abbigliamento per la Patagonia e il giorno dopo realizzano articoli per marchi come GAP, Levi Strauss, Calvin Klein, Hugo Boss, Tommy Hilfiger, Nike, Amer Sports, Asics, la catena di grandi magazzini statunitensi Target, il supermercato Aldi e le icone del fast fashion ASOS, Boohoo, H&M e Zara.

L’idoneità alla produzione di prodotti Patagonia richiede che un fornitore soddisfi un elenco di criteri di sostenibilità, definito in un codice di condotta per i fornitori: ad esempio, il lavoro minorile, il lavoro forzato o le molestie fisiche, sessuali o verbali non sono consentiti. Tutte le leggi nazionali, ovviamente, devono essere rispettate. I fornitori devono garantire il diritto dei lavoratori alla libertà di associazione, non possono costringerli a fare straordinari, devono garantire condizioni di lavoro sane, e settimane lavorative superiori a 60 ore o più di sei giorni consecutivi non sono accettabili.

Patagonia controlla se una fabbrica è conforme a questi standard attraverso visite di revisori indipendenti almeno una volta all’anno, afferma il marchio dopo essere stato interrogato da Follow the Money. I controlli vengono effettuati anche dalla Fair Labor Association (FLA) e FairTrade: due ONG che garantiscono il processo di produzione e l’abbigliamento di Patagonia con un’etichetta che ne conferma la sostenibilità. Una parte di tali audit è pubblica: dal 2016, la FLA ha pubblicato le valutazioni di sette stabilimenti Patagonia, di cui tre in Vietnam, tre in Sri Lanka e uno in Cina, anche se durante tali ispezioni i revisori hanno rilevato dozzine di violazioni, di gravità molto variabile.

Ad esempio, quasi 2.000 dipendenti di una fabbrica in Vietnam sono stati pagati per gli straordinari meno di quanto avrebbero dovuto ricevere e l’età dei dipendenti non è stata registrata (quindi non si può escludere il lavoro minorile). Un altro controllo ha scoperto che i candidati dovevano fornire la loro data mestruale, e le dipendenti hanno riferito agli intervistatori che non potevano rimanere incinte nei primi sei mesi del loro impiego. Altre violazioni riguardavano questioni come lavorare senza dispositivi di protezione, uscite di emergenza bloccate o mancanza di politiche in materia di molestie o discriminazioni, hanno riferito i giornalisti di FTM.

Un problema è presente comunque in ogni rapporto: i lavoratori tessili nelle fabbriche che producono abiti per Patagonia lavorano molto più a lungo di quanto consentito dalla legge, fino a 17 ore al giorno e più di 80 ore alla settimana, ben oltre quanto consentito dal codice di condotta di Patagonia.

“Lunghe ore di lavoro con pause insufficienti spesso portano a problemi di salute”, ha scritto di recente la Clean Clothes Campaign su questo problema, e ”chi protesta viene semplicemente licenziato”. A ciò si aggiunge che i lavoratori tessili – anche nelle fabbriche che lavorano per Patagonia, secondo FTM – usano droghe per lavorare più velocemente e anche per combattere la fame; per non parlare delle condizioni a volte pietose degli “appartamenti” nei quali vivono ammassati, o del fatto che durante i turni non possono bere acqua – nonostante il caldo soffocante – perché non possono perdere tempo ad andare in bagno, pena le urla dei capi turno, i quali temono di non poter rispettare le date di consegna dei capi ordinati dai brand occidentali (in larga parte, ben certificati come “ESG complain”…).

Patagonia ha in prima battuta abbozzato una replica, debole come lo statement sul sito web, affermando che queste affermazioni per loro sono “nuove e serie”, ma ha affermato che “senza prove non può commentare”.

Thulsi Narayanasamy – direttrice dell’advocacy presso il Worker Rights Consortium, un’organizzazione indipendente senza scopo di lucro che monitora e indaga sulle condizioni di lavoro nell’industria dell’abbigliamento e del tessile – è frustrata dall’approccio di Patagonia alla sostenibilità: “Patagonia spende milioni in iniziative ecologiche, ma perché invece non possono pagare le persone che fanno i loro vestiti come si deve…?”, si chiede. Tutto è subappaltato all’estero, con controlli forse non del tutto efficaci. “Penso che dovremmo chiederci: perché i marchi di abbigliamento non hanno le loro fabbriche?”, chiede la Narayanasamy. E si da anche la risposta: ‘I marchi non vogliono essere responsabili delle persone che producono i loro vestiti, e tutti i marchi ne traggono vantaggio, inclusa Patagonia”, conclude l’inchiesta di FTM.

A seguito delle critiche delle quali è stata investita, Patagonia pare aver avviato degli approfondimenti, e ha poi pubblicato una replica più dettagliata, che vi riportiamo:

“I nostri auditor hanno condotto rigorose indagini sul posto nel corso degli ultimi mesi e non hanno trovato nessuna evidenza che possa confermare le dichiarazioni contenute nei recenti articoli apparsi sui mass-media. Nello specifico, presso Regal Image e Shadowline non è emersa nessuna evidenza, e non sono stati riportati dai lavoratori casi di uso di droghe per aumentare le produttività, eccessivo ricorso agli straordinari (oltre le 60 ore), straordinari non pagati, repressione antisindacale, molestie verbali. Inoltre, nella nostra esperienza in Sri Lanka, non abbiamo mai avuto problemi che non potessero essere risolti direttamente con i nostri partner di produzione. Sette dei nostri partner in Sri Lanka sono certificati Fair Trade USA, il che significa che Patagonia paga un premio destinato direttamente ai lavoratori di queste fabbriche. Patagonia si assume proattivamente anche una responsabilità per i diritti, la salute e la sicurezza dei lavoratori che realizzano i prodotti del marchio nelle fabbriche, negli stabilimenti e nelle aziende agricole e ha istituito diversi programmi di monitoraggio accreditati per garantire il loro benessere. Monitoriamo regolarmente i nostri partner della filiera produttiva, direttamente e attraverso organizzazioni come Fair Trade, Better Work ILO e Fair Labor Association. Se riscontriamo problemi, collaboriamo con i nostri partner per implementare soluzioni efficaci e durature, come nel caso del nostro impegno per eliminare le tasse per i lavoratori migranti. Da sempre accogliamo con favore ogni tipo di valutazione e osservazione, in ogni aspetto della nostra attività, e siamo i primi critici di noi stessi quando si tratta di migliorare la nostra azienda e di contribuire a far progredire l’intero settore in cui operiamo. Lo facciamo perché sappiamo che ridimensionare il nostro impatto può portare ai migliori risultati possibili per i lavoratori di tutta l’industria dell’abbigliamento. Regal Image e Shadowline non sono partner per la produzione di prodotti finiti per Patagonia. Regal Image è stato esaminato ed è un partner approvato per gli articoli che richiedono un preciso procedimento di stampa, ma non ha ancora contribuito alla realizzazione di nessun prodotto Patagonia venduto (solo alla realizzazione di una quantità limitata di campioni)”.

Al netto del passaggio finale, dal sapore vagamente giustificativo (“non hanno ancora prodotto vestiti per noi, hanno solo approntato dei campioni”) fondamentalmente Patagonia nega convintamente l’esistenza di irregolarità: chi avrà ragione? L’azienda o i giornalisti d’inchiesta? E come combaciano le risultanze critiche degli stessi report di audit commissionati dall’azienda, sopra citati, con il gesto di respingere al mittente qualunque accusa, come tentato da Patagonia?

Interessante il commento della Dott. sa Giorgia Grandoni, ricercatrice del centro studi della start-up innovativa Reputation Management e specialista in materia: 

“Occorre sviluppare sistemi di controllo per i fornitori di servizi esterni realmente incisivi, anche a costo di ridurre la dipendenza dagli obiettivi di volumi commerciali fuori controllo e margini reddituali esorbitanti che caratterizzano il comparto del fashion, ha sottolineato l’esperta. “Le aziende esistono per fare utili, dobbiamo riconoscerlo senza ipocrisie, ma è anche vero che questo genere di comportamenti alla fine – paradossalmente – danneggia proprio il business e la sua profittabilità. Se venissero fatti realmente rispettare standard etici adeguati a tutta la lunga filiera dell’abbigliamento, probabilmente – conclude Grandoni – non si verificherebbero le distorsioni denunciate per il mercato del fast-fashion e non solo, come dimostra il caso Patagonia. Distorsioni che possono a posteriori impattare molto negativamente sulla reputazione delle imprese, la quale, come sappiamo, è l’asset immateriale più importante e di maggior valore per qualunque azienda”.

Una situazione che richiede l’attenzione responsabile di tutti, cittadini e clienti per primi, ormai sempre più sensibili nell’orientare le proprie decisioni di acquisto su aziende realmente sostenibili. Con buona pace, ormai ci siamo abituati, dei roboanti e ridondanti rating ESG che decorano i siti web delle più importanti aziende del mondo.




ESG E BILANCI: SOLO UN’AZIENDA SU 4 SI SOTTOPONE A VERIFICHE

ESG E BILANCI: SOLO UN'AZIENDA SU 4 SI SOTTOPONE A VERIFICHE

Le imprese europee corrono il rischio di essere percepite dai cittadini come poco trasparenti rispetto al loro reale impegno in tema di sostenibilità. Sono ben 7 su 10 (70%) le aziende del Vecchio Continente che pubblicano bilanci di sostenibilità approvati unicamente sulla base di documenti ed evidenze autoprodotti, senza alcuna verifica da parte di un professionista esterno circa la genuinità e veridicità delle informazioni contenute nei report. Mentre sono solo un quarto (25%) le organizzazioni che affermano di essersi sottoposte a uno specifico audit interno sulla rendicontazione dei criteri ESG (Environmental, Social, Governance).

Criticità di questo tipo si incrociano con i dati rilevati dall’analisi svolta sulla percezione della cittadinanza europea, in cui emerge, come ovvia conseguenza, che il grado di fiducia nelle dichiarazioni di sostenibilità prodotte dalle aziende risulta tra il basso (44,5%) e il bassissimo (19,5%) e che una parte significativa dei cittadini europei ritiene che le aziende utilizzino il tema della sostenibilità solo per motivi pubblicitari e di marketing (45,5%). Sono questi alcuni dei principali dati sul tema della rendicontazione dei criteri ESG nei bilanci aziendali che emergono dalla ricerca “Rating ESG delle imprese, asserzioni etiche aziendali e percezione dei cittadini riguardo alle scelte green delle aziende”, condotta su due diversi campioni, uno di 100 aziende, di vari settori e dimensioni, e un secondo di 500 cittadini rappresentativi di tutte le età, condizioni sociali, promossa dall’On. Tiziana Beghin, eurodeputata (gruppo Non Iscritti) e presentata nel corso di un talk a Bruxelles presso la sede del Parlamento Europeo, anche al fine di elaborare e presentare raccomandazioni utili al legislatore per migliorare le normative in questo settore di enorme importanza e attualità.

L’indagine è stata realizzata da un team di ricerca al 100% italiano e in larga parte femminile: sono donne, infatti, 4 ricercatrici del gruppo su 5, coordinate dalla Dott.ssa Giorgia Grandoni. “Scopo del progetto di ricerca – ha dichiarato Luca Poma, Professore di Reputation management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, referente scientifico dell’indagine – è quello di fotografare lo stato dell’arte sul tema della rendicontazione non finanziaria ed ESG nei bilanci delle aziende europee, al fine di intercettare punti di forza e di debolezza delle prassi attualmente messe in campo e favorire, nel contempo, un miglioramento della qualità informativa di questa forma di rendicontazione, riflettendo anche sulla percezione che i cittadini hanno delle scelte green compiute dalle aziende. Il lavoro si innesta, infatti – conclude Poma – nello sforzo sostenuto dall’Unione Europea di promuovere una cultura della sostenibilità non solo tra cittadine e cittadini comunitari ma anche all’interno delle PMI e dei grandi gruppi aziendali”.

“Lo scenario competitivo mondiale è caratterizzato dalla circolazione sempre più libera di persone, beni e capitali, filiere di fornitura lunghe e frammentate su scala globale e uno spazio geografico degli scambi e degli investimenti sempre più ampio, con una crescente esposizione ai rischi”, ha dichiarato l’On. Beghin. “Cresce quindi la domanda di informazioni credibili e affidabili sulla reputazione delle imprese, non solo limitate al profilo generale e organizzativo, ai prodotti o servizi e ai relativi prezzi, ma anche a quelli che possono essere i rischi di impatti avversi futuri sull’impresa e i suoi stakeholder e a un’ampia gamma di aspetti di natura non finanziaria (governance, diritti umani e condizioni di lavoro, sicurezza, ambiente ed etica di business), denominati sempre più frequentemente “rischi ESG” – Environmental, Social, Governance. È quindi di assoluta attualità per noi legislatori – ha concluso l’eurodeputata – comprendere come poter rendere più trasparente questo tipo di rendicontazione, garantendo rating appropriati e non fuorvianti agli occhi dei cittadini dello spazio comune europeo”.




I-MUSE: L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE ENTRA NEI MUSEI

I-MUSE: L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE ENTRA NEI MUSEI

Il progetto nasce dalla collaborazione tra Università di Torino e Politecnico, con il sostegno di Fondazione Compagnia di San Paolo nell’ambito della prima edizione del bando Intelligenza Artificiale. «Un bando proiettato verso il futuro e rivolto a chi, in questo futuro, sarà assoluto protagonista: i giovani» ha affermato Francesco Profumo, Presidente della Fondazione torinese. «Rientra in questo ambito I-Muse, che ci dimostra quanto sia importante che intelligenza artificiale e il patrimonio museale dialoghino tra di loro al fine di trovare soluzioni innovative per la formazione dei cittadini di oggi e di domani».

Nasce I-Muse, la “Musa di tutti i musei”, e la sperimentazione parte da Torino coinvolgendo otto realtà museali: Reggia di Venaria Reale, Museo Egizio, Palazzo Madama, GAM- Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea e MAO – Museo d’Arte Orientale, Museo Nazionale del Cinema, Museo Nazionale dell’Automobile e Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli. Insieme a loro, partner del progetto sono Associazione Abbonamento Musei, Osservatorio Culturale del Piemonte e Big Data Analysis Lab del Comune di Torino.

I-Muse è ideata da un team di ricercatori e nasce dalla collaborazione dei due Atenei torinesi, Università di Torino e Politecnico. I Dipartimenti coinvolti sono quattro: Dipartimento di Scienze economico-sociali e matematico-statistiche dell’Università di Torino, (referente: Giovanni Mastrobuoni); Dipartimento di Management dell’Università di Torino (referente: Nadia Campaniello); Dipartimento di Automatica e Informatica del Politecnico di Torino (referente: Giovanni Squillero); Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino (referenti: Sergio Pace, Manfredo di Robilant).

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APP DISPONIBILE PER IOS E ANDROID

Grazie ad I-Muse, sviluppata in collaborazione con la società Synesthesia, gli utenti potranno migliorare e amplificare la loro esperienza di visita, con percorsi personalizzati, approfondimenti suggeriti sulla base delle loro preferenze e la possibilità di scoprire sia le opere esposte sia quelli custodite nei magazzini e archivi.

Ma non solo! L’app fornisce suggerimenti di visita in altri musei, creando connessioni trasversali e percorsi di visita originali. Se per esempio, alla Pinacoteca Agnelli ci si sofferma su La Baigneuse Blonde di Renoir, I-Muse mostrerà le connessioni con Ritratto di signora di Giovanni Boldini esposto alla GAM. Oppure, se si visita il Museo Egizio e ci si sofferma sulla Statua di Tauret del XII secolo a.C., l’app suggerisce di andare ad ammirare anche la statua DadAndroginErmete del 1987 di Luigi Ontani.

GRAZIE A I-MUSE SI ALLARGANO GLI ORIZZONTI DI VISITA

I-Muse, insomma, supera l’idea di musei separati e mette le collezioni in dialogo. I visitatori potranno fruire del patrimonio come se fosse custodito in unico grande museo, a portata di app. E il Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico ha progettato a questo proposito venti musei virtuali su temi trasversali, come per esempio il cambiamento climatico, il cibo, il movimento, il tempo che ospitano opere da tutti gli otto musei coinvolti in uno spazio virtuale appunto comune.

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COME FUNZIONA I-MUSE

  • Una volta scaricata l’app si potranno impostare i temi di interesse a cui si aggiungeranno mano a mano le opere in mostra.
  • Per inserirle nel proprio database basterà inquadrare il Qrcode posto di fianco all’opera. Tutto questo permetterà ad I-Muse di conoscere meglio l’utente e dunque di proporre suggerimenti in linea con il profilo.
  • Tra le molte funzionalità di I-Muse anche il gaming sviluppato dalla società Garycom, con una sezione apposita dell’app che permette di giocare con le collezioni.

I-MUSE: LA SPERIMENTAZIONE PARTE DA TORINO

La sperimentazione di I-Muse parte da Torino a cura di Club Silencio, nell’ambito del progetto Una notte al Museo che ogni settimana permette a un ampio pubblico di vivere i musei in chiave insolita e coinvolgente.

Il 13 settembre 2023, in occasione di un appuntamento dedicato, saranno presentati i dati di questa prima fase di sperimentazione.

Nadia Campaniello raccoglie la voce del team di ricercatori e dichiara: «L’app I-Muse fa parte di un progetto più ampio, che utilizza un approccio matematico-statistico per studiare il mondo della cultura. L’obiettivo è quello di ampliare in futuro il numero di musei che ne fanno parte, per ampliare l’offerta dei percorsi tra musei diversi».

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La nuova AI di Google scriverà articoli al posto dei giornalisti?

Il colosso tecnologico sta testando Genesis, uno strumento di intelligenza artificiale a supporto del lavoro dei redattori

La nuova intelligenza artificiale di Google, Genesis, potrebbe presto scrivere articoli al posto dei giornalisti di testate come il Times, il Washington Post o il Wall Street Journal. Ad affermarlo è un’altra testata altrettanto importante, il New York Times, che ha riportato i commenti di alcuni dirigenti del settore, che hanno dichiarato addirittura che lo strumento sembrava “dare per scontato lo sforzo necessario per produrre notizie accurate e ingegnose”. In realtà, secondo quanto riportato da un portavoce di Google, la nuova AI potrebbero essere di particolare aiuto per i giornalisti “con opzioni per i titoli o diversi stili di scrittura”, al fine di migliorarne il lavoro e/o la produttività.

Nonostante questo, è abbastanza chiaro che l’intelligenza artificiale non è ancora in grado di scrivere articoli senza commettere errori – e, soprattutto, senza commetterne meno di quanto non facciano gli esseri umani -. Ma questo non vale certo solo per il settore del giornalismo e dell’editoria. Di recente, infatti, lo stesso Google ha riferito che il suo modello AI pensato per gli ospedali “includeva contenuti più imprecisi o irrilevanti nelle sue risposte” di quanto non accadesse nelle risposte fornite dai medici stessi, a testimonianza del fatto che la tecnologia non è ancora in grado di non fallire.

Eppure, Google sembrerebbe molto interessato a inserirsi nel mondo dei media proponendo uno strumento di intelligenza artificiale che supporti i giornalisti, soprattutto quelli afferenti ai piccoli editori, nel loro lavoro. L’obiettivo, a dispetto di quello che si crede, non è affatto quello di sostituire i redattori, come riferito chiaramente dal portavoce del colosso tecnologico, che ha riferito che “questi strumenti non intendono e non possono sostituire il ruolo essenziale che i giornalisti hanno nel riferire, creare e verificare i loro articoli”. Al di là di questo, però, non è ancora chiaro come funzionerà davvero Genesis, ammesso che riesca a farsi davvero spazio nel settore.




Small Data: cosa sono e perché sono importanti

Small Data: cosa sono e perché sono importanti

Big Data, negli ultimi anni, hanno rivestito un ruolo sempre più centrale nella strategia aziendale, grazie alla possibilità di collegare tra loro una grande mole di informazioni e, così, prendere decisioni consapevoli guidate dai dati e anticipare il futuro.

Tuttavia, più recentemente, anche i cosiddetti Small Data sono diventati decisivi per le aziende, dal momento che queste nuove informazioni possono consentire di raggiungere performance ancora migliori. Si tratta di un approccio radicalmente diverso, che pone l’attenzione sulla componente umana, divenuta sempre più centrale nella società odierna, anche alla luce della pandemia di Covid-19 che ha ridefinito stili di vita e abitudini.

Dal momento che le strategie di marketing dei brand, ancor più al giorno d’oggi, devono essere focalizzate sulle persone, e non su un target generico e astratto, è fondamentale conoscere nel dettaglio cosa sono e come funzionano gli Small Data. In particolare, bisogna sapere in maniera specifica in cosa gli Small Data si differenziano dai Big Data, cosa possono raccontare sui bisogni e sugli interessi dei consumatori e poi, in definitiva, quale contributo particolare riescono a fornire alle aziende che decidono di utilizzarli.

Cosa sono gli Small Data

Martin Lindstrom, esperto di branding e neuromarketing, ha definito gli Small Data, in maniera sintetica ma efficace, come “i piccoli indizi che svelano i grandi trend”. A livello più pratico il concetto di Small Data fa riferimento a tutta una serie di dati individuali e unici relativi a singole persone, nello specifico abitudini e azioni più o meno consapevoli che le persone compiono nella loro vita quotidiana (anche e soprattutto privata).

Se osservati e analizzati, tutti questi comportamenti particolari possono costituire in ottica aziendale informazioni rilevanti sulle emozionisui bisogni e sugli interessi dei potenziali consumatori, consentendo di integrarle con strategie di marketing emozionale.

Che differenza c’è tra Small Data e Big Data

Abbiamo appena sottolineato che gli Small Data sono informazioni individuali, cioè relative alle singole persone e alla loro sfera privata. Il focus, in questo particolare approccio, è incentrato proprio sull’osservazione di queste azioni, anche quelle apparentemente più insignificanti, ma che, come già sottolineato, possono fornire informazioni molto preziose per le aziende.

I Big Data, invece, sono un insieme di dati caratterizzati da elevati volume, velocità e varietà, che possono essere raccolti, analizzati, elaborati e gestiti solo attraverso particolari e innovative tecnologie e che sono in grado di rendere possibili previsioni e decisioni data-driven, cioè guidate dai dati.

Una delle principali differenze tra Small Data e Big Data risiede, quindi, nella possibilità di entrare in possesso di questi dati di natura diversa e nelle modalità attraverso cui è possibile farlo. Mentre per raccogliere e gestire i Big Data sono necessarie, infatti, particolari ed elaborate strumentazioni, chiunque, trasformandosi in una sorta di “detective-psicologo”, può teoricamente entrare in possesso degli Small Data, anche attraverso una semplice visita in casa del potenziale consumatore.

La strategia di raccolta degli Small Data, chiamata “Subtext Research” (in italiano traducibile come “Ricerca dei messaggi impliciti”), prevede, tra le varie modalità, proprio di visitare le abitazioni dei consumatori per capire le loro abitudini private e metterle in relazione agli obiettivi strategici aziendali. Non solo: anche i social network e, in generale, la Rete rappresentano una preziosa fonte di Small Data. Entreremo nel vivo della questione a breve.

Prima, infatti, è necessario sottolineare un’altra grande differenza tra Small Data e Big Data, che abbiamo già avuto modo di accennare: si tratta della componente umana ed emozionale. Il rischio dei Big Data, infatti, è quello di trattare le persone solo come potenziali clienti, limitandosi all’analisi delle loro azioni senza interrogarsi sul perché e senza stimolare riflessioni più accurate sui loro bisogni, desideri ed emozioni o su eventuali bias cognitivi.

Chi si occupa di Small Data, invece, ritiene questi tre aspetti, anche quelli che a una prima e isolata analisi possono apparire meno significativi, fondamentali per la comprensione della realtà e, quindi, alla base delle successive decisioni strategiche dell’azienda.

Avere più informazioni a disposizione non si traduce necessariamente con una maggiore conoscenza. Il rischio di generare confusione, se non si padroneggia la questione e, nello specifico, se non si conoscono le precise domande da porsi, è alto. Meno informazioni, ma più precise e mirate su un target ben definito, di cui è possibile scoprire i pensieri e le emozioni, possono risolvere in maniera migliore e più rapida gli interrogativi cruciali per le aziende.

Come funzionano gli Small Data

Abbiamo già avuto modo di sottolineare che il miglior contesto per osservare e studiare il comportamento delle persone è quello quotidiano, quindi la loro casa.

La strategia di chi si occupa di Small Data, per questo motivo, passa anche per l’osservazione del comportamento del singolo individuo nella sua abitazione, alla ricerca di indizi che possono provenire dalle situazioni e dagli oggetti più disparati, dalla busta dell’immondizia al frigorifero, passando per il pc. Proprio il comportamento degli utenti online, a partire dalla scelta della foto profilo, può fornire per esempio ulteriori preziose risposte ad alcuni interrogativi delle aziende, in relazione a ricordi, sentimenti e desideri.

Gli elementi ricercati da chi si occupa della raccolta degli Small Data sono quelli che accomunano diverse persone o, al contrario, quelli che svelano qualcosa di insolito e fuori contesto. Sono proprio questi ultimi elementi, infatti, a svelare quei pensieri e quelle emozioni non esplicitati dalle persone, che a volte sono anche inconsapevoli delle implicazioni psicologiche di alcuni loro gesti o abitudini.

In linea generale, difficilmente la semplice e singola analisi di un elemento può portare a conclusioni definitive. L’interpretazione congiunta di diversi dati, anche e soprattutto raccolti in situazioni differenti, può però spingere a formulare precise ipotesi sul comportamento delle persone e, quindi, condurre le aziende a prendere determinate decisioni strategiche sulla base di ciò.

Small Data e il metodo delle 7C di Lindstrom

Il principale teorico degli Small Data, Martin Lindstrom, ha definito un modello in sette passaggi per la raccolta e l’analisi di questi particolari dati. È partito da un presupposto: in tutto il mondo esistono non più di 500-1000 tipologie di persone diverse, il cui comportamento è influenzato principalmente da 4 fattori chiave, che sono il clima (cioè l’influenza dell’ambiente circostante sul comportamento e sulle abitudini dell’uomo), il governo, la religione e le tradizioni.

Il processo di ricerca degli Small Data si distingue, invece, in 4 fasi, cioè quella della già citata Subtext Research (la ricerca all’interno del contesto), che porta alla scoperta e identificazione degli Small Data, cioè di piccoli indizi che, attraverso il processo di Small Mining (durante il quale si collegano gli indizi trovati in precedenza), conducono alla creazione di un Concetto, ossia della soluzione dell’azienda.

Il modello delle 7C prevede i seguenti step:

  • Collezionare;
  • Clues, o “indizi”;
  • Connettersi;
  • Ricerca di una Causa;
  • Correlazione;
  • Compensazione;
  • Concetto.

Nella prima fase (“Collezionare”), il ricercatore ha l’obiettivo di raccogliere il maggior numero di dati possibileda diverse prospettive, al fine di distaccarsi dal contesto in cui è abituato a vivere e ragionare e, quindi, da tutti i suoi pregiudizi.

Il passo successivo (“Clues”) prevede che siano prese in esame le cose non dette, cioè gli elementi che riguardano più nel preciso la sfera più privata delle persone. “Connettersi” significa che, una volta scoperti e identificati gli Small Data, è necessario analizzare quanto raccolto nelle due precedenti fasi alla ricerca di punti in comune o di qualcosa che indirizzi in una direzione ben precisa. La “ricerca di una Causa” vede entrare nel vivo il processo di Small Mining, al fine di indagare le emozioni delle persone, a partire dai loro sogni fino ad arrivare alle loro paure.

La fase successiva è quella della “Correlazione”: durante questo passaggio diventa cruciale trovare il momento preciso in cui è emerso per la prima volta il comportamento/emozione della persona che il ricercatore sta indagando. Procedere alla “Compensazione” significa, sulla scia del lavoro fatto in precedenza, risalire al desiderio che è alla base del comportamento o dell’emozione della persona. A questo punto può nascere il “Concetto”, cioè l’idea vera e propria dell’azienda, finalmente in grado di fornire risposta al desiderio della persona.

Small Data vs Big Data: quali sono i vantaggi

L’utilizzo (anche) degli Small Data nella strategia di marketing di un’azienda offre nuove opportunità. Alcuni vantaggi sono stati già accennati, ma è doveroso affrontare in maniera più dettagliata le ragioni per cui questi dati sono così importanti, soprattutto in relazione ai punti di forza e di debolezza dei Big Data.

Innanzitutto, per ottenere informazioni rilevanti per il business di un’azienda dai Big Data sono necessarie competenze e tecnologie che, in molti casi, non sono nella disponibilità delle piccole aziende. Le strategie necessarie per raccogliere e analizzare gli Small Data sono, invece, meno strutturate e dispendiose.

I Big Data, poi, come già sottolineato, trascurano l’aspetto emozionale, fattore invece decisivo per comprendere la realtà e giungere a nuove interpretazioni e nuove idee. Questo è il vero punto di forza, al contrario, degli Small Data, che svelano i desideri e le paure dei consumatori, anche quelle che gli stessi consumatori sono più restii a raccontare. Dal momento che è proprio da queste emozioni che nascono i bisogni dei consumatori, grazie agli Small Data le aziende sono in grado di fornire risposte migliori alle nuove esigenze dei suoi clienti e impostare campagne data driven mirate.