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«Seguiamo i nostri ragazzi, ma è sbagliato “processare” youtube»

«Seguiamo i nostri ragazzi, ma è sbagliato “processare” youtube»

YouTuber in azione provocano un incidente mortale a Roma. È stato sintetizzato così il grave episodio accaduto ieri a Casal Palocco, dove un suv lanciato a forte velocità ha travolto un’auto con a bordo una giovane mamma con i due figli di tre e cinque anni. Quest’ultimo è deceduto per le gravi ferite riportate. Alla guida della grossa Lamborghini alcuni giovani Youtuber della piattaforma “Bordeline” con più di 600mila follower online. Erano intenti a filmare una “challenge”: stare al volante per cinquanta ore di seguito. L’utilizzo degli strumenti digitali e dei social network può essere demonizzato in relazione all’incidente di mercoledì scorso? Ne abbiamo parlato con Luca Poma, professore in Reputation management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, e specialista in gestione di crisi e in digital strategy. «Il digitale – dice al Dubbio Luca Poma – è come un coltello da cucina: puoi utilizzarlo per tagliare il pane o per uccidere qualcuno. Quindi, nuovamente, il tema è quello della cultura e, di conseguenza, dell’uso consapevole e ragionato dello strumento stesso».

Professor Poma, l’incidente mortale di Roma, provocato da un’auto di grossa cilindrata, ha subito fatto scattare la ferma condanna di YouTube e di chi produce contenuti per la famosa piattaforma. Una semplificazione, come succede spesso in occasione di alcune tragedie?

Purtroppo, sì. Il clamore mediatico che accompagna dolorosissime tragedie di questo tipo non aiuta certamente le analisi razionali. YouTube diventa quindi il brand famoso da mettere sul banco degli imputati, il capro espiatorio per condotte sconvenienti e pericolose che con gli algoritmi e la cibernetica non hanno nulla a che fare e che sono invece più banalmente attribuibili alle miserie di noi esseri umani.

Si fa presto a definire YouTuber quei soggetti che più che contenuti utili sono intenti, come nel caso di Casal Palocco, solo a collezionare like per i loro video. Serve anche una educazione per l’utilizzo delle piattaforme social?

Serve eccome, e stupisce che il ministero dell’Istruzione in tutti questi anni ancora non abbia provveduto, nonostante i numerosissimi solleciti in tal senso da parte della comunità accademica, come anche dei comunicatori professionisti. Occorrono urgentemente corsi di educazione digitale nelle scuole italiane. A tal riguardo faccio appello alla sensibilità del collega professor Giuseppe Valditara. Lo conobbi e apprezzai in occasione della pubblicazione di “Lettera 150”, il documento da lui coordinato nel quale si prendeva costruttivamente posizione sulla gestione non ottimale della pandemia Covid da parte del Governo Conte. Spero che il ministro prenda senza indugi l’iniziativa, colmando un gap che esiste da ormai troppi anni e che espone le nuove generazioni ad un uso non ragionato di quello straordinario strumento che sono i Social network.

Cosa dovrebbero fare, secondo lei, i social media per regolare e approvare la presenza di certi contenuti?

Dovrebbero fare certamente di più. Questo è un dibattito accesissimo tra gli addetti ai lavori: non è più tempo di alzare le mani al cielo dicendo «noi siamo solo piattaforme che ospitano contenuti, se i contenuti sono inappropriati è colpa del singolo utente». I social e, in generale, le piattaforme web macinano utili miliardari grazie a quei contenuti, non sono una terza parte estranea all’equazione, e quindi il ruolo dovrebbe essere rivisto. Le nuove direttive europee sul digitale stanno facendo passi avanti in tal senso, ma anche una iniziativa da parte della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, con i ministeri competenti non sarebbe per nulla fuori luogo. L’Italia in passato è stata precursore si pensi, ad esempio, al dibattito e alle successive iniziative legislative sulla privacy. Perché non potremmo esserlo anche su queste delicate e attualissime tematiche?

Tragedie come quella di Roma rischiano ancora una volta di avviare inutili crociate contro le nuove forme di comunicazione che riguardano soprattutto giovani e giovanissimi?

Si, il rischio è evidente. Ma il digitale è come un coltello da cucina: puoi utilizzarlo per tagliare il pane o per uccidere qualcuno. Quindi, nuovamente, il tema è quello della cultura e, di conseguenza, dell’uso consapevole e ragionato dello strumento stesso. Non dobbiamo metterci il cappello dei luddisti e attaccare e demolire gli strumenti digitali, che hanno cambiato in meglio la nostra vita quotidiana in moltissimi modi, bensì porci il tema di educare i nostri ragazzi. In questo la famiglia ha un ruolo centrale, ma, ribadisco, le istituzioni devono far proprio il tema, sia per coinvolgere attivamente il mondo delle scuole, sia per obbligare le piattaforme ad essere più proattive nel far passare messaggi responsabilizzanti. Mi chiedo ad esempio: quante piattaforme social hanno attivi dei corsi di educazione digitale, rivolti ai giovani mediante tutorial e podcast? Il tempo del Far West online è finito. Ognuno deve fare la propria parte.




Maria Sofia Federico e il dibattito sull’incesto

Maria Sofia Federico e il dibattito sull’incesto

La creator di OnlyFans e attivista Maria Sofia Federico ha scatenato un’ondata di polemiche con le sue dichiarazioni sull’incesto, una pratica che ha tentato di normalizzare attraverso alcuni contenuti postati sui propri canali social. Le sue affermazioni hanno immediatamente scatenato un acceso dibattito pubblico, sollevando domande cruciali sull’etica, la morale e il ruolo della sensibilizzazione in una società che deve fare i conti con i limiti della libertà di espressione e la protezione dei valori fondamentali.

Maria Sofia Federico, già nota per la sua attività sui social media e per la sua presenza su piattaforme come OnlyFans, ha affrontato un argomento tra i più tabù, dichiarando che l’incesto non dovrebbe essere visto come qualcosa di intrinsecamente negativo. Questa posizione ha generato sconcerto e indignazione in molte parti della società, che hanno visto nelle sue parole un tentativo di legittimare una pratica ampiamente condannata sia dal punto di vista morale che legale.

L’incesto, infatti, è considerato nella maggior parte delle culture e delle società come una violazione profonda delle norme etiche e morali. La proibizione di tali rapporti è stata storicamente giustificata non solo per ragioni biologiche, legate alla prevenzione di problemi genetici, ma anche per proteggere le dinamiche familiari e sociali, che rischiano di essere compromesse da relazioni di questo tipo. La promozione dell’incesto come qualcosa di accettabile pone, quindi, una serie di dilemmi etici, spingendo molti a chiedersi fino a che punto la libertà di espressione possa essere esercitata senza mettere a rischio i valori condivisi.

La reazione alle dichiarazioni di Maria Sofia Federico è stata veemente. Da un lato, molte persone hanno criticato aspramente le sue parole, sottolineando il pericolo di normalizzare comportamenti che possono avere gravi conseguenze emotive e psicologiche, specialmente in contesti familiari. Dall’altro, alcuni difensori della libertà di parola hanno argomentato che ogni discussione, anche quelle più controverse, ha il diritto di esistere in una società democratica, sebbene questo non significhi che tutte le opinioni siano ugualmente valide o accettabili.

La questione centrale sollevata da questa vicenda riguarda il confine tra sensibilizzazione e legittimazione. Se da un lato è importante discutere apertamente di temi controversi per promuovere una maggiore comprensione e consapevolezza, dall’altro c’è il rischio che tali discussioni possano sfociare nella legittimazione di pratiche che vanno contro i principi etici fondamentali. In questo contesto, l’influenza esercitata da figure pubbliche e influencer come Maria Sofia Federico diventa particolarmente rilevante. La loro capacità di modellare l’opinione pubblica impone una responsabilità aggiuntiva, poiché le loro parole possono avere un impatto significativo su un pubblico giovane e impressionabile.

In conclusione, il caso di Maria Sofia Federico e la sua normalizzazione dell’incesto ci costringono a riflettere su quanto sia delicato il bilanciamento tra libertà di espressione e responsabilità sociale. Se è vero che la sensibilizzazione può aiutare a smuovere i pregiudizi e ad aprire nuove prospettive, è altrettanto vero che non tutte le cause meritano di essere promosse. Quando si toccano temi che minano i fondamenti stessi della morale e della convivenza civile, è necessario un approccio prudente e riflessivo, che tenga conto delle implicazioni profonde e delle conseguenze potenzialmente dannose per la società nel suo complesso.




Sostenibilità, Solo il 15% delle aziende si sottopone a uno specifico audit interno di rendicontazione

Sostenibilità, Solo il 15% delle aziende si sottopone a uno specifico audit interno di rendicontazione

Una ricerca italiana, finanziata dal Parlamento UE, racconta approcci, metodi e standard utilizzati dalle aziende europee nell’attività di rendicontazione dei criteri ESG. Sette organizzazioni su 10 (70%) che pubblicano i bilanci di sostenibilità convalidati da una società di certificazione esterna, dichiarano che questi si basano solamente sull’analisi di documenti ed evidenze autoprodotte dall’azienda stessa. Anche per questo il grado di fiducia da parte della cittadinanza verso l’impegno delle aziende sulla sostenibilità è basso: quasi un cittadino europeo su due (45%) pensa che le imprese utilizzino il tema green solo per motivi pubblicitari e di marketing

SOSTENIBILITA’: LA RICERCA ITALIANA SUL RATING ESG DELLE IMPRESE

Le imprese europee corrono il rischio di essere percepite dai cittadini come poco trasparenti rispetto al loro reale impegno in tema di sostenibilità. Sono ben 7 su 10 (70%) le aziende del Vecchio Continente che pubblicano bilanci di sostenibilità approvati unicamente sulla base di documenti ed evidenze autoprodotti, senza alcuna verifica da parte di un professionista esterno circa la genuinità e veridicità delle informazioni contenute nei report. Mentre sono solo un quarto (25%) le organizzazioni che affermano di essersi sottoposte a uno specifico audit interno sulla rendicontazione dei criteri ESG (Environmental, Social, Governance).

Criticità di questo tipo si incrociano con i dati rilevati dall’analisi svolta sulla percezione della cittadinanza europea, in cui emerge, come ovvia conseguenza, che il grado di fiducia nelle dichiarazioni di sostenibilità prodotte dalle aziende risulta tra il basso (44,5%) e il bassissimo (19,5%) e che una parte significativa dei cittadini europei ritiene che le aziende utilizzino il tema della sostenibilità solo per motivi pubblicitari e di marketing (45,5%). Sono questi alcuni dei principali dati sul tema della rendicontazione dei criteri ESG nei bilanci aziendali che emergono dalla ricerca “Rating ESG delle imprese, asserzioni etiche aziendali e percezione dei cittadini riguardo alle scelte green delle aziende”, condotta su due diversi campioni, uno di 100 aziende, di vari settori e dimensioni, e un secondo di 500 cittadini rappresentativi di tutte le età, condizioni sociali, promossa dall’On. Tiziana Beghin, eurodeputata (gruppo Non Iscritti) e presentata nel corso di un talk a Bruxelles presso la sede del Parlamento Europeo, anche al fine di elaborare e presentare raccomandazioni utili al legislatore per migliorare le normative in questo settore di enorme importanza e attualità.

L’indagine è stata realizzata da un team di ricerca al 100% italiano e in larga parte femminile: sono donne, infatti, 4 ricercatrici del gruppo su 5, coordinate dalla Dott.ssa Giorgia Grandoni.

COSA DICONO GLI ESPERTI

“Scopo del progetto di ricerca – ha dichiarato Luca Poma, Professore di Reputation management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, referente scientifico dell’indagine – è quello di fotografare lo stato dell’arte sul tema della rendicontazione non finanziaria ed ESG nei bilanci delle aziende europee, al fine di intercettare punti di forza e di debolezza delle prassi attualmente messe in campo e favorire, nel contempo, un miglioramento della qualità informativa di questa forma di rendicontazione, riflettendo anche sulla percezione che i cittadini hanno delle scelte green compiute dalle aziende. Il lavoro si innesta, infatti – conclude Poma – nello sforzo sostenuto dall’Unione Europea di promuovere una cultura della sostenibilità non solo tra cittadine e cittadini comunitari ma anche all’interno delle PMI e dei grandi gruppi aziendali”.

“Lo scenario competitivo mondiale è caratterizzato dalla circolazione sempre più libera di persone, beni e capitali, filiere di fornitura lunghe e frammentate su scala globale e uno spazio geografico degli scambi e degli investimenti sempre più ampio, con una crescente esposizione ai rischi”, ha dichiarato l’On. Beghin.

“Cresce quindi la domanda di informazioni credibili e affidabili sulla reputazione delle imprese, non solo limitate al profilo generale e organizzativo, ai prodotti o servizi e ai relativi prezzi, ma anche a quelli che possono essere i rischi di impatti avversi futuri sull’impresa e i suoi stakeholder e a un’ampia gamma di aspetti di natura non finanziaria (governance, diritti umani e condizioni di lavoro, sicurezza, ambiente ed etica di business), denominati sempre più frequentemente “rischi ESG” – Environmental, Social, Governance. È quindi di assoluta attualità per noi legislatori – ha concluso l’eurodeputata – comprendere come poter rendere più trasparente questo tipo di rendicontazione, garantendo rating appropriati e non fuorvianti agli occhi dei cittadini dello spazio comune europeo”.




Sostenibilità, scatta l’allarme sulla rendicontazione esg

ESG E BILANCI: SOLO UN'AZIENDA SU 4 SI SOTTOPONE A VERIFICHE

Le imprese europee corrono il rischio di essere percepite dai cittadini come poco trasparenti rispetto al loro reale impegno in tema di sostenibilità. Sono ben 7 su 10 (70%) le aziende del Vecchio Continente che pubblicano bilanci di sostenibilità approvati unicamente sulla base di documenti ed evidenze autoprodotti, senza alcuna verifica da parte di un professionista esterno circa la genuinità e veridicità delle informazioni contenute nei report. Mentre sono solo un quarto (25%) le organizzazioni che affermano di essersi sottoposte a uno specifico audit interno sulla rendicontazione dei criteri ESG (Environmental, Social, Governance). 

Criticità di questo tipo si incrociano con i dati rilevati dall’analisi svolta sulla percezione della cittadinanza europea, in cui emerge, come ovvia conseguenza, che il grado di fiducia nelle dichiarazioni di sostenibilità prodotte dalle aziende risulta tra il basso (44,5%) e il bassissimo (19,5%) e che una parte significativa dei cittadini europei ritiene che le aziende utilizzino il tema della sostenibilità solo per motivi pubblicitari e di marketing (45,5%). 

Sono questi alcuni dei principali dati sul tema della rendicontazione dei criteri ESG nei bilanci aziendali che emergono dalla ricerca “Rating ESG delle imprese, asserzioni etiche aziendali e percezione dei cittadini riguardo alle scelte green delle aziende”, condotta su due diversi campioni, uno di 100 aziende, di vari settori e dimensioni, e un secondo di 500 cittadini rappresentativi di tutte le età, condizioni sociali, promossa dall’On. Tiziana Beghin, eurodeputata (gruppo Non Iscritti) e presentata nel corso di un talk a Bruxelles presso la sede del Parlamento Europeo, anche al fine di elaborare e presentare raccomandazioni utili al legislatore per migliorare le normative in questo settore di enorme importanza e attualità. 

 L’indagine è stata realizzata da un team di ricerca al 100% italiano e in larga parte femminile: sono donne, infatti, 4 ricercatrici del gruppo su 5, coordinate dalla Dott.ssa Giorgia Grandoni. 

“Scopo del progetto di ricerca – ha dichiarato Luca Poma, Professore di Reputation management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, referente scientifico dell’indagine – è quello di fotografare lo stato dell’arte sul tema della rendicontazione non finanziaria ed ESG nei bilanci delle aziende europee, al fine di intercettare punti di forza e di debolezza delle prassi attualmente messe in campo e favorire, nel contempo, un miglioramento della qualità informativa di questa forma di rendicontazione, riflettendo anche sulla percezione che i cittadini hanno delle scelte green compiute dalle aziende. 

Il lavoro si innesta, infatti – conclude Poma – nello sforzo sostenuto dall’Unione Europea di promuovere una cultura della sostenibilità non solo tra cittadine e cittadini comunitari ma anche all’interno delle PMI e dei grandi gruppi aziendali”.

 “Lo scenario competitivo mondiale è caratterizzato dalla circolazione sempre più libera di persone, beni e capitali, filiere di fornitura lunghe e frammentate su scala globale e uno spazio geografico degli scambi e degli investimenti sempre più ampio, con una crescente esposizione ai rischi”,

 ha dichiarato l’On. Beghin. 

“Cresce quindi la domanda di informazioni credibili e affidabili sulla reputazione delle imprese, non solo limitate al profilo generale e organizzativo, ai prodotti o servizi e ai relativi prezzi, ma anche a quelli che possono essere i rischi di impatti avversi futuri sull’impresa e i suoi stakeholder e a un’ampia gamma di aspetti di natura non finanziaria (governance, diritti umani e condizioni di lavoro, sicurezza, ambiente ed etica di business), denominati sempre più frequentemente “rischi ESG” – Environmental, Social, Governance. È quindi di assoluta attualità per noi legislatori – ha concluso l’eurodeputata – comprendere come poter rendere più trasparente questo tipo di rendicontazione, garantendo rating appropriati e non fuorvianti agli occhi dei cittadini dello spazio comune europeo”.




Imprese, Beghin (M5S): “Fiducia cittadini su sostenibilità bassa, implementare pratiche reporting”

Imprese, Beghin (M5S): "Fiducia cittadini su sostenibilità bassa, implementare pratiche reporting"

“Lo scenario competitivo mondiale è caratterizzato sempre di più dalla circolazione di persone, beni e capitali, filiere di fornitura globali e conseguentemente da un’ampia esposizione ai rischi. C’è dunque una crescente richiesta di informazioni affidabili sulla reputazione delle imprese, inclusi i rischi ESG (Ambiente, Sociale, Governance). Per questo motivo ho voluto promuovere un progetto di ricerca per indagare sul tema, coinvolgendo un team di ricercatrici e ricercatori italiani: scopo del progetto era valutare proprio le attuali pratiche di reporting non finanziario ed ESG delle aziende, nonché promuovere una migliore qualità delle informazioni in quest’ambito e analizzare la percezione dei cittadini sulle scelte sostenibili delle aziende”, così in una nota Tiziana Beghin, europarlamentare del Movimento 5 Stelle, a margine dell’evento di presentazione dello studio. 

“La ricerca ha rivelato che il 70% delle aziende con bilanci di sostenibilità convalidati ha basato le valutazioni solo su documenti prodotti internamente, senza alcun audit da parte di esperti esterni, generando di conseguenza criticità formali e sostanziali. Inoltre, la percezione dei cittadini riguardo alle dichiarazioni di sostenibilità è scarsa, con un basso livello di fiducia e la convinzione che le aziende utilizzino la sostenibilità per fini pubblicitari e di marketing. I dati emersi dalla ricerca sono preoccupanti, sia perché l’assenza di norme stringenti sull’attribuzione dei rating ESG e la conseguente facilità con la quale vengono rilasciati rischia di svilire l’impegno delle tante aziende davvero virtuose, sia perché evidenziano una crescente crisi di sfiducia da parte dei cittadini europei. Serve un serio confronto sulle migliori pratiche nel campo del reporting non finanziario e della percezione pubblica, condividendo raccomandazioni per migliorare questi aspetti cruciali per le aziende nell’Unione europea”, ha concluso Beghin.