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Moda e lavoro 10 anni dopo il crollo del Rana Plaza in Bangladesh

Moda e lavoro 10 anni dopo il crollo del Rana Plaza in Bangladesh

Sono oltre settemila le fabbriche di abbigliamento in Bangladesh, dopo la Cina il secondo Paese esportatore di prodotti di questo genere. Per un’economia povera in un territorio flagellato da una situazione idrogeologica tra le più sfavorevoli del pianeta si tratta di un segmento produttivo straordinariamente importante. A utilizzare questi opifici sono soprattutto i marchi del fast fashion, che raramente possiedono le fabbriche dei prodotti di cui necessitano le loro immense e voraci catene distributive. La quasi totalità della produzione di abbigliamento e calzature viene costruita dove la manodopera a buon mercato e una legislazione debole a proposito degli standard di sicurezza sul lavoro costituiscono un vantaggio straordinario per la produzione di oggetti di basso costo. Accade in Bangladesh, Pakistan, Vietnam e Cambogia. Dopo quanto accaduto dieci anni fa al Rana Plaza di Dhaka nessuno però ha potuto più ignorare il prezzo pagato laggiù per sostenere le proposte a getto continuo di capi di “tendenza” nelle vie dei centri urbani più ricchi del pianeta. Dieci anni dopo, le veglie commemorative dell’incidente si svolgono online e in tutto il mondo, comprese Dhaka, Londra e New York.

IL CROLLO DEL RANA PLAZA

La mattina del 24 aprile 2013, sono state più di 1100 le vittime del crollo dell’edificio di otto piani che ospitava cinque fabbriche di abbigliamento alla periferia di Dhaka. Il giorno prima del crollo nell’edificio si erano evidenziate crepe importanti, ma ai lavoratori era stato detto che si trattava di evidenze non rilevanti. Altri incidenti si erano peraltro già verificati in Bangladesh nel settore dell’abbigliamento, tra questi un incendio nella fabbrica di Tazreen nel novembre 2012, che causò 117 vittime.

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“Oltre cinquemila fabbriche di abbigliamento del Bangladesh non sono ancora soggette ad accordi o protezione

I NUOVI ACCORDI A TUTELA DEI LAVORATORI

Dopo il crollo di Rana Plaza molti marchi di moda hanno annunciato la creazione di accordi quinquennali per garantire la sicurezza dei lavoratori. Meno vincolante è l’Alleanza per la sicurezza dei lavoratori del Bangladesh, sottoscritto da marchi nordamericani come Walmart, Gap e Target. Più impegnativo l’accordo riguardante la sicurezza antincendio firmato a maggio 2013 tra proprietari di fabbriche, sindacati globali e marchi di abbigliamento europei come la spagnola Inditex (che significa Zara, Pull&Bear, Massimo Dutti, Bershka, Stradivarius, Oysho, Zara Home e Uterqüe), l’inglese Primark e la svedese H&M. L’accordo prevede da un lato protocolli che le aziende produttrici sono tenute a seguire. dall’altro l’impossibilità per i marchi di tagliare i rapporti con i fornitori non diligenti e quindi l’obbligo di sostenere azioni correttive. Dal 2013 a oggi ci sono state 56mila ispezioni in 2400 fabbriche e più di 140mila problemi sono stati corretti. Più di recente è arrivato anche l’Accordo internazionale, firmato nel 2021 ed esteso anche al Pakistan, con l’adesione di 45 marchi.

MODA E INCIDENTI SUL LAVORO

Progressi ce ne sono stati, dunque. Tuttavia aziende americane che pure si riforniscono in maniera massiccia in queste zone (tra queste Levi’s, Gap e Amazon) non hanno firmato alcun accordo nonostante ne abbiano tratto i benefici. Oltre cinquemila fabbriche di abbigliamento del Bangladesh non sono ancora soggette ad accordi o protezione e quindi l’esistenza di molti dei 40 milioni di lavoratori impegnati in questo settore nel sud est-asiatico rimane precaria. E infatti gli incidenti non sono scomparsi del tutto. Lo scorso aprile quattro vigili del fuoco sono rimasti uccisi e quasi una dozzina feriti durante un incendio divampato in una fabbrica di abbigliamento di Karachi in Pakistan.




Chi è il Chief Experience Officer (CXO) e come può aggiungere valore all’azienda

Lo racconta Pier Paolo Bucalo, coordinatore scientifico dell’Executive Programme in Customer & Employee Experience Management targato Luiss Business School

In questi mesi si parla molto di “great resignation” e di “quiet quitting”, ossia di dipendenti che lasciano spontaneamente le aziende o che di fatto perdono interesse per il proprio lavoro, riducendo il proprio impegno al minimo necessario. Secondo un’indagine Gallup del 2022, “State of the Global Workplace”, i dipendenti italiani sono i lavoratori più tristi d’Europa. Su 38 paesi analizzati, l’Italia è ultima con solamente il 4% di dipendenti soddisfatti del proprio posto di lavoro. Al tempo stesso, secondo uno studio effettuato da GlobalNR, anche i livelli di soddisfazione dei Clienti italiani sono i più bassi d’Europa.

«Senza una forza lavoro ingaggiata e motivata, è molto difficile tradurre esperienze individuali in Customer Journey soddisfacenti» spiega Pier Paolo Bucalo, Adjunct Professor, Luiss Business School e coordinatore scientifico dell’Executive Programme in Customer & Employee Experience Management.

A contribuire a risolvere tali criticità sono chiamati i Chief Experience Officer (CXO), figure al centro della prima edizione del programma. Obiettivo: creare una Human Experience che porti valore alle aziende.

Professor Bucalo, dopo quattro edizioni dell’Executive Programme in Customer Experience Management debutta un nuovo programma che include anche la Employee Experience. Perché?

Perché molti executive hanno nel tempo lamentato una poca sensibilità sul tema “experience” da parte delle proprie funzioni Risorse Umane. Ed un programma che abbia l’obiettivo di realizzare esperienze di valore per i Clienti non può ignorare il ruolo fondamentale che i dipendenti giocano nel merito.

Chi è il Customer & Employee Experience Manager?

Troppo spesso in azienda la misurazione della Customer Satisfaction è una responsabilità della Direzione Sales & Marketing, mentre la Employee Satisfaction viene gestita dalla Direzione People/HR. I limiti principali di tale approccio sono molteplici. In primo luogo, controllante e controllore coincidono, con rischio di bias sui risultati delle analisi. Poi, i dati che emergono non sempre vengono condivisi con l’intera organizzazione. Infine, si rischia di perdere le sinergie tra gestione dell’esperienza del cliente e del dipendente. Per ovviare a questa situazione nasce il ruolo del Chief Experience Officer (CXO), ruolo già presente in numerose aziende internazionali ma ancora assente in Italia. È appunto la figura che formiamo nel nostro percorso Executive. Si tratta del punto di sintesi tra Employee Experience Manager e Customer Experience Manager.

Di cosa si occupa il Chief Experience Officer?

Il CXO ha innanzitutto il compito di misurare i livelli di salute e di soddisfazione di Clienti e dipendenti. Risultati che deve poi condividere con l’intera organizzazione. Facilita e aumenta la conoscenza e la comprensione dei clienti tra i dipendenti, e fa lo stesso affinché i manager comprendano meglio i dipendenti e le loro esigenze. Supporta le direzioni HR e Marketing nel disegno e nell’implementazione di esperienze destinate a dipendenti e clienti. Inoltre, evidenzia e sviluppa sinergie tra Customer Experience ed Employee Experience. Infine, misura l’impatto della Customer Experience sui dipendenti e quello della Employee Experience sui Clienti, nonché l’impatto di entrambe sui KPI aziendali.

Quali sono le sue competenze?

Il CXO deve avere un mix di competenze “hard” (capacità di analisi in primis) e competenze “soft” (psicologia e empatia sono indispensabili). Queste ultime sono cruciali. Infatti, se si tratta di studiare e comprendere l’uomo “lavoratore dipendente”, le competenze sono (o dovrebbero essere) all’interno della funzione Risorse Umane (HR), che – in estrema sintesi – si sforza di comprendere cosa motivi e renda soddisfatto l’essere umano quando lavora, e ne consenta lo sviluppo professionale. In questo contesto vengono utilizzate parole come empowerment, fulfillment, purpose. Se invece si tratta di comprendere l’uomo “consumatore”, le competenze ricadono nella funzione Marketing (almeno quelle “teoriche”), che cerca di analizzare cosa motivi ed influenzi l’essere umano nel processo di analisi, scelta ed acquisto di un prodotto o un servizio. Se poi ci domandiamo chi, in azienda, conosca davvero, “in pratica”, il comportamento dell’essere umano “consumatore”, allora è probabile che si tratti della funzione Commerciale, la “front line” e gli agenti commerciali. Ma credo sia opportuno ricordare che l’essere umano è sempre lo stesso, ed è attratto da esperienze gratificanti, siano esse legate al posto di lavoro o quando si tratta di fare acquisti. Il CXO può rappresentare l’anello mancante per consentire alle aziende di condividere al proprio interno tutto il know-how e le competenze in materia psicologica, sociologica e comportamentale. Vi sono, infatti, profonde sinergie tra le competenze di cui un’azienda ha bisogno per diventare “best employer of choice” e le competenze necessarie affinché la stessa azienda sia in grado di offrire ai propri clienti una “superior customer experience”.

Customer experience, vecchie pratiche e nuovi trend: quali sono i principali cambiamenti legati a questo tema?

La multicanalità è realtà da molti anni, ma le aziende continuano a considerare i diversi mezzi come alternativi e non sinergici, gestendoli in modo separato. Sempre più spesso le esperienze dei clienti oscillano tra canali digitali e fisici, il cosiddetto “ROPO effect” (Research Offline, Purchase Online e viceversa). I clienti cercano sia online per poi comprare offline, sia viceversa. Per questo, qualsiasi canale venga scelto, l’utente deve poter vivere la stessa esperienza. Inoltre, l’azienda deve sapere ciò che il cliente ha fatto sugli altri canali. In più, non bisogna dimenticare di aggiungere empatia a qualsiasi canale. Il dipendente non empatico può fare danni su tutti i “touchpoint”: sia nel punto vendita fisico che al telefono o su via email o web-chat.

Un secondo trend da tenere in considerazione è quello legato all’innovazione.

In che modo l’innovazione incide sulla Customer & Employee Experience?

L’innovazione sta avendo ed avrà sempre di più un impatto enorme sulla rapidità e sulla qualità della raccolta dei dati. Prima i dati venivano raccolti attraverso focus group, i cui risultati venivano analizzati nel tempo per poi produrre risultati con mesi di ritardo. Oggi la tecnologia ci aiuta ad avere molte più informazioni in tempi molto più rapidi, sempre nel rispetto della privacy, non solamente sui canali online, ma anche sui canali fisici. Pensiamo ad esempio al riconoscimento facciale, che consente di avere in tempo reale un quadro sintetico delle emozioni dei clienti raccolte nei punti vendita. Credo sia davvero importante per un’azienda poter sapere se il proprio cliente è uscito dal punto vendita più o meno felice di quando vi è entrato.

Employee Experience e Customer Experience: in che modo si influenzano a vicenda?

Se l’azienda riesce ad aumentare il livello di soddisfazione e di coinvolgimento dei propri dipendenti, i risultati si vedranno su tutte le variabili critiche. I dipendenti soddisfatti hanno maggiore produttività, maggiore motivazione, minore assenteismo, ed offrono un migliore servizio quando interagiscono con i clienti, che avranno così un migliore Customer Journey.

Quali sono le leve per ottenere dipendenti più soddisfatti?

Come dimostrato dai prof. Teresa Amabile and Steven Kramer di Harvard Business School, la grande maggioranza dei manager non è in grado di comprendere ciò che davvero motiva i dipendenti. Secondo i manager il salario è la principale leva di motivazione dei dipendenti, mentre, sulla base di ricerche lunghe e ripetute nel tempo, le leve di motivazione sono più emotive che economiche. Il salario deve essere sufficiente a non rappresentare un problema. Sono però le emozioni positive a incrementare la motivazione: il desiderio di autonomia crescente, le opportunità di crescita, la voglia di contribuire e ricevere il riconoscimento per un lavoro ben fatto, la possibilità di trovare il purpose aziendale in tutto ciò che si fa.

Quali sono i trend più recenti di cui i manager devono tenere conto nel ridisegnare una Customer Experience in maniera innovativa?

Come ci ricorda Simon Sinek, People don’t buy what you do, they buy why you do it. I clienti non comprano ciò che un’azienda offre, ma sposano la ragione per la quale un’azienda fa ciò che fa. Secondo una ricerca Accenture, oltre a prezzo, qualità dei prodotti e dei servizi e customer experience, ciò che conta per i clienti sono trasparenza, attenzione nei confronti dei dipendenti, presenza di valori etici e la dimostrazione di autenticità e coerenza in tutto ciò che l’azienda fa. Secondo Larry Fink, CEO di BlackRock, purpose is the engine of long-term profitability (il purpose è il motore per una profittabilità di lungo periodo).

Inoltre, c’è un cambiamento tra gli obiettivi dell’azienda: non si deve più generare valore per i soli azionisti, ma per tutti gli stakeholder. Quindi per i clienti, per i dipendenti, per i fornitori, con cui bisogna rapportarsi in modo equo ed etico, per le comunità nelle quali le aziende devono generare valore.

Infine, consumatori e dipendenti sono sempre più sensibili alle tematiche ESG (Environmental, Social e corporate Governance). Per le nuove generazioni, l’obiettivo principale di un’azienda deve essere quello di migliorare la società.

Quali sono le soft skill che possono fare la differenza? Come verranno allenate in aula?

Principalmente l’empatia e la capacità di ascolto. All’interno del programma, gli studenti avranno l’opportunità di vestire i panni del mistery shopper, per giudicare la competenza tecnica, l’abilità, ma anche le soft skill degli addetti alla clientela nei diversi punti vendita.

Quali sono i fattori necessari per una trasformazione aziendale in un’ottica customer-centric?

Per realizzare una trasformazione customer centric c’è bisogno in primis del commitment del top management, a volte poco attento al “fattore umano”. Ci devono essere poi una comprensione e consapevolezza condivisa e diffusa dell’impatto della visione customer centric sull’organizzazione. Bisogna conoscere i propri clienti e i propri dipendenti, trasformando i dati che li riguardano in metriche e insight. Ci deve essere abilità nell’utilizzo di nuove tecnologie e si deve scegliere il corretto modello organizzativo, che consenta la responsabilizzazione dei dipendenti. Ultimo, ma non meno importante, bisogna ragionare sull’orizzonte temporale dei propri obiettivi.

In che modo?

Un dipendente soddisfatto resterebbe nella stessa azienda per 20 anni. Anche un cliente soddisfatto non sente alcuna necessità di cambiare azienda. Purtroppo, a volte è proprio il top management ad avere obiettivi ed incentivi di breve periodo, il che può impoverire l’organizzazione.

Per questo, quando parliamo di sostenibilità, non pensiamo solamente all’ambiente. Pensiamo piuttosto alla sostenibilità economica. I risultati di un’azienda sono sostenibili nel tempo solo se tali risultati sono generati da dipendenti soddisfatti e da clienti altrettanto soddisfatti.

Compito del CXO è tenere sotto controllo queste due variabili chiave, soddisfazione di clienti e dipendenti, le uniche che possono garantire all’azienda una lunga vita in salute.




Tassonomia: Commissione UE lancia il Taxonomy Navigator per supportare aziende

Tassonomia: Commissione UE lancia il Taxonomy Navigator per supportare aziende

La Commissione europea ha lanciato l’EU Taxonomy Navigator, una pagina web di facile utilizzo che offre una serie di strumenti online per aiutare gli utenti a comprendere meglio la tassonomia UE, con l’intento di facilitare la sua attuazione e supportare le aziende nei loro obblighi di rendicontazione ESG.

Il navigatore della tassonomia UE offre in particolare tre strumenti che aiutano a orientare: la bussola della tassonomia (EU Taxonomy Compass), una rappresentazione visiva dei settori, delle attività e dei criteri inclusi negli atti delegati della tassonomia UE, il calcolatore della tassonomia (EU Taxonomy Calculator), una guida passo-passo sugli obblighi di rendicontazione, e l’archivio delle domande frequenti, una panoramica di domande e risposte sulla tassonomia UE e i suoi atti delegati.

La bussola della tassonomia UE

La bussola fornisce una rappresentazione visiva dei contenuti della classificazione europea per renderli più facilmente accessibili a diversi utenti. Consente di verificare quindi quali attività sono incluse nella tassonomia (“attività ammissibili”), a quali obiettivi contribuiscono in modo sostanziale e quali criteri devono essere soddisfatti affinché le attività possano essere considerate allineate. La bussola mira anche a facilitare l’integrazione dei criteri nei database aziendali e in altri sistemi informatici.

Al momento, lo strumento si concentra sui primi due atti delegati entrati in vigore e quindi relativi alle attività che con il proprio operato contribuiscono alla mitigazione e all’adattamento al cambiamento climatico.

La bussola della tassonomia dell’UE sarà man mano aggiornata per includere i futuri atti delegati che specificano i criteri tecnici di selezione per le attività economiche riguardanti gli altri obiettivi ambientali UE oltre a quelli climatici, che sono preservare la biodiversità e le risorse idriche, transitare verso un modello di economia circolare e ridurre e prevenire l’inquinamento.

Fonte: Commissione europea

Il calcolatore della tassonomia UE

L’EU Taxonomy Calculator è uno strumento interattivo ed educativo che ha lo scopo di aiutare gli utenti a comprendere e sostenere gli obblighi di rendicontazione previsti dall’atto delegato sulle informazioni ai sensi dell’articolo 8 del regolamento sulla tassonomia.

L’articolo prevede infatti che le imprese tenute a pubblicare informazioni non finanziarie ai sensi della direttiva sulla rendicontazione della sostenibilità delle imprese (Corporate Sustainability Reporting Directive, CSRD) debbano divulgare informazioni su come e in che misura le loro attività possano essere considerate attività economiche sostenibili dal punto di vista ambientale. A tal fine, l’atto specifica percentuali e valori degli indicatori chiave di prestazione (KPI) relativi al fatturato, alle spese in conto capitale (CapEx) e alle spese operative (OpEx) a cui le imprese devono sottostare per rientrare nei criteri della tassonomia.

L’archivio delle domande frequenti

L’archivio delle FAQ ha l’obiettivo di aiutare gli utenti a trovare risposte alle domande più frequenti riguardanti la tassonomia UE in generale, i suoi obblighi di rendicontazione e i criteri tecnici di screening definiti negli atti delegati. Pertanto, raccoglie in un unico luogo tutte le risposte che la Commissione europea ha pubblicato finora sull’argomento.




È il momento di parlare (seriamente) di etica dell’intelligenza artificiale

È il momento di parlare (seriamente) di etica dell’intelligenza artificiale

Mancano meno di due settimane alla chiusura della finestra temporale che il Garante della privacy italiano ha dato a OpenAi per adeguarsi alle sue prescrizioni sull’uso dei dati personali e correggere la rotta su ChatGPT: come vi avevamo raccontato, la startup fondata da Sam Altman ha tempo fino al 30 aprile prossimo per rispettare le regole europee in tema di informativa sull’uso dei dati personali, diritti degli interessati (utenti e non) e base giuridica del trattamento delle informazioni per allenare l’algoritmo. Al di là di come finirà questa storia, comunque, i problemi e le alzate di sopracciglio legati alle intelligenza artificiale, e in particolare agli algoritmi conversazionali come per l’appunto ChatGPT, sono ben lontani dall’essere risolti – ne è testimone l’ormai famosa lettera in cui Elon Musk, i ricercatori di DeepMind e altri imprenditori e scienziati hanno chiesto uno stop di sei mesi nello sviluppo dell’intelligenza artificiale, in attesa di avere “regole comuni e protezioni dalle conseguenze più deleterie”.

Che se ne condividano o meno i contenuti, comunque, la lettera racconta solo parte della storia. E, a voler pensar male, l’impressione è che almeno alcuni dei suoi autori stiano soltanto cercando di prendere tempo per non rischiare di essere tagliati fuori dal succulento mercato dell’intelligenza artificiale (e difatti…). A sostenerlo, tra gli altri, sono gli esperti di SIpEIA, la Società Italiana per l’Etica dell’Intelligenza Artificiale, associazione fondata da esperti di informatica, etica e giurisprudenza delle Università degli Studi di TorinoSapienza Università di RomaUniversità della CalabriaUniversità di Bologna e del Consiglio Nazionale delle Ricerche, che sta per pubblicare un manifesto su ChatGPT e gli altri Large Language Model (Llm) – di cui si è tra l’altro discusso il 17 aprile scorso a Torino, nel corso dell’evento “ChatGPT: promesse e illusioni. Limiti e potenzialità del fenomeno informatico del momento”“Parte della classe degli intellettuali organici e degli imprenditori vuole ‘raccattare le briciole’ di questi strumenti – ci ha raccontato Guido Boella, professore al Dipartimento di Informatica dell’Università di Torino e cofondatore di SIpEIA – e usa la visione lungotermista per puntare il dito verso problemi lontani e non ben definiti, anziché evidenziare quelli molto più immediati e concreti, relativi in particolare alle interazioni tra economia, società e tecnologia”. Come vi avevamo raccontato, la narrazione lungotermista cara a Elon Musk e colleghi mette in guardia, per esempio, rispetto alla possibilità che “menti non umane potrebbero superarci di numero, essere più intelligenti di noi, renderci obsoleti e rimpiazzarci”: ma si tratta, come hanno più volte ribadito i massimi esperti del settore, di una suggestione distopica e assurda dal punto di vista scientifico e tecnologico, specie se si considera che un’intelligenza artificiale del genere non solo non è nemmeno ancora in vista, ma non è neanche in alcun modo chiaro se sarà mai possibile svilupparla.

Una riflessione necessaria

Per una volta, quindi, sarebbe meglio guardare il dito anziché la luna, e preoccuparsi di questioni più immediate. Magari guardando a quello che è successo nel passato: “Quando la comunità scientifica cominciò a sviluppare le biotecnologie – dice ancora Boella – fu subito chiaro che c’era l’esigenza di definire una nuova etica, perché quella tradizionale non aveva gli strumenti sufficienti per avere a che fare con quelle innovazioni. Oggi siamo in uno scenario molto simile: i cambiamenti portati dalle intelligenze artificiali richiedono un cambiamento dell’etica. Di più: a differenza delle biotecnologie, l’intelligenza artificiale ha ripercussioni su molti più aspetti della nostra quotidianità, e dunque definirne un’etica è molto più urgente. È per questo che due anni fa abbiamo fondato SIpEIA, società scientifica e di advocacy composta da informatici, filosofi, giuristi ed eticisti”.

Detto, fatto: proprio su questo è incentrato il position paper di SIpEIA. “Bisogna evitare – si legge nel documento – che il business model che caratterizza il capitalismo della sorveglianza non diventi il modello di monetizzazione anche dei Llm, perché l’impatto sarebbe molto maggiore. Infatti, i Llm creano ‘relazioni sintetiche’ con gli utenti, coinvolgendoli in una relazione anche emozionale e portando a nuove e più profonde modalità di estrazione dei dati, nonché possibilità di manipolazione degli utenti. Noi umani, infatti, attribuiamo a chi comunica con noi stati mentali ed emozioni, che i Llm by design non hanno, e siamo quindi esposti a manipolazione da parte loro”.

I dubbi e le paure

Ma quali sono, nello specifico, i rischi ravvisati dagli esperti, quelli che rendono cogente la definizione di linee guida etiche? Anzitutto la questione dell’estrazione dei dati – quella che ha mobilitato il Garante – che, per forza di cose (le Ai vivono di dati), diventerà sempre più intrusiva. La sociologa Shoshana Zubov, nel suo Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, pubblicato nel 2019, ha paragonato l’estrazione dei dati a quella del petrolio: ne serve sempre di più, e bisogna scavare sempre più in profondità. “Fino a non molto tempo fa – dice Boella – Google raccoglieva i dati delle ricerche degli utenti; poi si è passato a un livello ancora più personale, cioè scandagliare quello che si pubblica sui social, i testi sulle app di messaggistica e così via. Con ChatGPT e simili l’estrazione sarà ancora più personale, perché ancora più personale è il dialogo che l’utente ha con un chatbot. Un’estrazione così profonda può portare a nuovi livelli di pubblicità e addirittura di manipolazione: supponiamo di chiedere a ChatGPT di scrivere un racconto sull’autunno; sapendo, per esempio, che in passato abbiamo fatto ricerche sul Giappone, potrebbe citarci le foglie di acero del Giappone, per indurci a comprare un volo per il Giappone. Cosa succederebbe invece nel caso ci fossero delle elezioni politiche? Lo scenario – e la manipolazione – potrebbero essere ancora più preoccupanti.

Un’altra questione affrontata nel manifesto è quella relativa al mondo della formazione: la possibilità che compiti a casa, elaborati o anche intere tesi siano scritte non dagli studenti ma da un Llm in real time ha suscitato un’ondata di preoccupazione nel mondo delle scuole e dell’università. E anche in questo caso gli esperti ravvisano una grande ipocrisia nella narrativa corrente: “OpenAi” dice Boella “ha messo a disposizione un sistema che riconosce se è un testo è scritto o meno da un essere umano. Peccato funzioni il 25% delle volte, cioè quasi mai. Avrebbe potuto fare una cosa molto più semplice, che non richiede neanche l’utilizzo di tecnologie Ai. OpenAi, come tutte le piattaforme web e i motori di ricerca, tiene traccia nei suoi registri (i logfile) di tutte le richieste degli utenti e di tutte le risposte fornite dal chatbot per migliorare il prodotto e per raccogliere informazioni su di noi (da monetizzare). Certo per identificare il plagio da parte di studenti più motivati nel copiare, che fanno una parafrasi del testo ottenuto da ChatGPT, occorrerebbe solo qualche semplice strumento di Ai che vada a dare una misura della distanza del testo prodotto dal bot. Ma siamo sicuri che nella maggior parte dei casi basterebbe un semplice ‘ctrl+F’ sul file di log di ChatGPT?. E ancora: un altro tema eticamente rilevante è quello relativo alle possibili interazioni di ChatGPT e simili con i minori. “Lascereste i vostri figli a parlare con uno sconosciuto?” è la domanda retorica degli esperti di SIpEIA “per di più sapendo che è uno sconosciuto che può soffrire di allucinazioni?”. Il position paper non offre soluzioni, ma sottolinea la necessità di una maggiore sensibilizzazione e soprattutto di un dibattito più sensato e centrato sul presente. “È davvero il momento di agire: ma al centro della nostra preoccupazione non dovrebbero esserci immaginarie ‘potenti menti digitali’. Al contrario, dovremmo concentrarci su pratiche di sfruttamento molto reali e molto concrete da parte delle aziende che stanno sviluppando questi strumenti, e che stanno rapidamente centralizzando il potere e aumentando le disuguaglianze sociali”.

La sfida del confronto

C’è dell’altro. All’evento ha partecipato anche Elena Esposito, professoressa di sociologia dei processi culturali e comunicativi alle Università di Bielefield, in Germania, e Bologna. Esposito è autrice di Comunicazione artificiale – come gli algoritmi producono intelligenza sociale, un libro appena edito da Bocconi University Press in cui invita ad affrontare il “problema” delle intelligenze artificiali da un altro punto di vista: anziché chiederci se e come le macchine siano diventate più intelligenti di noi (e abbiamo visto che non è così), bisognerebbe capire come intervengono nella comunicazione. Ossia, in altre parole, parlare di comunicazione artificiale più che di intelligenza artificiale“Il fatto che possiamo comunicare con le macchine – spiega Esposito – non implica che esse abbiano una loro intelligenza che deve essere spiegata ma che, anzitutto, la comunicazione sta cambiando. L’oggetto di questa ricerca non è l’intelligenza, che è e rimane un mistero, ma la comunicazione, che possiamo osservare e di cui sappiamo già molto. Occorre un concetto di comunicazione che sia in grado di tener conto anche delle possibilità che il partner comunicativo non sia un essere umano ma un algoritmo. Il risultato, che può essere osservato già oggi, è una condizione in cui disponiamo di informazioni di cui spesso nessuno può ricostruire né comprendere la genesi, ma che ciononostante non sono arbitrarie. Le informazioni generate automaticamente dagli algoritmi non sono affatto casuali e sono del tutto controllate, ma non dai processi della mente umana. Come possiamo controllare questo controllo, che per noi può essere anche incomprensibile? Questa è, a mio parere, la vera sfida che ci pongono oggi le tecniche di machine learning e l’uso di big data”. La tesi dell’esperta è quindi che se le macchine contribuiscono all’intelligenza sociale non è perché hanno imparato a pensare come noi, ma perché hanno imparato a partecipare alla comunicazione: ed è con questo scenario che dobbiamo imparare a confrontarci. Senza paura, se possibile: “Platone diceva che la scrittura avrebbe fatto perdere l’uso della memoria agli esseri umani – conclude Esposito – e in parte è successo. Con le intelligenze artificiali, e con la comunicazione artificiale, potremmo perdere qualcos’altro. Ma va bene così. Perderemo qualcosa, ma acquisiremo dell’altro”.




Cisco, le aziende italiane impreparate sulla cybersecurity

Cisco, le aziende italiane impreparate sulla cybersecurity

In Italia soltanto il 7% delle aziende è in grado di difendersi dalle minacce informatiche rispetto al 15% a livello globale. A lanciare l’allarme è il Cybersecurity Readiness Index 2023, il rapporto realizzato da Cisco in 27 paesi del mondo su un campione di 6.700 professionisti che operano in quest’ambito, per misurare la preparazione e la resilienza delle aziende nei confronti della criminalità informatica. Il 75% degli intervistati si aspetta nei prossimi 12-24 mesi un’interruzione della propria attività a causa di un attacco informatico, mentre il 31% ha dichiarato di averne subito uno nel corso dell’ultimo anno. Il report quantifica anche il costo degli attacchi: il 25% delle aziende colpite, a livello globale, ha dovuto spendere almeno 500.000 dollari (circa 456.000 euro) per riprendere il controllo della propria attività. “Sta emergendo nelle realtà italiane una maggiore sensibilità e consapevolezza sul tema della cybersecurity, che è entrato nelle discussioni del board”, commenta Andrea Castellano, Cybersecurity Leader Cisco Italia, sottolineando che il 94% degli intervistati dichiara di voler investire in infrastrutture It per rafforzare la propria posizione sulla sicurezza informatica. Inoltre, l’87% prevede di aumentare il proprio budget per la sicurezza di almeno il 10% nei prossimi 12 mesi. “L’errore più grande da parte delle aziende è quello di difendersi dagli attacchi informatici utilizzando un mix di strumenti”, spiega Jeetu Patel, executive vice president and general manager of security and collaboration at Cisco. “Occorre invece considerare piattaforme integrate, grazie alle quali le aziende possono raggiungere un grado di resilienza sufficiente colmando allo stesso tempo il loro gap di preparazione nei confronti della cybersecurity.” Per realizzare il Cisco Cybersecurity Readiness Index 2023 sono stati presi in considerazione i cinque pilastri fondamentali della cybersecurity: l’identità, i dispositivi, la sicurezza della rete, i carichi di lavoro applicativi, i dati. Ciascuno di essi comprende a sua volta 19 diverse soluzioni. Al termine dell’indagine le aziende sono state classificate in quattro gradi di preparazione: principiante, formativo, progressivo, maturo. In Italia, se il 7% delle aziende è nella fase matura, l’8% si trova ancora in quella principiante e il 61% in quella formativa: una preparazione in materia di cybersecurity molto inferiore alla media.