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Imprese, è allarme sulla rendicontazione ESG nei bilanci delle aziende Ue

Aziende green o greenwashing? Solo 1 su 4 si sottopone a controlli indipendenti

Le imprese europee corrono il rischio di essere percepite dai cittadini come poco trasparenti rispetto al loro reale impegno in tema di sostenibilità. Sono ben 7 su 10 (70%) le aziende del Vecchio Continente che pubblicano bilanci di sostenibilità approvati unicamente sulla base di documenti ed evidenze autoprodotti, senza alcuna verifica da parte di un professionista esterno circa la genuinità e veridicità delle informazioni contenute nei report. Mentre sono solo un quarto (25%) le organizzazioni che affermano di essersi sottoposte a uno specifico audit interno sulla rendicontazione dei criteri ESG (Environmental, Social, Governance).

Criticità di questo tipo si incrociano con i dati rilevati dall’analisi svolta sulla percezione della cittadinanza europea, in cui emerge, come ovvia conseguenza, che il grado di fiducia nelle dichiarazioni di sostenibilità prodotte dalle aziende risulta tra il basso (44,5%) e il bassissimo (19,5%) e che una parte significativa dei cittadini europei ritiene che le aziende utilizzino il tema della sostenibilità solo per motivi pubblicitari e di marketing (45,5%). Sono questi alcuni dei principali dati sul tema della rendicontazione dei criteri ESG nei bilanci aziendali che emergono dalla ricerca “Rating ESG delle imprese, asserzioni etiche aziendali e percezione dei cittadini riguardo alle scelte green delle aziende”, condotta su due diversi campioni, uno di 100 aziende, di vari settori e dimensioni, e un secondo di 500 cittadini rappresentativi di tutte le età, condizioni sociali, promossa dall’On. Tiziana Beghin, eurodeputata (gruppo Non Iscritti) e presentata nel corso di un talk a Bruxelles presso la sede del Parlamento Europeo, anche al fine di elaborare e presentare raccomandazioni utili al legislatore per migliorare le normative in questo settore di enorme importanza e attualità.

L’indagine è stata realizzata da un team di ricerca al 100% italiano e in larga parte femminile: sono donne, infatti, 4 ricercatrici del gruppo su 5, coordinate dalla Dott.ssa Giorgia Grandoni. “Scopo del progetto di ricerca – ha dichiarato Luca Poma, Professore di Reputation management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, referente scientifico dell’indagine – è quello di fotografare lo stato dell’arte sul tema della rendicontazione non finanziaria ed ESG nei bilanci delle aziende europee, al fine di intercettare punti di forza e di debolezza delle prassi attualmente messe in campo e favorire, nel contempo, un miglioramento della qualità informativa di questa forma di rendicontazione, riflettendo anche sulla percezione che i cittadini hanno delle scelte green compiute dalle aziende. Il lavoro si innesta, infatti – conclude Poma – nello sforzo sostenuto dall’Unione Europea di promuovere una cultura della sostenibilità non solo tra cittadine e cittadini comunitari ma anche all’interno delle PMI e dei grandi gruppi aziendali”.

“Lo scenario competitivo mondiale è caratterizzato dalla circolazione sempre più libera di persone, beni e capitali, filiere di fornitura lunghe e frammentate su scala globale e uno spazio geografico degli scambi e degli investimenti sempre più ampio, con una crescente esposizione ai rischi”, ha dichiarato l’On. Beghin. “Cresce quindi la domanda di informazioni credibili e affidabili sulla reputazione delle imprese, non solo limitate al profilo generale e organizzativo, ai prodotti o servizi e ai relativi prezzi, ma anche a quelli che possono essere i rischi di impatti avversi futuri sull’impresa e i suoi stakeholder e a un’ampia gamma di aspetti di natura non finanziaria (governance, diritti umani e condizioni di lavoro, sicurezza, ambiente ed etica di business), denominati sempre più frequentemente “rischi ESG” – Environmental, Social, Governance. È quindi di assoluta attualità per noi legislatori – ha concluso l’eurodeputata – comprendere come poter rendere più trasparente questo tipo di rendicontazione, garantendo rating appropriati e non fuorvianti agli occhi dei cittadini dello spazio comune europeo”.




Allarme rendicontazione ESG nei bilanci delle aziende europee

ESG E BILANCI: SOLO UN'AZIENDA SU 4 SI SOTTOPONE A VERIFICHE

Una ricerca italiana, finanziata dal Parlamento UE, racconta approcci, metodi e standard utilizzati dalle aziende europee nell’attività di rendicontazione dei criteri ESG. Sette organizzazioni su 10 (70%) che pubblicano i bilanci di sostenibilità convalidati da una società di certificazione esterna, dichiarano che questi si basano solamente sull’analisi di documenti ed evidenze autoprodotte dall’azienda stessa. Anche per questo il grado di fiducia da parte della cittadinanza verso l’impegno delle aziende sulla sostenibilità è basso: quasi un cittadino europeo su due (45%) pensa che le imprese utilizzino il tema green solo per motivi pubblicitari e di marketing.

Le imprese europee corrono il rischio di essere percepite dai cittadini come poco trasparenti rispetto al loro reale impegno in tema di sostenibilità. Sono ben 7 su 10 (70%) le aziende del Vecchio Continente che pubblicano bilanci di sostenibilità approvati unicamente sulla base di documenti ed evidenze autoprodotti, senza alcuna verifica da parte di un professionista esterno circa la genuinità e veridicità delle informazioni contenute nei report.

Mentre sono solo un quarto (25%) le organizzazioni che affermano di essersi sottoposte a uno specifico audit interno sulla rendicontazione dei criteri ESG (Environmental, Social, Governance). Criticità di questo tipo si incrociano con i dati rilevati dall’analisi svolta sulla percezione della cittadinanza europea, in cui emerge, come ovvia conseguenza, che il grado di fiducia nelle dichiarazioni di sostenibilità prodotte dalle aziende risulta tra il basso (44,5%) e il bassissimo (19,5%) e che una parte significativa dei cittadini europei ritiene che le aziende utilizzino il tema della sostenibilità solo per motivi pubblicitari e di marketing (45,5%).

Sono questi alcuni dei principali dati sul tema della rendicontazione dei criteri ESG nei bilanci aziendali che emergono dalla ricerca “Rating ESG delle imprese, asserzioni etiche aziendali e percezione dei cittadini riguardo alle scelte green delle aziende”, condotta su due diversi campioni, uno di 100 aziende, di vari settori e dimensioni, e un secondo di 500 cittadini rappresentativi di tutte le età, condizioni sociali, promossa dall’Tiziana Beghin, eurodeputata (gruppo Non Iscritti) e presentata nel corso di un talk a Bruxelles presso la sede del Parlamento Europeo, anche al fine di elaborare e presentare raccomandazioni utili al legislatore per migliorare le normative in questo settore di enorme importanza e attualità.

L’indagine è stata realizzata da un team di ricerca al 100% italiano e in larga parte femminile: sono donne, infatti, 4 ricercatrici del gruppo su 5, coordinate dalla Dott.ssa Giorgia Grandoni. “Scopo del progetto di ricerca” ha dichiarato Luca Poma, Professore di Reputation management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, referente scientifico dell’indagine “è quello di fotografare lo stato dell’arte sul tema della rendicontazione non finanziaria ed ESG nei bilanci delle aziende europee, al fine di intercettare punti di forza e di debolezza delle prassi attualmente messe in campo e favorire, nel contempo, un miglioramento della qualità informativa di questa forma di rendicontazione, riflettendo anche sulla percezione che i cittadini hanno delle scelte green compiute dalle aziende. Il lavoro si innesta, infatti” conclude Poma “nello sforzo sostenuto dall’Unione Europea di promuovere una cultura della sostenibilità non solo tra cittadine e cittadini comunitari ma anche all’interno delle PMI e dei grandi gruppi aziendali”.

“Lo scenario competitivo mondiale è caratterizzato dalla circolazione sempre più libera di persone, beni e capitali, filiere di fornitura lunghe e frammentate su scala globale e uno spazio geografico degli scambi e degli investimenti sempre più ampio, con una crescente esposizione ai rischi”, ha dichiarato Beghin. “Cresce quindi la domanda di informazioni credibili e affidabili sulla reputazione delle imprese, non solo limitate al profilo generale e organizzativo, ai prodotti o servizi e ai relativi prezzi, ma anche a quelli che possono essere i rischi di impatti avversi futuri sull’impresa e i suoi stakeholder e a un’ampia gamma di aspetti di natura non finanziaria (governance, diritti umani e condizioni di lavoro, sicurezza, ambiente ed etica di business), denominati sempre più frequentemente “rischi ESG” – Environmental, Social, Governance. È quindi di assoluta attualità per noi legislatori” ha concluso l’eurodeputata “comprendere come poter rendere più trasparente questo tipo di rendicontazione, garantendo rating appropriati e non fuorvianti agli occhi dei cittadini dello spazio comune europeo”.




Asserzioni etiche e di sostenibilità delle aziende e “false ESG”: emergono criticità dall’indagine, appena conclusa, finanziata dal Parlamento UE sui rating delle imprese, sulle asserzioni etiche aziendali e sulla percezione dei cittadini riguardo alle scelte “green”

Asserzioni etiche e di sostenibilità delle aziende e “false ESG”


Se ne è discusso in un evento al Parlamento Europeo

Lo scenario competitivo mondiale è caratterizzato dalla circolazione sempre più libera di persone, beni e capitali, filiere di fornitura lunghe e frammentate su scala globale e uno spazio geografico degli scambi e degli investimenti sempre più ampio, con una crescente esposizione ai rischi: cresce quindi la domanda di informazioni credibili e affidabili sulla reputazione delle imprese, non solo limitate al profilo generale e organizzativo, ai prodotti o servizi e ai relativi prezzi, ma anche relative ai rischi di impatti avversi futuri sull’impresa e i suoi stakeholder ea un’ampia gamma di aspetti di natura non finanziaria (governance, diritti umani e condizioni di lavoro, sicurezza, ambiente ed etica di business) denominati sempre più frequentemente “rischi ESG” (Environment, Social, Governance).

Su queste premesse è nato un ambizioso progetto di indagine, promosso dall’On. Tiziana Beghin, Deputata al Parlamento Europeo (Non Iscritti) e realizzato da un team di ricerca al 100% italiano e in larga parte al femminile – sono donne 4 ricercatrici del gruppo su 5, coordinate dalla Dott. sa Giorgia Grandoni.Scopo del progetto – ha dichiarato Luca Poma, Professore di Reputation management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, referente scientifico dell’indagine – è di fotografare lo stato dell’arte su questi argomenti, al fine di intercettare punti di forza e di debolezza delle prassi attualmente messe in campo dalle aziende nell’attività di rendicontazione non finanziaria ed ESG, e nel contempo per favorire – stimolando un dibattito centrato sull’analisi dei risultati della ricerca – un miglioramento della qualità informativa di questa forma di rendicontazione, riflettendo anche sulla percezione che i cittadini hanno delle scelte green delle aziende. Il lavoro si innesta, infatti, nello sforzo sostenuto dall’Unione Europea di promuovere una cultura della sostenibilità non solo tra cittadine e cittadini comunitari ma anche conclude il docente – all’interno delle PMI e dei grandi gruppi aziendali.

Dalla ricerca emerge come il 70% delle aziende con bilanci di sostenibilità convalidati da una società di certificazione abbiano indicato che il lavoro di quest’ultima si è basato solo sull’analisi di documenti ed evidenze auto-prodotte dall’azienda stessa: questo espone le valutazioni a una serie di criticità dal punto di vista formale come anche sostanziale, in quanto parrebbe non esservi stato alcun audit da parte di uno specialista che abbia verificato la genuinità e veridicità delle affermazioni ed evidenze prodotte (solo il 25,00% del campione ha affermato di essersi sottoposta a uno specifico audit svolto di persona in azienda). Criticità di questo tipo si incrociano con i dati rilevati dall’analisi svolta sulla percezione della cittadinanza, in cui emerge – come ovvia conseguenza – che il grado di fiducia nelle dichiarazioni di sostenibilità da parte delle aziende risulta tra il basso (44,44%) e il bassissimo (19,55%) e che una parte significativa di cittadini ritiene che le aziende utilizzino il tema della sostenibilità più che altro per motivi pubblicitari e di marketing (45,47%) e non per genuino interesse. “I dati emersi dalla ricerca sono preoccupanti – ha commentato l’On. Beghin – sia perché l’assenza di norme stringenti sull’attribuzione dei rating ESG e la conseguente facilità con la quale vengono rilasciati rischia di svilire l’impegno delle tante aziende davvero virtuose, sia perché evidenziano una crescente crisi di sfiducia da parte dei cittadini UE”.

Nel corso dell’evento tenuto al Parlamento Europeo di Bruxelles si è presentata la ricerca, con un talk tra il team di ricercatori e alcuni specialisti e accademici di chiara fama, durante il quale si è analizzato lo stato dell’arte sul tema della rendicontazione non finanziaria e della percezione della cittadinanza sulle scelte green delle aziende, dibattendo sulle migliori prassi in materia e concludendo con alcune preziose raccomandazioni al Legislatore, utili per stimolare possibili interventi indirizzati al miglioramento di questi aspetti di stringente attualità per la vita delle aziende nello spazio economico Europeo.

Hanno partecipato all’evento

Tiziana Beghin, capo-delegazione M5S al Parlamento Europe
Luca Poma, Professore di Reputation managament all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino
Col. Massimiliano Corsano, Comandante Nuclei Operativi Ecologici dell’Arma dei Carabinieri
Stefano Zambon, Professore all’Università di Ferrara e Segretario Generale Fondazione OIBR
Daniela Poggio, Vice-Presidente nazionale FERPI – Federazione Relazioni Pubbliche Italiana, delegata ai rapporti con l’UE
Cesare Saccani, Presidente dell’Associazione Diligentia ETS
Ilaria Barone Responsabile comunicazione Yamamay
Giorgia Grandoni, Centro studi della start-up innovativa Reputation Management
Luca Yuri Toselli, giornalista esperto in sostenibilità ambientale e sociale

Il video integrale dell’evento:


Il testo integrale della ricerca, in lingua italiana, è disponibile a questo link

La ricerca è anche disponibile in lingua inglese a quest link

Si possono anche consultare le slides usate per presentare i dati salienti della ricerca

A questo link, invece, il testo dell’intervento del Prof. Luca Poma




Musk è il nuovo cattivo. I giganti digitali cercano di arruffianarsi i governi, mentre i nani scavano sotto i loro piedi

Musk è il nuovo cattivo. I giganti digitali cercano di arruffianarsi i governi, mentre i nani scavano sotto i loro piedi

Il fronte digitale si sta sfrangiando: i capitani coraggiosi delle grandi piattaforme stanno uscendo dai propri confini e cercano supporto dalle istituzioni, e qualcuno pensa addirittura di diventare egli stesso istituzione.

Nella cosiddetta Camelot della Silicon Valley, dove tutti sembravano buoni e progressisti, siede ora un sir Mordred, il traditore di Re Artù. Il cattivo della tavola rotonda sarebbe ora Elon Musk, che dopo aver addirittura promosso petizioni e lettere sulla necessità di imbrigliare l’intelligenza artificiale, con una delle sue proverbiali capriole, si è sfilato dal novero dei proprietari responsabili degli algoritmi, professando una linea di liberismo sfrenato.

Musk si è ormai collocato alla testa degli imprenditori digitali reazionari, affiancando il governatore del Messico De Sanctis nella proibitiva gara a essere più intollerante e oltranzista di Donald Trump per le primarie repubblicane in vista delle prossime presidenziali. Si anticipa così un possibile campo di battaglia fra Usa ed Europa nel caso in cui i democratici di Biden dovessero perdere la corsa alla Casa Bianca. Infatti, mentre la destra americana ha imboccato, sia sul big tech ma anche ormai sull’ambiente, la strada del negazionismo di ogni regola o responsabilità pubblica, nell’Unione Europea si è ormai affermata la strada di una normativa pubblica che orienti e delimiti le modalità di gestione delle nuove potenze di calcolo. Ma anche i buoni sono furbacchioni. E devono essere attentamente seguiti nelle loro manovre attorno alle norme europee.

Proprio in queste settimane infatti il Digital Service Act, approvato dalla Commissione Europea, impone alle piattaforme di rendere riconoscibili i contenuti prodotti e gestiti automaticamente. Un obbligo che, se combinato con le nuove regole del prossimo AI Act (che sta per essere approvato dal parlamento  dell’Unione) costringe i service provider della Silicon Valley a rendere più trasparente e responsabile la gestione dei propri servizi.

In questa prospettiva appare sempre più inspiegabile l’ennesima lettera che un gruppo di questi invincibili proprietari, diciamo i buoni se rimaniamo alla metafora di Camelot, come Google, Facebook, il discusso Tik Tok, e talentuoso Altman CEO di OpenAI, promotore di ChatGPT, che si candida al ruolo di Lancillotto nella nomenclatura dei cavalieri di Artù, il paladino dei buoni propositi, che si sta sperticando a sollecitare vincoli precisi per i nuovi dispositivi di intelligenza artificiale, quali quelli che lui produce.

“Le aziende i cui servizi hanno il potenziale di disseminare disinformazione generata dall’AI dovrebbero mettere in campo una tecnologia che la individui e segnali  in modo chiaro”, scrive Altman nel testo che ha raccolto le adesioni di 44 fra i principali brand digitali. Una richiesta che risulta singolare proprio perché proviene dai titolari di queste funzioni che sono anche i responsabili di queste deviazioni, come Google e Facebook sanno bene.

Se andiamo a vedere nel merito degli interventi sollecitati dai firmatari della nuova lettera ai governanti del mondo, appare evidente la contraddizione: da una parte infatti il documento sollecita interventi su funzioni che riguardano proprio i poteri dei proprietari, dall’altra si tratta di garanzie già previste dalle norme europee in gestazione.

Sembra che questo gruppo di cavalieri senza macchia e senza paura voglia usare l’allarme che i loro stessi prodotti e servizi inducono, grazie alla loro intelligenza artificiale, da loro stessi addestrata e guidata, per acquisire benemerenze agli occhi delle autorità politiche che si stanno visibilmente innervosendo alla viglia delle relative consultazioni elettorali. Negli Usa, in vista della prossima battaglia del 2024, il ricordo dell’irruzione sulla scena di Cambridge Analytica è ancora fresco, e le autorità americane stanno stringendo i controlli per non farsi ancora una volta surrogare da gruppi esterni che, utilizzando potenti data base e una capacità di calcolo sempre più estesa, riescono ormai a individuare e a bersagliare con i propri messaggi subliminali milioni di elettori nei collegi contendibili.

Lo stesso sta accadendo in Europa, in vista delle prossime elezioni comunitarie della primavera del prossimo anno. Dunque si sta irrigidendo il fronte relazionale delle grandi piattaforme con i decisori politici. Ma c’è un altro elemento che spinge i monopolisti digitali a richiedere interventi e controlli da parte dei poteri pubblici: il mercato dell’intelligenza artificiale sta diventando sempre più un terreno di competizione dove il pulviscolo dell’open source, proprio in virtù della propria flessibilità e massa critica, sta diventando un insidioso concorrente. Google e Microsoft in particolare stanno comprendendo come i gravosi costi dell’addestramento dei sistemi intelligenti vengono, invece, facilmente abbattuti dai modelli aperti, dove la collaborazione di milioni di ricercatori riduce sia i tempi che gli investimenti nella formazione degli agenti intelligenti.

Siamo dunque a una nuova svolta, in cui il mercato digitale torna sui suoi passi e ripropone l’open source come un modello originale e diverso dagli assetti proprietari verticali, tipici del fordismo industriale. Tocca all’Europa cogliere l’opportunità diventando non solo il paladino delle regole, ma il partner di un modello più veloce e innovativo di sviluppo tecnologico riportando a casa, nel vecchio continente dove nacque, l’incubazione dei sistemi intelligenti trasparenti e condivisibili.




Il Parlamento EU adotta il testo della CSDD, la direttiva sulla due diligence sui fornitori

Il Parlamento EU adotta il testo della CSDD, la direttiva sulla due diligence sui fornitori

Altro passo in avanti per la CSDD, la direttiva per prevenire e mitigare gli impatti delle aziende lungo la catena di fornitura. Il Parlamento Europeo ha adottato, nella seduta plenaria dello scorso primo giugno, la sua posizione sulla Corporate Sustainability Due Diligence Directive – CSDD, dopo la prima approvazione da parte della commissione giuridica del parlamento lo scorso aprile. La nuova direttiva, presentata dalla Commissione europea lo scorso 23 febbraio, introduce il concetto di dovere di diligenza aziendale in materia di sostenibilità e di responsabilità per le violazioni dei diritti umani e per l’ambiente lungo la catena di fornitura. Si applica alle imprese con oltre 250 dipendenti e fatturato superiore a 40 milioni di euro in Europa e 150 milioni di euro nel mondo chiamate a prevenire, identificare e mitigare gli impatti negativi lungo la catena del valore della loro attività sui diritti umani, come lavoro minorile e schiavitù, e sull’ambiente.

Per quanto riguarda il clima, in particolare, la direttiva obbliga le aziende ad adottare degli obiettivi climatici science based e dei piani di transizione coerenti con l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura al di sotto degli 1,5°centigradi dell’Accordo di Parigi. E sarà obbligatorio inserire gli obiettivi climatici nella remunerazione variabili dei top manager. Per quanto riguarda l’ambiente, il Parlamento ha definito quali sono gli aspetti che devono essere tenuti sott’occhio dalle aziende: cambiamento climatico; perdita di biodiversità; inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo; degrado degli ecosistemi terrestri, marini e d’acqua dolce; disboscamento; consumo eccessivo di materiale, acqua, energia e altre risorse naturali e produzione dannosa e cattiva gestione dei rifiuti, comprese le sostanze pericolose.

La direttiva CSDD è passata con 366 voti a favore e 225 contrari, dopo un tentativo di depotenziare la portata della proposta da parte delle opposizioni. Rispetto alla versione preliminare, è stato emendato l’articolo 26 che riguarda l’obbligo e la responsabilità da parte del consiglio di amministrazione di stabilire e supervisionare i piani per concretizzare le azioni necessarie a implementare gli obblighi normativi. È rimasto, invece, l’articolo che stabilisce che gli amministratori delle società con più di 1.000 dipendenti siano responsabili di controlli di due diligence e una parte della loro remunerazione variabile sia legata ai piani di transizione climatica dell’azienda.

Nei prossimi mesi sarà avviato il confronto con la posizione degli Stati membri, espressa dal documento approvato dal Consiglio nel mese di dicembre 22. L’obiettivo è trovare un accordo sul testo definitivo, concludere la cosiddetta fase di trilogo in cui le istituzioni europee devono arrivare a una posizione comune, prima delle prossime elezioni europee che si terranno dal 6 al 9 giugno 2024. Una volta trovato l’accordo spetterà agli Stati membri introdurre le nuove norme negli ordinamenti nazionali.

Tra i punti caldi su cui ci sarà un confronto più serrato vi è quello dell’inclusione o meno delle istituzioni finanziarie tra i soggetti a cui si applica la nuova normativa. La bozza approvata dai deputati europei stabilisce che le regole di due diligence dovrebbero riguardare anche il settore finanziario includendo in particolare gli asset manager e gli investitori istituzionali, ma escludendo i fondi pensione, i fondi di investimento alternativi, gli operatori di mercato e le agenzie di rating del credito. Un compromesso che però non accontenta alcune ONG perché la responsabilità viene limitata ai clienti diretti. L’accordo dei ministri europei, su spinta soprattutto della Francia, aveva invece lasciato fuori le istituzioni finanziarie per le quali l’adesione alla due diligence sarebbe stata opzionale.

Dovrà inoltre essere trovato un compromesso sull’ampiezza del concetto di catena di fornitura che per il Parlamento non riguarda solo quella a monte ma anche le attività di vendita, distribuzione, trasporto, stoccaggio e gestione dei rifiuti di prodotti e servizi.

Altro punto caldo della CSDD su cui dovrà essere trovato un accordo riguarda gli aspetti delle responsabilità legali dei vertici delle aziende. Gli Stati nazionali dovranno definire l’autorità di vigilanza a cui spetterà il compito di vigilare il rispetto della normativa e applicare le sanzioni per le inadempienze. Le sanzioni previste includono multe pari almeno al 5% del fatturato netto globale dell’azienda che non ha rispettato la direttiva, la possibilità di pubblicare i nomi degli inadempienti, il ritiro dal mercato dei prodotti aziendali o l’esclusione dagli appalti pubblici della UE. L’onere della prova del danno spetterà al ricorrente.