1

L’impatto della discriminazione nel mondo del lavoro: quando la pelle non è bianca, diminuiscono le possibilità di essere assunti

L’impatto della discriminazione nel mondo del lavoro: quando la pelle non è bianca, diminuiscono le possibilità di essere assunti

Nonostante le società europee siano sempre più diverse e multiculturali, sembra che il colore della pelle continui ad avere un impatto significativo sulle opportunità lavorative. Uno studio condotto da diverse università in Belgio, Spagna e Germania, riportato da Ansa, ha rivelato che i cittadini dell’Unione Europea sono ancora a rischio di subire discriminazioni razziali basate sull’aspetto.

La ricerca è fondata sulle esperienze di coloro che, non avendo la pelle “bianca”, si sono sentiti discriminati nella ricerca di un impiego. Questo studio mette in evidenza come chi ha un fenotipo non bianco sia discriminato fin dalle prime fasi di selezione, soprattutto quando i curriculum vitae sono accompagnati da una fotografia. La percezione soggettiva di chi valuta i CV danneggia il metodo di selezione, poiché non si punta a individuare il candidato più idoneo, ma piuttosto quello che rispecchia i pregiudizi del datore di lavoro.

L’indagine rivela che avere un fenotipo nero, asiatico o nativo americano riduce la probabilità di interesse da parte del datore di lavoro di circa il 20%. Allo stesso modo, le persone con un fenotipo caucasico dalla pelle scura, comuni nel Nord Africa, affrontano una riduzione di circa il 10% nell’interesse del datore di lavoro rispetto a coloro che hanno un fenotipo bianco.

Lo studio è stato condotto analizzando le risposte di quasi 13.000 aziende europee a domande di lavoro simulate, in cui veniva allegata una fotografia al curriculum vitae. I ricercatori hanno apportato modifiche ai nomi e alle fotografie sulle domande di lavoro fittizie, mantenendo identiche tutte le altre caratteristiche dei CV. Queste domande sono state presentate a offerte di lavoro reali in diverse occupazioni. Tutti i candidati fittizi erano giovani cittadini dei rispettivi paesi europei, nati da genitori provenienti da quattro grandi regioni del mondo.

“Esiste una forte evidenza sul fatto che l’aspetto razziale dei richiedenti innesca un comportamento discriminatorio” – affermano gli autori dello studio – “Per dirla senza mezzi termini, molti discendenti immigrati in Europa sono discriminati perché hanno fenotipi visibilmente atipici, ovvero non bianchi. Con l’aumento del numero di candidati di seconda generazione che entrano nel mondo del lavoro, aumenta anche il numero di nuovi cittadini europei a rischio di subire discriminazioni razziali basate sull’aspetto”.

Cosa succede in Italia?

Il colore della pelle è considerato uno degli elementi discriminatori quando si cerca un impiego, e le disparità persistono anche quando si interagisce con gli enti pubblici. Uno studio condotto dal Centro studi sulle migrazioni nel mediterraneo Medì di Genova insieme all’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, intitolato “Law-Leverage the access to welfare”, ha evidenziato questa situazione. L’indagine, condotta lo scorso autunno, si è concentrata sulla discriminazione percepita, le esperienze vissute e le testimonianze di 522 cittadini di origine straniera in Italia, quando si trovano in situazioni come gli sportelli pubblici, le banche, i patronati, i centri di assistenza fiscale e le selezioni per l’impiego.

La ricerca ha rivelato che 7 intervistati su 10 hanno dichiarato di percepire uno sguardo diffidente e sminuente nei loro confronti, una linea sottile che separa la pratica discriminante da una vera e propria discriminazione giuridica e istituzionale. è emersa anche una difficoltà nell’accesso ai concorsi pubblici: il 40% degli intervistati ha dichiarato di non aver potuto partecipare a un concorso perché richiedeva la cittadinanza italiana, mentre il 30% ha dichiarato di non essere stato assunto perché l’azienda ha fatto intendere che non assumeva stranieri. “Dal 2013, fatte salve le posizioni apicali, la legge ha abolito il requisito della cittadinanza per accedere a posti pubblici. Eppure molti bandi, in particolare a livello regionale, richiamano ancora quelle norme obsolete, come denunciano quasi quattro intervistati su dieci del nostro campione. Una parte delle discriminazioni è frutto della sciatteria e una parte è anche deliberata. Le prassi continuano a reiterare un requisito che non c’è più. Poi c’è una sorta di onda d’urto per cui le persone danno per scontato che a loro sia precluso quel tipo di lavoro. Questo dato di disparità percepita è evidente e questo significa che le istituzioni italiane non dedicano una cura sufficiente a dissipare l’ombra della discriminazione ” ha affermato Maurizio Ambrosini, docente al Dipartimento di Scienze sociali e politiche dell’Università di Milano e responsabile scientifico del Centro studi Medì di Genova.

Secondo lo studio, le discriminazioni percepite sembrano essere correlate al fatto di essere stranieri (30% delle risposte), all’accento o al modo in cui si parla italiano (16%), al colore della pelle (13%), al Paese di origine (12%) e alle credenze religiose (8%). Il fenotipo, come sottolineato nella ricerca italiana, ha un peso significativo, e ancora oggi esiste una “linea del colore” in base alla quale le persone sono maggiormente discriminate. In particolare, la diffidenza riguarda principalmente le persone di origine africana, soprattutto quelle provenienti dall’Africa sub-sahariana, ma lo stesso vale per coloro provenienti dai Balcani, come i cittadini albanesi. Anche chi è in Italia da anni, con un buon livello di integrazione sociale e lavorativa, non sembra essere immune dalle discriminazioni.

Non è solo una questione etica, diversità e inclusione rendono le aziende performanti

Innanzitutto è importante riconoscere che migliorare l’esperienza del cliente è una priorità fondamentale nel 2023. Infatti, secondo uno studio condotto da Salesforce, l’80% degli intervistati ha affermato che il rapporto e le interazioni con un brand sono più importanti dei prodotti e dei servizi offerti. Pertanto, garantire un’esperienza coerente e integrata attraverso tutti i punti di contatto rappresenta la base delle strategie di Customer Experience di molte aziende.

C’è un fattore chiave che le aziende possono sfruttare per crescere e offrire un’esperienza di alto livello: la promozione dei programmi di diversità, equità e inclusione (DEI). In primo luogo, perché c’è una maggiore possibilità di comprensione: un’azienda diversificata e inclusiva incoraggia le differenze nei processi di pensiero e favorisce un mix più ampio di strategie per risolvere i problemi dei clienti e interagire con loro. Consente quindi di acquisire nuovi modi di comprendere le informazioni, offrendo loro percorsi sempre più personalizzati. Secondo uno studio pubblicato dalla Harvard Business Review, se anche solo un membro ha tratti in comune con il cliente, l’intero team ha il 152% in più di probabilità di capire le esigenze dell’utente.

Le aziende inclusive sono inoltre in prima linea nell’innovazione, poiché la diversità favorisce il pensiero complesso. Esaminando i risultati di uno studio condotto dal BCG Group su 1700 organizzazioni in 8 paesi diversi, si è scoperto che le aziende con una diversità superiore alla media nei team di leadership hanno registrato un incremento dei ricavi provenienti da processi innovativi del 19%.

La diversità elevata di un’azienda attrarrà anche i migliori talenti, che contribuiranno a offrire una customer experience di alta qualità. Uno studio di Glassdoor ha rilevato che il 76% delle persone in cerca di lavoro considera un team diversificato un fattore importante nella valutazione delle offerte e il 32% non si candiderebbe per un’azienda che non dimostra un impegno verso la diversità e l’inclusione. Oltre alla motivazione e al rispetto che derivano dal fatto che i dipendenti possano portare la loro autenticità al lavoro, l’ambiente inclusivo offre sicurezza psicologica e un senso di essere ascoltati. Questo dimostra che l’azienda è lungimirante, impegnata a lungo termine e in grado di adattarsi ai cambiamenti di opinioni dei dipendenti e dei clienti.

Dal punto di vista finanziario il copione è lo stesso. Le aziende con alti livelli di diversità superano le altre. Secondo Deloitte, le aziende con una maggiore diversità generano un’entrata per dipendente 2,3 volte superiore rispetto a quelle con una inferiore e la Harvard Business Review ha evidenziato che le aziende con programmi DEI hanno generato un fatturato superiore del 19%.

Con oltre il 63% delle aziende che prevede di aumentare la spesa per la customer experience nel 2023, la diversità e l’inclusione continuano a giocare un ruolo fondamentale per il successo aziendale. In un mercato sempre più competitivo, questi aspetti sono essenziali per offrire un’esperienza al cliente di qualità superiore e distinguersi come leader di settore.




Matteo Paolillo e la foto negata: analisi del rapporto tra celebrità e fan

Matteo Paolillo e la foto negata: analisi del rapporto tra celebrità e fan

Matteo Paolillo, influencer e giovane “star” di Mare Fuori, è stato al centro di una controversia dopo aver negato una foto a una fan. Il rifiuto ha scatenato una valanga di critiche sui social media, con molti utenti che lo hanno accusato di atteggiarsi da “diva” nonostante la sua carriera ancora in fase emergente. L’episodio è uno stimolo per riflettere sul complesso rapporto tra celebrità e fan, e su come la percezione di sé possa influenzare il comportamento di personaggi pubblici con diversi gradi di notorietà.

È interessante notare come, paradossalmente, molte delle celebrità di grande rilevanza internazionale mantengano un atteggiamento aperto e amichevole nei confronti dei propri fan. Non è raro vedere star del cinema, della musica o dello sport concedere foto, autografi e momenti di interazione, consapevoli del fatto che il loro successo dipende dall’affetto e dal supporto del pubblico. Questo comportamento, oltre a consolidare la loro immagine pubblica, spesso crea un legame più forte con i fan, che si sentono apprezzati e valorizzati.

Dall’altro lato, però, vi sono casi in cui personaggi pubblici di minore notorietà, come Matteo Paolillo, sembrano adottare un atteggiamento distaccato o addirittura altezzoso. Questa tendenza potrebbe essere attribuita a diverse ragioni. In alcuni casi, potrebbe derivare da un senso di insicurezza o dalla percezione di non essere ancora completamente affermati, portando così questi individui a sovracompensare con atteggiamenti volti a mantenere distanza. Oppure, potrebbe trattarsi di un tentativo di proteggere la propria privacy e i propri spazi personali, soprattutto in una fase in cui l’equilibrio tra vita pubblica e privata è ancora in fase di definizione.

Un altro aspetto da considerare è la pressione mediatica e sociale a cui sono sottoposti gli influencer e le nuove celebrità. Essere costantemente sotto i riflettori può risultare stressante, e la necessità di soddisfare le aspettative di un pubblico vasto e variegato può generare un senso di frustrazione. In alcuni casi, questo può portare a comportamenti che vengono percepiti come arroganti o scostanti, quando in realtà potrebbero essere semplicemente una reazione alla pressione del successo.

Tuttavia, è importante che i personaggi pubblici, indipendentemente dal loro livello di notorietà, riconoscano il ruolo fondamentale che i fan giocano nelle loro carriere. Il supporto del pubblico è spesso il motore che alimenta il successo e la crescita personale e professionale di questi individui. Negare una semplice richiesta, come una foto, può sembrare un gesto insignificante, ma può avere un impatto significativo sull’immagine pubblica e sulla percezione che i fan hanno della celebrità.

In conclusione, il caso di Matteo Paolillo ci ricorda che la gestione della fama è un equilibrio delicato tra protezione della propria privacy e responsabilità verso i fan. Mentre è comprensibile che ogni individuo abbia i propri limiti e necessità, è altrettanto importante mantenere un atteggiamento di rispetto e gratitudine verso coloro che sostengono il proprio percorso. In un’epoca in cui l’immagine pubblica è fondamentale per il successo, la capacità di gestire con eleganza e rispetto le interazioni con i fan può fare la differenza tra una carriera brillante e una caduta nell’oblio.




Per le artiste la strada è ancora in salita: il mondo dell’arte è lontano dalla gender equality

Per le artiste la strada è ancora in salita: il mondo dell’arte è lontano dalla gender equality

Se è vero che il mondo dell’arte è da sempre considerato un microcosmo che riflette i valori e gli atteggiamenti della società in cui si sviluppa, è preoccupante notare che problematiche legate al gender gap siano ancora fortemente radicate. Sicuramente passi in avanti sono stati fatti, ma le recenti statistiche riguardanti la rappresentazione delle artiste nelle collezioni museali e nelle mostre evidenziano uno squilibrio di genere significativo. Per esempio, solo l’1 per cento delle opere della collezione della National Gallery è realizzato da donne, e l’opera di un’artista viene valutata in media solo un decimo di quella di un uomo. Inoltre, un rapporto che copre il periodo tra il 2008 e il 2020 ha rivelato che solo l’11% delle acquisizioni in trentuno musei statunitensi riguardava opere di artiste, mentre poco meno del 15% delle mostre era dedicato alle donne. Questi dati mettono in luce l’enorme disparità nel mondo dell’arte e sottolineano quanto lavoro ci sia ancora da fare per raggiungere una rappresentazione equa e inclusiva delle artiste donne.

Durante una visita alla Whitechapel Gallery, una delle istituzioni culturali più progressiste, Katy Hessel, scrittrice e storica d’arte, ha notato che solo cinque delle 86 didascalie che accompagnavano le opere facevano riferimento ad artiste, e solo in relazione agli uomini che conoscevano o frequentavano, come i mariti di Elaine de Kooning, Anna-Eva Bergman e Lilian Holt. Questo tipo di contestualizzazione delle artiste in relazione agli uomini mette in evidenza un problema più ampio nella narrazione delle opere d’arte femminili. Mentre è vero che l’opera stessa dovrebbe venire prima dell’artista e l’artista prima del suo genere, quando si tratta di

rappresentazione nelle mostre, è fondamentale valutare criticamente le narrazioni che vengono imposte ai visitatori.

È importante riconoscere che la storia dell’arte è stata storicamente dominata dal genere maschile, con le opere degli uomini che hanno goduto di una maggiore visibilità, valore e riconoscimento rispetto a quelle delle donne. Ciò è dovuto a una serie di fattori, tra cui le norme sociali e culturali che limitavano l’accesso delle donne all’educazione artistica, alle opportunità di esibizione e alle reti professionali, nonché alle aspettative di genere che relegavano le donne al ruolo di muse o modelle piuttosto che di artiste autonome. Queste disuguaglianze di genere hanno avuto un impatto duraturo sulla rappresentazione delle artiste nelle collezioni, creando un’immagine distorta della storia dell’arte in cui le donne sono state spesso ignorate o presentate solo in relazione agli uomini.

Le limitazioni storiche per le donne artiste

La difficoltà ad emergere nel mondo dell’arte per le artiste proviene da lontano. Il ruolo delle donne è stato spesso sottovalutato e limitato nel corso della storia. Fino al 1870, sono state tenute lontane dalle professioni artistiche, e anche dopo quell’epoca, hanno affrontato molte sfide nel cercare di farsi strada nel mondo dell’arte.

Sebbene ci siano state artiste talentuose anche prima di quegli anni, spesso non sono state valutate come meriterebbero e questo atteggiamento si riflette anche nella storia dell’arte che viene insegnata nelle scuole, dove le biografie e le opere delle artiste sono frequentemente trascurate o addirittura ignorate. È solo a partire dagli anni ’70 che si è iniziato a sollevare la questione del ruolo delle donne nell’arte in modo più approfondito. Nel 1971, Linda Nochlin pubblica un saggio provocatorio dal titolo “Perché non ci sono mai state grandi artiste donne?” in cui affronta la questione della scarsa presenza delle donne nel mondo delle arti figurative.

Nochlin sostiene che le donne artiste sono state escluse dal ruolo di protagoniste nel campo sociale e istituzionale a causa di un condizionamento culturale che ha limitato la loro produttività artistica. L’arte non è stata considerata un’attività autonoma e libera, ma è stata influenzata dalle accademie, dalle istituzioni culturali, dagli organismi economici e familiari. Inoltre, alle donne è stato spesso proibito studiare dal vero con modelli e modelle, a differenza degli uomini, limitando così la loro formazione e la loro possibilità di esercitarsi con tecniche e mezzi adeguati.

Le donne aspiranti artiste hanno dovuto lottare per inseguire le proprie ambizioni, affrontando spesso derisione e etichette dispregiative. Sono state divise tra le aspirazioni personali e le aspettative sociali, costrette a confrontarsi con una concezione distorta di femminilità imposta dalla società. Questo ha messo a dura prova la loro autostima e ha creato una costante ambivalenza nel cercare di affermarsi come artiste.

Nonostante queste sfide, molte donne artiste hanno raggiunto risultati significativi nel corso della storia. Dalle pittrici rinascimentali come Artemisia Gentileschi, alle scultrici come Barbara Hepworth, alle fotografe come Cindy Sherman, alle artiste contemporanee come Yayoi Kusama, molte donne hanno lasciato un’impronta duratura nel mondo dell’arte, dimostrando un talento e una creatività straordinari.

Tuttavia, la lotta per il riconoscimento delle donne nell’arte è ancora in corso. Nonostante i progressi compiuti negli ultimi decenni, le donne artiste continuano ad affrontare discriminazioni di genere, disparità salariale, e limitazioni nella visibilità e nelle opportunità di carriera.

Qual è la situazione attuale?

Una ricerca condotta nel 2020 da Kooness, realtà milanese operante nel settore artistico, e riportata in questo articolo, ha evidenziato alcuni dati preoccupanti sulla parità di genere nel sistema artistico attuale.

Innanzitutto, il valore economico delle opere create da artisti uomini risulta essere significativamente più alto rispetto a quello delle donne. L’indagine ha rilevato che gli artisti uomini guadagnano in media il 24% in più rispetto alle artiste, con un prezzo medio per un’opera di circa 3.700 euro per gli uomini e 2.900 euro per le donne.

Oltre la disparità economica, la ricerca ha rivelato che la presenza maschile prevale in modo significativo nel mondo dell’arte contemporanea. Su oltre 2.700 opere d’arte prese in considerazione, il 63,3% è stato realizzato da uomini, mentre solo il 36,7% da donne. Questo dato è particolarmente interessante se confrontato con i dati relativi agli iscritti alle accademie pubbliche di belle arti in Italia, dove le donne rappresentano la maggioranza. Questo solleva la domanda su quale tipo di carriere e percorsi scelgano dopo la formazione accademica e se ci siano ostacoli o discriminazioni di genere che limitano la loro presenza e visibilità nel mondo dell’arte.

Un altro aspetto evidenziato dalla ricerca riguarda i premi assegnati agli artisti. Tra i cinque premi più prestigiosi dell’arte contemporanea presi in considerazione nello studio, il 62,3% dei vincitori sono uomini, mentre solo il 37,7% sono donne.

Infine, l’analisi si è soffermata anche su un problema di percezione pubblica del valore dell’arte in base al genere dell’artista. Le opere d’arte delle donne hanno una probabilità tre volte maggiore di essere sottovalutate rispetto a quelle degli uomini. Più della metà delle opere d’arte femminili, il 51,6%, è stata valutata al di sotto del suo reale valore dagli intervistati, mentre solo il 12,2% è stato valutato al di sopra del suo valore. Al contrario, il 31,8% delle persone ha sopravvalutato le opere d’arte prodotte dagli uomini. Questo dimostra che la percezione pubblica del valore dell’arte è influenzata dal genere dell’artista, con un pregiudizio che porta spesso a sottovalutare l’arte delle donne.

Thegreatwomenartists: cosa possiamo fare per colmare il gender gap

Conquiste sono state fatte nell’arco di decenni, ma come evidenziato in questa analisi siamo ancora lontani dal raggiungere quegli obiettivi che potrebbero avvicinarci a una reale parità di genere nel mondo dell’arte. È quindi importante mettere in campo azioni e progetti che possano invertire la rotta, come l’idea che Katy Hessel ha deciso di sviluppare a partire dal 2015, lanciando l’iniziativa su Instagram con la pagina @thegreatwomenartists. Hessel pubblica un post al giorno per ridare la giusta fama a pittrici, scultrici, fotografe e altre professioniste che sono state tenute in ombra dalla storia passata, recente e attuale. Il suo lavoro si è poi trasformato in un podcast e, sette anni dopo, in un saggio di 500 pagine intitolato La storia dell’arte senza gli uomini, edito da Einaudi.

Hessel sottolinea che non crede nella diversità delle opere dettata dal genere. Piuttosto, è stata la società e i suoi guardiani ad assegnare sempre il primato a un gruppo, ed è di vitale importanza affrontare e mettere in discussione questa situazione.

La buona notizia è che negli ultimi anni si sono fatti molti progressi grazie agli sforzi collettivi di artiste, studiose e curatrici di tutto il mondo, che sono salite anche nelle gerarchie museali. Ad esempio, per la prima volta nella storia, le donne sono alla guida della Tate Modern, del Louvre e della National Gallery of Art di Washington. Anche in Italia ci sono più di 20 manager che dirigono istituzioni culturali e musei.

Insomma, la strada è ancora lunga. Se vogliamo che il mondo dell’arte, insieme a tutti gli altri ambiti che costituiscono la nostra scoietà, raggiunga la parità di genere dobbiamo impegnarci affinché la comunicazione e il dibattito si concretizzino in azioni e progetti incisivi. Perché tanto è stato fatto, ma tantissimo è ancora da fare.




Lady Giorgia e la tentazione del suicidio: la maschera del malessere mentale nel mondo dei content creator

Lady Giorgia e la tentazione del suicidio: la maschera del malessere mentale nel mondo dei content creator

Aprile 2023, Lady Giorgia, nota content creator e influencer, scuote il suo vasto pubblico con una rivelazione intima e dolorosa: nel suo nuovo libro ha confessato di aver tentato il suicidio e di convivere da anni con una profonda depressione. Questa confessione ha messo in luce una delle realtà più complesse e meno visibili del mondo digitale: la difficoltà di riconoscere e affrontare il malessere mentale, soprattutto quando si è costantemente sotto i riflettori.

Il caso di Lady Giorgia solleva domande cruciali su quanto il malessere mentale possa essere mascherato o addirittura amplificato dalla pressione di mantenere un’immagine pubblica. Nel mondo dei content creator, l’aspettativa di dover sempre apparire felici, produttivi e in sintonia con il proprio pubblico può creare un divario enorme tra la realtà personale e la vita digitale. Dietro alle foto patinate e ai video perfettamente editati, si nascondono spesso sofferenze profonde, che vengono celate per paura di giudizi o per mantenere un’immagine di successo.

Inoltre, la natura stessa delle piattaforme social può esacerbare i problemi di salute mentale. La costante ricerca di validazione attraverso like, commenti e follower può diventare una fonte di stress continuo, contribuendo a peggiorare condizioni come l’ansia e la depressione. Per chi soffre già di malesseri mentali, la pressione di dover essere costantemente “online” e “al top” può diventare insopportabile, portando a situazioni estreme come quella vissuta da Lady Giorgia.

La confessione di Lady Giorgia è anche un potente promemoria della vulnerabilità che può nascondersi dietro la facciata di un content creator. Mentre il suo coraggio nel condividere la propria esperienza è stato accolto con grande sostegno da parte dei fan, ha anche aperto un dibattito più ampio su come i creatori di contenuti gestiscono la loro salute mentale. È possibile che, in molti casi, il malessere mentale venga amplificato dalla natura competitiva e incessante del lavoro online, dove il confine tra vita privata e professionale è quasi inesistente.

In un mondo dove l’apparenza è spesso tutto, riconoscere e parlare apertamente delle proprie difficoltà può essere visto come un atto di grande vulnerabilità, ma anche di enorme forza. La storia di Lady Giorgia ci ricorda l’importanza di non dare mai per scontato ciò che vediamo online. Dietro ogni sorriso, dietro ogni post virale, potrebbe nascondersi una battaglia personale di cui non siamo a conoscenza.

Il caso di Lady Giorgia solleva anche una domanda fondamentale: cosa possiamo fare, come società e come utenti, per sostenere meglio chi si trova in difficoltà? Forse, parte della risposta risiede nel creare spazi più sicuri e meno giudicanti, dove i creator possano esprimere la loro vulnerabilità senza temere ripercussioni. Inoltre, c’è bisogno di una maggiore consapevolezza riguardo ai rischi associati al lavoro digitale, e di un supporto concreto per chi affronta problemi di salute mentale.

In conclusione, la confessione di Lady Giorgia è un potente promemoria della complessità della vita dietro lo schermo. Il suo coraggio nell’affrontare pubblicamente il suo malessere mentale non solo ci invita a riflettere sul peso della fama digitale, ma ci incoraggia anche a guardare oltre le apparenze e a considerare con maggiore empatia e comprensione le battaglie personali di chi vive sotto i riflettori.




Reputazione e valore delle persone: le fondamenta su cui Michele Ferrero ha costruito il successo della storica azienda di Alba

Reputazione e valore delle persone: le fondamenta su cui Michele Ferrero ha costruito il successo della storica azienda di Alba

Il nuovo libro scritto da Salvatore Giannella, «Michele Ferrero. Condividere valori per creare valore» uscito per l’editore Salani, esplora la cultura d’impresa e il modello di crescita della Ferrero, multinazionale italiana di fama mondiale e tra i principali player internazionali del settore dolciario. Il libro rivela come Michele Ferrero sia stato non solo uno dei più grandi imprenditori italiani, ma anche l’artefice di un modo di fare impresa che ha realmente messo al centro la persona e che ha permesso alla sua azienda di diventare un vero e proprio mito, con in portafoglio alcuni tra i brand più amati al mondo, prima tra tutte Nutella®. Una delle caratteristiche principali della cultura d’impresa della Ferrero è la grande attenzione data alla reputazione e al valore umano: come sappiamo, la reputazione di un’azienda è la percezione che il pubblico ha della qualità dei suoi prodotti e dei suoi servizi, ma anche il suo approccio all’ etica e le sue pratiche di responsabilità sociale. L’imprenditore piemontese ha fin dal principio avuto grande cura dei suoi dipendenti, garantendo loro un ambiente di lavoro sicuro e salutare, ma anche offrendo formazione continua, sviluppo delle carriere e molte opportunità di crescita professionale e personale. Questi valori, trasmessi di generazione in generazione, sono ancora oggi alla base del successo della Ferrero.

Olio  di palma e la piantagione Sime Darby: la crisi reputazionale del decennio affrontata da Ferrero

Nel 2014 la Ferrero subì un significativo attacco mediatico che rischiò di coinvolgere l’azienda in un boicottaggio “etico” in merito all’utilizzo dell’olio di palma nei suoi prodotti. Stando ai numeri conosciuti, negli stabilimenti di Alba la Ferrero ne raffina ogni anno 180mila tonnellate: la preoccupazione di alcuni clienti ed associazioni erano rivolte alle implicazioni ambientali, dato che la coltivazione dell’olio di palma richiede grandi quantità di terreno e di acqua, contribuisce alla deforestazione, alla perdita di biodiversità e alla distruzione degli habitat naturali degli animali. I dubbi sul palma toccavano anche il tema di possibili effetti negativi per la salute, seppure la documentazione scientifica in tal senso appariva lacunosa. Ma qual è la verità dietro questo scenario?

In realtà, la coltivazione di palma da olio richiede meno terra e meno acqua rispetto alla quasi totalità degli oli vegetali ad oggi conosciuti. Il palma poi rappresenta il 35% degli oli vegetali prodotti al mondo a volume, ma occupa uno spazio inferiore al 10% dei terreni coltivati: quindi, grande resa per ettaro, da cui bassa quantità di acqua necessaria per manutenere la pianta, e pochi fertilizzanti per ogni kg. di olio. Infine, esiste si il problema della deforestazione per lasciar spazio alle piantagioni di palma: peccato che oltre il 90% del palma coltivato al mondo venga utilizzato non già per gli alimentari – di cui Nutella® è solo un minimo “di cui” – bensì per l’industria cosmetica, in particolare per le creme per il viso e il corpo.

La Ferrero non fece passi indietro, nemmeno quando l’allora ministro francese all’ecologia Segolène Royal invitò a boicottare la Nutella® proprio per questo motivo: l’azienda – dopo aver commissionato alcuni studi universitari che confermarono che il palma di per se è tutt’altro che pericoloso per la salute, e che lo può diventare solo se lavorato a temperature troppo alte – ha sostenuto l’uso di olio di palma come un ingrediente essenziale e non ha mai dato il via a un cambio di strategia come altre aziende italiane che hanno ceduto alle lusinghe del “palma-free”. Ferrero – pur dimostrandosi sensibile alle preoccupazioni di carattere etico – ha intrapreso una serie di azioni volte a dimostrare la trasparenza del suo operato: ha riconosciuto le perplessità di clienti e associazioni riguardo al possibile impatto ambientale e sociale della produzione di olio di palma e ha agito per assicurare che quello utilizzato dalla multinazionale di Alba fosse prodotto in modo responsabile, adottando una politica di approvvigionamento sostenibile per il palma e impegnandosi a utilizzare solo quello certificato RSPO (Roundtable on Sustainable Palm Oil), assicurando una piena tracciabilità del prodotto, dalla piantagione alla fabbrica. Quando poi presero corpo accuse in merito ai rapporti commerciali con la piantagione Sime Darby, grazie ad un’indagine in USA che evidenziava come in quell’area si praticasse lavoro forzato a danno di migranti provenienti dall’India, dall’Indonesia e dal Bangladesh, Ferrero ha immediatamente – senza tentennamenti – interrotto le forniture di olio di palma proveniente da questo produttore.

Tutto ciò è coinciso con una comunicazione aziendale coraggiosa e coerente: la Ferrero non si è nascosta, ha deciso di affrontare le polemiche in modo trasparente e ha messo in evidenza l’uso di olio di palma da coltivazioni sostenibili in spot televisivi appositi, andati in onda sulle TV nazionali. In più, ha dedicato una pagina del sito ufficiale di Nutella alle virtù dell’olio di palma, evidenziando la piena tracciabilità del prodotto e i controlli di qualità. Questa audace campagna di comunicazione, insieme all’apertura degli stabilimenti e ai convegni dedicati al tema, sembra aver premiato l’azienda con un aumento delle vendite di Nutella® nel tempo. La Ferrero ha saputo quindi dimostrare quanto autenticità e trasparenza siano degli elementi imprescindibili per un’azienda, grazie ai quali è possibile costruire una solida reputazione uscendo anche da scenari di crisi potenziale.

Una leadership basata sulla sostenibilità

Ferrero è l’azienda italiana con la migliore reputazione, come attestato dall’Italy Reputation Ranking 2023, la classifica delle prime 100 aziende italiane per reputazione realizzata da The RepTrak Company: ha raggiunto questo prestigioso traguardo grazie alla sua visione sostenibile, in linea con la crescente attenzione alle tematiche ambientali e sociali da parte degli utenti e dei mercati.

Il successo dell’azienda si basa su una strategia a lungo termine, come è buona pratica nella costruzione di reputazione, che prevede una serie di azioni per ridurre l’impatto ambientale della produzione, migliorare la gestione delle risorse e promuovere lo sviluppo sostenibile delle comunità locali. Uno dei principali obiettivi di Ferrero è la riduzione delle emissioni di CO2: l’azienda ha investito in tecnologie avanzate e fonti di energia rinnovabile, ad esempio installando un grande impianto fotovoltaico presso la sua fabbrica di Alba.

La sostenibilità di Ferrero non si limita alle questioni ambientali: l’azienda è anche impegnata in progetti sociali e culturali per migliorare la qualità della vita delle persone che vivono nelle comunità in cui opera. Ha avviato un programma di sostegno per le piccole imprese locali e gli agricoltori, con l’obiettivo di promuovere la produzione sostenibile e di garantire la qualità degli ingredienti utilizzati nei suoi prodotti. Inoltre, l’azienda ha collaborato con diverse organizzazioni per sostenere l’istruzione e la formazione dei giovani, contribuendo alla creazione di opportunità per le future generazioni.

La leadership di Ferrero nel settore della sostenibilità dimostra come l’impegno a lungo termine per la riduzione dell’impatto ambientale e per il benessere sociale possa generare successo e reputazione positiva per un’azienda: soprattutto in un momento in cui i clienti sono sempre più consapevoli dell’importanza delle questioni ambientali e sociali, le società che si concentrano con pazienza e determinazione sulla sostenibilità, e che investono in pratiche realmente responsabili, avranno maggiori probabilità di prosperare e di essere apprezzate dai propri stakeholder. Ferrero è sicuramente un esempio concreto della funzionalità questo approccio vincente alla costruzione di valore.